E' la seconda e ultima parte del resoconto di viaggio in Birmania, la cui prima parte è già presente con il medesimo titolo su questo stesso sito.31/12/2006 - 3/1/2007
Giornate di mare, spiaggia e relax totale.
Avendo prenotato con molto ritardo, abbiamo trovato posto solo in un hotel appena aperto, l’Aureum Palace (210 USD) sulla spiaggia di NGAPALI: costretti a tanto lusso, l’abbiamo presa come una vacanza nella vacanza. In effetti la prima sera, entrando nel nostro spettacolare bungalow con salotto, tv a schermo piatto da 40 pollici, letto a baldacchino e zona bagno grande come certe camere che ci sono toccate in sorte nei nostri viaggi, rimaniamo folgorati: questa sì che è vita.
Le nostre attività consistono in bagni di mare e nella bellissima piscina, ore e ore di sole sui lettini dell’hotel, soprattutto lunghissime passeggiate sulla interminabile spiaggia. Il bello qui è che gli hotel sono tutti abbastanza distanziati, che c’è poca gente anche se è tutto al completo, che la spiaggia è profonda e che puoi stare anche per lunghi tratti senza incontrare nessuno. Ogni 500m circa si incontrano piccoli gruppi di ombrelloni dove simpatiche signore vendono bracciali, collane e piccoli oggetti di artigianato: in questi shopping malls non puoi fare a meno di fermarti, catturato da un sorriso o da un gentile richiamo, ma anche se non compri, un cordiale saluto e un augurio non ti sono negati. Non che a me capiti spesso, di non comprare, perché le persone sono così gentili e gli oggetti così carini che riesco a fare dei piccoli acquisti un po’ ovunque.
A Capodanno siamo costretti a sorbirci una lunghissima cena in hotel, con un buffet pantagruelico e litri di drink: all’aperitivo sono già sazia e semi ubriaca, ma “sopportiamo” stoicamente tutto il pacchetto che prevede piccoli spettacoli folcloristici (messi in atto dai dipendenti dell’hotel - decisamente poco a loro agio nelle vesti di ballerini e attori), lunghe spiegazioni e discorsi del direttore dell’hotel, chiacchiere varie con la composita clientela, spettacolo finale con lancio di piccole mongolfiere illuminate da lumini accesi e il loro immediato precipitare in mare.
Le altre cene preferiamo gestircele nei ristorantini della zona che raggiungiamo camminando sulla spiaggia. Due sono i nostri preferiti: il Brilliance Restaurant e il Pleasant View Islet Restaurant.
Il primo si trova sulla strada principale ed è gestito da una simpatica giovane coppia. Si tratta di un posto molto semplice ma il servizio è impeccabile e il cibo buono: il proprietario ci intrattiene con il racconto della creazione di questo ristorante, della recente nascita del figlio, dei suoi sogni e delle speranze per il futuro del piccolo. Commovente.
Un giorno, rientrando dal Brilliance, attardandoci nella passeggiata postprandiale sulla spiaggia, un vecchietto ci obbliga a fare uso del suo carretto trainato da un bufalo. Ci parla molto vivacemente per tutto il viaggio, non si sa di cosa, mentre veniamo sballottati sul durissimo assito, e una volta giunti a destino, dobbiamo insistere per pagargli un piccolo obolo per il trasporto, sebbene non richiesto. Questi semplici episodi ci fanno sentire a casa.
Il secondo ristorante è situato su un piccolo promontorio che l’alta marea separa dalla spiaggia. Lo notiamo durante le nostre passeggiate e ci torniamo per cena: l’isoletta è collegata alla battigia da una lunga passerella mentre la “sala” è costituita da una serie di terrazze a palafitta sul mare con tavoli molto distanziati. Cullati dalla risacca attorno e sotto di noi, ci godiamo l’ottima cucina orientale mentre l’alta marea sale e per il ritorno a riva ci dobbiamo affidare a una barchetta. Meglio presentarsi per cena con un abbigliamento comodo: le signore in gonna lunga e abitino attillato che incrociamo al rientro fanno una bella fatica al momento dell’approdo!
In questo clima di totale dolce far nulla, ci concediamo un’unica fatica: una breve escursione in barca che ci viene offerta da un ragazzo sulla spiaggia. Per 15$ passa a prelevarci alle 9 (ora antelucana, soprattutto considerato che è il primo gennaio) e ci porta a breve distanza per una sessione di snorkeling. Ivo si rifiuta di tuffarsi così presto, con il cenone ancora sullo stomaco, nell’acqua decisamente fredda di quella che è la stagione più rigida della Birmania. Io invece mi sento un po’ in obbligo nei confronti del ragazzo che mi guarda con espressione perplessa mentre testo titubante la temperatura dell’acqua: decido pertanto di non fargli un torto e mi tuffo. Incrocio solo qualche pescetto di barriera - comparse, ben poca cosa: credo che sia troppo presto e troppo freddo anche per la fauna ittica locale, o forse sono alle prese coi postumi del veglione. Tant’è che, dopo un decoroso intervallo di tempo, pongo fine alla sofferenza, mia e dei pesci, e torno a bordo.
