Ciao ragazzi, scrivo per conto di quattro viaggiatori , Massimo, chi scrive, Marina , la mia ragazza , Mariangela e Sergio, due amici incontrati per caso con i quali abbiamo condiviso circa un mese di esperienze in un affascinante Paese, la piccola Venezia come è stata battezzata 500 anni fa, Venezuela come la conosciamo oggi. Scrivo in quanto chi lo ha fatto prima di me mi ha dato l’opportunità, con le proprie esperienze, di fornirmi preziose informazioni per organizzare al meglio il viaggio. Inizierò con delle premesse per poi continuare con la didascalica cronaca del tragitto effettuato, dei prezzi che questo hanno accompagnato e le considerazioni che ovviamente non possono che essere personali.
- Denaro: La moneta ufficiale è il Bolivar che, per scelta di politica economica dell’attuale governo, è stata forzosamente agganciata ad un cambio fisso di 2150 Bolivares per Dollaro americano. Credo sia una mossa per contenere un alto tasso di inflazione, problema comune a molti Paesi “ad economie deboli”, che trova però in disaccordo molti economisti e buona parte dei venezuelani. E’ possibile, nelle Casse di Cambio, convertire in Bolivares i Dollari e gli Euro, ma non il contrario, per evitare che fiumi di denaro lascino il paese in cerca di sicurezza o presunta tale. Tutto questo ha fatto sì che si formasse un mercato parallelo (nero) di compravendita di Dollari ed Euro soggetto alle leggi non scritte dell’economia di mercato. Più ti serve e più sei disposto a pagare. Meno ce n’è e più costa. Mi asterrò dal giudicare per sommi capi, perché lo farei per simpatie politiche, materia quest’ultima che mi appassiona, un Paese che conosco relativamente poco. Chi volesse approfondire troverebbe fiumi di libri sulla sociostoriaeconomica dell’America Latina, nella quale il Venezuela si inserisce a pieno titolo (…ma si mi sbilancio e vi suggerisco qualche autore, Sepulveda, Allende, Rifkin, Chomsky, Galeano…). Le quotazioni del Dollaro americano e dell’Euro, al nero, sono ( alla data 30/08/2006) rispettivamente di circa 2400/2500 e 2900/3000, queste quotazioni diminuiscono notevolmente, per la presenza di molti turisti, a Caracas e Los Roques dove i cambi si avvicinano molto a quelli ufficiali. I pagamenti con carta di credito sono diffusamente possibili ma malvolentieri accettati per le alte commissioni ai quali sono sottoposti (questa la spiegazione avanzataci). Travel Cheques difficilmente cambiabili se non al costo di lunghe file in banca.
- Einstein non era un genio!: C’è chi non si spiega come il noto fisico sia potuto arrivare a tanto, per me la cosa è molto più semplice. E’ stato in Venezuela! Ha sicuramente chiesto i tempi di percorrenza di un qualsiasi tragitto in autobus, sicuramente al conducente, al co-conducente , a qualche passeggero, ed ha tratto le somme. Il tempo è relativo. Quanto vale un’ora in Venezuela? Dipende. Va dai 50 minuti all’ora e 30. Fantastico.
- La birra: La birra in Venezuela è buonissima, molto apprezzata e venduta in formati incredibili, c’è la bottiglietta da 222 cc, 265, 328, 355, 387,4 e 413 per radice di 3. .. e non saprete mai quella che vi capiterà.
- Indicazioni: Se chiedete indicazioni vale la regola di cui sopra, lo stesso posto può essere avanti 2 quadre sulla sinistra oppure indietro 3 sulla destra, poi scegliete voi quello più comodo.
- I Puri-Puri: Il Puri-Puri, credo che al singolare faccia così, è qualcosa che punge ma non esiste, è una leggenda metropolitana, è una favola, è un racconto tramandato, è una credenza un refolo di vento, ma punge. I Puri-Puri hanno pasteggiato abbondantemente con il mio sangue ma non li ho mai visti. Chi mi porta un Puri-Puri, anche in foto, ha la cena pagata.
- Benzina: La benzina costa 95 bolivares al litro, il gasolio la metà. Ciò sta a significare che con un Euro e cinquanta/ uno e sessanta faccio il pieno alla mia Punto ( non commento, mi verrebbe una parolaccia, mettete voi quella che preferite). Qualche rapporto; 1 litro d’acqua = 18 litri di benzina, una coca in lattina = 11 litri di benzina, un panino con prosciutto = 40 litri di gasolio. Alla faccia di Moratti e tutti gli interisti (che tra l’altro di questi tempi gongolano).
- Toilettes: In Venezuela, come in tutti i paesi centroamericani che ho visitato, non c’è un sistema fognario per le acque nere, questo è sostituito dai pozzi neri. Il pozzo nero è una fossa interrata dove confluiscono tutte le arepas e le impanadas ormai elaborate da quel fantastico insieme di organi che chiamiamo apparato digerente. Questo fa sì che sia sconsigliato gettare carta perché intaserebbe, essendo di difficile decomposizione, il pozzo ed il lavoro di tutti gli organismi che vi abitano.
Ciò che non gradisce il pozzo va messo ( debitamente piegato ) in un cestino posto appositamente nell’angolo del bagno. Se il vostro turno è immediatamente successivo ad un esemplare di Homo Sapiens colto, cosa piuttosto frequente, da dissenteria del viaggiatore, credetemi, non è bello.
- Per i venezuelani la geografia è un opinione! Viaggiando a braccio e macinando molti chilometri in autobus, spesso capita di passare in zone o cittadine sconosciute e la curiosità del viaggiatore deve essere soddisfatta. Essendo in possesso di una dettagliata cartina stradale, vienE da sé chieder lumi a chi in quella cittadina ci abita ( probabilmente da generazioni). Sbagliato! Scendendo dall’autobus a cartina spiegata, palese è che cerchiamo informazioni. A piazza piena il fuggi-fuggi è generale e di lì a poco il vuoto. La musica in sottofondo è quella di Mezzogiorno di fuoco, il vento che fischia e alza la polvere, i covoni che rotolano, qualcuno è restato. Solitamente le domande si fanno agli zoppi od ai fornai. I primi non possono scappare, i secondi se scappano gli fregano il pane. La mappa è distesa nella polvere ed alla domanda, “ Scusi mi sa indicare dove siamo?”. L’espressione è la stessa della mucca che guarda il treno passare, poi la mano passa sulla fronte e lo sguardo si fissa sulla cartina. Dopo alcuni minuti la mano, palmo in basso, rotea sulla cartina disegnando ampi cerchi ( non concentrici) e sorvolando una zona grande più o meno quanto l’Antartide, senza fermar la mano, la risposta… ” Siamo qui!”. Al che scartiamo senza ombra di dubbio di essere in Uruguay e ritorniamo sull’autobus.
