L’Australia di Matteo: il Queensland e Sydney

La barriera corallina e la metropoli: ancora meraviglie!

Nella prima parte di questo viaggio è stata riferita la nostra esperienza nel Northern Territory con i suoi splendidi paesaggi dominati dalle varie tonalità di rosso dei terreni e delle rocce.
Grazie a un volo di quattro ore della Ansett da Alice Springs a Cairns, cambiamo ora completamente scenario, passando dal clima caldo secco del deserto al caldo umido della costa.Cairns è una bella città costiera. Considerata la capitale del Queensland del nord, ha tutto quello che un turista vuole desiderare, cicloni inclusi. Sì, perché durante l’estate australe è facile che qualche ciclone “germogliato” nel Pacifico venga a lambire le coste nord orientali del continente lasciando talvolta tracce anche pesanti alla città e alla costa stessa.
Giunti in città, prendiamo un pulmino capiente per dirigerci a Cape Tribulation, luogo prescelto per passare la notte e situato un centinaio di chilometri più a nord.
Con l’autista che sembra Nembo Kid, che vorrebbe seduta al suo fianco Anna o Antonella e invece si deve accontentare di me che soffro il mal d’auto, iniziamo ad arrampicarci per le scoscese strade che portano verso la nostra destinazione, osservando il paesaggio del tutto diverso da quello visto fino ad ora. Qui pullula di vegetazione, il verde è dominante come colore mentre nel Northern Territory lo era il rosso. Le città qui hanno molti più abitanti che pecore e le strade hanno gli incroci. Tutto un altro ambiente insomma.
Strada facendo facciamo una sosta presso una pizzeria da asporto per mettere qualcosa sotto i denti presso un trafficato paese di cui non ricordo il nome. Anche perché, mentre nel Northern Territory c’era un paese ogni mille chilometri e quindi era facile ricordarne il nome, qui invece ce ne sono talmente tanti da sembrare di essere lungo la riviera romagnola.
Un’altra sosta la facciamo presso la sponda di un fiume da attraversare con la chiatta. Essendo quest’ultima presso l’altra riva, nell’attesa ci mettiamo ad osservare il complesso che sta suonando su di un porticato di un bar proprio di fronte all’imbarcadero. Sembrano più incuriositi loro di noi.
Arrivata la chiatta, passiamo il fiume e ci inerpichiamo per l’ultimo tratto in salita e di lì ad una mezzora arriviamo al camping di Cape Tribulation che oramai è sera.
Un campeggio eccezionale sotto tutti i punti. Immerso nella natura tropicale, è composto da una serie di spazi per le tende e roulotte, e da un gran numero di bungalow costruiti in legno.
Ci sistemiamo in uno di questi, andiamo a fare due salti in discoteca, una visita all’oceano situato cento metri dal bungalow e poi ce ne andiamo a dormire.