Fortunatamente la tappa successiva è su un isolotto dove, in mezzo a rocce varie, si è creata una spiaggia di sabbia bianca, prontamente attrezzata con baretto, ombrelloni e tavolini. Ordino subito un coffeemix bollente e mi spiaccico per terra nel tentativo di cavare un po’ di calore vitale dalla sabbia. Il barcaiolo ci lascia recuperare le forze per un’oretta prima di proporci uno stop a un villaggio. In una lunga baia protetta, tra alte palme, si cela una comunità di pescatori. Non abbiamo bisogno di inoltrarci tra le capanne: pare che tutti gli abitanti siano, qui, in riva al mare, occupati nelle più svariate occupazioni. Alcuni uomini curano dei fuochi sotto alle barche portate in secca, mentre altri spalmano una sostanza isolante sullo scafo; le donne sono occupate a piegare le reti o a controllare il pesce lasciato su degli immensi teloni a essiccare; i bambini giocano, aiutano gli adulti ma soprattutto osservano curiosi noi stranieri. La gente è simpatica, si offre spontaneamente a qualche scatto o accetta con un sorriso quando propongo loro di diventare il mio soggetto. Alcuni dei volti più intensi li colgo qui, espressione di una normale giornata lavorativa. Sono in tanti a salutarci quando riprendiamo il largo per tornare alla nostra spiaggia. Ancora una volta, i birmani hanno saputo commuovermi con la loro simpatia, gentilezza e pazienza.
E purtroppo arriva il momento della partenza: alle 14,20 del 3/1/2007 siamo all’aeroporto in attesa di imbarcarci per Yangon con un volo Air Mandalay, la sabbia ancora addosso e il sale nei capelli. Ngapali con le piccole intense emozioni che ha saputo regalarci ci mancherà.
Del tutto inaspettatamente, all’aeroporto d’arrivo troviamo ad accoglierci un addetto dell’hotel prescelto per la notte a Yangon, che ci accompagna (in taxi) per i ben 500 metri che ci separano dal Seasons of Yangon (35$). Dovendo partire molto presto per Bagan l’indomani, preferiamo infatti alloggiare in prossimità dell’aeroporto e recarci in città solo per cena. Buona scelta: l’hotel è buono e la questione logistica e la tempistica nettamente semplificate.
Appena arrivata in hotel, chiamo la bottega in cui avevo visto le statuette che nel frattempo mi sono decisa a comprare. Purtroppo il volo era in ritardo e non ce la faccio ad andare a fare il mio acquisto, spiego al proprietario il problema e ci mettiamo d’accordo che una volta arrivata in centro per la cena e scelto un ristorante, previa mia chiamata, mi raggiungerà per perfezionare la vendita.
E così facciamo: verso le 19, troviamo un taxi con cui ci accordiamo anche per il ritorno e ci facciamo lasciare allo Strand, il famosissimo hotel di epoca coloniale dove abbiamo intenzione nel dopo cena di berci un drink (12$) e fare un giro nei begli ambienti restaurati, e da qui ci incamminiamo lentamente verso il Monsoon Restaurant. Sulla cartina pareva molto più vicino ma nelle strade pur poco frequentate di Yangon ci si sente tranquilli. Anzi, sono tutti molto contenti di darci qualche indicazione in birmano, quando si accorgono che ci siamo praticamente persi. Miracolosamente trovato il ristorante, un localino che non stonerebbe assolutamente in una via della Milano più in, scatta l’operazione acquisto. Sì, lo confesso: le cose facili non mi si addicono. Avrei potuto comprarle il primo giorno, queste statuine, tanto avevo già capito che non avrei saputo resistere alla solita vocina insidiosa che mi dice “comprami, comprami”. Ma nonostante il mio rendermi la vita difficile, l‘acquisto fila via liscio come fosse normalissimo raggiungere un acquirente al ristorante per cena con la merce, sedersi al tavolo, contrattare e fare l’affare. Riconosco però che in questo modo, oltre ad amare queste statuine che mi sembrano ogni giorno più belle, sono riuscita a caricarle di una storia loro, che me le rende ancora più care, indissolubilmente legate al ricordo di una splendida vacanza e di un gentile e disponibile signore dal sorriso cordiale. Oltre che a quello di un’ottima, raffinata cena oriental fusion.
Neanche quando il nostro taxi rimane fermo per strada senza benzina e veniamo dati in subaffitto a un altro taxista di passaggio, il mio sorriso soddisfatto si scollerà dalle mie labbra.
4/1/2007
La zona partenze nazionali dell’aeroporto di Yangon è a dir poco zeppa di gente, quando ci presentiamo per il nostro volo Air Mandalay delle 6:30 per Nyaung-U, cioè la porta d’accesso alla meraviglia birmana che porta il nome di BAGAN.