Con le premesse ho cercato di dare punti fissi, di introdurre non il Paese ma la sua caricatura, ed in quanto tale l’esasperazione di ciò che per noi sono comportamenti curiosi e diffusi. Molto abbiamo letto sulla pericolosità del Paese ed anche se la nostra esperienza non ci permette di perorare la causa, indubbia è l’insicurezza che si respira soprattutto dopo il tramonto. Tramonto dicevo, l’ultimo atto del giorno che ci era permesso assistere dopo di che, branda! Mai dopo le nove, per manifesto e non espresso bisogno delle due donne e che il nostro paternalistico, protettivo ed accondiscendente carattere di uomini maturi non ci permetteva di non attendere..
Nel resoconto che segue riporterò tutti i costi in Dollari americani, per agevolare chi legge, ad un cambio di 2500 bolivares per dollaro. Il primo giorno proprio con questo rapporto ho cambiato 2000 dollari con i quali ho coperto buona parte del viaggio.26 luglio 2006, ore 15,00. Dopo una lunga fila al controllo passaporti di Linate ed un panino all’aeroporto di Lisbona, Caracas. In 20 minuti usciamo dall’aeroporto. Credevamo di trovare un caldo impossibile ma Cremona delle ultime tre settimane non invidiava nulla. La nostra meta è Maracay, lì abbiamo prenotato per telefono la prima notte. Ligi nell’ascoltare chi in Venezuela ci era già stato, “ Solo taxi ufficiali, solo Land Cruiser neri, nessun altro!” chiediamo ad un signore che ci cercava con lo sguardo se fosse un tassista, la pronta risposta “ Se mi paghi ti porto dove vuoi”…... be’, mi sono detto, allora è un tassista! Contrattiamo per 85 dollari, la distanza è di circa 110 km che percorriamo in 3 ore ½. La distanza non giustifica il prezzo, ci spiega Juan, ma il crollo di un ponte, che costringe ad attraversare Caracas con le inevitabili code e rallentamenti, sì.
Dopo una doccia in hotel (hotel Caroni av. Ayacucho norte 19, (0243) 5544465, 25 dollari la stanza), cena da Mina con pollo alla parrilla e churrasco per 11 dollari , poi a nanna.
Dopo la sveglia ci rechiamo in un bacalino per la colazione (“bacalino” è un espressione in vernacolo cremonese per indicare un bacalino): dopo due cappucci fatti meglio che in molti bar nostrani ed un bombolone che non siamo riusciti a finirlo in due ( 2 dollari) ci incamminiamo verso la fermata (parada) dell’autobus. Si ferma un bus completamente colorato, metà rosso , metà blu, avvolto in ragnatele nere e la scritta “Spiderman” sul fianco, ed alla domanda “ Scusi passa per il Terminal?”, “ Non ci passo ma se dovete andarci vi ci porto!”…e ci ha portati!!!! Un grande!!!!
Al terminal per 80 cent prendiamo un autobus direzione Ocumare de la Costa e scendiamo a Rancho Grande.
Ci troviamo nel Parco Nazionale Henry Pittier, precisamente in una stazione biologica presidiata da un canuto signore che per 2 dollari ci accompagna nella visita. Henry Pittier era un ricercatore svizzero morto misteriosamente proprio in questa stazione. Dopo un giro nel parco ed dopo aver ammirato numerosi ed imponenti esemplari di “Gigantesca Caribensis” una pianta con grandi radici triangolari, ci fermiamo in una stanza al secondo piano dell’edificio dove si trova un grande masso di roccia con la particolarità di essere sempre umido, cosa, a detta della guida, non ancora spiegata. Effettivamente un po’ misterioso è, se non altro per le dimensioni, impossibile avercelo portato dopo la costruzione, non passa dalle porte, e per il notevole peso, una roccia di circa 1 metro e ½ di diametro posta al secondo piano. Snocciolando improbabili cause ultraterrene, il biondo, strusciava il proprio machete sulla roccia come per affilarlo.”E’ il mio miglior amico, non me ne separo mai”, ci diceva abbassando il tono di voce, al che, guardandoci, io e Marina, nello stesso istante abbiamo capito che fine aveva fatto Henry Pittier.
Uscendo da Rancho Grande incontriamo due studenti del posto che per arrotondare accompagnano i turisti per il parco e si offrono di darci un passaggio fino a Maracay.
Sulla strada ci fermiamo in un posto nel quale è in corso un progetto di conservazione dell’area, dove ai bordi di un ruscello possiamo ammirare delle bellissime mini-rane e grandi ragni d’acqua grossi quanto una mano.
Nel mentre ci coglie impreparati un acquazzone e decidiamo di tornare a Maracay. Per ricambiare il favore offriamo loro una cena in un improbabile ristorante, “El Cachapero”. Il nome è ispirato dal piatto tipico, la Cachapa.
La cachapa è una specie di polentina fatta con una pasta di mais non ancora maturo e frullato, zucchero, sale ed un aroma che non ci ha voluto dire. Il tutto fatto cuocere su una piastra a mo’ di piadina e condito con formaggio o carne. Non avendo la licenza per gli alcolici ceniamo con una bevanda chiamata “ Malta”, una sorta di birra analcolica al forte gusto di malto.
Salutiamo Paulo e Lourdes (per chi servisse una guida lascio il numero di Lourdes 0412 4382387) e dopo una capatina ad un centro internet, tra l’altro molto diffusi, torniamo in albergo.
Prima di rincasare ci fermiamo per un digestivo in una cantina stile Wyoming proprio sotto il nostro hotel. Sorseggiamo un Rum Santa Teresa, il miglior rum venezuelano (4 dollari), due chiacchiere con un avventore e poi a letto.
