Storie a testa in giù - Parte 1

Un viaggio alla scoperta del Continente Rosso e dei suoi abitanti

 

Sapete che rumore fanno milioni di cicale nascoste fra le foglie di una foresta di eucalipti?
Lo stesso dei motori di un aereo a reazione.
Solo che è uniforme, continuo, infinito. Alienante.

Siamo in uno dei vagoni dell’Undara Lodge, da questa mattina abbiamo percorso in auto oltre 500 km di outback australiano ed ora ci stiamo riposando un po’ in questo strano posto accompagnati dal frinire proveniente dagli alberi attorno a noi.
E’ la prima volta che sento l’esigenza di scrivere il diario del viaggio prima ancora di portarlo a termine; i luoghi visitati le emozioni provate, gli spettacoli naturali ammirati a bocca aperta sono però talmente tanti che per cercare di trasmetterli intatti non posso aspettare di tornare a casa e pensarci in un secondo momento.

Andiamo con ordine però, e partiamo dal primo giorno.

Itinerario

23 ottobre 2010 – 13 giorni fa
L’accoglienza non è delle migliori.
Dopo 14 ore di volo, tutto sommato più sopportabili e veloci nel passare del previsto, ad aspettarci sul suolo australiano c’è una Sydney avvolta nella penombra della sera e coperta da un cielo plumbeo che riversa a terra una fitta pioggia; dove sono il sole ed i tramonti visti in fotografie e cartoline?! Dove il caldo del “continente rosso”?! non avremo fatto tutta questa strada per niente, vero?!
Sappiamo bene che non è così, ma come accade nei normali rapporti interpersonali dove spesso la prima impressione è quella che condiziona un intero giudizio, così, complice la stanchezza per il viaggio e la ricerca di un hotel per la notte (non avevamo prenotato nulla e ci troviamo con tutte le sistemazioni che avevamo selezionato da casa già al completo!), l’aria fredda e la pioggia, la prima Sydney che vediamo ci delude un po’.
L’unico hotel con una stanza disponibile per la notte si trova all’inizio di Chinatown (anche se sarebbe più indicato chiamarla “JapanTown” visto il numero di Giapponesi che vediamo in giro!), quartiere praticamente centrale, così nonostante freddo e stanchezza ci avventuriamo a piedi alla scoperta dell’arteria principale della città, George Street dove i marciapiedi (è sabato sera) sono invasi da ragazzi e ragazze che passano da un locale ad un altro fra luci, drink, minigonne e tacchi alti o infradito. La stanchezza ha presto la meglio, torniamo in hotel per ricaricare le batterie ed affrontare con energia il nostro viaggio.

24 ottobre 2010 – 12 giorni fa
La pioggia non ha smesso di scendere per tutta la notte e non dà tregua nemmeno questa mattina; dobbiamo rimandare la prevista esplorazione della città a domani, sperando che le condizioni climatiche migliorino, e nel frattempo trovare qualcosa da fare in luoghi coperti.
La scelta cade sull’acquario che raggiungiamo utilizzando la monorotaia che con il suo percorso circolare attraversa, una decina di metri da terra, il centro cittadino arrivando fino alla zona portuale; le vetture di questo bianco trenino che ricorda un po’ quelli visti solo nei parchi di divertimento sembrano essere più un’attrazione per turisti che un vero e proprio mezzo di trasporto pubblico visto che i posti sono decisamente limitati ed i costi piuttosto importanti se confrontati con la tutto sommato breve distanza percorsa, ciononostante è quanto meno suggestivo (oltre ad essere asciutto!) muoversi sopra lampioni ed alberi sbirciando negli uffici e nelle finestre al secondo piano dei palazzi.
A quanto pare mezza Sydney ha pensato bene di rifugiarsi all’acquario per combattere le noia di una domenica piovosa e la coda per l’acquisto dei biglietti è piuttosto lunga, ma pazienza, siamo in vacanza e abbiamo tutto il tempo che vogliamo, quindi niente fretta! Inutile dirlo, la star indiscussa della maggior parte delle vasche e delle installazioni interattive è lo squalo, nelle sue tante specie e varianti, vivo e vegeto nelle vasche, riprodotto in vetroresina per le mostre statiche, monitorato con tracciamenti GPS che dimostrano come non sia raro trovarne qualcuno che nuota tranquillo a pochi metri dall’Opera House ed ovviamente rappresentato in mille diversi modi allo shop interno; il suo fascino ed il timore innato che l’inconfondibile pinna infonde, catalizzano certamente l’attenzione, in realtà apprezziamo maggiormente la possibilità di vedere, per la prima volta, animali autoctoni o molto rari, magari più pacifici e meno affascinanti, ma di certo una curiosa novità per noi.
Così ci fermiamo parecchio ad osservare il placido dugongo che fa colazione con l’insalata fornita dal personale, restiamo ipnotizzati dai colori delle meduse di una delle vasche e soprattutto trascorriamo parecchi minuti prima a cercare e poi a veder nuotare il platypus, da noi conosciuto come ornitorinco, uno degli “strani” animali che popolano questa terra (e solo questa!) e che, viste le abitudini notturne e la predilezioni per le rive intricate e fangose dei fiumi australiani è molto difficile riuscire a vedere al di fuori della cattività.