Pur avendoci passato già due giorni pieni all’epoca del mio primo viaggio, mi sembrava giusto che Ivo vedesse questo posto incredibile, e che lo facesse con la dovuta calma, per evitare che un continuo sovrapporsi di immagini e templi portasse a un successivo ricordo sfuocato. Perché Bagan consiste in una pianura “cosparsa” di pagode e stupa eretti nei secoli a scopo devozionale e si calcola che nei suoi anni di massimo splendore, nel XIII secolo, questi templi fossero addirittura più di 4000. Ora, dopo secoli, terremoti e crolli “fisiologici”, si parla di 2000 monumenti! Insomma, pur non avendo la presunzione di visitarli tutti, si tratta di una zona molto estesa, ricca di piccoli tesori architettonici e pittorici da gustarsi con la dovuta attenzione e tranquillità, attendendo magari per la visita il momento in cui gli occupanti di un determinato pullman se ne siano andati. Perché Bagan è così magica, che merita questi riguardi, merita tempo, merita anche spazi tra una visita e l’altra.
Sbrigate le formalità aeroportuali che comportano la registrazione e il pagamento di una tassa statale di 10 US$ , ci facciamo portare da un taxi all’hotel prescelto, il Bagan Hotel River View, “probabilmente l‘albergo più suggestivo di Old Bagan, situato proprio alle spalle del Gawdawpalin Temple”, dice la Lonely Planet, e, dico io, adagiato su un’ansa del fiume Ayeyarwady o Irrawaddy. Old Bagan non è un villaggio ma una località circondata dalle vecchie mura in cui sorgono un notevole numero di templi maggiori, il museo e qualche struttura turistica. Mi sembrava, questo, il modo migliore di vivere Bagan nella sua interezza. Gli hotel situati a Nyaung-U sono sicuramente più funzionali, e anche più belli, a parità di prezzo, ma io cercavo la poesia, e l’ho trovata. Insieme a una certa atmosfera dei vecchi tempi andati, visto che l’hotel ha qualche anno e lo dimostra.
Nella grande reception scura che replica l’accesso a un tempio, attendiamo per un quarto d’ora circa che la nostra camera sia pronta. Sono appena passate le 8, in fondo. Depositati i bagagli, ci armiamo di cappellino e crema solare, e partiamo per la nostra prima giornata di templi. Malgrado l’offerta di vari mezzi di trasporto per visitare il sito, decidiamo per una giornata di full immersion a piedi, sfruttando la posizione dell’hotel, già “al centro dell’azione”. Le strade di Old Bagan sono in terra battuta con una soffice coltre di sabbia che attutisce i rumori e rallenta i passi. Fin dai primi metri, mi rendo conto che ci aspetta una bella faticaccia anche se la guida dice che si tratta di un circuito ad anello di circa 2 km (ma sono tuttora convinta che abbiano barato sulla distanza!).
Iniziamo ovviamente dalla GAWDAWPALIN PAYA, così vicina all’hotel da sembrare parte del complesso. Si tratta di un enorme tempio a due piani, in ottimo stato grazie all’opera di restauro e ricostruzione che ha fatto seguito a un devastante terremoto nel 1975. Vari lavori di rinforzo, anche in epoche successive, non sono stati sufficienti a rendere possibile l’accesso al piano superiore: una misura di sicurezza ricorrente in questi giorni di visita. In pochissimi templi è consentito infatti l’accesso ai piani alti, fatto che noto in maniera particolare visto che durante la mia precedente visita, la salita in cima ai templi era una sorta di rito permesso quasi ovunque.
Ci accontentiamo di percorrere i corridoi al piano terra, dalle alte volte, osservando le statue di 4 Buddha dorati sovrastati da resti di pittura.
Uscendo dalla parte opposta, iniziamo a spostarci da un tempio all’altro, da un piccolo complesso a uno stupa, tutti ignorati dal grosso dei turisti che si dedicano solo ai templi maggiori. C’è una gran pace, da queste parti. In un piccolo tempio, la Atwinzigon Paya, una serie di leoni di pietra, ci permette qualche scatto con i grandi templi in prospettiva: è proprio la Bagan che desideravo gustarmi io.
In breve raggiungiamo uno dei luoghi più fotografati e visitati di Bagan: la BUPAYA.
Questo stupa deve sicuramente la sua fortuna alla invidiabile posizione, alto sulle sponde del fiume, con una vista magnifica sulle tante umane attività di navigazione e di coltivazione dei fertili terreni della riva. Interamente ricostruito a seguito del terremoto, che proprio qui nei pressi ebbe il suo epicentro, è oggi una costruzione che ricorda una pera dorata, al centro di una serie di bianche terrazze merlate che scendono fino all’Irrawaddy. Per dare ancora più lavoro ai fotografi che operano in zona, è stata aggiunta una serie di statuette varie dai colori vivaci e dalla foggia artisticamente discutibile: una di queste ho la quasi certezza di averla già vista in una versione figurata di Alice nel paese delle meraviglie.
