Venezuela, l'essenza del Sudamerica - Parte I

Il Delta dell’Orinoco, un mondo a parte

Dedicato a:
- chi nella vita è pieno di sicurezze;
- chi è abituato a dare tutto per scontato;
- chi fa i programmi di viaggio convinto di rispettarli...

PREMESSA
Questo è un resoconto di viaggio tutto particolare: ha inizio infatti dai momenti conclusivi.
Ore nove locali del 10 aprile 2002: bagagli fatti da un pezzo, ci culliamo nelle amache sotto il patio della posada Granja El Ojito, contemplando la forte pioggia che da ore e ore scuote il palmeto e il mare antistanti. Siamo in anticipo di circa un mese sulla stagione delle piogge, ma sulla costa caraibica quando gli elementi si scatenano non è quasi mai uno scherzo.
Siamo in attesa del taxi che deve portarci all’aeroporto di Coro, una sessantina di chilometri a ovest; da lì alle 12 partirà il volo nazionale diretto a Caracas. La TV intanto continua a mandare in onda a reti unificate il faccione del presidente Hugo Chavez che minimizza gli effetti dello sciopero generale in corso da due giorni: tutto funziona come sempre, – afferma – i lavoratori lavorano, i negozianti negoziano, i trasporti trasportano, nei pozzi petroliferi le pompe pompano e così via.
Una telefonata di Francys, la solerte referente della Avior, alla reception della posada ci comunica che il nostro volo Coro-Caracas è stato cancellato (allora non proprio tutti i trasporti trasportano…). È però garantito quello delle 14, per assicurare a una ventina di passeggeri le coincidenze con i voli internazionali. Niente paura, ma un po’ di apprensione c’è, visto che da qualche giorno nelle nostre conversazioni commentavamo tra il serio e l’ironico che si respira atmosfera da colpo di stato. A mezzogiorno siamo prelevati dal taxi, raggiungiamo Coro, attraversiamo con qualche affanno la città allagata (gli impianti di drenaggio delle strade sono in Venezuela del tutto virtuali), il volo Avior parte regolarmente, così come il volo Air France Caracas - Parigi delle 17,05: insomma quando ci stacchiamo dalla pista dell’aeroporto di Maiquetìa, vale a dire dal suolo venezuelano, il nostro sospiro di sollievo è del tutto comprensibile.
Dopo poche ore il presidente Chavez sarà deposto, pur al prezzo di disordini sulle strade della capitale e di una dozzina di morti. Passeranno solo altri due giorni e lo stesso Chavez si insedierà nuovamente alla presidenza, comunicando nel suo discorso alla nazione che in prigione si è anche lavato i calzini (praticamente come noi per diciotto giorni…). E chi ci capisce qualcosa!
Un finale molto sudamericano per il mio primo viaggio in Sudamerica. Ma adesso che sono tornato a casa da tre giorni e ho, bene o male, smesso di litigare con il jet-lag, è il momento di riferire la storia dal suo inizio, a partire dalla...

ORGANIZZAZIONE DEL VIAGGIO
Il viaggio si è svolto dal 22 marzo all’11 aprile 2002 ed ha avuto come partecipanti il sottoscritto Leandro, l’amicone Walter (vedi Canada e Australia, già raccontati su Cisonostato) e Mario, per me conoscenza recente ma amico d’infanzia di Walter e suo compagno di viaggi “scomodi ma appaganti” in Argentina e Brasile.
La lettura attenta delle due guide Apa-Zanfi (ricca in particolare per la parte fotografica) e Lonely Planet (miniera di notizie ineguagliabile, non lo scopro certo io), nonché un bel po’ di materiale illustrativo raccolto alla B.I.T. dello scorso febbraio, ci ha consentito di individuare alcuni punti di interesse irrinunciabili. Abbiamo lasciato in fondo, in termini cronologici, gli itinerari meno significativi: è una definizione riduttiva, ma una scala di priorità bisogna pur farla. In altre parole, quando si visita per la prima volta un Paese, si dà la precedenza alle cose che non si incontrano in alcuna altra parte del mondo, in questo caso il Delta dell’Orinoco e le singolari montagne a tavolato (tepuis o tepuys) della Gran Sabana, da una delle quali precipita il Salto Angel, la cascata più alta del mondo.
Con un certo realismo, viste le esperienze di Sudamerica già fatte da Walter e Mario, avevamo messo in conto due o tre giorni complessivamente perduti per l’organizzazione degli spostamenti e delle escursioni: o meglio, più che perduti diciamo utilizzati, dato che si tratta comunque di conoscere come funziona un Paese per noi nuovo, parte importante dell’esperienza del viaggio. In realtà, nonostante qualche contrattempo, siamo riusciti a vedere tutto ciò che volevamo, con la ciliegina di un soggiorno finale di due giorni al mare.

CARATTERISTICHE GENERALI
Il Venezuela ha una superficie di circa tre volte l’Italia e presenta aspetti fisici e paesaggistici tra di loro profondamente differenti. A nord si estende una fascia costiera di quasi tremila chilometri affacciata sul Mar dei Caraibi, la cui parte a est di Caracas è una successione di località balneari molto frequentate, anche se le spiagge più alla moda sono nell’antistante isola di Margarita e il mare più bello nell’arcipelago di Los Roques; poco distante dal litorale si dirama la Cordillera della Costa, che a sua volta digrada a sud nel territorio dei Llanos che occupa un terzo del Paese: sono le pianure costellate dai cosiddetti hatos, fattorie circondate da immensi appezzamenti adibiti all’allevamento, nelle quali si può anche soggiornare per qualche giorno tramite prenotazione in largo anticipo e a cifre assai elevate. Il prolungamento centromeridionale del Venezuela (territorio Amazonas) è già parte della fitta foresta amazzonica. La parte occidentale comprende il vasto lago di Maracaibo, ormai zona di innumerevoli installazioni petrolifere, e il tratto costiero a ovest della capitale caratterizzato da alcuni bei centri storici ricchi di testimonianze del periodo coloniale; più a sud, ormai verso il confine con la Colombia, si eleva la Sierra Nevada di Mèrida, che con alcune cime sopra i 5.000 metri costituisce in pratica l’estrema propaggine settentrionale della Cordillera delle Ande.
La parte orientale del Venezuela è quella che, già dalle prime fasi della programmazione, avevamo individuato come la più peculiare del nostro viaggio e quindi da approfondire per prima: il Delta dell’Orinoco, la Gran Sabana, il Salto Angel e la Laguna di Canaima devono essere i punti fermi di ogni viaggio in Venezuela, e non deve scoraggiare il fatto che ci si deva parecchio dar da fare “sul campo” nell’organizzare gli spostamenti e le escursioni.Il Venezuela è situato tra i 12° e i 2° di latitudine nord, cioè non lontano dall’Equatore. Ne consegue che fa sempre decisamente caldo, in misura abbastanza costante nel corso dell’anno. Come si può immaginare, nel Delta dell’Orinoco è elevato il grado di umidità, resa però sopportabile da un po’ di ventilazione e da una provvidenziale escursione termica tra il giorno e la notte. Un buon criterio per scegliere il periodo di visita può quindi fare riferimento alle precipitazioni: la stagione secca va da dicembre ad aprile, mentre le piogge sono più frequenti nei restanti mesi. Per il turista si tratta quindi di decidere se rischiare di bagnarsi spesso ma vedere le numerose cascate al pieno della loro portata oppure accontentarsi di spettacoli meno grandiosi (comunque sempre emozionanti) in cambio di condizioni meteorologiche più stabili.
Tutti questi discorsi sono però meno categorici alla luce delle alterazioni climatiche degli ultimi decenni; infine non guasta augurarsi anche una certa dose di fortuna.PARTE PRIMA: IL DELTA DELL’ORINOCO