L’indomani, colazione con succo di melone e guayaba e con un “por puesto” ci rechiamo a Cata una spiaggia vicino alla cittadina di Ocumare. Non ho mai capito la differenza tra “por puesto” ed un taxi, L’unica cosa che ho notato è che i “por puesto” li trovi nei terminal. Dividiamo il “por puesto” con tre ragazze ed un bambino alto più o meno come una bottiglia di rum. Per 4 dollari a testa e circa 1 ora e ½ di strada siamo in spiaggia. La spiaggia ed il mare sono belli, certo il confronto con Los Roques non regge, contornati di palme, poco affollati e puliti. Dopo un bagno ci spostiamo in un baracchino dove pranziamo con “ tostones”, un hamburger di platano fritto con sopra di tutto, “empanadas”, forse la cosa più diffusa in Venezuela, molto simile ad un piccolo calzone fatto con farina di grano, fritto e riempito con qualsiasi cosa, calamari e gamberoni. Dopo aver ordinato ci accorgiamo che le porzioni sono esagerate e chiamiamo le nostre compagne di viaggio per farci aiutare. L’invito è accettato di buon grado. Il conto è di 24 dollari, 7 i gamberoni, 7 i calamari, i tostones 2 dollari (una porzione sono 4 tostones), le empanadas 50 cents l’una ed il resto birra. Dopo un bagno ed aver salutato le nostre amiche prendiamo un autobus per ritornare a Maracay. L’Henry Pittier è un parco ricco di una vegetazione lussureggiante, tagliato da sentieri che portano in piccoli e caratteristici villaggi.
Nel parco trovano spazio molte piantagioni di cacao che in questa zona è il migliore del Paese. La pianta è di ridotte dimensione ed i frutti grandi quanto meloni, ed hanno la caratteristica di crescere sul tronco e sui rami principali. Ciò che diventerà Nutella non è il frutto ma i suoi semi, grandi quanto un’oliva taggiasca, che debitamente fatti fermentare ed essiccati saranno poi lavorati per la gioia di molti.
Al ritorno in albergo siamo raggiunti da Sergio e Mariangela, freschi dall’Italia e partiti 2 giorni dopo di noi. Entrambi molto sportivi e kayakisti estremi. In questo molto diversi da me, amante da sempre del surf sul divano e dei tuffi sotto il piumone. Con Sergio e la Mari ci siamo conosciuti un paio di giorni prima di partire, tramite amici comuni, potevamo essere incompatibili ma così non è stato. Ci siamo trovati bene, gli alloggi, i tempi, i luoghi, non riesco a trovare un che di negativo. Sforzandomi, in verità, qualcosa c’è ed è il dopobarba di Sergio, sarà pur francese, sarà pur costoso, sarà pur raffinato, ma ragazzi, se le zanzare ci pedinavano un motivo c’era.
29 luglio 2006. Sveglia all’alba e dopo una veloce colazione siamo al terminal diretti al parco di Morrocoy. In un ora arriviamo a Valencia (2 dollari) cambiamo e, in un autobus strapieno di ragazzi diretti alle spiagge, raggiungiamo Chichirivice in meno di 3 ore . Due sono le porte principali per accedere al parco marino: Tucacas, città grande ed anonima. e Chichirivice anonima allo stesso modo, ma più piccola. Scegliamo “ Villa Gregoria” una posada con giardino interno e due amache sotto i portici, che per 32 dollari ci affitta una stanza per quattro persone con aria condizionata (Villa Gregoria, Calle Marino, Chichirivice 0259 8186359).
Dopo aver preso possesso usciamo ed in taxi ci facciamo portare alla laguna. La laguna è una vasta depressione alle porte di Chichirivice, tendenzialmente arida, ma vari laghetti, più o meno grandi, a macchia di leopardo punteggiano un bel paesaggio. Molta è l’avifauna presente, della quale i fenicotteri rosa (Phoenicopterus Ruber) ne sono i portabandiera. Dopo alcune fotografie ed un elegante volo proprio sopra le nostre teste ritorniamo nella cittadina pronti per la cena.
Per cena pesce, chi Pargo, un pesce rosso molto diffuso in centro-sudamerica ( Aratus Lutjanus) chi Mero, grande carnivoro dei fondali con carne molto simile alla cernia, il tutto condito da tostones, insalata ed arepa. L’arepa è il “pane” tipico del Venezuela. E’una tortina di farina di mais non lievitata, alta circa 2 centimetri per un diametro di 10 fritta o fatta alla piastra. L’arepa accompagna praticamente tutto, dal cappuccino al Chupa Chups.
Paghiamo il conto, 35 dollari, e dopo un buon caffè in una gelateria italiana torniamo in posada.
Verso mezzanotte quando la fase R.E.M impera (Rapid Eye Movement) lascio il letto per gustarmi un violento acquazzone tropicale e con me decine di rane escono a ringraziare.
Sveglia all’alba e subito ci rechiamo al porto per prendere l’imbarcazione che ci porterà a Cayo Sombrero. In quattro contrattiamo ed arriviamo ad un prezzo di 60 dollari, andata, giro panoramico e ritorno. Il giro ci permette di vedere una bella foresta di mangrovie (Rhizophora Mangle) una delle poche piante terrestri in grado di sopportare alte concentrazioni saline e distinguibili dalle vistose e ricurve radici aeree, ed alcune grotte formatisi nelle fragili scogliere a falesia. Alle nove siamo in spiaggia.
La spiaggia è molto bella, il mare limpido e di contorno file di palme da cocco con cui faremo lo spuntino a metà giornata (con i cocchi, non con le palme). La barriera corallina è povera, ma sufficiente per un principiante che vuole fare snorkelling. Principiante ho detto??? Noooo, non parlavo certo di Marina, che con maschera e pinne da sopra la barca, avete capito bene aveva le pinne ma era sulla barca, saldamente attaccata ad un salvagente grande come una “Panda”, scrutava il fondale immergendo di due centimetri la maschera per periodi che potevano arrivare anche a tre secondi. Nel mentre si era formato sulla spiaggia un capannello di gente che applaudiva ogni volta che svuotava i polmoni per poi riprendere fiato. Lascio libera la mia bella di sbizzarrirsi nelle sue immersioni estreme e mi lancio sotto una palma per un pisolino.
Alle quattro in punto, come da accordi, arriva il pescatore per riportarci sul continente. La sera ceniamo sul lungomare, niente pesce ma carne, io e Marina lomito, Sergio e Mari churrasco, che confrontandoli, il gustometro piega inevitabilmente verso quest’ultimo, paghiamo i dovuti 44 dollari e torniamo a casa.
Facendo i conti come li faceva la serva, ora, posso dire che Chichirivice è notevolmente più cara che altri posti, Los Roques a parte.
31 luglio 2006. Al canto del gallo prepariamo gli zaini e nella piazza principale prendiamo l’autobus che ci porterà al “cruce de Sanare” per poi prendere al volo la coincidenza del Valencia-Coro che ci porterà in città in 3 ore e 6 dollari a testa.