Ci svegliamo dopo aver dormito all’interno di una specie di paradiso naturalistico, notando la presenza sopra le nostre teste di una ragnatela dalle dimensioni che, se ben ricordo, di così grande l’ho vista solamente in un film di Spielberg. E il bello è che della ragnatela c’é anche il proprietario che se ne sta tranquillo ad osservare la situazione movendo di tanto in tanto prima una zampa e poi un’altra. Zampe comprese sarà una quindicina di centimetri. Ieri sera non c’era. Questo vuol dire che ha costruito tutto durante la notte mentre noi dormivamo, e magari ci è passato pure a fianco.
Movendoci con tranquillità e senza fare scatti che lo potrebbero innervosire, e cercando di evitare di passarci sotto, ci dirigiamo verso la reception informando della presenza del bestio.
Prontamente intervengono, ed osservando l’aracnoide, ci dicono essere un normalissimo ragno della zona. Innocuo. Va beh! Comunque facciamo armi e bagagli mettendo sempre uno di noi come vedetta all’intruso, armato di scopa.
Se di sera il camping è bello, di giorno è eccezionale. Cammini nel mezzo della foresta tropicale cercando anche di fare attenzione ai parenti del ragno prima descritto e a qualsiasi altro essere strisciante.
Ce ne andiamo in spiaggia passando per un lungo ponticello in legno sotto una volta di mangrovie (una passeggiata costruita per gli innamorati) e ci rendiamo subito conto di cosa potevano aver provato Adamo ed Eva ai loro tempi. Un posto meraviglioso. Indescrivibile. Immaginatevi quelle spiagge da cartolina di sabbia bianchissima con a ridosso la foresta tropicale. All’orizzonte si fa fatica a vedere dove inizia il mare e termina il cielo e viceversa. Il mare poi (oceano) invita a tuffarsi.
Mauro infatti spinto dall’irrefrenabile desiderio di sapere se l’acqua è calda o no, senza nemmeno spogliarsi, si tuffa con tanto di passaporto e soldi appresso. Un macello. Ha passato la successiva mezzora a stendere il tutto al sole.
Rimasti un po’ in spiaggia a prendere il sole e contemplare il paesaggio, dopo una decina di minuti ci dobbiamo rifugiare sotto un cocotier per ripararci dal caldo. Nel frattempo il passaporto di Mauro si è asciugato ma la carta si è tutta arricciata diventando un ventaglio.
Perché poi un posto così splendido si chiama Cape Tribulation, capo della tribolazione?
Quando più di due secoli fa il capitano Cook esplorò per la prima volta il continente, si trovò a dover affrontare i bizzarri fondali della Grande Barriera Corallina che dall’estremo nord della penisola di York scorre per più di duemila chilometri in direzione sud fino a Fraser Island. Le doti di grande esperto di mare non gli mancarono, ma pare che proprio di fronte ad un promontorio si arenò e perse più volte l’ancora.
Ora, mettiamoci nei suoi panni. Come avremmo chiamato noi quel promontorio? Sicuramente un nome che rispecchiasse il momento. Mi sembra che anche altri luoghi limitrofi portino nomi sfigati.
A duecento metri da noi c’è proprio il promontorio Cape Tribulation. Che facciamo? Ovvio, ci saliamo su imitando le gesta del Capitano Cook, facendo attenzione a dove mettiamo i piedi per non dovergli dare un nome anche noi.
Probabilmente abbiamo sbagliato sentiero, per cui la salita si fa difficile anche per via della vegetazione. Fortunatamente non è poi così alto da scalare. Giunti sulla sommità, il panorama che si gode è una meraviglia. Sono convinto che se Cook ci fosse salito gli avrebbe dato un altro nome. Vedere posti del genere ti fa riflettere.
Bisogna però tornare nella realtà, per cui dopo qualche foto, scendiamo cercando stavolta di trovare un sentiero. Niente. Dopo una serie di cadute, raggiungiamo la spiaggia e ce ne andiamo al McDonald’s del camping per pranzare.
Prendiamo il pulmino sempre con Nembo Kid alla guida e scendiamo verso Cairns.
La prima tappa la facciamo al Daintree National Park, uno scorcio di foresta pluviale dove scorre un fiume (Mossman) libero da coccodrilli e dove quindi si può nuotare. L’aria all’interno della foresta è irrespirabile dall’umidità eccessiva, tanto che in controluce se ne vedono le goccioline librarsi nell’aria.
Il posto merita veramente una visita. Si vedono piante secolari dalle strane radici. Il fiume poi lo si può attraversare su di un ponte di corda e legno che ad ogni passo mi fa venire i sensi di vomito.
Un’altra tappa la facciamo su di un punto panoramico da dove si riesce a vedere una grande porzione di costa e qualche paesello costiero. In questo lookout c’è un monumento circolare di pietra con scolpite sopra alcune tra le più importanti capitali del mondo e le relative distanze chilometriche. Il monumento poi è all’ombra di uno splendido albero di mango con tutta la frutta appesa.
Ripresa la strada, ci fermiamo qualche chilometro più avanti a Port Douglas, una cittadina snob. Una specie della nostra Portofino. Ville e villette sono ben inserite nel contesto naturalistico.
Ci rechiamo al porto e proprio in un bar di fronte al molo mettiamo qualcosa sotto i denti. Un giro veloce ad un centro commerciale, e ripartiamo.
Altra sosta in una macabra gelateria artigianale. Di artigianale, oltre al gelato (buonissimo) c’è anche la gelateria, costruita senza tante consultazione di geometri. Comunque è la parola macabra che sicuramente attira la vostra attenzione.
Nel bancone della gelateria, oltre ai gelati, ci sono una serie di vasi trasparenti contenenti chi un feto di coccodrillo, chi uno scorpione, chi un pelosissimo ragno ciclopico e chi altri animali inconsueti. Tutti questi animali se ne stanno immersi in apposito liquido che ne garantisce la conservazione. Impressionante. Spero che la gelataia non li abbia messi sopra il bancone per far vedere gli ingredienti dei gelati. Il mio almeno sapeva di mango. Lo giuro.
Arrivo a Cairns nel pomeriggio inoltrato. Qui facciamo un giretto della città e ce ne andiamo a cena.
Sbagliamo locale poiché la musica dal vivo è talmente alta che non riusciamo a parlarci. Anche quello che ci ha preso l’ordinazione ha dovuto farsi ripetere tre volte perché non sentiva.
Dedichiamo la serata a passeggiare sul lungomare e guardare la città. I negozi sono ancora aperti. Ci prendiamo una birra e seduti su un muretto osserviamo la gente passare.