Venerdì 22 marzo 2002
Due voli Air France Genova-Parigi e Parigi-Caracas ci scaricano alle 15,45 nella capitale venezuelana in un pomeriggio a dir poco torrido: lo sbalzo rispetto alla primavera rivierasca che abbiamo lasciato è forte, con il contorno delle dodici ore di volo e le cinque di fuso orario. Il nostro volo interno per Puerto Ordaz è previsto alle 20,10, quindi, avendo scelto di portare solo lo zaino-valigia come collo a mano per risparmiarci la lotteria del ritiro dei bagagli, possiamo prendercela comoda.
Questo è quello che crediamo. La realtà è diversa e ci riserva subito una fila da esodo biblico ai varchi doganali; solo dopo mezz’ora e qualche vaga indicazione ci accorgiamo che esistono due code parallele, che noi ci siamo infilati nella fila dei residenti e che quella degli stranieri è più in là, anche se la consistenza non cambia di molto. Proviamo a fare i finti tonti e chiediamo a un addetto se esista un accesso separato per chi possieda un biglietto di proseguimento con volo nazionale. Veniamo vagamente indirizzati (“chiedete un po’ lì…”) al varco dei tripulantes (cioè il personale di volo), da qui a quello adiacente dei diplomaticos; insomma fa caldo e nessuno ha troppa voglia di dirci che sono percorsi preferenziali, d’altronde si fa prima a piazzare un bel visto di ingresso sul passaporto che a dare spiegazioni e passiamo senza nemmeno il controllo del bagaglio. Eccoci diventati diplomatici: una prima lezioncina su come funziona il Sudamerica.
La seconda ci viene impartita subito dopo all’Ufficio Cambio. Con l’occasione anticipo una notizia pratica per chi voglia recarsi in Venezuela: nonostante le guide di viaggio indichino i prezzi di alloggi, spostamenti ed escursioni in dollari americani, non si dia per scontato che i bigliettoni verdi siano accettati dovunque, anzi è più frequente il contrario, specie nei piccoli centri. Anche se il bolìvar è una valuta estremamente instabile e di certo meno appetibile del dollaro, conviene non rimanerne mai sprovvisti.
Il cambio che viene praticato oggi è di circa 880 bolìvares per un dollaro e bisogna fare attenzione perché agli sportelli tendono ad arrotondare per difetto con la scusa della mancanza di spiccioli ma in realtà giocando sulla poca confidenza dei nuovi arrivati con la valuta per mettere insieme un gruzzoletto che nell’arco di una giornata può anche essere consistente: si tratta di meno di un euro in tre su un totale di 300 dollari, ma non intendiamo rinunciarci, così finisce che saltano fuori anche le monetine.
Il vialetto che porta dal settore internazionale a quello dei voli domestici è lungo non più di trecento metri, ma sono sufficienti per farci un’idea della parte più degradata di Caracas, che vediamo addossata alla collina che sovrasta la città: una sequenza ininterrotta di misere baracche di fango, tavole, cartone e lamiere che qui prendono il nome di ranchitos e sono l’equivalente delle favelas brasiliane, il tutto a fare da contrappeso con la fitta foresta di grattacieli che caratterizzano la skyline cittadina.
Effettuato il check-in nazionale, ci sistemiamo in sala d’attesa, dove abbiamo il primo contatto con la televisione venezuelana; quando non c’è in onda un discorso del politico di turno o una telenovela (non c’è molta differenza…), vengono diffuse interviste ai vincitori delle innumerevoli lotterie statali o private di cui gli abitanti di questo Paese sono dei veri fanatici.
Il volo interno della Aeropostal parte puntuale alle 20,10 e ci scarica sul suolo di Puerto Ordaz dopo poco più di un’ora. A bordo c’è anche il tempo per la nostra prima cena venezuelana: spezzatino con riso e verdure, quasi buono.
In realtà ci troviamo a Ciudad Guayana, risultato della fusione nel 1961 delle due cittadine di Puerto Ordaz e San Felix; aggregazione del tutto nominale, tanto che in tutti gli orari degli aerei (la prima) e delle autocorriere (la seconda) continuano a figurare i nomi originari delle due località.
Abbiamo scelto di spingerci fin qui già dal primo giorno per tre ottimi motivi: evitare di entrare in Caracas, distante una ventina di chilometri dall’aeroporto, solo per pernottare spendendo probabilmente parecchio; guadagnare in questo modo una buona mezza giornata; partire domattina stessa per Tucupita, cittadina a circa 160 km. da qui e considerata la vera “porta” su quel mondo a sé che è il Delta dell’Orinoco.
Come sempre in occasione di viaggi lunghi, anche questa volta abbiamo già fissato via fax il primo pernottamento. La scelta è caduta sulla Residencia Tore, una posada a gestione familiare in zona tranquilla, molto frequentata in quanto raccomandata dalla “Lonely Planet”. Spendiamo complessivamente 53 dollari per due camere con servizi, aria condizionata e prima colazione.