Coro è una piacevole cittadina coloniale, piacevole relativamente alle altre città del Venezuela, in senso assoluto sinceramente dice poco. Riporto il giudizio di un Web-wraighter; “ …proprio non capisco per quale motivo il Signor Unesco abbia dichiarato Coro patrimonio dell’umanità”, pensiero del quale mi trova complice. Non vorrei risultare irrispettoso, ma è rendere giustizia a ciò che è il vero spettacolo di questo paese, la Naturaleza. Per la notte abbiamo scelto la posada “ El Gallo” che per 16 dollari ci affitta una stanza con doccia calda e ventilatore. La posada riproduce un’antica abitazione coloniale con colonne che fanno da guardie al patio centrale, le stanze sono tutte comunicanti nella parte del sottotetto per permettere la ventilazione e così renderle più fresche. Post-metto che la storia della ventilazione del sottotetto non funziona.
Alla posada siamo arrivati in taxi guidato da uno scaltro, brizzolato signore sulla sessantina, che ad ogni incrocio ci chiedeva se doveva girare a destra o a sinistra, al chè dopo avergli ricordato che era lui il tassista e noi i turisti non ci ha più fatto domande.
Verso sera ci facciamo accompagnare nel posto più caratteristico della zona che fa si che meriti la deviazione verso questa città, i Medanos de Coro (letteralmente le Dune di Coro), un angolo di deserto a dieci minuti dal centro. La loro formazione è molto antica, ricordo del mare, che ora da li si è ritirato, e del clima molto secco e poco piovoso che contraddistingue tutta la costa venezuelana.
Sinceramente consiglio questo posto soprattutto all’alba od al tramonto, quando i colori ti parlano e ti rendono la quiete e la tranquillità che “volontariamente” abbiamo dimenticato. Dopo una profonda meditazione, dall’alto di una duna, sull’origine del cosmo e come ragionano le donne (in entrambi i casi senza arrivare a nulla), reintegriamo gli zuccheri e le proteine in un interessante cantina sul paseo Talavera, nella zona coloniale, con un abbondante “parrillada” di carne mista e 12 Polar Light per soli 16 dollari. Una cosa che molto mi piace dei paesi sudamericani, è la facilità di parola e disponibilità verso gli altri, la naturalezza di scambiare due parole con il primo che ti si siede a fianco e con la stessa confidenza che hai con chi conosci da una vita. Manco a dirlo ci intortiamo con due signori sulla cinquantina, un giro lo pago io, uno lo paghi tu, prima l’hai pagato tu adesso tocca a me, e dopo la quinta birra gli argomenti spaziavano dalle unghie del Bradipo ai merletti di Micene il tutto in perfetto italianspanish. Prima di correre il rischio di tornare in posada al passo del ghepardo salutiamo i nostri amici ed a piedi torniamo a casa.
Il centro di Coro è comunque ben tenuto e molti sono i lavori in essere per la sua conservazione. Due chiacchiere in amaca e poi a letto.
L’indomani dopo un buon cappuccio, con un por puesto, ci dirigiamo ad Adicora, capoluogo della penisola di Paraguanà. La penisola è collegata alla terraferma da un sottile istmo percorso da un'unica strada asfaltata che in un’ora ci conduce alla meta. Il paesaggio è brullo, arido e molto afoso, caratterizzato da una vegetazione predesertica, molti cactus, bassi arbusti ed una flora di tipo arboreo quasi assente.
La fauna si riassume in asini allo stato brado, volpi, piccoli roditori, avvoltoi e falchi che solcano il cielo in cerca di prede. Dopo una breve pausa ad Adicora, in autobus decidiamo di tornare percorrendo la costa occidentale. Il paesaggio non cambia e per cena, dopo aver passato Pueblo Nuevo, ci fermiamo a Puerto Fijo, nel sud della penisola.
Ai confini della città molti sono gli impianti di raffinazione del petrolio, del quale il Venezuela è uno dei maggiori produttori mondiali, ed il territorio intorno ad esse è molto sporco e punteggiato da discariche a cielo aperto. La cittadina dice poco; positivo, invece, il fatto di poter fare acquisti esentasse in quanto duty-free. Approfittiamo dell’occasione e dopo aver acquistato pane, salumi e frutta, ceniamo al sacco come si faceva in gita a Firenze. Giunti a Coro e dopo una sospirata doccia, ci rechiamo al terminal cittadino, ed al banco dell’Expresos Merida, per 17 dollari cadauno, acquistiamo il diritto di occupare 4 posti su una delle più belle invenzioni venezuelane, il Bus-Cama. Il bus-cama (bus-letto) è un autobus granturismo, solitamente a due piani, che viaggia di notte e collega le più importanti città venezuelane. Troverete bus-cama che da qualsiasi terminal ne collegano un qualsiasi altro e con il vantaggio di una relativa comoda dormita in quanto gli schienali dei sedili sono completamente reclinabili. Il tragitto medio è di circa 600/700 chilometri con un paio di tappe intermedie. Molto comodi, in quanto viaggiando di notte, ed essendo riposati, ti permette di sfruttare al massimo il giorno ed annullare i tempi morti dovuti alle grandi distanze. Unica nota negativa; sui bus-cama ci sono temperature antartiche. L’aria condizionata viene tenuta costantemente accesa mantenendo una temperatura di 12/13 gradi Celsius che fa a botte con i 35 esterni. E’ un mezzo di trasporto molto usato dai venezuelani che, sapendo, si presentano tutti, indistintamente, con coperta di lana e cuscino. Solo un pirla ho visto salire in pantaloncini e maglietta, era di Cremona e sta scrivendo questo diario.
02 agosto 2006. Ore 06,30: dopo 9 ore e 700 chilometri, lasciamo Coro ed arriviamo a Merida. A prima vista più che il Venezuela ci sembra la Svizzera, molto pulita, in ordine e ben tenuta, dovuto forse al fatto che questa città è meta di molti appassionati di sport estremi, siamo sulle Ande dove i posti per parapendio, rafting e trekking si sprecano, dunque ricca dei proventi del turismo e sede di molte università della quale è seconda solo a Caracas. Cerchiamo casa e la troviamo proprio vicino al “ Teleferico de Merida”, una stanza con quattro letti per 18 dollari al giorno(4,5 a testa).
La teleferica è la più alta al mondo, raggiunge la quota di 4765 metri in circa 2 ore. Decidiamo di salirci l’indomani e preferiamo tornare al terminal per prenotare il bus-cama per Ciudad Bolivar per la notte successiva.