Decisamente è più meritevole la tappa successiva: ci lasciamo alle spalle il fiume e la Bupaya, incamminandoci lungo il viale alberato e magnificamente rallegrato da immense bouganville per raggiungere la MAHABODI PAYA. Qui incontriamo le prime bancarelle, con un vasta selezione dei tipici souvenir di Birmania e di Bagan in particolare: lacche, di tutte le dimensioni e fogge, statue, quadri e sigari, i cheerok birmani, che una ragazza sorridente ci mostra come vengono prodotti. La Mahabodi è una pagoda che resta in mente: la sua imponente guglia, ricoperta interamente da nicchie, è decorata con 465 immagini del Buddha e si differenzia parecchio dagli altri edifici della zona. Si tratta infatti di una riproduzione di una famosa pagoda indiana.
Ci aggiriamo un po’ per la struttura, chiacchieriamo con i venditori, attendiamo che gli altri visitatori si allontanino per goderci in pace il luogo e infine ci incamminiamo nuovamente in direzione della Porta Tharaba, l’unico accesso alla città vecchia ancora esistente. Prima di raggiungerla, incappiamo nell’immensa opera di ricostruzione del Palazzo Reale, andato distrutto in passato e ricostruito ora, con uno dei vari progetti faraonici in corso nel paese: tanto immenso quanto inutile, visto che Bagan ha bisogno di rinsaldare le proprie meraviglie, non di aggiungere brutte copie di quanto è già andato perso. I lavori sono ancora in corso e l’accesso non è concesso ma sinceramente non mi ispira per nulla e quindi passiamo oltre senza rimpianti.
Incrociamo una quantità di persone che camminano cariche di pacchi e pacchetti, sacchetti e ceste, e mezzi di trasporto della più svariata natura traboccanti di persone, a riprova dell’esistenza del grande mercato che viene allestito in prossimità del Tharaba Gate ogni anno in questo periodo per la Paya Pwe, la festa di luna piena del mese Pyatho: c’era anche 10 anni fa. Mercato, giostre vetuste spinte a mano, luogo di incontro, bancarelle di cibi insoliti, banchetti per indovini: nella mia precedente visita, uno di questi illustri specialisti lesse nella mano della mia compagna di viaggio una ingente vincita alla lotteria. Ovviamente la sta ancora aspettando. O si trattava di una visione nel lunghissimo periodo, o le lenti dello spessore di fondi di bottiglia che portava sul naso non erano già più sufficienti per consentirgli una adeguata lettura.
Prima di immergerci nel caos del mercato, ci concediamo un meritato pasto in uno dei ristoranti nei pressi della Porta: ottimo e tonificante, ci permettiamo qualche minuto di relax in più visto che a dispetto delle temperature mattutine e serali piuttosto rigide, nelle ore centrali della giornata qui fa proprio parecchio caldo.
Riprendiamo il nostro girovagare: volenti o nolenti, il mercato si visita tutto, dato che si colloca proprio sul percorso che dal Gate porta a una delle pagode più famose e ricche di Bagan: la Ananda Paya e suoi annessi. Tra questi spicca la ANANDA OK KYAUNG, un santuario dall’insolita struttura, costituito da una cella centrale e un insieme di gallerie che la circondano, interamente ricoperto di affreschi del XVIII secolo. Per la prima volta entriamo in contatto con le splendide e suggestive pitture di Bagan, dai colori vivaci e dalle raffigurazioni semplici ma coinvolgenti. L’atmosfera è completata dalla luce che filtra a stento dall’esterno, ma senza lasciarci completamente al buio, tanto che il custode delle chiavi, chiamato apposta per farci visitare il luogo, ci segue e illumina i dettagli con una potente pila.
La ANANDA PAYA è uno dei templi più importanti: decine di botteghe si allineano nelle sue vie di accesso ed è movimentata da una folla di fedeli. Questo si spiega facilmente vista la sua ricchezza in termini di bassorilievi, piastrelle vetrificate con scene delle Jataka, enormi statue del Buddha, la vita stessa del Buddha rappresentata nel corridoio esterno con 80 sculture di pietra, decine di nicchie sparse lungo le pareti, elegantemente decorate, nonché ampie zone di affreschi riportati alla luce da recenti restauri. Il grande cortile che circonda la struttura principale brulica di gente e se proprio le si deve trovare un difetto, questa pagoda è decisamente poco intima; le sue cupole dorate e soprattutto il hti a forma di pannocchia interamente ricoperto d’oro si vedono anche in distanza e permettono spesso di orientarsi, nella selva di pinnacoli che svettano sopra Bagan.