Sabato 23 marzo 2002
Cominciamo la giornata con la colazione, servita nella bella veranda fiorita della Residencia Tore, un accogliente edificio con muri bianchi a un solo piano di atmosfera coloniale circondato da vialetti alberati. Tramite la cortese mediazione del proprietario della posada, concordiamo il trasferimento a Tucupita con un taxi per 38.000 VEB.
Il tassista, Jaime, ci carica puntuale alle 8,45 e non tarda, con la consueta comunicativa che riscontreremo nei venezuelani nel corso dell’intero viaggio, ad attaccare discorso sui temi più svariati, dalla politica allo sport agli immancabili parenti di origine italiana. Superata San Fèlix, è previsto l’attraversamento in traghetto del fiume, proprio nel punto in cui il Rio Caronì confluisce nell’Orinoco: la mescolanza non è immediata, in quanto si distingue lo stacco netto con il colore assai più scuro delle acque del Caronì che per alcuni chilometri scorre parallelo nello stesso alveo del fiume principale dando luogo a uno spettacolo inconsueto.
Le due rive del fiume distano in questo punto poco più di due chilometri, ma la sua larghezza massima raggiunge in certi punti i venti. C’è anche da notare che, un centinaio di chilometri a sud prima di immettersi nell’Orinoco, il Caronì forma l’Embalse (invaso) de Guri, un vasto lago artificiale che alimenta la seconda centrale idroelettrica più grande del mondo, dopo quella di Itaipù sul confine tra Paraguay e Brasile.
Il traghetto costituisce un piccolo universo a parte, una specie di “corte dei miracoli” in cui si dà da fare, durante i pochi minuti della traversata, una variegata umanità di pulitori di vetri, accattoni, sfaccendati, venditori di souvenirs, artigianato, bevande, viveri, sigarette, accendini, occhiali da sole finto-firmati, orologi-patacca, compact discs rigorosamente “taroccati”. Io acquisto da una vispa india un sombrero intrecciato in fibre di moriche, la tipica palma che costituisce una delle principale risorse delle popolazioni del Delta (lo dimenticherò, con grande rimpianto, su un taxi di Ciudad Bolivar). Jaime ci offre invece una delle specialità locali vendute in sacchetti di cellophan, i tostones, croccanti fettine di banana (platano) che vengono fritte prima che il frutto maturi, cosicché il loro sapore è salato anziché dolce rendendole del tutto simili alle patatine: non si smetterebbe mai di mangiarne.
La strada che porta a Tucupita è il campionario di tutte le carrozzabili che percorreremo nei prossimi diciotto giorni: a una nostra domanda sullo stato della carretera, la risposta era stata "Normal". Normal significa quindi manutenzione approssimativa, segnaletica minima, frequenti buchi nell’asfalto che costringono a brusche sterzate, sorpassi da ritiro della patente (ma ce l’avranno tutti?), automezzi che procedono disinvoltamente contromano, gente che cammina tranquilla in mezzo alla strada, di tanto in tanto veicoli parcheggiati dove capita con gomme forate o motori fusi. Cominciamo a congratularci di non avere optato per un’auto a noleggio.
In una breve sosta presso un chioschetto, Jaime ci fa provare un altro stuzzichino tipico, le cachapas, spesse frittelle leggermente dolci fatte con mais fresco tritato grossolanamente: un altro spuntino decisamente gradito. Noi ricambiamo con un giro di birre.
Eccoci a Tucupita verso mezzogiorno; abbiamo una meta ben precisa, la Delta Surs, una delle sei-sette agenzie cittadine che operano nel Delta Amacuro (questo è il nome esatto del Delta dell’Orinoco, anche se l’Amacuro non è che un fiume secondario del settore meridionale).
Abelardo Lara, che gestisce il servizio con la moglie Beatriz, la bella figlia e alcuni collaboratori, è piazzato con la sua ingombrante mole al centro del piccolo ufficio; dà quasi l’impressione di essere lì ad aspettarci. Abelardo è un indio warao (scritto anche guarao) di 58 anni; i suoi antenati Guaranì avevano fama di essere una delle più bellicose popolazioni del Sudamerica, con la gaia consuetudine di soppiantare quelle limitrofe mangiandosi coloro che opponevano resistenza. Lui non segue più la discutibile dieta degli avi, in compenso spenna i turisti di 220 dollari a testa (ridotti a 200 dopo trattativa) per un tour di tre giorni nel Delta comprensivo dei pasti e dei pernottamenti. Il programma del tour ci viene esposto evidenziando i vari punti di interesse su una dettagliatissima mappa della zona che occupa quasi un’intera parete: abbiamo la conferma che ci troviamo a che fare con un vero e proprio labirinto acquatico. Davanti alla cifra richiesta, ci prendiamo un po’ di tempo, ma Abelardo, con la sua fragorosa risata, ha capito che torneremo: sa (e lo sappiamo anche noi, grazie alla Lonely Planet) che la sua agenzia è l’unica che porta i viaggiatori fino all’estremità sud-orientale, la più selvaggia, del labirinto di caños (rami) che caratterizza la foce dell’Orinoco: laggiù la Delta Surs gestisce in esclusiva il “campamento” di San Francisco de Guayo. Una buona referenza è il fatto che anche “Avventure nel Mondo” si sia più volte appoggiata a lui.
Gli altri operatori della città, come quelli di località quali Maturìn, Barrancas, Piacoa o Uracoa, vendono escursioni di raggio più limitato, vale a dire nell’ambito del Caño Mànamo (il più occidentale che sbocca nel Golfo di Paria all’altezza di Pedernales, ormai zona di installazioni petrolifere) e qualche sua diramazione; in altre parole, l’itinerario proposto dalla Delta Surs, anche se un po’ faticoso per la lunghezza, consente la conoscenza delle zone più remote del Delta e il contatto con le comunità indigene più lontane dalla (cosiddetta) civiltà.
Vista però la situazione in continua evoluzione di un’offerta turistica che ogni giorno può vedere l’ingresso nel mercato di nuovi operatori o la scomparsa di altri (più o meno in regola e affidabili), non posso escludere che, mentre sto scrivendo, programmi analoghi vengano proposti anche da altre agenzie.
In attesa della riapertura pomeridiana dell’agenzia, ci sistemiamo all’Hotel La Rivera (buono, in questo contesto) spendendo 30 dollari per una camera a tre letti; poi ci rimpinziamo in uno dei tanti pollo en brasas (forse il migliore di tutto il viaggio) con abbondante contorno per la ridicola cifra di 6.000 VEB totali (meno di 7 euro) comprensivi di due bevande a testa; infine ci diamo alla scoperta di Tucupita.
La cittadina (60.000 abitanti) ci dà un’idea piuttosto esauriente della tipologia di tutti i piccoli centri che incontreremo: traffico disordinato, parco macchine composto in prevalenza di antiquate Cadillac, Lincoln, Chevrolet o Ford che riescono a circolare miracolosamente, molti taxi, utilizzati anche dai locali in quanto economici e perché non tutti possiedono l’auto privata, case per lo più a uno o due piani spesso tinteggiate vivacemente, negozi e botteghe ciascuno con il proprio impianto di diffusione sonora a tutto volume, una miriade di botteghini delle numerose lotterie, problemi di approvvigionamento idrico, impianti elettrici a cielo aperto da far accapponare la pelle. Inoltre parecchia sporcizia, vista l’assenza di un servizio di smaltimento con conseguente proliferare di discariche spontanee in ogni luogo appena un po’ fuori (ma neanche tanto) dall’abitato: ma durante il periodo delle piogge provvedono le piene del Caño Mànamo e di un piccolo immissario (ora quasi in secca) a un’economica operazione di pulizia! E quanto quelle piene possano essere impetuose lo prova l’altezza esagerata dei marciapiedi e la profondità delle cunette che li separano dalla sede stradale: prestare molta attenzione (data anche la poca illuminazione) in caso di passeggiate serali!
Infine, qui come altrove, è impossibile non imbattersi in Simon Bolìvar, per completezza Simon Josè Antonio de la Santisima Trinidad Bolìvar, El Libertador, l’eroe nazionale venezuelano ma anche sudamericano (pure gli Inti Illimani cantavano "Simon Bolìvar, Simon, caraqueño americano…”). Lo si trova presente dovunque, come titolare di una Plaza, di una Calle, di un’Avenida o di un Paseo, immortalato come monumento o raffigurato su murales con la sua immagine, scene delle sue battaglie o sue citazioni. Qui a Tucupita l’affresco che decora un’abitazione (ovviamente di Calle Bolìvar) riporta passi di suoi discorsi tra i quali spicca ad esempio questo del 1825: “Mas hace en un dia un intrigante que cien hombres de bien en un mes” (Fa di più un intrigante in un giorno che cento uomini per bene in un mese). E poi, qui tutto è bolivariano: tanto per cominciare, ci troviamo nella Republica Bolivariana de Venezuela, una scuola sarà sempre Escuela Bolivariana, un qualunque istituto sarà Istituto Bolivariano, una associazione sarà Asociaciòn Bolivariana, e così via. Tutto ciò è comprensibile, dato che si tratta di un personaggio straordinario, probabilmente il più importante, con Ernesto Che Guevara, della storia dell’America Latina.
Torniamo alla Delta Surs, che ha appena riaperto, verso le 16. Davanti all’agenzia c’è un’auto con carrello sul quale un paio di meccanici stanno armeggiando attorno a una barca e al suo motore: mi sa che stanno lavorando per noi, l’avevo detto che Abelardo era sicuro del nostro ritorno! Essendo bassa stagione, saremo gli unici a effettuare l’escursione: una conseguenza è che non riusciamo a ottenere neanche un cent di sconto e ci tocca sborsare i 600 dollari pattuiti. Domattina alle otto un’auto ci preleverà dall’hotel per portarci all’imbarco.
[Inserisco un piccolo inciso: il prezzo di questa escursione (450.000 vecchie lirette a persona) al momento ci è sembrato eccessivo e può sembrarlo a qualunque lettore. Ma di ritorno dal Venezuela ho fatto un’indagine in Internet che consiglio anche a voi: digitate “Delta Orinoco” in un qualunque motore di ricerca (io l’ho fatto con Google), entrate nei siti dei numerosi operatori che offrono servizi simili, fate un po’ di confronti e vi accorgerete che quasi tutti chiedono ben oltre 200 dollari a testa per tour di tre giorni, per di più in settori del Delta meno significativi].
Utilizziamo il resto del pomeriggio recandoci al terminal delle autocorriere per informarci sulle partenze in direzione sud (Santa Elena de Uairèn) al nostro ritorno in città fra tre giorni, ma dopo le 17 agli sportelli delle poche compagnie aperte non c’è nessuno in grado di darci indicazioni. Dovremo farci l’abitudine, non a caso una delle risposte più frequenti è il flemmatico “mañana por la mañana” (più o meno: per domani ne parliamo domattina).
Ci imbattiamo anche nella “Aventura Turistica Delta” (anch’essa citata dalla Lonely Planet), dove entriamo, non fosse altro per la curiosità di confrontare prezzi e itinerari con il pacchetto che abbiamo appena acquistato, ma è presente solo un ragazzino che, in assenza dei titolari, non sa dirci niente.
Rientrati in albergo, di lì a poco sentiamo bussare alla porta della camera: è l’impiegata dell’agenzia visitata poco prima, che ci chiede se siamo interessati alle loro escursioni. Ringraziamo dicendo che abbiamo già provveduto.
Pensate un po’: pur non sapendo in quale dei 6 hotel cittadini eravamo alloggiati, non hanno tardato a rintracciarci. Allora è vero quanto dicono le guide: anche se non li cerchi ci pensano loro a trovarti, specie in un giorno nel quale probabilmente siamo gli unici stranieri (nonché ambite fonti di guadagno…) in tutta Tucupita!