Poco dopo alzati e fatto colazione, prendiamo l’autobus che ci porta ad Airlie Beach, cittadina costiera base di partenza per le crociere alle Whitsunday Islands. Le distanze sono australiane, per cui se nella cartina geografica Cairns da Airlie Beach dista qualche centimetro, nella realtà siamo partiti al mattino ed arrivati a destinazione la sera.
Di Cairns praticamente non abbiamo visto niente o poco. La città merita una sosta prolungata di parecchi giorni soprattutto per visitarne le attrazioni nella prima periferia. Il nostro itinerario è stato studiato in modo da non considerare Cairns sotto il profilo di una visita approfondita per cui la lasciamo ad un eventuale viaggio futuro.
La giornata non ha riservato alcunché di eccezionale se non il paesaggio costiero. Io ero più che altro intento a masticare il travelgum che è un medicinale che può indurre sonnolenza. Se mastichi come fai a prendere sonno?
Nel tardo pomeriggio arriviamo ad Airlie Beach e una volta scesi dal pullman, conosciamo l’armatore della barca a vela che abbiamo noleggiato con lo skipper ed assistente.
Carichiamo i bagagli in barca e salpiamo per tre giorni di crociera.
La barca è un monoalbero in vetroresina di una dozzina di metri. Non è certamente per nove persone quali siamo noi. Se poi ci aggiungi che ci deve stare anche lo skipper con l’assistente…
Non c’è un filo di vento per cui lo skipper deve far avanzare la barca con il motore. Comunque se da una parte non navighiamo con le vele al vento, dall’altra parte la mancanza di vento rende il mare liscio come l’olio.
Dopo un paio d’ore raggiungiamo il punto prescelto di fronte all’isola di Whitsunday che dà il nome all’intero arcipelago.
Gettiamo l’ancora. Un silenzio estremo. Nessuno all’orizzonte. Un posto meraviglioso.
Cullati dalle onde, iniziamo a cenare.
Lo skipper non è nulla di eccezionale in fatto di simpatia, per cui lo ignoriamo per tutta la durata del viaggio. Leghiamo invece con la sua assistente/cuoca che ci dice di provenire dalle isole Cook e sui fornelli se la cava alquanto discretamente.
Dopo cena ce ne rimaniamo sopra coperta a parlare e poi scendiamo a dormire. Skipper e cuoca hanno dormito fuori.

Svegliato dalla luce che entra dalla botola trasparente sopra la mia testa, salgo su salutando la cuoca addetta ai fornelli per preparare la colazione.
Tutto il paesaggio è avvolto da una nebbia finissima che mi fa ricordare per un attimo l’atmosfera tipicamente padana delle giornate autunnali. Solo per un attimo però, anche perché ci sono venti gradi di differenza.
A malapena riesco a vedere gli isolotti di contorno la cui sommità emerge dalla nebbia da farli sembrare sospesi nell’aria.
Dopo un po’ la nebbia inizia a salire rivelando un panorama eccezionale. Siamo al centro della laguna azzurrissima circondati da una serie di isole verdissime.
Appena svegli tutti, lo skipper cerca di mettere in mostra le sue doti di velista.
Libera le vele dalle coperture, e libera quella specie di albero che non so il nome, ma che corre parallelo alla barca e perpendicolare all’albero, assieme al quale sorregge la vela principale, e che ad ogni virata si sposta da una parte all’altra. Voi non avete idea di quante volte abbiamo accozzato la testa su quel coso. C’è stato un momento in cui, seduti a poppa della barca, eravamo tutti con la mano appoggiata sulla testa per massaggiarla. Comunque alla fine anche lo skipper deve desistere perché il vento non è sufficiente a fare avanzare l’imbarcazione. Meno male.
Arriviamo in prossimità della spiaggia di Whitsunday Island, e sbarchiamo nella finissima sabbia che la caratterizza. Impalpabile, bianchissima ed accecante. Non sono in grado di descrivere un posto così. Qualunque cosa scrivessi sarebbe riduttivo e penalizzante per il luogo. Un paradiso.
Per di più siamo giunti in un momento di bassa marea per cui l’oceano, ritirandosi, ha creato dei piccoli laghi nelle dune della sabbia dove si può nuotare in un’acqua caldissima.
Ce ne rimaniamo a prendere il sole e poi alcuni di noi, io compreso, decidiamo di salire per un sentiero per raggiungere un lookout che la cuoca ci ha vivamente consigliato.
In una foresta di cocco, mangrovie e chissà quale altra pianta, ci incamminiamo in fila indiana a mo’ di portatori africani, per raggiungere il posto.
Per strada un varano di un paio di metri se ne sta passeggiando tranquillamente in mezzo alla foresta, per nulla impaurito della nostra presenza. Forse gli impauriti dobbiamo essere noi. Sarà vegetariano? Boh? Comunque vegetariano o carnivoro, non mi sembra a digiuno per cui non abbiamo nulla da temere.
Arrivati nel lookout ci si apre un panorama eccezionale. Una cartolina. Senza alcun dubbio il posto più bello che ho visto durante tutto il viaggio. Un orgasmo visivo. Sopra il promontorio dominiamo tutta la laguna e le isole che compongono parte dell’arcipelago. L’effetto cromatico tra i colori verde, azzurro e bianco mi fanno scattare forse la più bella foto della vacanza.
Come se non bastasse un gruppo di mante se ne stanno a nuotare in prossimità della riva.
A malincuore scendiamo e dopo essercene rimasti un po’ in ammollo risaliamo in barca per raggiungere un posto per fare snorkelling.
La giornata passa tutta tra relax, snorkelling, tintarella.
Anche oggi passiamo la giornata in barca a fare immersioni e a rilassarci.
Interessante è stato l’approdo presso un’isola di minuscole dimensioni di fronte ad Hymann Island che come caratteristica ha il fatto di scomparire interamente durante l’alta marea per poi riapparire durante la bassa.
A portarci è lo skipper con la scialuppa appendice alla barca, che però ha una capienza di tre persone per volta. Poco male. Facciamo tre giri.
Sull’isola ce ne restiamo un’oretta abbondante ad esplorare i fondali e a… non fare nulla.
Quando dobbiamo rientrare alla barca, l’alta marea inizia a sopraggiungere. Io mi offro di rimanere da solo nell’isola fino a che gli altri vengono prelevati dalla scialuppa. Quando lo skipper mi viene a prendere l’isola è già interamente scomparsa. È stata una bella sensazione rimanere da solo in piedi nel bel mezzo della laguna.
Rientriamo ad Airlie Beach accompagnati anche per un breve tratto da un gruppo di delfini, ponendo fine ai tre splendidi giorni di crociera.
Ne approfitto per mangiare al McDonald’s e poi saliamo in autobus per la lunga tratta notturna che ci aspetta.
Cosa succede? Sento una strana sensazione salire dallo stomaco. Tiro fuori un travelgum dal marsupio e mi metto a masticare come un coniglio. Temporaneamente il senso di nausea si affievolisce ma curva dopo curva devo cedere e mi reco alla toilette. Qui tutti gli autobus extra urbani sono dotati di toilette posti in coda.
Morale della favola, vuoi per il panino troppo imbevuto d’olio, vuoi per le patatine fritte, vuoi anche per la guida un po’ dinamica dell’autista e per la conformazione della strada, le ultime cinque ore le passo a vomitare, dando il cambio ogni tanto a chi del bagno ne voleva fare l’uso corretto. Ogni tanto apro la porta e vedo tutti i passeggeri belli addormentati.
In una piazzola di sosta per rifornimento, mi guardo allo specchio e vedo un fantasma. Bianco come il latte, oramai non avevo più nulla da vomitare. A tenermi rinchiuso nel bagno sono solo gli sforzi. Bella nottata. Sì perché il viaggio è avvenuto durante la notte.
So che non è il massimo però anche questo per me ha fatto parte del viaggio.