Lasciamo alle spalle questa enorme pagoda per continuare il nostro giro all’interno delle mura: la meta successiva è la PITAKA TAIK, la biblioteca. Siamo poco fortunati: l’edificio è chiuso perché sottoposto a massiccio restauro da parte di una squadra di donne che si caricano pile di mattoni sulla testa e salgono su scalette precarie in bambù per raggiungere il tetto. Rimaniamo per qualche istante amareggiati di fronte a questo ennesimo sfruttamento del lavoro femminile, ma allo stesso tempo ammirati per la grazia, l‘eleganza e l’incredibile equilibrio di questi esili muratori.
A breve distanza possiamo finalmente arrampicarci sulle terrazze della SHWEGUGYI e goderci un po’ di scorci aerei di Bagan. Questo tempio è bello di per sé e presenta vari elementi di interesse, come raccontano la Lonely Planet e la splendida guida acquistata in una bottega alla Ananda Paya (Ancient Pagan - Buddhist Plain of Merit di Donald M. Stadtner - consigliatissima). Ma noi siamo rapiti dalle vedute, le cupole, i colori, le guglie a perdita d’occhio. In particolare si ha una vista perfetta sulla THATBYINNYU, meta successiva del nostro pellegrinaggio e tempio più alto di Bagan, dove però non si può accedere ai piani superiori e risulta, nell’insieme, piuttosto spoglio.
Riprendiamo il sentiero sabbioso e passiamo di fianco alla NATHLAUNG KYAUNG, un tempio indù che non ci colpisce particolarmente (che la stanchezza si faccia sentire?) e a uno strano stupa in mattoni, dalla forma insolita e bombata, non menzionato dalla Lonely Planet, che invece si fa notare. Si tratta della NGA-KYWE-NADAUNG, una struttura in mattoni a forma di bulbo, in cui la superficie esterna reca ancora le tracce di una invetriatura verde. L’originale doveva essere veramente una costruzione ad effetto!
Ci trasciniamo infine allo PAHTOTHAMYA, dove ci tratteniamo a lungo ad ammirare e fotografare i tanti affreschi che coprono interamente tutte le superfici interne. Sono molto deteriorati e l’ambiente è molto buio, illuminato com’è da poche finestre a griglia. Anche qui non è purtroppo permesso l’accesso al piano superiore.
Secondo la mia cartina, siamo giunti al termine della visita dei templi contenuti all’interno della vecchia cinta muraria: il sentiero però “suggerisce” un’ulteriore visita, quella al museo. Non hanno certo lesinato in ori e splendore per questa nuova costruzione in stile dove contenere il poco sopravvissuto a secoli di saccheggi nella piana di Bagan. Imponente, svettante, scintillante: il museo contiene parecchi Buddha, delle stele in discreto stato di conservazione, foto e dipinti dei templi in varie epoche… un sacco di spazio per poco contenuto. Inoltre, osservando l’edificio da vicino, ci si accorge di come i pochi anni di vita abbiano già lasciato un profondo segno: intonaci che si staccano, buchi nel soffitto, l’umidità che si affaccia qua e là, piastrelle scollate e che vengono ammucchiate negli angoli lasciando intere zone del pavimento con la soletta di cemento a vista. Evidentemente hanno creato un museo scenografico ma del tutto privo di concretezza. L’ingresso costa 5 dollari e sinceramente viene voglia di chiederli indietro.
Ormai stanchi, impolverati e provati dalla tanta strada percorsa oggi, non ci resta che trovare un tempio con accesso alla terrazza superiore dove attendere l’immancabile, imperdibile tramonto. Seguendo anche le istruzioni di qualche passante e bottegaio, che miracolosamente comprendono la nostra richiesta, superiamo le mura e ci rechiamo nella zona a sud della città, al tempio di MI-NYEIN-GON, dove con ampio anticipo ci prepariamo ad osservare la distesa dei templi visitati oggi che gradualmente si tingono di rosso.
Ottima cena in hotel, in riva al fiume, coi templi illuminati e un’aria decisamente frizzante a ricordarci che in fondo è inverno.
5/1/2007
Impossibilitati a continuare la visita a piedi, oggi optiamo per un’altra forma di slow visit: la carrozzella a cavallo. Fissiamo un forfait di 23 dollari per la giornata con una sosta di un’ora per permettere al cavallo di mangiare, e si parte. La prima parte del tragitto è piuttosto lunga e si svolge un po’ nei viottoli e un po’ sulla strada asfaltata che collega Old Bagan a Nyaung U, la zona dell’aeroporto e del maggiore centro abitato. Si ha una visione particolare di Bagan da questo mezzo di trasporto: è decisamente lento ma comodo, arieggiato e sinceramente non ci dispiace fare a meno anche oggi di un mezzo motorizzato.