Domenica 24 marzo 2002
Let me sail, let me sail, let the Orinoco flow”: così canta Enya in una delle sue più belle interpretazioni. Lasciami navigare, lascia che l’Orinoco scorra.
Magari non in musica (ci mancherebbe solo questa!), ma a questo punto devo anch’io dire qualcosa sull’Orinoco, il Grande Fiume del quale ci apprestiamo a penetrare gli angoli più estremi. Dopo un corso di 2.150 chilometri, l’Orinoco sfocia nell’Atlantico con un delta che, esteso per 25.000 kmq e ramificato in numerosi caños, è il secondo del continente dopo quello immenso del Rio delle Amazzoni. Il Delta è in continua espansione, in quanto prodotto dal deposito dei sedimenti che il fiume raccoglie lungo il suo corso e porta verso il mare. È soggetto anche a dislivelli e maree non indifferenti, tanto che nella stagione delle piene l’acqua dolce “spinge” al largo quella salata dell’oceano per circa 25 chilometri e, anche se in misura minore, viceversa nei periodi di magra. L’alternanza dei regimi di portata, più che alla consistenza dalle piogge, è legata alle situazioni climatiche del tratto superiore del fiume e dei numerosi affluenti.
Prelevati puntualmente dal taxi, facciamo sosta alla Delta Surs e all’adiacente casa di Abelardo, dove lasciamo in custodia i bagagli. Porteremo con noi solo lo zainetto con tutto ciò che è sufficiente per i tre giorni di vita spartana che ci attendono.
Raggiungiamo poi il luogo di partenza, una ventina di km. a sud di Tucupita: siamo in località El Volcàn, quattro case, un emporio, una stazione di servizio e uno spiaggione di sabbia rossastra disseminato di ruderi di barche e di un paio di navi mercantili in disfacimento. Per accedervi bisogna prima passare al comando della Guardia Nacionàl, dove vengono registrati i passaporti di tutti i partecipanti alle escursioni.
Oltre ai relitti e ad altre imbarcazioni, ci sono anche le due barche intorno alle quali sono affaccendati Abelardo, Beatriz, un loro nipote di una decina d’anni e i due motoristi. Una lancia stretta e lunga in legno caricherà Beatriz, il nieto e un carico di provviste destinate al campamento di San Francisco de Guayo al quale siamo diretti; noi viaggeremo invece con Abelardo sulla “Betty”, una bagnarola piatta e larga che ha vissuto tempi migliori dotata di un motore della stessa era.
I preparativi stanno andando per le lunghe, vista la mancanza di un pezzo non ben definito del motore stesso, che però sta per arrivare. Quando? “Ahorita”.
È arrivato il momento di parlare di questo sibillino vocabolo e di tutta la filosofia di vita che gli ruota attorno, con la quale deve essere pronto a misurarsi chiunque venga in Venezuela (ma presumo anche in buona parte del Sudamerica). È facile intuirlo, si tratta di un diminutivo di ahora, che significa “adesso”. Come dire che, per attenuare il senso di immediatezza di un avverbio definitivo come “ahora”, si sono inventati “ahorita”: così la connotazione temporale risulta sfumata, più elastica, meno impegnativa, e il significato è “adesso, ma non proprio subito”, cioè un momento compreso tra l’immediato e un futuro, secondi, minuti, od ore che siano. Ad esempio, se vi dicono che un’autocorriera parte ahorita, andate pure in bagno o a mangiarvi un’arepa con una birra: quando tornerete sarà ancora lì e ci scapperà anche il tempo per un caffè e una chiacchierata con l’autista.
Sulle prime, abituati come siamo noi europei alle frenesie, alle tensioni, al rispetto degli orari e degli impegni, si può rimanere indispettiti o avere la sensazione che ci provino gusto a ostacolarci; ma alla lunga ci si rende conto che i problemi ce li creiamo noi e che forse, con questa interpretazione meno affannosa della vita, hanno proprio ragione loro. Non solo, nel corso dei giorni successivi ci accorgeremo che in un modo o nell’altro tutti i contrattempi in cui ci imbatteremo finiranno per risolversi da soli, magari in maniera imprevedibile e sorprendente.
Sta di fatto che il pezzo mancante arriva un po’ dopo l’ahorita presunto e inganniamo il tempo cercando di imparare il funzionamento del GPS (navigatore satellitare) tascabile che Mario si è comprato poco prima della partenza e che da tre giorni non molla un solo istante dalle mani come farebbe un bambino con un nuovo giocattolo.
Si parte alle dieci percorrendo a tutta birra il primo tratto dell’ampio Caño Mànamo, ma cominciamo a sospettare che difficilmente arriveremo a San Francisco de Guayo, come programmato, per l’ora di cena. Il sospetto diventa certezza dopo meno di un’ora, quando una brusca impennata dell’imbarcazione ci fa capire che il motore si è piantato in un banco di sabbia, con conseguente entrata della medesima nel medesimo. Dopo infruttuosi tentativi di riavviarlo, non possiamo fare altro che accostarci a una vicina spiaggetta e aspettare la lancia delle provviste, che giunge di lì a una mezz’ora. Diamo una mano a trasferire sulla “Betty”, nel frattempo attraccata al piccolo molo di un gruppo di capanne, una parte del carico corrispondente più o meno al peso di noi tre e traslochiamo sulla lancia con Beatriz, il nieto e l’altro motorista; intanto Abelardo e il suo meccanico cercheranno di rimettere in sesto il motore per poi raggiungerci con le provviste.
Riprendiamo così la navigazione a spron battuto: questa barca è più slanciata, di forma certamente più idrodinamica e ha un motore più potente, che consente, GPS di Mario alla mano, punte di velocità di 45 km/h. In compenso, essendo più bassa e stretta, risulta quasi impossibile ripararsi dagli spruzzi d’acqua che arrivano da ogni lato in un continuo susseguirsi di scossoni, anche perché, a differenza della “Betty”, è priva di vetro parabrezza. Ma fa molto caldo, quindi la cosa in fondo non dispiace. Un po’ meno piacevole è il diluvio che si scatena di lì a poco, che ben presto si gira in grandinata: cerchiamo riparo sotto il telone in plastica che copre il carico, accovacciandoci in compagnia di cartoni di birre e derrate alimentari assortite, ma serve a poco e per una buona mezz’ora non capiamo se abbiamo più acqua sotto o sopra di noi. Pare che sull’Orinoco si sfoghino piuttosto di frequente queste bizze meteorologiche, peraltro di breve durata.
Finalmente il temporale cessa lasciando il posto a uno splendido sole e quando, verso le 14, attracchiamo per pranzare sotto una tettoia di frasche presso una piccola comunità di indios, siamo quasi del tutto asciutti. La riva è in questo tratto piuttosto rialzata e possiamo apprezzare dall’alto l’ambiente fluviale che è qui caratterizzato da canneti, alti banani e palme moriche; lo spezzatino con riso, yucca e fagioli neri che Beatriz ci ha mantenuto caldo nella borsa termica equivale in questo scenario a un pranzo da re.
La navigazione prosegue poi in un’alternanza di caños larghi chilometri percorsi da correnti che fanno sobbalzare la lancia e di altri che non superano i dieci metri di ampiezza, caratterizzati da mangrovie, liane, piante acquatiche, fiori coloratissimi e vegetazione tropicale, il tutto con la colonna sonora di versi assortiti di animali. Più difficile riuscire a vederne: frequenti trampolieri simili agli aironi, qualche pappagallo, enormi farfalle azzurre che sembrano di metallo, di tanto in tanto qualche rapace in quota.
Intanto si cominciano a scorgere gli insediamenti su palafitte tipici del Delta, alcuni limitati a una o due churuatas (capanne), altri già paragonabili a piccoli villaggi. Da quando l’Uomo occupò la regione, queste comunità continuano a vivere sul fiume e del fiume: non c’è infatti motivo di stanziarsi più all’interno allontanandosi così dall’acqua che fornisce di che nutrirsi, bere e lavarsi. Ed è anche molto più scomodo spostarsi nella fitta vegetazione che non per via acquea sulle curiaras, le agili canoe costruite scavando e poi modellando con il calore del fuoco i tronchi d’albero. Fu proprio questa tipologia abitativa che indusse Alonso de Ojeda, entrando nel Lago di Maracaibo nel 1499 con Amerigo Vespucci, a battezzare la nuova terra Venezuela, nel senso di “piccola Venezia”.
Ovviamente la civiltà è ormai giunta dappertutto e non bisogna aspettarsi di vedere indios nudi con l’astuccio penico, il naso o le labbra trapassate da ossa animali appuntite, la faccia dipinta e magari a caccia di pesci con la cerbottana. Realtà di quel tipo sono forse sopravvissute solo in qualche angolo remoto della foresta amazzonica. Le comunità del Delta, spesso sorte intorno a una missione, vengono periodicamente rifornite dei generi di consumo non reperibili localmente (anche la nostra barca assolve, come vedremo, a questo compito), alcune canoe sono dotate di motore, l’energia elettrica, per quanto precaria, è già arrivata da un pezzo e tra le palme ce n’è qualcuna che ha la curiosa forma di antenna televisiva.
Intorno alle 17 accostiamo nuovamente per la sosta più importante della traversata. Sbarchiamo così nella comunità Curiapo, di cui è originaria Beatriz, che qui tutti chiamano affettuosamente “abuela” (nonna). A questo insediamento, che con un migliaio di abitanti è uno dei più popolosi, è destinata una buona parte delle provviste che abbiamo trasportato; la sosta è anche occasione per reintegrare il carburante della lancia mentre Beatriz passa in rassegna per i saluti un’interminabile sequela di parenti, dai primos (cugini) ai cuñados (cognati) ai nietos (nipoti di nonno) ai sobrinos (nipoti di zio), in pratica quasi l’intera popolazione. Nel frattempo un ragazzo ci guida a fare un giro nella comunità, che è una delle più evolute fino a darsi una parvenza di struttura urbanistica: si estende infatti anche all’interno della sfilata di capanne che prospettano sul fiume, su un terreno che è stato disboscato e spianato. Sono state anche ricavate strutture comuni quali una scuola, una biblioteca, un campo da pallacanestro, un piccolo parco giochi, un circolo ricreativo (naturalmente bolivariano) e un centro sociale per le donne, il tutto con uso prevalente di tavole in legno in qualche caso dipinte, già un passo avanti rispetto ai rami di palma e ai tronchi grezzi delle capanne. Resta il fatto che, anche se la famiglia di Beatriz si permette il lusso di una toilette privata, tutti i rifiuti vengono comunque gettati sotto le palafitte, confidando nella periodica opera di pulizia del Grande Padre Orinoco.
Omaggiati di un morocoto, grosso pescione piatto che costituirà il pranzo di domani, lasciamo la comunità Curiapo dopo circa un’ora. Vicini all’Equatore come siamo, il tramonto ha una durata brevissima e ben presto ci troviamo a navigare nell’oscurità: meno male che la temperatura è gradevole, c’è la luna quasi piena e il motorista indio pare conoscere a menadito anche al buio l’intrico di caños nel quale dobbiamo districarci.
Qualche dubbio sulla sua perizia ci viene però quando, in prossimità di un isolotto, rallenta l’andatura e si mette a percorrere più volte in un senso e nell’altro lo stesso specchio d’acqua puntando la pila verso quella che sembra un’unica muraglia di vegetazione. I nostri reciproci sguardi muti sottintendono pensieri del tipo “Stai a vedere che ci siamo persi e non riesce a trovare il passaggio giusto…” o “Siamo in mezzo a un fiume di notte su una barchetta stracarica a ottomila chilometri da casa in balia di una banda di irresponsabili...” oppure “Ho capito, ci tocca dormire qui…” fino a “Ma… com’era il contratto: siamo noi che paghiamo loro o loro che pagano noi?…”.
Capiamo finalmente che la realtà è molto più semplice: in effetti siamo a breve distanza dal piccolo caño, già individuato, che dobbiamo imboccare, ma è il momento della marea più bassa, tant’è vero che il meccanico scende per spingere la barca a mano in un tratto in cui l’acqua gli arriva alle cosce (ed è un uomo alto meno di un metro e sessanta). La chiglia si adagia infine morbidamente su un banco di sabbia: non possiamo fare altro che aspettare circa un’ora, fino a quando cioè il livello del fiume riprenderà a salire.
Evidentemente stiamo già assimilando anche noi la filosofia del ahorita e del mañana por la mañana: sarà per il silenzio irreale che ci circonda, per le condizioni climatiche ideali, per la calma assoluta dell’acqua, per il senso dei grandi spazi che il fiume e il cielo stellato trasmettono, per l’imperturbabilità del motorista rannicchiato a poppa e per la serenità della abuela che tiene in braccio il nieto addormentato, insomma a poco a poco ci accorgiamo che è del tutto irrilevante sapere dove siamo, a che distanza è la meta o che ore sono. È diventata una dimensione del tutto estranea ad ogni valutazione di tempo e spazio, da gustare in ogni sua sfumatura.
Infine la marea fa alzare l’acqua quel tanto che basta per scivolare con cautela al di là del banco di sabbia e immetterci nel caño giusto che in effetti è assai stretto, finché dopo qualche meandro la barca sbocca in un ramo più ampio e rettilineo: ancora pochi minuti e in lontananza cominciamo a scorgere sulle due rive una sfilata di lucine. Sono le palafitte che compongono la comunità di San Francisco de Guayo, una specie di presepio fluviale fuori posto e fuori stagione il cui scenario ci regala però suggestioni indescrivibili. Pochi chilometri più a est c’è il mare aperto, l’Oceano Atlantico.
Sono le 23 quando accostiamo e saliamo, un po’ rattrappiti, sul molo del “Maraisa Camp”, mescolando gli scricchiolii della scaletta in legno a quelli delle nostre giunture: al netto delle soste abbiamo navigato per 11 ore coprendo per vie d’acqua, come riporta il GPS di Mario, la sciocchezza di quasi trecento chilometri!
Abelardo è già arrivato da un po’ e viene ad accoglierci avvolto in un accappatoio giallo e con un variopinto pappagallo appollaiato sulla spalla: di certo ha preso delle scorciatoie, ma ha avuto il tempo di ripulirsi e di cenare, segno che evidentemente avevamo sottovalutato le risorse della “Betty” e del suo precario motore!
Al suo “Amigos, bienvenidos en el Delta!” io replico in una approssimativa mescolanza di lingue: “Hai mica un deretano e una spina dorsale di ricambio?” La sua proverbiale risata mi fa capire che ha capito, mentre ci conduce al tavolo dove è appena stata imbandita un’abbondante cena.