Quando usciamo dall’acquario pioviggina; meglio di niente, dai.
Ci rifugiamo all’interno del Queen Victoria Market, centro commerciale ricavato all’interno di uno dei pochissimi palazzi storici della città, approfittandone per sbirciare i vari negozi, farci un’idea dei prezzi (generalmente alti), dei gusti (generalmente diversi dai nostri) e per incontrare per la prima volta l’arte aborigena (generalmente affascinante ma… carissima!); ci perdiamo anche nel piano sotterraneo che ospita per la maggior parte ristoranti e fast food di ogni tipo e nazionalità e che senza soluzione di continuità è condiviso da un altro grande magazzino, tanto che quando usciamo nuovamente scorgiamo, al termine della strada su cui siamo, le travi d’acciaio che compongono l’Harbour Bridge. Non piove più fortunatamente e l’imponente figura del ponte ci attrae, così passeggiamo fino ad arrivare sul waterfront, vero centro focale della città.
Ce ne rendiamo subito conto e non verremo poi smentiti dai prossimi giorni, Sydney è l’Opera House ed il vicino Harbour Bridge, ben più che semplici simboli: a differenza di grandi città (penso a Parigi, a Londra, a New York ad esempio) dove accanto alle icone conosciute in tutto il mondo ci sono città culturalmente, storicamente, urbanisticamente vive e visitabili, per Sydney il binomio “ponte e vele” oltre ad essere centro focale dell’attenzione del turista è anche l’unica vera attrazione e l’unica vero motivo di visita; certo, c’è altro poi, dai musei ai parchi, dall’acquario a qualche quartierino ma se non fosse per queste due attrazioni (… e più la seconda a dire il vero del primo), ritengo che difficilmente si deciderebbe di fare una sosta di più di una giornata in città. Sydney questo pare lo sappia e lo riconosca tanto che attorno alla piccola baia che funge da porto turistico da una lato ha sviluppato tutta una serie di attività commerciali, ricettive e ristorative attraenti, dall’altro ha cominciato proprio da qui a cambiare pelle e rifarsi il look con i Rocks, il quartiere ai piedi dell’Harbour Bridge. Oggi lo vediamo di sfuggita, nuovamente sotto la pioggia, camminando fra le bancarelle (fortunatamente coperte!) del mercato domenicale, colorato e fantasioso nell’artigianato in vendita, ce lo godremo meglio fra un paio di giorni, con il sole ed i riflessi del tramonto, riuscendo a apprezzare davvero un angolo di una Sydney davvero affascinante.

L’Opera House offre il meglio di sé con la luce, meglio ancora se è quella accesa del tramonto che illumina e colora le candide vele che la rendono famosa nel mondo.
Con la pioggia perde gran parte del suo fascino: il grigio del cielo omogenizza le curvature del teatro cancellando le ombre ed il mare, scuro, sembra quasi inghiottirla invece di far da cornice. Il primo impatto è, quindi, il classico “bello… ma me l’aspettavo migliore” anche se non possiamo esimerci dallo scattare migliaia di fotografie.

25 ottobre 2010 – 11 giorni fa
La buona notizia è che non piove; la cattiva è che comunque non c’è il sole. Meglio di niente, però, ci accontentiamo di quello che c’è e dopo la colazione nel bar sotto casa ci avventuriamo per Sydney cercando di vederla un po’ meglio di ieri.
Cominciamo da Hyde Park, il grande e curatissimo parco sul quale l’hotel in cui siamo si affaccia per poi avventurarci fra i negozi chic, l’architettura moderna dei grandi palazzi, la futuristica torre della televisione, progettata per resistere a terremoti, uragani e venti straordinari; ci sembra di essere in una piccola (molto piccola!) New York rivista con la testa e lo stile di vita tipico degli australiani. Non c’è da meravigliarsi se in giro si vedono manager d’azienda in giacca, cravatta e snikers o gruppi di colleghi che fanno il meeting settimanale per la definizione di un importante progetto seduti al tavolino di un bar o passeggiando fra i viali del parco, o, ancora, se sul tuo stesso marciapiedi, molto meno pulito di quanto ti saresti aspettato, incontri ragazzi con la tavola da surf sotto il braccio ed i piedi completamente nudi.