Arriviamo ad Hervey Bay tutti belli e rilassati tranne io che ancora ho impresso nella mente la tazza del water. Scendo dagli scalini dell’autobus e faccio il cenno di baciare per terra come fa il Papa quando visita una terra straniera.
Mi chiedono se va tutto bene. Li guardo e non rispondo. Loro mi guardano e capiscono di avere fatto una domanda idiota. Poco male, tanto a breve mi rimetterò, spero.
Depositiamo i bagagli in superfluo nell’ostello dove passeremo la notte e con Nek, un ragazzo inglese che se ne sta qui ad Hervey Bay a portare a spasso i turisti, ci dirigiamo con una jeep capiente verso l’imbarcadero situato ad una mezzora di strada.
Un incubo. Hervey Bay è tutta un sali scendi e oltretutto Nek si dimostra una guida spericolata. Mi si ripresenta l’immagine della tazza del water del pullman e devo essere sincero che se la strada per l’imbarcadero fosse stata mezzo chilometro più lungo, avrei colorato Nek di verde.
Hervey Bay è una cittadina simile ad Airlie Beach che deve la sua importanza e frequentazione turistica per essere di fronte a Fraser Island, la più grande isola sabbiosa del mondo. Dal suo porto partono regolarmente i ferryboat da e per l’isola.
Fraser Island è un parco nazionale sotto la protezione dell’UNESCO che l’ha dichiarata patrimonio dell’umanità. Per raggiungerla dobbiamo fare un’ora di ferryboat. Non soffro il mal di mare per cui tutto liscio.
Sbarcati sull’isola, ci accorgiamo subito che non è facile girarla. Tutta sabbia (ovvio essendo la più grande isola sabbiosa del mondo). Ci sono pochissime strade, di sabbia, e tutte strette. Se un fuoristrada ne incrocia un altro proveniente dal senso opposto, uno dei due si deve fermare e indietreggiare fino alle rare piazzole di scambio. Per fare una manciata di chilometri ci vogliono ore.
Al di là della sua difficoltà (per me la sua bellezza è la sua difficoltà) l’isola merita una visita approfondita.
Si utilizzano le spiagge come autostrade a più corsie, facendo attenzione alle invisibili buche e ai corsi d’acqua che se colpiti ad alta velocità fanno saltare le jeep e prendere delle grosse craniate agli occupanti.
Raggiunta la costa opposta (l’isola è fatta come un lungo rettangolo), andiamo all’unico paese per fare provviste per la sera. Pensate che abbiamo acquistato il sugo di pomodoro, il basilico e la pasta. Secondo voi per fare che? He He He!!! Amarcord italiano.
Durante il pomeriggio visitiamo dapprima il lago Wabby, che consiglio di arrivarci dopo essere stati su di un lookout evidenziato dalle mappe. Da questo punto panoramico si vede il lago incastonato da una parte dalla sabbia (e che se no) e dall’altro, dalla foresta tropicale. Eccezionale. Arrivati poi sulla riva, ci siamo tuffati per cercare un po’ di refrigerio dall’elevata temperatura.
Una particolarità del lago è che si sta via via prosciugando. Essendo infatti molto rare le precipitazioni e abbondante l’evaporazione della sua acqua, il lago evapora per circa un metro all’anno, per cui nel prossimo decennio ne è prevista la scomparsa.
L’isola oltre alla sabbia ha anche una grande foresta che la racchiude, composta prevalentemente da palme, mangrovie e piante tropicali. È praticamente tutta una foresta solo che le piante invece che sul terreno, crescono sulla sabbia.
Passiamo di fronte ad un relitto di una nave giapponese che parecchi anni fa si arenò e che ora fa da supporto ad un nugolo di pescatori nonostante un evidente cartello che vieta di salirci sopra. Qui accanto un paio di dingo se ne stanno alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Meritano di essere spiegati i dingo, animali tipicamente australiani assieme al canguro e koala. Sono cani selvaggi che migliaia di anni fa hanno raggiunto il continente australiano, e moltiplicatisi, hanno creato un razza a sé stante, tanto che il dingo vive attualmente solo in Australia.
Ora a seguito di incroci con altre razze selvagge e non, il dingo “puro” nella terraferma non esiste più. Esiste solo a Fraser Island in quanto essendo un’isola ed essendo vietato l’intromissione di cani, il dingo originale non si è mai mescolato con nessuno.
Raggiunto il campeggio, iniziamo a montare le tende per la notte e preparare il tutto per cucinare la pasta al pomodoro.
Dopo cena, non essendoci nulla da fare, ce ne andiamo a letto.