Lunedì 25 marzo 2002
Dopo una notte di riposo, siamo svegliati da una splendida giornata di sole che ci permette di farci un quadro del luogo nel quale ci troviamo. Il Maraisa Camp, gestito in esclusiva dalla Delta Surs, è un campamento edificato con lo stile e con i materiali adottati dalle comunità più evolute, vale a dire assi in legno per le pareti e rami di palma per i tetti delle varie unità abitative e del corpo centrale. Perpendicolarmente a questo, che comprende un vano con il lungo tavolo da pranzo che confina con la cucina e una veranda sul fiume dotata di amache, si dirama una passerella che porta a dieci churuatas (cinque per parte), ciascuna dotata di due letti e bagno. Il tutto è appoggiato su un sistema di palificazioni che sorregge il complesso un paio di metri sopra il livello dell’acqua.
Oltre ad Abelardo, Beatriz e i due motoristi, collaborano alla gestione altri tre o quattro indios, tutti dell’etnia warao che è quella preponderante nel Delta.
Io, Mario e Walter siamo, come già detto, gli unici ospiti. Ci troviamo infatti in bassa stagione, tant’è vero che ci sono in corso lavori di sostituzione di parecchi pali e di pezzi di copertura dei tetti; fuori servizio è al momento (anzi, ahorita...) anche l’impianto idraulico, sostituito da un paio di bidoni d’acqua in ogni capanna (acqua che, anche funzionando la pompa, sarebbe comunque quella del fiume).
Fatta colazione, cogliamo l’occasione per stendere al sole gli abiti ancora umidi e il contenuto degli zaini che, nonostante le precauzioni prese durante la lunga navigazione di ieri, si è bagnato praticamente tutto (salvo l’attrezzatura fotografica, per fortuna custodita in sacchetti di plastica).
Verso le nove ci imbarchiamo sulle due curiaras per un’escursione nei caños circostanti: su una ci sistemiamo io e Mario, sull’altra Walter, più ovviamente i due indios che da poppa governano ciascuna imbarcazione con un largo remo che consente di procedere con uno sforzo minimo. Anche noi, più che altro per ragioni fotografiche, diamo di tanto in tanto qualche pagaiata con un altro remo, ma non insistiamo più di tanto, visto che il pelo dell’acqua è a non più di dieci centimetri dal bordo laterale e solo un vogatore esperto riesce a mantenere stabile l’assetto delle canoe senza allagarne l’interno. Ci insinuiamo in rami talmente stretti da dubitare di trovare un varco tra i grovigli di mangrovie e di radici emergenti e non è raro rasentare il fondale, per fortuna sabbioso. In un paio di punti capita di navigare letteralmente al di sopra di uno spesso strato di piante acquatiche: per riuscire ad avanzare ci tocca spostarci in avanti in modo di appesantire la prua e superare così l’ostacolo. Si incrociano di tanto in tanto altre canoe di indigeni intenti alle occupazioni quotidiane, per lo più pesca o trasporto di provviste; proprio da uno di questi “fornitori” Abelardo si era poco prima della partenza approvvigionato di una cesta di yucca, i tuberi che fanno da gustoso contorno a quasi tutti i piatti.
A metà gita sbarchiamo per fare visita agli abitanti di una palafitta. Il padrone di casa è un olandese di mezza età che si è stabilito qui da un sacco d’anni (quale motivo può spingere una persona a una scelta di vita così radicale?); passa il tempo coltivando un po’ di terreno e dilettandosi in una specie di cantiere navale casalingo. Dopo averci mostrato la barca alla quale sta lavorando, ci affida al figlio, un ragazzotto sui vent’anni, che ci conduce attraverso la piantagione circostante. Oltre a splendide piante di platano (sono le banane di piccola taglia che vengono fritte per ricavarne i tostones), sono presenti nel Delta tre tipi di palma: una viene utilizzata per le larghe foglie con cui si fanno i tetti delle capanne, un’altra produce le noci di cocco delle quali si consumano succo e polpa impiegando poi i gusci per la costruzione di suppellettili, infine la moriche, con le cui foglie si filano corde molto resistenti per gli usi più svariati, compresa la costruzione dei tipici chinchorros (amache). Per assicurare l’irrigazione costante, intorno al frutteto è stato eretto uno sbarramento di fango compattato con rami secchi e letame, interrotto da una chiusa rudimentale ma efficace che regola l’afflusso dell’acqua del fiume convogliata fin qui da un canale.
Concludiamo dopo circa tre ore il giro in curiara, molto suggestivo anche se non è stato la terapia ideale per il mio già indolenzito fondoschiena, giusto in tempo per metterci a tavola. Piatto forte è il morocoto portato ieri da Curiapo, che Beatriz ci imbandisce in due differenti preparazioni, alla griglia e fritto, con contorni assortiti, dimostrandosi ottima cuoca.
Conversiamo piacevolmente con Abelardo, che si rivela, contrariamento a quanto l’aspetto grezzo può far pensare, persona tutt’altro che incolta. Ci traccia un quadro piuttosto esauriente del Venezuela odierno, Paese ricco di risorse ma messo in ginocchio da una successione di governanti incapaci e spesso corrotti. Racconta di avere lavorato in passato con le imprese petrolifere recandosi anche più volte all’estero, ma di avere rinunciato appena accortosi che la sua vita non gli apparteneva più. “Non riesco a sopportare il caos di Tucupita – conclude sprofondandosi in un chinchorro mi sento a casa mia solo quando sono qui. Godetevi il vostro soggiorno nel Delta!”. Pensate un po’: è caos quello di Tucupita! Allora se si trovasse in una delle nostre metropoli si suiciderebbe dopo un’ora?
A metà pomeriggio ci imbarchiamo nuovamente sulla “Betty”, prima “allenata” da Abelardo per una buona mezz’ora e poi affidata a Juan e Luis, incaricati di condurci in visita della comunità più isolata del Delta, della quale sono originari. Minaccia pioggia, che in effetti cadrà in abbondanza sul campamento (meno male che avevamo ritirato il bucato!) risparmiando però la zona in cui ci rechiamo: come diciamo a Genova, “abbiamo già dato” ieri. Anche se fa caldo, inzupparsi un altro cambio di abiti (l’unico rimasto) non sarebbe l’ideale per le mie ossa, anche perché il deretano e la spina dorsale nuovi non sono arrivati, e non arriveranno né ahorita né mai; devo arrangiarmi con quelli usati, la cui garanzia è scaduta da un pezzo.
Juan, che ha imparato a leggere e scrivere alla missione di San Francisco de Guayo, è colui che ci farà da guida; Luis è meno acculturato e più taciturno ma abile nel manovrare la barca in passaggi particolarmente angusti. Occorrono quasi due ore per giungere alla comunità, che colpisce per la grande tranquillità che vi regna nonostante i numerosi bambini schierati ad assistere al nostro arrivo. La struttura delle palafitte, sia pareti che pavimenti e passerelle, è di tronchi sgrossati sommariamente. Comune a ogni unità abitativa è un grande patio, praticamente il centro della vita familiare, tutto aperto intorno e coperto da un enorme tetto di foglie di palma; centralmente sul pavimento è situato il focolare, formato da una grande base circolare di argilla alta una quarantina di centimetri sulla quale a raggiera vengono disposti piccoli tronchi, accesi al centro sotto la pentola. Man mano che i tronchi si trasformano in brace vengono spinti verso il centro in modo da tenere sempre alimentato il fuoco.
All’intorno le donne, alcune con abiti variopinti e numerose collanine al collo, stanno preparando la cena pulendo le verdure, per lo più tuberi, ma l’alimentazione comprende anche uova, pesce e carne, quest’ultima fornita da parecchi maiali di piccola taglia che grufolano in un recinto sotto le palafitte.
Accompagnati dalla nostra guida passiamo quindi in rassegna tutto il villaggio. Gli abitanti sono di indole alquanto riservata, anche perché in prevalenza parlano solo il dialetto della loro etnia; i turisti sono tollerati perchè piuttosto rari e acquistando i prodotti del loro artigianato rappresentano uno dei pochi tramiti per entrare in possesso di piccole somme di danaro, ma la produzione è limitata proprio a causa del numero ridotto di visitatori. Prova ne è il fatto che in tutto il villaggio è disponibile per la vendita una sola amaca (chinchorro), a un prezzo irrisorio benché intrecciata a regola d’arte, e solo nella successiva visita alla missione ne reperiamo un’altra.
La missione di San Francisco de Guayo, per quanto distante pochi chilometri, sembra un salto in avanti, fatte le proporzioni, verso la modernità: il villaggio è situato su di un costone parecchio sopra il livello del fiume, per cui le capanne sono costruite direttamente sul suolo; dove approdiamo c’è la chiesa, la scuola, il gruppo elettrogeno e la pompa per acqua filtrata. Anche l’amaca che acquistiamo è più cara, più scadente e a maglie meno fitte, tanto da somigliare già a una produzione industriale.
Torniamo infine al campamento, dove possiamo concedere un meritato riposo sulle amache alle articolazione che in questi due giorni abbiamo messo alla prova su tre differenti tipi di imbarcazioni e con tutte le condizioni meteorogiche. Ma ne è valsa la pena, e anche lo splendido tramonto sull’Orinoco ce la mette tutta per rendere più intense le vibrazioni positive di cui ci sentiamo pervasi.
Dopo un’altra ottima cena (questa sera la base è il pollo) e un giro di cervezas (birre) e rum offerto da Abelardo (niente regali, era già tutto pattuito nel pacchetto all inclusive), finiamo per assopirci sulle amache: per fortuna qui sono praticamente assenti zanzare e altri insetti che si precipitino a banchettare con i nostri appetitosi corpi indifesi.