L’intenzione era quella di raggiungere Puerto la Cruz ed il giorno seguente Ciudad Bolivar ma l’autobus per quella destinazione era full, forzatamente ripieghiamo sul Merida-Valencia per poi l’indomani prendere un diurno per Ciudad Bolivar, rispettivamente le due tratte costeranno 17 e 20 dollari a testa. Volutamente, per la tratta Valencia-Ciudad Bolivar è stato scelto un diurno in quanto la strada costeggia le grandi pianure venezuelane, i Los Llanos (che poi illustrerò), regalando splendidi paesaggi. Sulla via del ritorno scegliamo “El Paso” per il pranzo, un piccolissimo ristorante posto al secondo piano di un palazzo raggiungibile tramite una stretta scala in legno. Il menù è “ejecutivo” cioè a prezzo fisso e per 2,5 dollari, tutti e quattro ci pappiamo un bell’ejecutivo alla bolognese, una scodellazza di minestrone ed un piatto di pasta ( o almeno sembrava tale) annegata in ragù, formaggio ed un arcobaleno di altri ingredienti. Sinceramente oltre che aver speso poco abbiamo anche mangiato bene.
Di ritorno al teleferico ci dicono che per domani è tutto “sold out” e l’unica è prenotare per il giorno successivo, cosa impossibile in quanto saremo già in viaggio per Ciudad. Persa la possibilità dell’escursione rientriamo a rilassarci in camera. Nel centro della casa c’è un piccolo atrio in comune dove facciamo la conoscenza del proprietario. Di origine Boliviana vanta un passato da calciatore ed anche diversi incontri contro “o rey” Pelè, buon parlatore, simpatico, ci illustra con qualche aneddoto le bellezze del suo paese.
Dopo una doccia usciamo per due passi in centro, una sbirciatina per qualche regalo, telefonata a casa e per cena scegliamo un ristorante con un bella balconata che da sulla piazza principale. El Andinito, situato in una grande casa coloniale e gestito da una signora colombiana che, nel mentre, ci consiglia la sua terra per il prossimo viaggio. Il menù è vario ma optiamo tutti per la bistecca chi alla griglia, Marina e Mari, chi a cavallo, credo perché sormontata da un uovo fritto, è il caso di Sergio, ed io alla Cubana perché su di un letto di yucca bollita. Contorno di riso e platano fritto per tutti e per finire dividiamo due dolci in quattro, uno ai fichi, buonissimo, e l’altro con Guayaba entrambi fatti in casa.
Di ritorno il proprietario della posada, saltata la teleferica, ci consiglia il Paramo, a circa tre ore da Merida. La visita al Paramo è un escursione che organizzano tutte le agenzie, ma semplice ed economico è raggiungerla con i mezzi pubblici. E così facciamo. Il Paramo è un habitat andino presente in soli tre paesi dell’america meridionale, Ecuador, Perù e Venezuela in ridotte dimensioni, si sviluppa tra i 3000 e i 4000 metri, clima freddo ed umido, terreno spugnoso, nero, molto acido, permeabile ed una vegetazione di alta quota tra la quale, molto particolari sono delle piante con foglie vellutate e morbidissime. Tutto questo, assieme ad un bosco nebbioso, che è il più alto al mondo, circondano una laguna, la laguna di Mucubay, situata a 3550 metri sul livello del mare. L’autobus parte alle 09,00 dal terminal e dopo aver passato Cucute, Mucuruba e S.Rafael arriviamo al crocevia di Apartadero dove da li una buseta ci porta all’entrata del parco in soli 5 minuti.
Il clima è quello della pianura padana di fine gennaio ma i colori pastello ben si sposano con la diradata foschia rendendo piacevolissimo l’insieme. Per pranzo pane, prosciutto, uva e guayaba, il tutto acquistato al mattino in città. Al pomeriggio ci sorprende una leggera pioggia e decidiamo di ritornare. Sull’autobus conosciamo un ragazzo cubano, studente in medicina, piuttosto belloccio, a detta dalle ragazze, con il quale scambiamo due chiacchiere su Cuba e la sua recente storia.
Tornati a Merida e dopo una veloce doccia siamo al terminal pronti per raggiungere Valencia dove, dopo 525 chilometri, arriveremo alle 05,30.
04 agosto 2006, Arrivati alle 05,30 subito cerchiamo un bus per Ciudad Bolivar ma tutti gli esecutivi sono ormai pieni.. Optiamo per un bus-cama diurno delle 07,15 (668 chilometri) per la cifra di 17 dollari a testa pagati 20 da uno dei mediatori - garimperos che operano allo stato brado nei terminal per conto delle agenzie di trasporto. Tra l‘altro, a mio giudizio, offrono un buon servizio a chi un po’ spaesato capita in un terminal a 10.000 chilometri da casa. Funziona così. I biglietti degli autobus li acquisti nell’ufficio della compagnia con la quale vuoi viaggiare, nell’androne del terminal, molte sono le compagnie e molti gli uffici. Il biglietto è a prezzo fisso, con tanto di prezziario appeso, ma lasciano libere persone, i garimperos, di andarlo a vendere al prezzo che vogliono direttamente sul piazzale. La compagnia ci guadagna in quantità, ha delle persone a prezzo zero che trovano clienti, ed i garimperos (letteralmente i cercatori d’oro) ci guadagnano facendogli la cresta. Come scendi da un autobus non hai il problema di correre a cercare la biglietteria, la coincidenza, la piazzola di partenza dell’autobus, ma arrivano in quindici urlandoti nei timpani le varie destinazioni. Quando hai scelto il tipo che urla la destinazione che ti interessa ti dice il prezzo del biglietto, la piazzola e l’orario e se non sei uno spilorcio ti porta anche le valigie. Solitamente si tengono 2/3 dollari a testa con un italiano, ma con tedeschi e canadesi moooolto di più.
La nostra compagnia è la “ Expresos del Mar” e, dopo una breve sosta a Maracay, ripartiamo. Durante la sosta ho fatto un affarone e per 4 dollari ho acquistato un orologio digitale che ogni ora si illuminava di tutti i colori cantando in spagnolo “ Besame mucho” e, non finita, prima di salire sono stato benedetto da una signora che mi anche letto un passaggio della Bibbia dicendomi che dovevo redimermi. Gli ho risposto che il mio problema è che sono troppo redento e dovrei, invece, lasciarmi andare un po’ di più. Cito un mio carissimo amico d’infanzia, tal Charles Baudelaire: “Andrei in Paradiso per il clima, ma sicuramente all’Inferno per la compagnia”. Risalito sul bus e dopo aver perso più di un ora per un incidente, ci fermiamo in un “autogrill” dove saziamo il nostro appetito con cachapa, queso e carne alla brace.