La sveglia a buonora è stata obbligata dalla presenza di alcuni corvi giganti che insistentemente gracidavano (o è la rana che gracida… Boh!!! Comunque avete capito il verso) per prendersi gli avanzi della sera precedente che avevamo chiuso nei sacchetti. Sono insistenti. Bisogna minacciarli affinché ci lascino in pace.
Alla fine se ne vanno per cui rigidi come stoccafissi per l’aver dormito nel terreno malformato e in leggera pendenza, facciamo colazione. Oltretutto durante la notte ha piovuto inzuppando tutti gli asciugamani lasciati fuori per asciugarsi.
Iniziamo la visita dell’isola.
Prima meta Indian Head, un promontorio roccioso, quindi raro nell’isola, con la forma di testa da indiano. Da qui il nome. Per raggiungerlo c’è un quarto d’ora di salita alquanto semplice, e una volta sulla sommità vedi uno spettacolare panorama della zona, tra cui una sommaria veduta della conformazione dell’isola.
Ridiscesi ci rechiamo a piedi verso la seconda meta, Champagne Beach, un altro promontorio roccioso che deve il suo nome alla schiuma finissima che si crea nell’infrangersi delle onde dell’oceano. Nulla di eccezionale, anzi la cosa più interessante è la presenza di un tipo che sfida la sorte nuotando liberamente nonostante il rigido divieto di balneazione per la presenza di squali. Sì perché qui l’acqua è bellissima, ma per gli amanti del nuoto l’unica possibilità di esercitarlo sono i numerosi laghi interni. L’oceano tutto attorno all’isola è infestato da squali tra i più feroci, per cui noi tutti pronti a filmare l’arrivo all’orizzonte di una pinna che per fortuna per il natante coraggioso/esibizionista non arriva.
Ritornati alle jeep, ci dirigiamo nella costa opposta dell’isola, solo che Nek, un po’ poco pratico col fuoristrada, si insabbia, tanto che ne usciamo grazie a qualche buona anima che ci dà uno strappo. Siamo poi venuti a sapere che non aveva inserito il 4X4. Figuraccia.

Altra meta il lago McKenzie (penso si scriva così) un vanto dell’isola per la sua bellezza. E non a torto poi. Una piccola oasi acquatica in mezzo alla foresta dove ti puoi sdraiare a non fare nulla o nuotare in tranquillità nell’acqua limpidissima. Non c’è tanta gente. Quella poca che c’è sono tutti giapponesi.
L’isola è una meta turistica e basta, nel senso che gli unici abitanti fissi sono quelli addetti al settore della ristorazione e alberghiero. E tutti i turisti sono limitati ad un numero massimo per cui il sovraffollamento non esiste.
Dopo aver pranzato in un palmeto in riva all’oceano, ci dirigiamo verso l’imbarcadero perché alle quattro abbiamo l’ultimo ferry per riportarci alla terraferma.
Una sosta al bar dell’imbarcadero e poi via verso Hervey Bay.
Qui andiamo a cenare in un bel ristorante sul lungomare.