Martedì 26 marzo 2002
In un lampo è arrivato il giorno del rientro. La partenza dal Maraisa Camp è prevista per le 8,30 e questa volta l’ahorita coincide davvero con il “subito”. Salutiamo Beatriz e il nieto che rimangono qui insieme con gli inservienti indios; per fine settimana è in programma l’arrivo di un gruppo capeggiato da un funzionario del Ministero dell’ambiente e già di buon mattino fervono i lavori di manutenzione delle passerelle, dei tetti e delle palizzate.
Il motore della “Betty” parte al primo colpo ed essendo la barca più leggera (nessun altro carico oltre noi tre, Abelardo e il motorista) impiegheremo di certo meno tempo dell’altro ieri per rientrare a Tucupita.
Ma ci sbaglieremmo se credessimo che si tratti di un puro e semplice trasferimento. Abelardo, che sarà un pirata ma conosce il suo mestiere, segue un itinerario del tutto nuovo rispetto a quello dell’andata, continuando a stupirci con l’immersione in ambienti naturali e umani ancora diversi.
Sorge spontanea una considerazione: tre giorni nel Delta che, a parole, potrebbero sembrare molti e far pensare a una sequenza di scenari naturali bellissimi ma in fondo ripetitivi e alla lunga monotoni, finiscono per risultare addirittura pochi. Al di là dell’ascoltare la narrazione di un’esperienza, bisogna veramente venire di persona in questo mondo per comprendere quello che cento pagine scritte e mille fotografie rischiano di sminuire. E ora capisco anche la nostalgia di Walter e Mario quando mi raccontavano della navigazione lungo il Rio delle Amazzoni durante il loro viaggio in Brasile di tre anni fa: scendendo dal battello sul quale avevano vissuto per cinque giorni si erano guardati in faccia dicendo “È già finito?”.
Ma siamo sempre sull’Orinoco, non me ne sono dimenticato. Oggi il Grande Fiume è benevolo e continuiamo a navigare in calma piatta. Attraversiamo una zona di caños piuttosto stretti sui quali si affacciano qui e là palafitte isolate o a piccoli nuclei; c’è un certo traffico (figuriamoci!) di curiaras in una zona che evidentemente è molto pescosa. Ne avviciniamo una e Abelardo, dopo una breve trattativa con l’indio, acquista un grosso pesce, orrendo ma a quanto ci dice delizioso; per noi è l’occasione per osservare da vicino gli “strumenti del mestiere”. Vengono stesi sull’acqua, legati l’uno all’altro a distanza regolare, spezzoni di canna lunghi una trentina di centimetri e di circa cinque di diametro con la funzione di galleggianti: da ciascuno penzola un tratto di lenza con l’amo e l’esca, per lo più costituita da piccoli crostacei tipici del Delta. Sulla canoa c’è anche il figlio del pescatore, un bambino di cinque-sei anni del tutto nudo come è qui normale alla sua età, già abilissimo ad avvolgere e svolgere le lenze intorno alle canne.
Il programma prevede ancora una sosta. Si tratta di un insediamento che avremmo dovuto visitare il primo giorno, ma a causa dei noti contrattempi l’avevamo escluso per abbreviare il percorso lungo un altro ramo. Sbarchiamo così ad Araguaimujo, già più simile a un villaggio che a una comunità: ci sono infatti due piccole baracche-emporio che vendono un po’ di tutto (trovandosi meno isolato rispetto a Tucupita sono chiaramente più comodi i rifornimenti) e c’è una parvenza di strada sterrata parallela alla riva rialzata sulla quale prospettano le case, edificate qui con una tecnica ancora differente: le pareti sono infatti costituite da un graticcio di rami incrociati che funge da ossatura a un impasto di fango, paglia e foglie di palma essiccata, dando luogo a muri di una certa stabilità. Gran parte della vita si svolge peraltro all’aria aperta, tant’è vero che in uno slargo fra due case, tra il razzolare di galline, lo scorrazzare di tre cani e a quattro-cinque metri da una discarica spontanea, è posato sul terreno un focolare di pietre che alimenta un pentolone nel quale stanno bollendo pezzi di pollo con verdure e tuberi vari. È vero che cominciamo ad avere fame, ma nel congedarci dalla simpatica famigliola non ci sentiamo offesi per non essere stati invitati a pranzo.
Per mangiare Abelardo, che come un regista smaliziato ha in serbo un’ultima sorpresa, ci chiede di pazientare ancora un’oretta. E infatti, dopo un tratto di navigazione su un ramo talmente ampio da far pensare al mare aperto, una svolta al di là di un promontorio ci riserva uno scenario sorprendente: ai piedi di una duna sormontata da una macchia di alberi, ecco una larga estensione di sabbia dorata che fa pensare più a una spiaggia tropicale che alla riva di un fiume. Assicurata la “Betty” a un paletto conficcato sul fondale bassissimo, ci godiamo un magnifico bagno in un’acqua che qui è assolutamente cristallina. Beatriz ci ha preparato un pranzo consistente nel pesce morocoto avanzato ieri, ridotto a pezzetti e fatto saltare insieme con un assortimento di verdure: la abuela conosce evidentemente l’arte di cucinare facendo rendere al meglio gli ingredienti, visto che il risultato è squisito.
Nel frattempo ci stiamo avvicinando all’approdo di Tucupita che, mentre ci lasciamo alle spalle la spiaggia, dista ormai non più di un’ora e mezza di navigazione. Di lì a poco ci reinseriamo nel Caño Manamo e cominciamo a riconoscere il paesaggio dell’andata, in particolare il punto nel quale il motore della “Betty” si era piantato. Il profilo dei relitti che si scorgono in lontananza ci fanno capire che l’avventura sta concludendosi.
Lo stacco è quasi brutale: sbarcare a El Volcàn e percorrere i successivi venti chilometri in taxi alla volta di Tucupita ci dà la sensazione di immergerci nel caos: vuoi vedere che aveva proprio ragione Abelardo?
C’è giusto il tempo di raggiungere casa sua, darsi una rinfrescata, bere un caffè insieme, prelevare i bagagli e scambiarci l’ultimo saluto. Ci aspetta un’altra avventura, quella della Gran Sabana, e dobbiamo darci subito da fare per organizzarla al meglio; anche stavolta non potremo permetterci di dare niente per scontato. Ma per sapere il come e il perché dovrete aspettare di leggere la seconda parte di questo viaggio.Di fame non si muore in nessun angolo del mondo: certo, c’è il mangiare e c’è il nutrirsi, e per noi italiani all’estero (salvo qualche eccezione) il più delle volte c’è da perdere. Ma non fraintendetemi: nessuno di noi tre va in crisi di astinenza da spaghetti per venti giorni lontano da casa. E poi la conoscenza di un Paese che ci ospita passa anche attraverso i fornelli e la sana curiosità di vedere che cosa ci metteranno nel piatto.
La cucina venezuelana non presenta particolari stravaganze ma è anche vero che ci ha suscitato pochi momenti di entusiasmo (ricordo di nuovo che non abbiamo visitato la capitale, dove non mancano ristoranti di alta qualità). C’è però il vantaggio che è molto praticata la cottura alla brace, vale a dire la più semplice, nella quale di solito i cuochi ci sanno fare. Diffusissimo (e anche gustoso) il pollo, già lo si capisce dalla presenza dovunque di galline, pollastri e galli, questi ultimi anche nel ruolo di indesiderate sveglie gratuite alle prime luci dell’alba, in qualunque albergo si dorma (consiglio vivamente tappi per le orecchie). Nei numerosi chioschetti (pollo en brasas) disseminati dovunque si può spendere sui 3 euro per mezzo pollo alla brace con contorno di insalata, riso e yucca (saporito tubero simile alla patata, ma di forma più allungata e un po’ fibroso) e una bevanda. Gli stessi contorni corredano le carni, di buona qualità ma spesso non cucinate al meglio riguardo ai differenti stalli, e i pesci (trote o grossi pesci d’acqua dolce dai nomi strani quali sapoara o morocoto sui fiumi; analoghi ai nostri sulla costa). Una ulteriore guarnitura è talvolta costituita dalle banane fritte, tocco di dolce che può destare qualche perplessità. Le patate (papas) sono di ottima qualità, davvero squisite fritte. Non mancano le zuppe (sopas), tra cui la più tipica è l’hervido, minestra di verdure varie con aggiunta di pezzi di pollo o carne.