Nel pomeriggio esce il sole e la città comincia a colorarsi e a prendere vita.
Ci rilassiamo ancora un po’ nel parco scaldandoci ed asciugandoci e guardando un paio di scacchisti che si sfidano con pezzi giganti su una scacchiera creata ad hoc e, prima di tornare verso il porto, ci fermiamo a visitare la grande cattedrale di St. Mary con le sue grandi vetrate colorate. La strada che seguiamo poi per raggiungere l’Opera House è assolutamente casuale: ci facciamo attrarre dai colori degli edifici, dalle architetture coloniali, dai murales o dalle salite e le discese di piccole strade costeggiate da alberi fino a che ci troviamo all’imbocco dell’Harbour Bridge, nel quartiere dei Rocks.
Nucleo storico e centrale dal quale la città è sorta e per la sua vicinanza con il porto luogo poco raccomandabile, poi lasciato a se stesso e di recente riscoperto, ripulito e rinato, il quartiere è una continua scoperta. Le costruzioni sono di mattoni, l’una stretta all’altra o con un piccolo vicolo che le separa, i grandi alberi ed i fiori nei giardini delle case in stile coloniale sembrano incorniciare le bianche verande e le balconate istoriate, le vetrate dei locali riflettono i rossi e l’arancio delle schiere di casette dall’altra parte della strada; a sovrastare il tutto, quasi a proteggerlo, il grande ponte con il suo incrocio di travi, la parabola dei montanti e le bandiere australiane che sventolano a ricordare a tutti che siamo dall’altra parte del mondo.
Inutile dirlo, passiamo il resto del pomeriggio passeggiando per il waterfront riuscendo poi ad ammirare (finalmente!) i colori ed i riflessi del tramonto; l'Opera House si accende, illuminata dalla luce gialla del sole che scende dietro l'Harbour Bridge, in cielo le nuvole cominciano a colorarsi di rosa e quella grigia città che abbiamo visto fino a ieri cambia completamente aspetto affascinandoci e coinvolgendoci. Questa è la Sydney che impariamo ad apprezzare e che “portiamo a casa”: decisamente un’altra città!

26 ottobre 2010 – 10 giorni fa
Ultimo giorno a Sydney e visto il sole che questa mattina splende, vogliamo trascorrerlo all'insegna del più completo relax, quindi compriamo un paio di biglietti dell'autobus, aspettiamo a poche decine di metri dall'hotel dove alloggiamo il bus 380 e, una volta arrivato, ci mettiamo comodi guardando fuori dai finestrini i quartieri residenziali della città mentre percorriamo la ventina di chilometri che ci separa dalla nostra meta; ci rendiamo conto di essere vicini quando cominciamo a vedere ragazzi e ragazze che camminano nella nostra stessa direzione con sotto braccio una tavola da surf!
Quando arriviamo Bondi Beach, “LA” spiaggia di Sydney, sta iniziando a popolarsi. La vediamo dall'alto della collina che la sovrasta scendendo una fermata prima del previsto e scendendo poi fino al mare a piedi, attraversando la striscia verde del giardino che la separa dalla strada; in mare già sono parecchi i surfisti che, indossata la muta, si divertono a scivolare a riva spinti da onde decisamente poco preoccupanti.
Non perdiamo troppo tempo a decidere cosa fare: indossiamo il costume, stendiamo i nostri due teli mare sulla sabbia e ci godiamo il sole primaverile australiano guardandoci in torno studiando luogo e persone.
L'età media difficilmente supera i 30 anni a quanto pare la maggior parte di chi è sulla spiaggia sta aspettando il momento buono per entrare in acqua con la propria tavola o vi è appena uscito e si rilassa asciugandosi al sole; tanti sono i turisti e li si riconosce facilmente: si scattano fotografie a vicenda oppure indossano pantaloni lunghi o leggings al posto del costume. Più in là sulla spiaggia un gruppo di persone, sedute in cerchio sulla sabbia, ascolta attenta la lezione di teoria del surf prima di avventurarsi per la prima volta su una tavola e poco oltre scorgiamo la vera istituzione del mare australiano: il bagnino.
Qui la professione di guardaspiaggia è paragonabile a quella del pompiere negli Stati Uniti, fonte di orgoglio, rispetto ed ammirazione nonostante la cuffietta gialla e rossa che si deve sempre indossare per essere riconoscibili anche in acqua non sia proprio il massimo dell'eleganza e ricordi vagamente un super eroe di qualche cartone animato; in effetti, però, ricordandoci cosa abbiamo visto ed imparato all'acquario in merito a squali (che anche qui abbondano) e meduse e leggendo di come le correnti possano essere forti e spingere verso il largo, il guardaspiaggia è davvero chi può fare la differenza in un momento critico e comprendiamo bene anche il senso del “recinto” entro il quale viene consigliato di nuotare. Già, perché non tutto il mare della spiaggia è pattugliato ma solo una porzione, indicata da due bandiere sempre gialle e rosse ancorate a riva e dell'ampiezza di una cinquantina di metri, è controllata e supervisionata e solo in quella zona, considerata sicura da ogni pericolo, viene garantita assistenza e supporto in caso di problemi.