Tutta la giornata la trascorriamo in pullman per raggiungere Sydney. L’unica tappa veramente interessante e degna di nota sono le tre ore passate a Brisbane per attendere una coincidenza degli autobus.
Una città a misura d’uomo, soleggiata per gran parte dell’anno, trafficata al punto giusto e soprattutto con tanto spazio dedicato al verde pubblico. La città merita una tappa.
Lasciata la stazione degli autobus, ci dividiamo in tre gruppi per girare la città.
Passato il ponte sul Brisbane River, entriamo in un parco cittadino che costeggia per gran parte la riva del fiume e dove al suo interno è stato ricavato un laghetto attrezzato per tutti gli sport acquatici.
Riempiamo lo stomaco in una viuzza che costeggia questo parco ed affissi alle pareti numerose locandine sponsorizzano una serie di concerti che il nostro Luciano Pavarotti terrà fra qualche giorno in giro per il continente tra cui uno a Brisbane.
Un giro veloce per il centro verso la stazione degli autobus.
Le tre ore passano veloci per cui non riusciamo a vedere tanto. Saliamo in autobus e viaggiamo tutta la notte in direzione Sydney.

Al mattino presto arriviamo a Sydney.
Entrando dalla periferia nord per arrivare al terminal degli autobus, il pullman passa per l’Harbour Bridge, il ponte ad una sola arcata cui gli abitanti della città vanno fieri, tanto che lo chiamano affettuosamente “la gruccia” per via della forma.
Nel percorrere il ponte, in basso a sinistra ci appare la sagoma inconfondibile del teatro più caratteristico del mondo: l’Opera House. L’unica nota negativa è che il tempo non è dalla nostra parte. Non piove, ma ci manca poco.
Arrivati alla stazione dei bus, ci dirigiamo a Kings Cross il quartiere a luci rosse della città. Detto così sembra che non vedevamo l’ora di vedere Sydney per i locali VM18. Invece no! A Kings Cross c’è il backpacker che abbiamo scelto per passare le due successive notti. Ce ne sono parecchi di backpackers in città, ma questo è il più economico e “pieno di vita”. He he he!!!
Depositati i bagagli e fatta un doccia, usciamo a scoprire la città. Piove, appena appena, ma piove. Fa niente. Camminiamo sotto i portici in direzione dell’Opera House.
Considerando che oggi è sabato, mi sarei immaginato una città più piena di vita e più confusionata. Probabilmente è mattina e la gente è ancora a casa.
Raggiunto il teatro, lo rendiamo vittima di un mitragliata fotografica. Chissà poi quante persone lo avrà immortalato dalla sua inaugurazione ad oggi. Non ci entriamo perché la visita l’abbiamo prevista per domani, per cui dopo averci girato attorno e scovato che sul marciapiede c’è una targa/dedica di lode del nostro Umberto Eco, ci dirigiamo verso il centro turistico della città.
La città merita ben altro che il paio di giorni di permanenza che abbiamo, per cui cerchiamo di vederne almeno i punti più caratteristici.
Oltre che i due simboli (Opera House ed Harbour Bridge), di caratteristico a Sydney c’è l’acquario, Darling Harbour, Circular Quay, l’IMAX theatre, il monorail, una torre panoramica tra le più alte al mondo, ecc. ecc. ecc.
Non poco vero?
Dato che piove, iniziamo la visita al Panasonic IMAX theatre, un cinema tridimensionale che ce l’hanno venduto come il più grande al mondo. Indossando un casco con lenti bicolore, armati di secchiello colmo di pop-corn e una pepsi magnum, assistiamo ad un cortometraggio che spiega la differenza tra il cinema 2D e quello 3D. Eccezionale. Sembra si esserci dentro da quanto realistiche sono le immagini.
Usciamo soddisfatti e con gioia notiamo che la pioggia ha cessato di scendere, pur rimanendo il cielo coperto.
Il gruppo si divide, e assieme ad Anna vado al Queen Victoria Building, un centro commerciale in stile vittoriano appunto, vanto della città e stracolmo di bella roba da portare a casa. Facciamo alcuni acquisti tra cui il caratteristico cappello del bushman “Akubra”, un giro per il centro cittadino e poi ci ritroviamo tutti per andare a cenare.
Dove andiamo a cenare? Mauro decide un ristorante che si affaccia proprio di fronte all’Opera House. Dalla vetrata esterna si intravedono tavoli liberi, solo che penso che necessiti di una certa immagine quale giacca per gli uomini e vestito da sera per le signore. Tra noi il meglio vestito ha canottiera e blue jeans.
Mauro decide di provare. Maglietta bianca immancabilmente bucata sotto le ascelle e non solo, costume da bagno boxer verde pisello e ciabatte infradito lo vediamo attraverso le vetrate entrare e dirigersi verso un addetto che sembra uscito fresco fresco da un sartoria. A quel punto tutti gli ospiti lasciano per un momento lo sguardo del partner di fronte per guardare Mauro. Noi fuori scompisciati immaginiamo la risposta.
Di lì a poco ne esce con la scusa che tutto è già prenotato. Ma và!!!
Non demoralizzati abbiamo trovato un ristorante che non ha guardato all’etichetta e ci ha servito una cena eccezionale.
Al termine chi se ne è andato a letto e chi se ne è rimasto a gironzolare ancora per la città. Alla fine ce ne siamo andati a letto respingendo nugoli di “buttadentro” si chiamano così, dei locali a luci rosse.