Ma il piatto nazionale venezuelano è la arepa, vale a dire una appetitosissima focaccetta di mais (o nella regione andina di grano), fritta o abbrustolita, da imbottire con qualsiasi ingrediente, oppure portata in tavola al posto del pane. Anche quest’ultimo viene prodotto, seppure in minore varietà di formati rispetto all’Italia (ma noi siamo di certo il maggior popolo di panificatori e panivori…) e usato in prevalenza per confezionare sandwiches.
Un altro tipo di ristorazione rapida ed a buon mercato è costituito dalle empanadas, focacce di pastella a mezzaluna farcite variamente e fritte, diffuse peraltro in tutto il Sudamerica.
Naturalmente non mancano rappresentanze delle grandi catene internazionali quali McDonalds, Burger King e Subway. Del resto il Venezuela risulta il Paese sudamericano che più ricalca i modelli statunitensi: gli aspetti più evidenti sono le temperature estreme delle bevande, roventi al punto da rischiare l’ustione o corredate da grosse quantità di ghiaccio, questo reperibile dovunque sotto forma di gigantesche sacche di cubetti.
I dolci sono reperibili nelle numerose panaderìas in grande assortimento, ma li abbiamo trovati piuttosto pesanti in quanto spesso non cotti a dovere o forse mal lievitati. Appunto le panaderìas sono i locali deputati a far colazione, che quasi mai gli alberghi economici comprendono: una piacevole sorpresa per noi italiani è la consistenza dell’espresso (café negro) e del cappuccino (café con leche). Buoni i gelati, che vedono in pratica il monopolio della Efe, fornitore sia degli onnipresenti carrettini che delle gelaterie cosiddette artigianali.
Le bibite (refrescos) sono quelle reperibili in tutto il mondo, dalla Cocacola alla Pepsi alla Seven Up. Attenzione a quella etichettata chinotto: non ha niente a che fare con quello che conosciamo noi, ma è un miscuglio dolciastro che può nauseare o entusiasmare (più probabile la prima). Buoni invece i succhi di frutta, in specie di mela (manzana) e piña (ananas).
Scarsa la produzione nazionale di vini; nei ristoranti di un certo livello si trovano gradevoli vini cileni e argentini. Le birre più diffuse (tutte buone) sono la Polar, la Solera, la Regional e la brasiliana Brahma reperibili nei formati più strani, dai 222 ai 355 cc., evidentemente riferiti di nuovo alle unità di misura statunitensi.
Per quanto riguarda i superalcolici, la loro vendita è circoscritta ad appositi empori denominati licorerias. Il loro accesso è regolamentato per lo più da inferriate a ridosso della porta e talvolta l’acquirente deve rimanere al di qua di un banco di vendita che occupa l’intera larghezza dell’ingresso. I prezzi equivalgono più o meno ai nostri, quindi decisamente elevati per la clientela locale.
Di altre particolarità culinarie parlerò nel corso della relazione, ogni volta che se ne presenterà l’occasione.PRECAUZIONI SANITARIE
Non è richiesta alcuna vaccinazione obbligatoria. Ma, come in tutti i Paesi caldi e non sempre scrupolosi nelle norme igieniche, è bene evitare le verdure crude, la frutta (nel caso scartare la buccia!), il ghiaccio (non si sa da quale acqua provenga): prendete subito l’abitudine di specificare “sin hielo!” prima che ne colmino invariabilmente il bicchiere e acquistate solo acqua minerale controllando che il sigillo del tappo sia integro.
Noi abbiamo, ad ogni buon conto, fatto la profilassi antimalarica, più che altro per la varietà di insetti insoliti che si possono incontrare in un viaggio che prevede in prevalenza vita all’aria aperta. Quasi assenti nel Delta dell’Orinoco, sono invece numerosi nella Gran Sabana: oltre alle note zanzare, sono diffusi i puri-puri, minuscoli moscerini le cui punture causano prolungato prurito e che per fortuna si ritirano dopo il tramonto.
Non bisogna quindi farsi mancare validi repellenti, così come creme solari ad alta protezione e pomate contro le affezioni cutanee. Raccomandato anche un cappello. Durante il giorno bere molto per compensare l’abbondante sudorazione: mai dimenticare che non siamo molto lontani dall’Equatore!
PREZZI
Ci si trova di fronte ad estremi a dir poco clamorosi. Non abbiamo esperienza di Caracas, che abbiamo preferito non inserire nel programma di viaggio, ma nelle città medio-piccole si può pernottare con l’equivalente di 7-10 euro e pranzare con 5-8 a testa; di contro, ci vogliono (sempre a testa) 80 dollari per un tour di tre giorni in fuoristrada con autista nella Gran Sabana, 200 per tre giorni nel Delta dell’Orinoco e 120 per una notte in camera doppia al Campamento Canaima (qui però ci siamo arrangiati molto più a buon mercato).
Nel corso del viaggio ci imbatteremo in differenze anche consistenti del rapporto di cambio, ad esempio a Puerto Ordaz e Tucupita il dollaro è equiparato negli hotel e nelle agenzie di viaggio a mille bolìvares, mentre a Canaima (più turistica, mondana e cara, quindi ben più svantaggiosamente per il cliente) a ottocento.
In questo resoconto, per comodità, mi riferirò al cambio più vicino a quello ufficiale praticato nel periodo del nostro soggiorno, cioè 1 dollaro = 900 bolìvares (VEB).Praticamente inesistente una rete ferroviaria, che annovera solo una linea di 151 km. tra Puerto Cabello e Barquisimeto per un limitato traffico merci, gli spostamenti sono avvenuti in prevalenza con autocorriere, più o meno comode (o più o meno scomode), delle numerose compagnie operanti su tutto il territorio: con queste abbiamo effettuato sei trasferimenti per un totale di circa 2.450 chilometri. Le alternative sono state i taxi, rigorosamente privi di tassametro, con i quali si possono concordare servizi in ambito urbano, per percorso, personalizzati o a tempo da qualche ora a un’intera giornata (sempre contrattare in anticipo, tenendo conto che una tariffa oraria ragionevole va dagli 8 ai 10 dollari, indipendentemente dal numero dei passeggeri), oppure i cosiddetti “por puestos” o “carritos”: si tratta di furgoni da 10-15 posti (in maggioranza si tratta di Dodge o Ford di annata ma soprendentemente efficienti), gestiti da consorzi di trasportatori e presenti anch’essi ai terminal, che partono solo quando sono completi ma garantiscono collegamenti un po’ più rapidi degli autobus di linea a un prezzo leggermente superiore.
L’eventualità, considerata in fase di programmazione, di un’auto in affitto, è stata scartata quasi subito, sia per il prezzo (non meno di 100 dollari al giorno per un’utilitaria) che per lo stile di guida piuttosto disinvolto (uso l’aggettivo più benevolo che sono riuscito a trovare) degli amici venezuelani, peraltro favorito dalla quasi inesistenza di segnaletica e di istituzioni che possano corrispondere ai vigili urbani o alla polizia stradale. E poi, pur essendo il Venezuela uno dei Paesi sudamericani meno pericolosi per il turista, in certe zone è meglio non indurre in tentazione eventuali malintenzionati ed evitare le esibizioni di benessere; in quest’ottica, tre stranieri che salgano o scendano da una vettura a noleggio danno invece immancabilmente nell’occhio.
Per le località salienti del viaggio infine, cioè il Delta dell’Orinoco, la Gran Sabana e il Parco di Canaima, un automezzo indipendente sarebbe comunque inutile: là non si può prescindere da imbarcazioni, veicoli 4x4 e voli interni con piccoli aerei