Sarà anche primavera ma il sole scotta, e come!
È da più di un'oretta che siamo sdraiati e ci guardiamo in giro incuriositi ed il caldo inizia a farsi sentire sulla pelle, tanto da diventare presto insopportabile; lasciamo il nostro posticino sulla sabbia allora e passeggiamo, senza problemi a piedi nudi come tanti altri qui ed altrove, sul lungo mare di cemento che limita la spiaggia.
Qui incontriamo Davide, la prima delle nostre “storie a testa in giù”.
Romano, non più di ventidue anni, capelli lunghi e già abbronzato nonostante si sia da poco usciti dall'inverno; indossa una maglietta blu che poi capiremo essere la sua divisa di lavoro, pantaloncini ed infradito ai piedi. Come tutti. Ci sente parlare fra di noi, si avvicina e comincia a chiacchierare con noi in italiano ponendoci le solite domande di rito (“da dove venite?”, “da quanto siete arrivati?”, “viaggio di nozze?”) e poi raccontandoci un po' di lui.
Dice di essere in Australia da un anno, arrivato come turista ed innamoratosi immediatamente di questa terra, tanto da decidere, senza esitazioni, di restare; ma come si fa a rimanere in un paese straniero da immigrato? Lui si è affidato ad un'associazione specializzata proprio in questo (la stessa riportata nel logo sulla maglietta che indossa, ecco il perché della “divisa” di cui sopra): in cambio di un centinaio di dollari alla settimana, cifra tutto sommato accettabile dice lui, loro pensano a tutto quello che c'è da fare a livello burocratico e pratico per consentire nella piena legalità di restare sul suolo australiano. In particolare il loro pool di avvocati considera ogni singolo caso, lo analizza, prepara l'incartamento da presentare per l'ottenimento del visto mentre un altro gruppo di assistenza pensa a consigliare alloggi ed a suggerire impieghi; tutto organizzato, ma come si fa ad ottenere un visto? Pensano loro anche a questo, sfruttando un escamotage: basta essere iscritti all'università!
Ecco quindi che la stessa azienda prepara gli incartamenti necessari per venire ammessi ad un corso di laurea o di specializzazione in modo da dimostrare di essere studente e quindi avere diritto a rimanere in Australia.
A venire in contro a questa procedura c'è poi una delle caratteristiche della scuola e della società australiana, la sua specializzazione; per poter svolgere un lavoro, per aprire un'attività, per fare qualsiasi cosa ci dice Davide, si deve essere in possesso di una laurea, di un diploma o di un qualche attestato che certifichi di essere professionalmente preparato per poterlo fare. Per questo motivo l'iscrizione all'università non implica necessariamente studi di ingegneria, di medicina o di legge, ma, al contrario, c'è la possibilità di scegliere fra i più disparati corsi come ha fatto lui ad esempio: italiano, regolarmente immigrato in Australia da un anno ed in possesso di visto grazie all'iscrizione al corso universitario di capoeira. Restiamo allibiti.
Oltre a provvedere al visto, poi, la stessa associazione spesso offre anche lavoro ai propri “assistiti” e capiamo adesso il motivo per cui Davide sia qui sulla spiaggia questa mattina; sta cercando altri che come lui vogliano cavalcare il sogno australiano lasciandosi alle spalle, anche solo temporaneamente magari, le certezze di casa per avventurarsi in questo continente down under!

Trascorriamo l'ultimo pomeriggio a Sydney passeggiando circondati dal verde del giardino botanico, osservando con un misto di sorpresa e schifo alberi dai rami appesantiti da centinaia di pipistrelli giganti che, appesi a testa in giù, attendono dormicchiando l'arrivo della sera per andare in cerca di cibo, e cogliendo l'occasione per scattare le ultime fotografie all'Opera House ed al Harbour Bridge che, da questa angolazione, risultano essere l'uno dietro l'altra. Attendiamo il tramonto seduti ai piedi del grande teatro, ripensando a quanto abbiamo visto in questi giorni e ansiosi di tuffarci in un'altra Australia: domani ci attende Ayers Rock!

27 ottobre 2010 – 9 giorni fa
In volo ci rendiamo conto un po' di più di quanto sia grande l'Australia; certo, sapevamo che sovrapponendole sulla carta geografica l'Europa non riusciva a coprire completamente questo stato-continente, ma una cosa è la teoria, un'altra la pratica! Sono oltre due ore che voliamo ed ancora siamo lontani dalla nostra meta, e pensare che tutto sommato Uluru non sembrava poi così lontano!
Dal finestrino dell'aereo il paesaggio comincia a cambiare. E a tingersi di rosso. Finalmente arriva l'Australia che aspettavamo.
Sorvoliamo distese infinite di terra color mattone, punteggiata da vegetazione e solcata da strade che sembrano essere state tracciate con la riga, dritte, senza inizio e fine; anche l'acqua qui cambia colore, tanto che un intero lago al posto di essere blu ed azzurro ha solo sfumature di rosa a viola.
E poi arriviamo.
Il monolito più famoso, fotografato, conosciuto e commercializzato del mondo appare in tutta la sua strana bellezza in fase di avvicinamento all'aeroporto di Ayers Rock, un panettone arancio che si eleva, levigato e corrugato dagli anni, come un vecchio, in mezzo al niente che lo circonda per migliaia di chilometri; la visione è veloce, giusto il tempo di scattare un paio di fotografie prima di atterrare, ma già la sensazione che infonde è particolare, straordinaria e... destabilizzante; a certe cose non ci si abitua.