Se ieri la “star” tra i templi visitati era stato Ananda, oggi questo ruolo spetta alla nostra prima fermata: il complesso della SHWEZIGON PAYA. Ieri abbiamo visto posti splendidi e suggestivi ma sicuramente questa pagoda d’oro a forma di campana e tutto ciò che la circonda mi colpisce particolarmente. Unisce alla magnificenza, l’intimità, e alla grandiosità, il gusto per il particolare curato. Scatto più foto qui che in qualunque altro tempio, perché dentro a ogni cappelletta trovo una statua dall’espressione particolare, e in ogni struttura distaccata, qualche soluzione decorativa differente. Inoltre qui è concessa la venerazione dei Nat, e già di per sé questo comporta immagini uniche e scatti pittoreschi.
Il tempio è preso d’assalto da parecchi gruppi ma la sua ricchezza e vastità disperdono la folla e lo rendono ancora più prezioso.
La tappa successiva è il KYANZITTHA UMIN, un piccolo tempio buio ricoperto di affreschi a cui fa seguito la WETKYI-IN, famosa per i dipinti trafugati da un tedesco ma che mi colpisce per gli intarsi nella pietra delle mura esterne e per l’insolita guglia in stile indiano che sembra storta.
Famosa per gli affreschi è anche l’UPALI THEIN, che visitiamo previa attesa del guardiano delle chiavi allontanatosi per la colazione. E’ un piccolo edificio interamente ricoperto di figurine, scene della vita di Buddha, Nat, veramente molto ben conservate. Purtroppo dove lo stato dei dipinti è buono, vige sempre il divieto per fotografare, anche senza flash, e so bene che senza testimonianza fotografica la mia memoria presto sarà satura e tenderà a dimenticare. Fortunatamente ho il mio prezioso libro.
Di fronte a Upali Thein sorge un altro tempio che invece difficilmente dimenticherò, grazie anche alle decine di foto che scatto: il HTILOMINLO PAHTO. E’ decisamente fotogenico infatti e discretamente conservato: Buddha dorati luccicanti, i soffitti decorati e i corridoi affrescati. Per non parlare della quantità di venditori all’esterno che a modo loro creano un ulteriore capolavoro con un collage di dipinti, marionette, pupazzi e sculture in legno e con l’incessante sottofondo musicale delle decine di campanelle appese agli alberi lì intorno. Un altro posto, a modo suo, magico.
Ed è già passata da tempo l’ora di pranzo: rientriamo lungo la Bagan-Nyaung U Road fino al solito ristorante al Tharaba Gate, dove noi ci rilassiamo un po’, lontani dalla strada, e dove il nostro cavallino trova un po’ di frescura all’ombra delle piante, per consumare il pasto che oggi si è sicuramente guadagnato.
Ci spostiamo poi a sud di Old Bagan per la visita della KUBYAUK-GYI a Myinkaba: esternamente non colpisce particolarmente, visto che poco per volta ci si abitua a tutti questi splendidi templi. Risaltano solo gli stucchi che decorano i muri perimetrali, ma è l’interno, la vera meraviglia, tutto ricoperto com’è da affreschi di ottima fattura, stato e qualità. Usciamo però molto frustati dal divieto assoluto di scattare foto, per l’ennesima volta. Alle nostre lamentele, il nostro “autista” decide di portarci in un tempio che a suo dire non prevede divieti. E’ così che ci troviamo di fronte allo splendore degli affreschi del LOKA-HTEIKPAN. All’esterno, l’estrema sobrietà del piccolo edificio e la sua collocazione leggermente defilata non preparano alla ricca iconografia, ai colori ancora vivaci, alle scene complesse, alle eleganti iscrizioni e alle centinaia di personaggi assiepati. Una vera festa per gli occhi e per il cuore.
Soddisfatti torniamo al nostro calesse per scoprire quale sia la pagoda designata per il rito del tramonto: dopo una breve sosta alla Shwesandaw, dalla quale fuggiamo atterriti di fronte alla folla di turisti che scende da parecchi autobus parcheggiati lì davanti, optiamo per un tempio minore ma decisamente più intimo, il THABEIK HMAUK. Il tempio, o quanto meno le sue pertinenze, sono abitate da una numerosa famiglia: i membri più giovani e una signora anziana si incaricano di illuminarci le scale che permettono l’ascesa alle terrazze. Non siamo molto in alto ma il sole si prepara a tramontare dietro un paio di cupolette, rendendo quindi la scena molto suggestiva. Poco per volta le terrazze si riempiono e assistiamo in relativo silenzio prima al rientro dei contadini dai campi che contornano le varie pagode, poi al lento incedere degli animali che raggiungono i loro ricoveri e infine al compiersi dell’atteso cerimoniale serale.
Il rientro è ancora più emozionante: ci allontaniamo rapidamente perché il buio non ci sorprenda ancora per strada mentre il rosso del cielo incendia letteralmente ogni singola costruzione che incontriamo sul nostro sentiero e ravviva meravigliosamente le cascate di bouganville che li adornano. Dopo i tanti affreschi ammirati oggi, anche la natura ci racconta una sua toccante storia di immagini e colori.