Ci svegliamo sommersi di depliant pornografici che qualcuno durante la notte ha infilato sotto la porta. Cestiniamo il tutto dopo avergli dato una “rapida sfogliata”, e ce ne usciamo a scoprire la città.
Il profumo di brioche calde attira subito la nostra attenzione, per cui facciamo colazione e notiamo che di non erotico nella via non c’è solo il nostro backpacker. C’è pure un bar. Mi sa tanto che comunque anche il nostro backpacker sia alla fine un ritrovo per nottate sessuali.
Decidiamo di girare la città a piedi lasciando che sia il nostro istinto a guidarci. Infatti dopo un’ora di vie, viuzze e strade strette, ci perdiamo.
Scavalcando qualche cancellata ed invadendo qualche proprietà privata, riusciamo tuttavia a raggiungere il porto militare e poi da lì prendiamo il primo bus che passa per arrivare in centro, facendo conoscenza con due ragazze carine che però dobbiamo lasciare subito per via che siamo arrivati al capolinea.
Arrivati al porto prendiamo parte ad una crociera sulla baia “all inclusive” nel senso che oltre alla crociera è prevista anche una abbondante colazione.
Piove per cui ce ne rimaniamo sotto coperta a rifocillarci. La barca è molto capiente e probabilmente gli organizzatori si aspettavano una affluenza maggiore che non una quindicina di persone per cui avevano preparato mezzo quintale di brioche, due taniche di caffè, the e quant’altro ancora. Siamo soli con un altro gruppetto di tedeschi per cui figuratevi l’abbondante colazione che abbiamo fatto.
La crociera tocca i punti più salienti della città per poi affrontare il giro di ritorno. Se ci fosse il sole penso che il tutto sarebbe molto più bello.

Tornati sulla terraferma sazi come maiali, andiamo a visitare l’Opera House al suo interno prendendo parte ad una visita guidata con una speaker carina ma con una cantilena che per più volte ho rischiato di addormentarmi. Sono comunque riuscito a capire che il teatro nel suo insieme è composto da tre teatri distinti, e tra stanze, stanzette e camerini, conta più di mille vani.
La sua bellezza tuttavia rimane quella esterna, la quale sagoma ricorda una serie di vele gonfiate dal vento, sport che qui è molto considerato. Voci più maligne dicono che ricordi una serie di tartarughe nell’atto dell’accoppiamento. A pensarci bene non hanno poi tanto torto. Il problema è di capirne il sesso della “tartaruga” che sta nel mezzo.
Al termine della visita, ce ne andiamo allo zoo (Taronga Zoo) che si trova sulla sponda opposta della baia.
Non amante personalmente degli zoo per via degli animali in cattività, ci sono andato per vedere gli unici due animali tipicamente australiani che non sono riuscito a vedere durante il viaggio: il Koala e il Diavolo della Tasmania.
Il tutto non ha portato via tanto tempo e se devo essere sincero dello zoo ho ammirato tanto la sua splendida posizione. Una delle migliori vedute di Sydney si ha infatti dallo zoo.
Ora tocca all’acquario, considerato una meraviglia. Infatti non ne siamo rimasti delusi. Specialmente nelle vasche giganti dove si cammina all’interno di tubi in plexiglass a pochi centimetri dai pesci. Ovviamente la vasca degli squali è il pezzo forte.
Dedichiamo il resto della giornata allo shopping e alla visita della città individualmente.
Ci ritroviamo per cena, dove abbiamo prenotato in un bel ristorantino di Oxford Street, considerato il quartiere omosessuale della città. E omosessuale lo è pure il ristorante. Anzi tra tutti i clienti, l’unico gruppo è il nostro. Tutto il resto sono “coppie”.
Ceniamo egregiamente e andiamo a trascorrere la serata in centro.
Ci dirigiamo nella torre che è pure l’edificio più alto della città ma troviamo chiuso. Suoniamo ed esce una specie di mastro lindo con il pizzetto tutto incazzato che ci dice di leggere gli orari di apertura. Effettivamente è un po’ tardino e in più è domenica. Va beh, non ti incazzare, tanto che oggi è l’ultimo giorno di vacanza.
Cerchiamo un locale dove ballare ed entriamo. Tutti fatti come cachi. Scambiamo due parole con una ragazza e questa aprendo la bocca ci ubriaca tutti accennando un sintomo di vomito.
Ce ne torniamo al backpacker.