Lasciamo le ultime montagne per entrare nelle sterminate pianure, alla venezuelana, i Los Llanos. Passiamo Chaguaramas, Valle de la Pascua, Santa Maria de Ipire, El Tigre ed alle 22,00 siamo a Ciudad Bolivar. La città si affaccia proprio sull’Orinoco, che si passa attraversando un ponte, il ponte di Angostura, che è anche l’unico lungo il suo corso. Troviamo posto alla posada “Don Carlos” e riserviamo la stanza per 2 giorni. Di proprietà di un tedesco accasato con una venezuelana, la posada è molto bella, grandi stanze con soppalco, bagno pulitissimo, una cucina per farti da mangiare ed uno spazio comune con bancone bar dove puoi servirti da solo. Il costo della stanza è di 28 dollari con aria condizionata e per chi amasse l’amaca, alla Don Carlos, le affittano per 4 dollari al giorno con bagno in comune.
Riposto il tutto usciamo per cena, ma non saprei dirvi dove, e per una quindicina di dollari ceniamo con platano e porchetta. Nel mentre un poliziotto trascina fuori dal locale un tizio che maneggiava un coltello lungo come il piede di Shaquille O’Neil. L’allarmismo di molti, sulla pericolosità del Venezuela, non lo condivido in pieno anche se sconsiglio le ore buie del giorno. L’alcool, i venezuelani bevono molto, la precarietà lavorativa, l’arte di arrangiarsi conditi con il populismo ed i proclami di Chavez rendono palesemente tutto meno sicuro. Usciti, non prima di aver intrattenuto una piacevole discussione su Garibaldi e Bolivar con un paio di avventori, di lì a poco siamo in camera coccolati dall’aria trattata dal signor Daikin
Al mattino senza aver valutato altre proposte, per praticità prenotiamo l’escursione a Canaima tramite la Don Carlos per 284 dollari (710.000 bolivares). L’escursione consta di 1 notte in amaca di fronte al salto, una in posada, tutti gli spostamenti ed i pasti, per un totale di 3 giorni. Ricordo che i 710.000 bolivares sono stati pagati con soldi cambiati al nero, cioè 284 dollari ( cambio 1 = 2500 ) se pagati con carta di credito equivarrebbero a 330 dollari più le varie commissioni.
Dopo la colazione a base di mango e papaya (che in Venezuela chiamano Lechosa) usciamo e ci dirigiamo verso uno dei più imponenti fiumi al mondo, l’Orinoco. Lungo 2151 chilometri, inferiore rispetto a molti altri fiumi, ma con un grande bacino idrografico ed un immenso delta secondo solo al Rio delle Amazzoni, nasce, scorre e muore interamente in territorio venezuelano. Le sorgenti sono a sud in prossimità del confine brasiliano, si dirige verso ovest guardando negli occhi la Colombia per poi virare bruscamente e lanciarsi nell’Atlantico formando un delta grande come il nord Italia.
Quando tocca Ciudad Bolivar è ormai quasi alla fine del suo viaggio e la città, qualcuno sostiene, sia stata fondata lì, proprio per salutarlo. Arrivati sul lungofiume veniamo a sapere che è giorno di festa, “ Fiesta de la Sapoara”, una festa dedicata ad un pesce, la Sapoara appunto, che è pescabile solo per un mese all’anno, agosto ed i primi giorni di settembre. Molti sono i pescatori, che da sopra le barche puliscono il pesce che poi vendono direttamente ai clienti. Il caldo è insopportabile, facendo due passi lungo il fiume incrociamo moltissima gente, chi vuol venderci birra, chi reti da pesca, amache, refrescos, chi ci tiene a farci sapere che è contro Bush e, forse il più coreografico, un artigiano dello shampoo che ci invita ad acquistare il suo cavallo di battaglia, lo shampoo che fa crescere i capelli. Con ghigno beffardo, rivolto a Sergio, come per dire “ Bè, a te servirebbe” ci mostra tutti i suoi prodotti (perché proprio Sergio?? Be’, se vedete Sergio da dietro non potete scambiarlo per Caparezza!). Il giovanotto è un colombiano con tanto di camice bianco, che si appresta ad indossare appena ci vede, e targhetta sul petto recante la scritta “ Università degli studi di Caracas”. La ricetta dello shampoo è segreta ma dopo tanti “ti prego” riusciamo a scucirgli tre tra gli svariati ingredienti, gel di “aloe vera”, che seduta stante ricava da una foglia, placenta di vacca, che non poteva ricavarla seduta stante ed un’erba amazzonica che solo lui sa dove trovare. Io lo compro, con l’età non si sa mai, 1 dollaro e cinquanta un flacone da mezzo litro. Ringraziamo e sulla via del ritorno ci fermiamo per pranzo in un localino con un stranissimo condizionatore che faceva più casino di un “737”, una parillada, 2 Solera e via per un pomeriggio a poltrire in posada.
La sera decidiamo di cenare a casa, come primo spaghetti al pomodoro, come secondo, contorno dolce e frutta, mango! Preparando il sugo sono stato seguito passo passo da due canadesi, che interessatissime mi chiedevano di spiegare ogni gesto ed ingrediente. Due birre e poi a nanna.
06 agosto 2006. Alle 07,00 siamo in aeroporto ma per alcuni disguidi partiamo alle 08,30 divisi da Sergio e Mari, ad onor del vero i disguidi hanno un nome ed un cognome ed è lo stesso della maglietta e pantaloncini sul bus-cama. Saliamo sul trabiccolo, cinque posti più il pilota, e decolliamo lasciandoci alle spalle la città.
Siamo in compagnia di due spagnoli ed un single pugliese che siede davanti, proprio accanto al pilota. Più che l’aereo, a tenerci in ansia per la nostra pellaccia potè il pugliese. Forse provato da molti chilometri in autobus e coccolato dai movimenti dell’aereo, si addormentava di botto come i bambini dopo la pappa, e sbatteva, svegliandosi, la testa contro il cruscotto del catorcio con tutte le sue leve e pulsanti. Il pilota, con il braccio fuori dal finestrino, tranquillamente, sgranocchiava la sua mela e la cosa non sembrava turbarlo più di tanto, cazzo ma a noi sì!! Scartata l’ipotesi di schiaffeggiarlo, che tra l’altro era la più indicata, decidiamo per una caramella e tante domande per tenere impegnato lui…. e vivi noi. Sotto, intanto, sfilavano bellissimi paesaggi, nessuna strada, si alternavano radure a fitte foreste e sullo sfondo sempre più alti si avvicinavano i Tepuy. I Tepuy sono massicci isolati, altopianeggianti, con pareti a picco alte fino a duemila metri che si ergono in una zona compresa tra il Venezuela meridionale, Guayana e Brasile settentrionale ed hanno modellato un paesaggio straordinario ed unico al mondo. Molto studiati dai geologi in quanto antichissimi e pertanto custodi di risposte alle molte domande circa il nostro passato.