Se non si vuole soggiornare a Alice Springs e sorbirsi poi 450 km e sei ore buone di auto in mezzo al deserto fino ad Uluru, l'unico modo per poter vedere il monolito è fermarsi all'Ayers Rock Resort, una specie di villaggio turistico, l'unico, che offre a prezzi ovviamente quintuplicati rispetto al normale pernottamento (dal campeggio all'hotel 5 stelle) ed ogni supporto organizzativo per visitare al meglio il monolito, conoscerne la storia, apprendere i racconti del popolo aborigeno che da tempo immemore lo considera luogo sacro e, ovviamente, acquistare souvenir di ogni tipo. Non ci sono alternative, si deve necessariamente mettersi in fila con i turisti provenienti da tutto il mondo (tanti, sorprendentemente, dall'Australia) e aspettare il proprio turno; tutto è organizzato e al centro turisti vengono forniti i voucher per le escursioni o il semplice trasferimento ai piedi del monolito.
Nonostante non sia per nulla economica abbiamo prenotato per questa sera la cena nel bush, occasione per ammirare il tramonto e cenare in compagnia sotto le stelle e le costellazioni dell'altro emisfero; dal momento però che l'orario di partenza preclude la possibilità di effettuare qualsiasi altra escursione, rimandiamo la visita del monolito a domani mattina per poter, con un altro tour ovviamente, ammirarlo all'alba. Nel frattempo gironzoliamo per il resort guardando i negozi di arte aborigena (stranamente l'unica cosa non esagerata nel prezzo rispetto a quanto visto a Sydney), mangiando qualche cosa e facendo il nostro primo incontro con gli aborigeni. L'impressione iniziale non è delle migliori: sporchi, scalzi, non curati, la pelle scura bruciata dal sole a mettere in evidenza i tratti somatici così primitivi rispetto ai nostri canoni; già, in effetti si tratta solo di quello, di un paragone con “noi”, quelli “normali”. Se ci si ferma un attimo si capisce facilmente che siamo stati noi a trasformarli in quello che adesso sembrano; noi con la nostra cultura occidentale a imporre la proprietà privata a un popolo che per millenni ha vissuto libero vagando per il bush nutrendosi di quello che trovava in natura, noi che abbiamo portato il denaro e li abbiamo costretti a dare un senso a dei rettangoli di carta (in effetti qui di plastica) e dei tondini di metallo. Non c'è da stupirsi se si sono abituati alla cosa più semplice da farsi: cercare soldi dove li si può trovare, nella fontana del resort magari, come fa il bambino che porta poi la monetina trovata alla madre, per poi spenderli in qualcosa di altrettanto semplice, come l'alcool, la cui vendita è vietata agli aborigeni.
Strano pensare a quante tele e quadri realizzati da aborigeni seguendo quella che universalmente è ormai considerata la loro arte vengano venduti nei negozi di tutta la nazione quando in realtà gli artisti che li hanno realizzati conoscono il concetto di “casa” da meno di cinquant'anni; chissà prima dove li appendevano tutti questi dipinti...
Strano credere che oggi loro siano ufficialmente i proprietari di tutta la riserva nazionale che si estende attorno al monolito, che ricevano una percentuale di quanto economicamente prodotto dal resort, dalla vendita della loro arte, che abbiano un sussidio statale e che nonostante tutto non girino con vestiti firmati e scarpe pulite ma, anzi, debbano vivere da stranieri a casa propria, guardando milioni di turisti (fra cui noi, lo so) che ogni anno si riversano nei loro territori e vanno in pellegrinaggio nel posto a loro più sacro.
Strano pensare che purtroppo questo snaturare la loro identità, la loro cultura, le loro tradizioni sia in realtà l'unico modo per cercare di mantenerle vive paradossalmente salvandole da decenni di soppressione ed incuria culturale; pensarci prima era troppo difficile per noi “normali”.