Nuovamente sveglia di buon’ora perché alle 9,00 abbiamo l’aereo che ci porta a Bali.
Il tempo di salutare Luca che ha deciso di fermarsi altri due giorni a Sydney e giù a prendere il taxi, il quale fa una prima sosta ai voli nazionali per far scendere Anna, Fulvio e Mauro che hanno deciso di rimanere una settimana in più per visitare la Tasmania. Baci e abbracci e subito ripartiamo verso il terminal dei voli internazionali.
L’aeroporto è bellissimo quando atterri per l’inizio della vacanza. Quando invece ci sei per prendere l’aereo che ti riporta a casa è orrendo. Oltretutto se di fianco hai una coppia non più giovane che si sta abbracciando con le lacrime agli occhi... Ditemi voi l’umore che posso avere.
Facciamo il check-in e subito alla ricerca di un bar per fare colazione. Un giretto veloce al duty-free, una tappa al cambiavalute per convertire i pochi dollari australiani rimasti, dove stranamente incrociamo Mauro lasciato all’altro terminal, e una voce annuncia l’imbarco per Bali; dopo un’ora e mezza di volo, atterriamo a Melbourne per uno scalo tecnico.

Partenza per Bali. Il volo dura cinque ore.
La delusione e l’afa del posto e l’aver lasciato l’Australia, mi fanno venire le lacrime agli occhi dalla commozione.
Bali è una bellissima isola e giustamente ben pubblicizzata da tutte le agenzie viaggi. Se c’è però un posto che non rispecchia la fama che l’isola ha acquisito in tutti questi anni, questo posto è Kuta, dove siamo noi. Per trovare le spiagge da cartolina, il mare da favola, i molteplici templi e vedere quindi la vera Bali, bisogna uscire da Kuta. Sarebbe come essere stati a Marghera e dire di aver visto Venezia.
Facciamo un giro veloce per il centro di Kuta osservando la situazione, e andiamo a cenare in un bel locale lungo l’infangata arteria principale della città, dove, con poche migliaia di lire, mangiamo da re scegliendoci noi il pesce da cucinare, e passato una bella serata in compagnia ricordando i momenti migliori appena passati.
Al temine, andiamo a passeggiare per il centro città osservando le bancarelle aperte 24h su 24, e di lì a poco ce ne andiamo a letto.

L’indomani, una volta alzati, facciamo un’ottima colazione a base di frutta esotica direttamente in albergo su di un soppalco che si affaccia sulla via principale, e subito dopo, a piedi, andiamo verso la spiaggia, passando per una infinita serie di bancarelle a ridosso della strada infangata ancora più di ieri grazie ad un acquazzone sceso durante la notte.
In spiaggia, facciamo il bagno nella caldissima acqua dell’oceano prestando attenzione alla fortissima risacca, e più tardi io, Enrico e Michele ci facciamo fare un bel massaggio sempre in spiaggia, da una serie di donne balinesi, attirando l’attenzione di tutti.
Successivamente andiamo a fare un giro per il centro della città di Kuta per ammirare lo stile di vita e le abitazioni stesse, fermandoci in un caratteristico bar all’aperto. Nel tornare poi all’hotel per prendere i bagagli e per pranzare, facciamo una tappa all’Hard Rock Café per acquistare una maglietta che sponsorizza il locale, pagandola la bellezza di 26 U$D.
Pranziamo direttamente in albergo nel soppalco utilizzato la mattina per fare colazione, mangiando veramente bene.
Alla fine prendiamo il volo per l’Italia ponendo fine definitivamente alla nostra vacanza ai mari del sud.
Il volo di ritorno è andato benissimo in quanto l’aereo era vuoto e con quattro sedili mi sono fatto il letto.

3 commenti in “L’Australia di Matteo: il Queensland e Sydney
  1. Avatar commento
    vincenzo
    29/05/2008 17:24

    qualche informazione su come e cosa visitare la bariera corallina?

  2. Avatar commento
    germana
    08/03/2007 12:55

    Ciao sono una studentessa di lingue e lett.straniere;sto facendo la tesi sui diari di viaggio on-line.Volevo chiederti,se possibile, se ti andrebbe di inviarmi del materiale anche poche pagine.Sto cercando di fare un paragone tra i viaggiatori moderni e quelli dei primi anni del '900.Se ti va contattami Ciao e grazie Germana

  3. Avatar commento
    info australia
    15/06/2006 13:16

    Ciao Matteo, dal 15 agosto 06 al 30 agosto 06 sarò nel queensland, mi dici con precisione cosa mi consigli di vedere? In australia è inverno, è vero che nel queensland è sempre caldo e potremo prendere il sole? ciao e grazie

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