6/1/2007
Ultima giornata di Birmania. Il programma prevede altre ore di carrozzella (ieri ci è proprio piaciuto) e nel pomeriggio, qualche ora di jeep per la visita di templi più distanti e per il raggiungimento dell’aeroporto.
La prima sosta è alla pagoda 1689: non ha neanche un nome ma è un posto particolarissimo, trattandosi di uno stupa all’interno di uno stupa. Ci spiegano che i saccheggiatori, scavando alla ricerca di una camera segreta, vennero beffati scoprendo all’interno dello stupa una struttura identica.
La SULAMANI PAHTO è al risveglio, quando arriviamo: le tante bancarelle sono in allestimento e c’è ancora un’atmosfera ovattata che avvolge questa grande pagoda datata 1183, i suoi intarsi nella pietra e le tante pitture di stile e epoca diversa. Ci aggiriamo senza meta, osservando in doveroso silenzio.
Troviamo già una discreta folla invece alla DHAMMAYANGYI, imponente tempio riconoscibile in distanza per la sua forma vagamente piramidale: anche qui ci soffermiamo di fronte ai tanti Buddha dipinti e alla dominanza del colore rosso. Purtroppo le immagini si fondono con quelle di alcuni templi maggiori visitati ieri. E’ il rischio che corre chi ha poca preparazione specifica come noi, temo.
Torniamo poi al Tempio da cui siamo scappati ieri sera: la SHWESANDAW è la pagoda del tramonto e i venditori mi sembrano un po’ sorpresi dal nostro arrivo, così presto alla mattina. Il luogo ci guadagna molto, in assenza di folla, e anche qui ci godiamo la calma del post risveglio. Molti degli ambulanti non solo svolgono qui i loro traffici ma è evidente che qui ci vivono e dormono in capanne a accampamenti nei dintorni. Ammiriamo alcune pitture ma penso che oltre ai suoi tramonti la Shwesandaw si ricordi soprattutto per il gigantesco Buddha sdraiato alloggiato in una lunga struttura nel cortile del tempio stesso.
Lasciamo la zona del cosiddetto Gruppo Centrale per dedicarci al Gruppo Sud. Chiedo esplicitamente all’autista di formarsi alla MINGALAZEDI, che ricordavo come una delle pagode più belle dal mio scorso viaggio. Con mio sommo dispiacere, risulta chiusa: non solo non si può accedere ai piani superiori ma è proprio sbarrato l’accesso alla zona per rischio crolli. Paradossalmente ciò che mi intristisce di più è vedere i resti delle bancarelle abbandonate e il mio pensiero va a quelli che si erano conquistati il diritto di svolgere le loro attività qui e hanno dovuto lasciare tutto.
La MANUHA si differenzia nettamente da quanto abbiamo visto finora: è una struttura relativamente moderna e non viene da pensare che sia bella. Eppure a suo modo ci colpisce o quanto meno trasmette un messaggio. Deve infatti il suo nome a un re tenuto lungamente prigioniero: i tre giganteschi Buddha seduti e quello disteso oppressi dalle pareti incombenti della struttura che a stento li contiene, danno proprio l’idea della cattività. A breve distanza visitiamo la NAN PAYA, che non si capisce se sia stata la vera prigione del re o se si tratti di una leggenda. Comunque sia, l’edificio è suggestivo con l’interno buio solo parzialmente illuminato dalle piccole finestre e le mura in scura arenaria finemente scolpite. L’ambiente ricorda una segreta ma molto elegantemente decorata e sorvegliata da varie rappresentazioni di un Brahma a tre facce.
La NAGAYON si differenzia dalle altre pagode per i tanti Buddha, le figure danzanti, il buono stato di conservazione. Le pitture qui non sono ancora state recuperate ma si indovinano sotto la mano di bianco data in non si sa quale epoca. I sorveglianti ci dicono che però la maggior parte delle statue è stata portata al museo e quindi probabilmente quanto contenuto qui sono copie. Questo tempio, che deve il suo nome a un Naga che protegge un Buddha dorato, lo ricorderò per un altro tipo di rettile: il più grosso geko che abbia mai visto in vita mia: veramente enorme!
Ultima tappa del mattino è alla prospiciente ABEYADANA. L’Unesco ha effettuato dei lavori di restauro per salvare un ciclo di affreschi magnifici: qui predomina l’ocra a differenza degli altri in cui il rosso la fa da padrone, rendendo l’interno apparentemente più luminoso.
E’ già ora di rientrare in hotel per darci una rinfrescata, chiudere gli zaini e saldare il conto degli extra. Salutiamo il nostro cocchiere che ci cede a un suo amico, proprietario di una jeep antica, incaricato di accompagnarci nel tour pomeridiano ai templi della pianura meridionale, la zona est, e poi all’aeroporto.