I due pullman ci lasciano, insieme ad un altra cinquantina di persone, ai piedi di una piccola duna di terra rossa e cespugli, poco lontano dall'aeroporto; i tavoli da otto persone ciascuno sono già apparecchiati mentre i banconi in acciaio da buffet sono vuoti in attesa di essere riempiti con le varie portate. Tutto organizzato alla perfezione, rodato e prestabilito.
L'aperitivo si fa proprio sulla duna; da lì si vede il monolito (peccato che il resort sia esattamente fra noi e lui ma con un po' di contorsionismi si riesce a nasconderlo dietro qualche pianta... almeno nelle fotografie) e dall'altra parte, fra una tartina al canguro (!) e al coccodrillo (!!) , un bicchiere di champagne ed il suono ritmato ed ancestrale del didgeridoo suonato da uno dei nostri accompagnatori, assistiamo alla discesa del sole dietro ai monti Olgas, cugini del più famoso Uluru e molto suggestivi.
Ammetto che non volevo venire.
Quando pensavamo insieme al viaggio da fare, la deviazione per arrivare qui era troppo lunga ed esageratamente troppo costosa, tanto che nei miei progetti iniziali veniva sempre esclusa; e poi la “turisticità” del luogo, le mille fotografie di questo “sasso” non mi entusiasmavano nemmeno un po'. È stata Vicky a convincermi ed ora non posso che ringraziarla: i colori di questo tramonto, il silenzio del bush, questa natura così diversa da quella a cui sono abituato o che ho conosciuto altrove, i monti tanto arrotondati dall'erosione da sembrare finti, fatti dalla mano di un bambino che gioca con la plastilina, sono uno spettacolo a cui non ero preparato e a cui non posso restare insensibile. Sono fuori dal mondo e me ne sto rendendo conto, ringraziando di poter vivere un'esperienza del genere.
La cena non è niente male ma il vero spettacolo arriva al termine, quando si spengono le candele al centro di ogni tavolo e le lampade attorno al campo/sala da pranzo e si guarda in su: ad attenderci c'è uno degli spettacoli più belli che potessimo sperare di vedere e uno dei ricordi migliori che porteremo a casa con noi da questo viaggio: le stelle. Senza illuminazione ed inquinamento sia atmosferico che luminoso il cielo notturno si mostra nel suo naturale nero intenso, quasi solido, e sulla sua volta brillano milioni di piccoli puntini luminosi, così tanti da non poter non restare a bocca aperta e riuscire a distogliere lo sguardo; ancora prima che l'accompagnatore-astronomo cominci a discutere di costellazioni e stelle, restiamo tutti incantati ad osservare la grande striscia bianca della Via Lattea che solca completamente tutto il cielo e poi lasciamo che la nostra guida ci indichi quali fra i puntini che vediamo siano più degni di nota. Sopra di noi questa sera c'è Giove, all'orizzonte Venere, la Croce del Sud indica il polo ed abbiamo anche la fortuna di veder correre via sulle nostre teste l'ISS, la Stazione Spaziale Internazionale in orbita attorno alla Terra; si passa poi a discutere di costellazioni, segni zodiacali e per finire viene installato un potente telescopio fisso che permette di vedere, grande come una biglia, proprio Giove. Oltre ai nomi ed alle interessanti spiegazioni, però, il vero fascino è restare a guardare in su per la prima volta così nitidamente tutti quei milioni di luci che ci guardano e che inevitabilmente ci fanno sentire piccoli nell'Universo.

28 ottobre 2010 – 8 giorni fa
La sveglia suona all'alba questa mattina ed abbiamo solo il tempo di prepararci velocemente prima che il pulmino passi dalla hall del nostro hotel a raccogliere i partecipanti alla prima escursione della giornata; la destinazione, una volta oltrepassato il cancello d'ingresso del parco e pagato il biglietto (il minimo costa 25$ ed ha validità 3 giorni), un imprecisato punto ad est del monolito dove ogni mattina si assiste allo spettacolo del sorgere del sole ed alla rinascita dopo il buio della notte dei colori. Il cielo si tinge di giallo e di rosso mentre man mano che il sole si solleva da dietro l'orizzonte e comincia ad illuminare la sua superficie, Uluru prende forma, le ombre lo delineano, le fenditure e le spaccature ne muovono la figura e, soprattutto, cambia colore passando dal grigio all'arancione intenso fra mille sfumature diverse; uno spettacolo che dura poco più di una decina di minuti ma che vale assolutamente la pena vedere e che da solo merita un viaggio fin quaggiù!

Oltre ai colori, una delle cose che più stupisce di Uluru sono le dimensioni.
Siamo ai suoi piedi, all'inizio di uno dei sentieri, tracciati e ben visibili, che lo circondano e che permettono di goderne a pieno la bellezza e la prima impressione che se ne ha è che sia enorme. Sorgendo in mezzo ad un piatto nulla e con pareti spesso quasi verticali la percezione delle sue dimensioni viene falsata ed il monolito sembra davvero essere enorme; visto il poco tempo a disposizione prima che il pick-up venga a riprenderci e ci riporti al resort in tempo per fare le valigie e prendere l'aereo di ritorno, scegliamo il sentiero più breve che porta ad un piccolo stagno ai piedi della parete rocciosa. Siamo soli, non ci sono rumori, non ci sono auto o suoni se non quelli del vento e delle fronde degli scarni eucalipti tutt'intorno a noi; tutto è avvolto da una strana luce, intensa e quasi accecante. È una strana sensazione, difficile da descrivere, ma ci sentiamo come in una chiesa, riusciamo a percepire la sacralità del luogo, la magia di una cattedrale costruita dalla natura e da tempo immemore considerata mistica dall'uomo, tanto che anche noi non osiamo parlare, se non sussurrando, per rispetto nei suoi confronti ed in quello che rappresenta.

C'erano un tempo sette sorelle, giovani e bellissime, tanto che qualsiasi uomo desiderava sposarne una o due; un guerriero, in particolare, provò a corteggiarne una ma venne respinto costringendole, per difendersi, a fuggire. Lui non si perse d'animo e cominciò ad inseguirle senza sosta tanto che per potergli sfuggire le sette sorelle dovettero volare in cielo divenendo uno degli ammassi stellari più luminosi della volta celeste: le Pleiadi.
Questa è una versione, ce ne sono molte altre, della leggenda delle Sette Sorelle uno degli archetipi comuni a molte delle tribù aborigene che popolano l'entroterra australiano e che ancora oggi, insieme a tante altre storie, rappresenta il bagaglio culturale e storico di questo popolo; il racconto può far sorridere forse per la sua semplicità, ma gioca un ruolo primario nella cultura aborigena e questo si ripercuote anche nell'arte dove, spesso, fra puntini e figure apparentemente amorfe si possono intuire rimandi a questa leggenda.
Apprendiamo queste cose al Centro Visitatori dove, oltre a poter acquistare a prezzi non esagerati artigianato ed arte aborigena, vengono spiegati con video, fotografie e testi la storia del popolo aborigeno fino ai giorni nostri ed il significato della loro arte; noi ci facciamo rapire dalle suggestioni e dai colori di un popolo che, diversamente dall'impressione che ci ha fatto, dimostra di avere una cultura e delle tradizioni affascinanti e che paradossalmente ha trovato attraverso quell'arte venduta ai turisti la strada giusta per poter esprimere e tramandare la propria identità.