Nota la loro formazione, molto meno i diffusi fenomeni carsici che all’interno erodono e disegnano chilometri di gallerie difficilmente spiegabili in rocce così dure. Ormai ai piedi dell’Auyantepuy, montagna dell’Inferno in lingua Pemon, dopo un ora di volo siamo a Canaima.
Consci del fatto di essere in ritardo, dopo aver passato il piccolo villaggio di Canaima, velocemente raggiungiamo il piccolo porto per salire su di una “curiara” ed in otto persone salpiamo per Salto Angel. Siamo in agosto, stagione di pioggie, ed il rio Charrao è navigabilissimo. Forse fin troppo in quanto la forte corrente e le relative rapide fanno sì che asciutti al salto non ci arriveremo.
Dopo circa due ore di navigazione ci fermiamo sotto una bella cascata per il pranzo ed un bagno ristoratore anche se di ristorarci non ne avevamo bisogno in quanto avevamo già dato. Dopo la sosta ripartiamo a palla, il paesaggio è bellissimo, il verde fitto fa da spalla agli altopiani rendendoli ancora più alti.
Dopo una secca curva a sinistra si presenta in tutta la sua bellezza Salto Angel che ci accompagnerà per l’ultimo quarto d’ora fino ad Isla Ratoncito. Sbarcati ci aspetta circa un’ora abbondante di cammino nella foresta. La foresta è fitta e la scarsa luce solare fa sì che manchi quasi completamente il sottobosco lasciando alle Bromelie l’onore di primedonne. Le Bromelie sono piante epifite, cioè usano altri vegetali come supporto e, come le orchidee, le troverete sempre aggrappate ai fusti di piante più grandi come a chiedere protezione. Non sono sicuro ma credo che anche l’ananas appartenga allo stesso ordine.
Il cammino è agevole, solo nell’ultimo tratto la salita si fa ripida e dietro una grande roccia si presenta a noi Sua Maestà il Salto Angel. La portata d’acqua è limitata rispetto ad altre cascate ma il salto è unico, 979 metri d’altezza di cui 808 in volo libero.
L’acqua arriva in fondo ormai stanca quasi avesse perso ogni speranza di toccar terra formando nuvole di gocce in un fragore assordante. Un piccolo lago, alla base, raccoglie le acque che, accompagnate dal Canyon del Diavolo, poi confluiranno nel Rio Churun, proprio davanti all’accampamento dove in amaca passeremo la notte.
Dopo una breve sosta e le foto di rito riprendiamo la via del ritorno e, fatti 4 passi, ci ha risparmiato i primi 3, ci sorprende un diluvio che ci lascerà solo alla fine del sentiero. Chi non è mai stato a queste latitudini non può capire cos’è un acquazzone tropicale e chi non era lì non può capire quello. Inutile ogni forma di protezione, arriviamo all’accampamento mooolto più bagnati del solito pulcino. Cambio veloce ed esausti ci sediamo intorno ad un lungo tavolo dove ci serviranno la cena. Un po’ stanchi ed un po’ provati dalla pioggia, le espressioni erano le stesse di chi aveva passato mezz’oretta in lavatrice. Ma una no! La Mari si presenta in minigonna nera con pizzi agli orli, camicetta bianca in raso perfettamente stirata, trucco leggero che ben si inseriva nei colori della selva e delle Eliconie che ci circondavano, e capelli con onde da far invidia alla Montalcini. Sembrava essere uscita da una beauty farm, i commensali senza farsi notare guardavano dietro ogni angolo come per cercare una risposta.
Non trovandola, e sinceramente neanche noi, in compagnia di una decina di candele iniziammo la cena con un brindisi a Jimmie Angel. Jimmie, nel 1937, atterrando sull’Auyantepuy con il proprio aereo, dopo una perlustrazione, non riuscì più a decollare ed a piedi in 10 giorni fortunosamente uscì dalla foresta. Fu in questo frangente che scoprì la cascata che ancora oggi porta il suo nome. Scoprire è un punto di vista relativo, frutto dell’egocentrismo di noi “bianchi”, naturalmente la cascata agli indios del posto era nota da millenni, diciamo che ha sparso la voce. Finito il brindisi e la cena ci stendiamo, se così si può dire, nelle nostre confortevoli amache. Ho letto molte opinioni sul fatto che dormire sotto il salto non aggiunge niente ma non mi trovano d’accordo. La notte, con la luna piena lo spettacolo è mozzafiato, l’acqua in caduta si illumina sotto la luce riflessa del nostro satellite e stacca dalle buie pareti del tepuy creando un contrasto che incanta. Ma queste emozioni non le puoi dividere dalla notte in amaca, che con buona pace di chi ci dorme regolarmente, non ha niente a che vedere con i dritti e comodi materassi della Pirelli. Se prendi una ti becchi anche l’altra.
Al mattino sveglia presto, e tutti piegati come se stessimo cercando qualcosa per terra, saliamo in barca per il ritorno.
In favore di corrente il viaggio è leggermente più corto, ma seduti su gli assi della curiara, che sono sicuramente meno duri del diamante ma molto di più del marmo, la differenza il nostro fondoschiena non la nota. Arrivati a Puerto Ucaima, due passi a piedi e siamo in camera. La nostra posada è situata all’interno del villaggio, ma molte e più costose sono affacciate sul lago. La laguna di Canaima raccoglie le acque del rio Charrao che dividendosi in 4 cade in essa formando delle bellissime cascate. Ucaima, Golondrina, Wadaima e Hacha i loro nomi, ed il colpo d’occhio è veramente da cartolina, tal per cui questa laguna risalta sul frontespizio di una nota guida turistica.
Il colore dell’acqua come quello del rio che la forma è un marron-rossiccio, più o meno come il Chinotto, dovuto a sostanze vegetali rilasciate dalla foresta. Dopo 2 ore spalmati sul letto, salpiamo un’altra volta direzione Salto Sapo e Sapito. Entrambe molto belli, hanno la particolarità di permettere il camminamento dietro il muro d’acqua.
Dopo un paio d’ore ritorniamo in posada giusti giusti per la cena. Il dopo cena lo passiamo bagolando con le guide del posto per poi lasciarci andare tra le braccia di Morfeo.
Il giorno seguente verso le quattro del pomeriggio, saremmo dovuti partire alle due, riprendiamo il rottame per far ritorno a Ciudad Bolivar. Nel giardino antistante l’aeroporto di Ciudad si trova, ristrutturato, l’aereo con il quale Mr. Angel si impantanò sull’Auyantepuy e relativa targa commemorativa. Come da accordi, dopo una veloce spesa, torniamo alla Don Carlos.