7 commenti in “Venezuela, l’essenza del Sudamerica – Parte I
  1. Avatar commento
    Leandro
    14/08/2005 22:28

    Ciao Flaca, non mi sembra proprio di avere espresso opinioni negative sui Venezuelani e sul Venezuela. E se è in questo senso che mi hai interpretato, ne sono dispiaciuto. E' stato anzi un viaggio bellissimo del quale ho un ottimo ricordo e sono ancora oggi in corrispondenza con due persone conosciute là. Nel resoconto ho raccontato ESATTAMENTE quelle che sono state le mie esperienze in quelle tre settimane senza fare generalizzazioni: se ho avuto qualche inconveniente (pochi), è sempre stato con singole persone e non in generale con I VENEZUELANI. Ma inconvenienti possono accadere (come mi sono accaduti) in ogni Paese del mondo senza per questo intaccarne il giudizio complessivo. Non ho nemmeno parlato male della cucina, ho detto che non l'ho trovata entusiasmante (opinione mia) ma ne ho anche citato dei lati positivi. Vivendoci per qualche anno di certo se ne può avere un quadro più completo, ma pure questo è un discorso valido in ogni parte del mondo. Però quando sono all'estero mi adeguo sempre e la pasta nemmeno mi viene in mente. E non ho nemmeno detto che le persone sono riservate (che poi la riservatezza non è certo un valore negativo), anzi ho notato allegria e socievolezza nella maggior parte della popolazione, anche in quella più povera. Che la musica è sempre a volume alto è una realtà, poi può piacere o meno, ma è un discorso che si può fare anche se viene dalla radio del mio vicino di casa. Ma anche questa è una realtà del Paese del quale si è ospiti e che, come tutte le altre, ho accettato, anzi scherzandoci sopra. Se leggi anche la seconda e terza parte del mio diario di viaggio in questo stesso sito, vedrai che le mie opinioni sul Venezuela e sui Venezuelani sono state molto positive. Un saluto a te e al Venezuela!

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    la flaca
    14/08/2005 22:12

    ho vissuto gli anni più belli della mia vita in venezuela e niente potra cambiare il fatto che anche se non avevo molto ero la persona più felice a questo mondo il mio cuore batte nella speranza di tornarcie tornare ad assere felicecome un tempo!

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    la flaca
    14/08/2005 22:06

    secondo me ti sbagli sulle persone xchè sono molto accessibili e socevoli. la musica e vero e ovunque molto alta ma fa parte della nostra tradizione xchè esprime la personalità delle persone il punto è che x noi la musica e un modo x esprimere pensieri e sentimenti le gioie e le sofferenze il nostro cibo non sarà molto buono x noi itliani abituati alle nostre diete e la pasta che non manca mai in nussun pasto ma la nostra tradizione è molto buona anzi in cucina siamo i migliori ma niente come "el sancocho de mondongo" "el cruzao" cosa che le nostre zuppe non avranno mai sarà il sapore che solo le nostre verdure la nostra musica assordante e le nostre persone secondo il tuo diario "riservate" c possono regalare. il tutto fa parte di una bellissima cultura molto aperta e poco organizata che in fine è questa la parte più bella di una vacanza in venezuela e in qualsiasi parte del mondo fare i piani all'ultimo momento senza preoccuparti se arriverai in tempo o no.!

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    la flaca
    14/08/2005 22:01

    secondo me ti sbagli sulle persone xchè sono molto accessibili e socevoli. la musica e vero e ovunque molto alta ma fa parte della nostra tradizione xchè esprime la personalità delle persone il punto è che x noi la musica e un modo x esprimere pensieri e sentimenti le gioie e le sofferenze il nostro cibo non sarà molto buono x noi itliani abituati alle nostre diete e la pasta che non manca mai in nussun pasto ma la nostra tradizione è molto buona anzi in cucina siamo i migliori ma niente come "el sancocho de mondongo" "el cruzao" cosa che le nostre zuppe non avranno mai sarà il sapore che solo le nostre verdure la nostra musica assordante e le nostre persone secondo il tuo diario "riservate" c possono regalare. il tutto fa parte di una bellissima cultura molto aperta e poco organizata che in fine è questa la parte più bella di una vacanza in venezuela e in qualsiasi parte del mondo fare i piani all'ultimo momento senza preoccuparti se arriverai in tempo o no.!

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    Leandro
    07/02/2005 12:32

    Ciao Ciro, scusa ma forse non ho ben capito... Mi chiedi un consigio per aiutarti a trovare i tuoi parenti? Forse mi attribuisci dei poteri che non ho: io in Venezuela ho solo fatto un viaggio di tre settimane e non saprei proprio cosa dirti. In questi casi la cosa migliore è rivolgersi all'ambasciata. Auguri!

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    Ciro
    07/02/2005 10:55

    Ciao, salute a te, sai ti scrivo intanto per dirti che hai fatto, secondo me, una esposizione chiara e dettagliata del tuo viaggio che aiuta a farsi una idea del luogo anche se sommaria ma utile.poi, perche da anni sono alla ricerca di parenti venezuelani con il mio stesso cognome e che mai ho trovato..sai darmi un consiglio? grazie , Ciro.

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    arepa caliente
    09/01/2005 20:37

    Ci ho vissuto per un anno... potrei dire che questo è semplicemente un paese meraviglioso, ma le parole non bastano per descrivere lo stile di vita fantastico di persone che vivono senza nulla... e non parlo di grandi città quali Valencia, Caracas, Pto Ordaz o Merida.. mi riferisco a "pueblitos" come El callao, alle porte con la Gran Sabana, o Ajì, nelle Ande... persone che non hanno nulla ma sono grate ogni giorno a tutto e tutti coloro che incontrano!!!

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