29 ottobre 2010 – una settimana fa
Dopo le emozioni provate al cospetto del vecchio e saggio Uluru siamo pronti a viverne delle altre, meno spirituali ma certamente capaci di lasciare nei nostri ricordi altrettanta soddisfazione. Siamo a Brisbane, siamo arrivati ieri sera, ci siamo svegliati questa mattina con il sole che entrava dalla finestra della nostra camera, fatto colazione, camminato fino al centro dove abbiamo preso l'autobus che ci ha portato qui, in un quartiere alle porte della città, immerso nel verde e sulle rive del fiume Brisbane: al Lone Pine Koala Sanctuary, la prima e più grande riserva del mondo dedicata, come dice il nome, ai koala!
Prima di arrivare agli orsetti grigi (che poi orsi non sono, ma fa niente!), però, per la prima volta nella nostra vita vediamo dal vivo e da vicino i canguri; un enorme parco ne ospita di tutte le diverse specie, wallaby compresi, e, ormai abituati alla presenza dell'uomo, è possibile avvicinarli senza problemi, accarezzarli ed offrire loro del cibo (provvisto dal parco ovviamente). Vicky freme per i koala e non ci sono marsupiali saltellanti che tengano: siamo qui per le palline di pelo all'eucalipto e vogliamo vederle.
La maggior parte degli oltre 100 esemplari che il parco ospita sono in gabbie senza sbarre né vetri ma dalle quali non è possibile uscire visti i muri di cinta troppo alti per essere da loro scalati; siamo entusiasti dell'incontro ma la sensazione di essere in uno zoo (questo è alla fine il “santuario”) non ce lo fa apprezzare a pieno: pensavamo di poterli vedere in natura, liberi di fare quello che preferiscono ed invece se ne stanno a mangiare tutto il tempo appallottolati sui trespoli di legno costruiti dallo staff del parco o fra gli incroci di due rami di eucalipto. Precedendo nella visita ci accorgiamo che la nostra pretesa è piuttosto assurda (e ce ne renderemo conto ancor di più nei prossimi giorni durante gli spostamenti in auto!) e cambiamo subito idea: un cartello indica l'area nella quale siamo come habitat naturale dei koala ed invita a cercarli fra i rami degli alberi che ci circondano; dopo un quarto d'ora abbondante ed il collo contratto a forza di guardare verso l'alto riusciamo ad individuarne uno fra la chioma, appallottolato su un ramo intento a schiacciare un pisolino!
Ringraziando per la possibilità di vederli così da vicino nei loro recinti ne approfittiamo per vivere l'esperienza di accarezzarne uno; anzi, di più che accarezzarlo e basta: tenerlo in braccio!
Sette chili di pelo morbido e soffice, odoroso di eucalipto (mangiando solo anche il sudore ha un buon odore, tanto che credo siano uno dei pochi se non il solo animale selvatico che non puzza!) si aggrappano con le unghie alle spalle di Vicky guardandosi intorno con aria non molto sveglia ed intelligente ma di certo simpatica, godendosi le nostre carezze ed attenzioni, facendo a modo suo anche un bel sorriso a favore di macchina fotografica prima di rigettarsi a capofitto sulle amate foglioline di eucalipto. Sarà anche commerciale come esperienza (ovviamente l'abbraccio e la fotografia si pagano), ma comunque uno di quegli incontri che si ricordano una volta tornati a casa con entusiasmo ed il sorriso sulle labbra!

Passeggiare per il centro di Brisbane significa sostanzialmente camminare lungo un'ampia via pedonale, guardando i negozi ed i centri commerciali che si aprono su entrambe i lati cercando di non perdersi nei meandri dei piani sotterranei; niente di speciale, è vero, però la città è viva e anche se oltre a questo c'è poco altro da vedere, la gente attorno a noi, gli spettacoli di musica e danza organizzati all'aperto, la Festa della Luce che raccoglie la comunità indiana proprio oggi con abiti tradizionali e musica etnica la rendono allegra e colorata.
Suggestivo poi il panorama notturno all'imbocco del Victoria Bridge, con il Casinò illuminato da fari blu così come la grande piazza antistante e dall'altra parte del fiume la grande ruota panoramica che brilla candida risaltando nel cielo serale.