Si nota subito che ci allontaniamo dalla zona più battuta dai turisti: anche il tempo sembra dilatarsi, qui, e le poche ore che ci separano dal nostro volo sembrano allungarsi. I templi sono più discreti, in questa zona: solo qualche cupoletta dorata, molta più vegetazione, pochissimi anche i contadini e i passanti. E quindi si rimane stupiti quando all’improvviso ti trovi di fronte l’imponenza della DHAMMAYAZIKA PAYA: come dimensioni rivaleggia con i maggiori complessi di Bagan; come originalità non ha eguali, vista la sua struttura pentagonale. Ma a me rimangono soprattutto negli occhi i bagliori dell’enorme stupa dorato a contrasto con il rigoglio di una buganvillea straripante. L’atmosfera è estremamente rilassante: mi soffermo a comprare anche qualche souvenir nelle botteghe lungo la breve via d’accesso, e diventiamo oggetto della curiosità di un nutrito gruppo di signore birmane in gita. Sostiamo poi lungamente in cima alle sue terrazze, tra le tante cupoline dorate e le piastrelle invetriate, a goderci il sole, la brezza e il meraviglioso panorama. Un pezzetto di Bagan per me imperdibile, uno dei ricordi più dolci.
Lasciamo veramente a malincuore questo angolo di Bagan per il LEIMYETHNA PAHTO, un tempio del tredicesimo secolo interamente imbiancato a calce e decorato internamente da eleganti affreschi. Mai prima avevamo notato una tale atmosfera di abbandono: le superfici non sono spazzate, la polvere alberga ovunque e la vegetazione si sta impossessando del cortile rendendo difficoltoso e doloroso il passaggio a piedi ovviamente nudi. In questa atmosfera si inserisce perfettamente il prospiciente edificio in mattoni a vista, massiccio, squadrato ma assolutamente storto, come se da un lato avessero tolto qualche fila di laterizi. Impressionante capolavoro di precario equilibrio.
Anche alla TAYOK-PYI ci arrampichiamo sul tetto per ammirare dall’alto questa suggestiva zona di Bagan ma purtroppo da qui si ha una vista ottima soprattutto su un’altra invenzione moderna per allietare noi turisti: una orribile torre di osservazione per abbracciare con lo sguardo la piana nel suo insieme dall’alto. Diciamo che l’unica nota positiva è che è stata posizionata vicino a New Bagan e all’aeroporto, all’estremità della zona dei templi e non al suo centro, cosa che già sorprende. Si tratta di un cono tronco su cui si avvita una scala, per raggiungere la sommità, sovrastata a sua volta da un tetto in stile. Il “trucco” non funziona e si vede perfettamente che è un falso, una costruzione moderna luccicante per via del tipo di copertura e per le grandi finestre che si aprono negli ultimi tre piani del cono. Orribile. L’autista neanche ci propone di andarci e del resto, guardandola da qui, non si vede assolutamente nessuno che ne usufruisca. Il solo pensiero che formulo in questo momento è che con tutti i templi sovrastati da terrazze disseminati per Bagan, a chi può essere venuto in mente di creare un così evidente e brutto falso?
Di fronte alla Tayok-Pyi sorge un tempio insolito, la PAYATHONZU: si tratta di tre santuari accostati, collegati da un unico corridoio e sormontati da tre guglie. Perfettamente decorato esternamente, l’interno presenta affreschi incompiuti. Ma noi siamo ormai ben oltre la soglia di saturazione e la mente non recepisce più immagini e forme. Anche la macchina fotografica mi sembra stanca, tanto che non scatto più foto. Ci trasciniamo letteralmente all’ultimo tempio del nostro soggiorno a Bagan, il NANDAMANNYA PAHTO, dove ci sforziamo, come tutti gli altri pochi turisti presenti, di individuare le figurette di nudo femminile, citate dalla Lonely Planet, che tanto avevano sconvolto un benpensante francese di inizio Novecento. A stento noto che lo stile pittorico di questi ultimi templi visitati si differenzia nettamente da quelli dei giorni precedenti e mi rammarico una volta di più di non conoscere nulla di questa arte dimenticata per secoli in questo remoto angolo di Asia.
All’esterno, l’ennesimo venditore di dipinti si lamenta con tutti i turisti, in un inglese comprensibile, che a lui è toccato in sorte questo tempio fuori dai normali circuiti e che quindi vende poco, sollecitando insistentemente un nostro acquisto. In sottofondo, l’ultimo ricordo che mi resta di Bagan: quello delle campanelle e dei gong che suonano un loro melodioso motivo nel leggero vento del tardo pomeriggio.
Raggiungiamo l’aeroporto ancora immersi in questa magia, intristiti per questo distacco, l’ultimo del nostro viaggio in questa magnifica, tragica terra. Ci aspettano una notte al Seasons of Yangon e qualche ora di passeggio per Bangkok, prima del nostro effettivo rientro in Italia.
E già ho la certezza che qui in Birmania tornerò.