30 ottobre 2010 – 6 giorni fa
Questa mattina comincia un nuovo viaggio; basta spostamenti in aereo e grandi città: ora abbiamo la nostra auto a noleggio, una magnifica ed elegante Toyota Camry Altise e siamo liberi di fare quello che ci pare, prenderci i nostri tempi, fermarci o guidare quando vogliamo e, soprattutto, improvvisare.
A parte la classica confusione fra frecce e tergicristalli (i comandi sono invertiti rispetto a quelli che usiamo di solito), ci abituiamo presto a guidare “contro mano” come si usa da queste parti e, seguendo l'autostrada verso sud, non ci mettiamo più di un paio d'orette ad arrivare alla prima meta della giornata, un paesino che è assurto agli onori del turismo internazionale da poco più di una decina d’anni: Byron Bay. Poco importa che sia geograficamente il punto più a est del continente australiano, la visita al promontorio che domina il paese è imperdibile per il piccolo faro bianco e blu che vi sorge e per il panorama che dall’alto si gode: un mare dalle mille tonalità del blu e dell’azzurro che si frange su spiagge candide che sembrano incorniciate dal verde intenso della vegetazione; ovviamente poi non mancano i surfisti che punteggiano le onde lasciando che le loro tavole scivolino sull’acqua.
Capiamo subito che il viaggio ha cambiato faccia; e ci accorgiamo di essere tremendamente fuori luogo non appena scendiamo dall’automobile: siamo gli unici con jeans e scarpe in un mondo che sembra vivere solo a torso nudo, bermuda o costume da bagno. E a piedi nudi! Ovviamente non ci mettiamo molto ad adeguarci ai “costumi” locali e visto che ci siamo non possiamo esimerci dal seguire anche gli “usi” del luogo parcheggiando l’auto per trascorre un po’ di tempo su una spiaggia bianchissima e dalla sabbia talmente fine da sembrare borotalco e… rimanere a bocca aperta: non avremmo mai pensato che la sabbia potesse “suonare”! Ad ogni passo che muoviamo sentiamo i granellini emettere un rumore simile ad uno scricchiolio; impareremo solo fra qualche giorno, sulla spiaggia di Whitsunday che il fenomeno è dovuto al fatto che questa spiaggia, come poche altre al mondo, è composta per la quasi totalità da silice allo stato puro, elemento di cui è composto il vetro, ed in effetti il rumore che sentiamo è identico a quello di un dito umido strisciato sulla superficie di un vetro!
Ci rilassiamo sulla spiaggia per un po’ ma quando il caldo ed il sole cominciano a farsi sentire lasciamo la sabbia e curiosiamo fra i negozi che si affacciano lungo la via principale del paese; niente di speciale, costumi e surf alternati da fast food, il tutto troppo nuovo e finto per essere davvero attraente, ma l’atmosfera è talmente rilassata che passeggiare è comunque un piacere che ci concediamo volentieri.

Il cuore turistico dell’Australia delle vacanze ha un nome evocativo come solo qui si può trovare: Surfers Paradise, una grande agglomerato fatto di bassi edifici affittati durante la buona stagione ai turisti fra cui svettano enormi grattacieli, il tutto affacciato su un mare che fa delle onde più che della sua bellezza la vera attrazione.
Per arrivare ce la prendiamo comoda, lasciando agli altri l’autostrada utilizzata per arrivare ed impostando il navigatore su strade secondarie seguendo verso nord la costa e lasciandoci trasportare dalla strada.
Passando fra fitti boschi di eucalipti i tipici cartelli gialli ci avvertono di fare attenzione ai koala ma nonostante l’impegno è impossibile riuscire a distinguerli fra le foglie ed i rami; facciamo invece altri incontri: una enorme iguana, verde e rossa, decide di attraversare la carreggiata proprio davanti a noi costringendoci a frenare bruscamente e, soprattutto, un piccolo wallaby si fa vedere, ad una cinquantina di metri, mentre saltella da un lato all’altro della strada perdendosi poi nella vegetazione. L’incontro con i canguri a Brisbane è stato interessante ma la sensazione di essere in uno zoo ha un po’ rovinato le cose; il vedere invece ora uno dei tipici animali di questa terra scorrazzare libero per la SUA terra ci fa cambiare completamente prospettiva lasciandoci un ricordo del tutto diverso.

Ricordandoci di quanto vissuto in Sudafrica, decidiamo di parcheggiare un attimo l’auto e scendere per fare una passeggiata sulla spiaggia. Siamo nel bel mezzo del nulla, sulla strada fra Wooyoung e Pottsville, entrambe insignificanti paesini, un rettilineo senza fine costeggiato da un lato da una bosco di eucalipti e dall'altro separato dalla spiaggia da una sottile striscia di boscaglia. La sensazione di deja-vù con quanto vissuto sulla spiaggia di Winderness a qualche ora da Cape Town è forte; chilometri di sabbia dorata completamente deserti, le onde che si infrangono sulla battigia e conchiglie tutt'intorno. Uno spettacolo dalle tinte un po' romantiche forse ma di quelli che si ricordano per parecchio!

 

Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento, contattaci per ottenere il tuo account

© 2024 Ci Sono Stato. All RIGHTS RESERVED. | Privacy Policy | Cookie Policy