Per cena non tradiamo gli spaghetti e ce li facciamo al pomodoro ed un ananas come contorno. Una sbirciatina ad internet e ci ritiriamo.
09 agosto 2006. Dopo una doccia ed un abbondante colazione ci rechiamo in un’agenzia per prenotare i seguenti tre giorni nel Delta dell’Orinoco. Valutiamo alcuni itinerari ed i relativi prezzi. L’agente ci elenca i mezzi di trasporto, gli accampamenti ed i tempi. Fatti i conti il tutto ci costa 250 dollari a testa. Attimo di gelo, e presto ci accorgiamo che i conti li abbiamo fatti con l’agente ma non con Marina e Mari. L’altra metà del cielo chiede un time-out di 5 minuti per discutere democraticamente circa l’escursione. Democraticamente, poco dopo, veniamo a sapere, e l’agente con noi, che l‘escursione al Delta era annullata e si partiva per i Los Llanos. Mesi abbiamo pensato al delta dell’Orinoco ed in cinque minuti tutto è stravolto. Visto che i pantaloni li portiamo noi, gonfiamo il petto ed a muso duro facciamo valere le nostre ragioni. Risultato? Quattro giorni nei Los Llanos per 160 euro a testa. Partiamo stanotte. Dopo il pranzo nel solito ristorantino, nel pomeriggio, disordinatamente giriamo la città. Verso le 19,00, carichi dei nostri zaini, cerchiamo un taxi per farci portare al terminal.
Dopo mezz’ora nessun taxi libero, ed incrociati da persone che insistentemente ci consigliavano di non restare sul lungofiume perché molto pericoloso, presi dal panico ed in notevole ritardo, ci rechiamo all’agenzia chiedendo di chiamare un taxi perché disperati.
Nel mentre, proprio in taxi, arriva il proprietario che salutandoci ci cede il posto. In un quarto d’ora siamo al terminal ed al momento di pagare il tassista ci informa che dobbiamo pagare anche la corsa dell’agente. Lui c’ha provato ma ha trovato terreno poco fertile, con tre dollari paghiamo la nostra corsa ed entriamo nel terminal. Il consiglio dell’agenzia è di prendere un autobus per Barinas ( 910 km.), uno che da Barinas ci porti a Mantecal ( piccolo paese nei Los Llanos) e da lì recarsi alla panaderia “Nueva Era” e chiedere di Ramon “el barriga” ( il pancione).
E così faremo.. Alle 21,30 partiamo e dopo 13 ore siamo a Barinas.
10 agosto 2006. Giunti a Barinas subito c’informiamo per l’autobus per Mantecal e visto che parte all’una usciamo dal terminal per il pranzo.Pranzeremo in una rosticceria a due passi dalla stazione con pollo e succo di more.
All’una, puntuali, partiamo per Mantecal. Se in Venezuela ti dicono che qualcosa parte all’una non vuol dire che parte all’una ma semplicemente che non parte prima dell’una. Sembrerebbe un gioco di parole ma tal non è. Se all’una il bus non è pieno aspettano che si riempia, così facendo si ottimizzano i costi ed il relativo prezzo del biglietto. Arrivati a Mantecal alle 16,30 come da accordi ci rechiamo alla panaderia e chiamiamo Ramon. Di lì a poco ci preleva con un pick-up per portarci all’accampamento. Dopo esserci fermati per acquistare una ventina di chili di ghiaccio e viveri, ed averli caricati nel cassone (provate ad indovinare chi c’era nel cassone assieme al ghiaccio) in un’ora siamo a Rancho Grande. Durante il tragitto, lungo la strada, abbiamo visto un paio di caimani che non sono stati svelti ad attraversare e la cosa ha incuriosito tutti, visto il fatto che sulle nostre strade siamo abituati al massimo a vedere dei topolini. Ormai sera, ceniamo ed ispezioniamo il posto. L’accampamento è spartano, senza energia elettrica, direttamente sul fiume, un corpo centrale dove vivono Ramon e la sua famiglia e 3 costruzioni separate, due adibite alla notte ed una, sulla riva del fiume, utilizzata come mensa comune. La nostra è esagonale con 4 finestre coperte da una zanzariera dove trovano posto 2 letti matrimoniali. Il caldo è soffocante e dopo una doccia direttamente da un tubo che prende acqua per caduta da un serbatoio, ci corichiamo.
Sveglia alle 06,00 ed immediatamente usciamo per apprezzare il paesaggio. I Los Llanos sono una vasta pianura distribuita su 4/5 stati del Venezuela (Il Venezuela è una repubblica federale), poco abitata e sfruttata soprattutto per il pascolo dei bovini. Questa è zona di colonizzazione e di relativi latifondi che ancora oggi disegnano il territorio, almeno sulle carte geografiche.
All’inizio del novecento con la complicità di governi corrotti, sono state vendute immense fette di territorio, soprattutto ad europei, che poi venivano destinate a pascolo per il privilegio di pochi. Essendo terre selvagge, in nome dello sviluppo economico, o presunto tale, si sono fatti danni ambientali difficilmente riparabili. Molti ormai sono le specie in via di estinzione, I Piranha, dopo l’introduzione di pesci dal nord america che li combattevano, l’Anaconda decimata per la presunta pericolosità, il Giaguaro per il ludo della caccia e molti esempi ancora. Tutto questo naturalmente non ha giovato alla popolazione, poche persone servono per far pascolare anche migliaia di capi di bestiame, contro enormi guadagni del latifondista a costo praticamente nullo. Molte aziende (Hatos) si stanno riconvertendo in riserve biologiche, accettando turisti da ogni parte del mondo attratti dalle bellezze di questi posti. I prezzi sono relativamente alti, 80/100 dollari al giorno, e sono sicuramente meglio attrezzati di Rancho Grande ma non ne condividono la sincerità e l’accoglienza.
Le pianure si inondano regolarmente con l’esondazione dei fiumi nel periodo delle piogge, aprile/novembre, per poi asciugarsi nella stagione secca. Il silenzio è sovrano, sterminate distese di erba ed acqua si colorano di tutte le tonalità del rosso all’alba ed al tramonto. Molti sono gli animali avvistabili, soprattutto uccelli, facendo un semplice giro a cavallo od a piedi. Tipici di questa zona sono i Capibara (Hydrochoerus Hydrochaeris) il più grande roditore al mondo, le Anaconda (Eunectes Murinus), un serpente costrittore lungo fino a 10 metri, i Caimani (Caiman Crocodilus), piccoli coccodrilli pescatori e l’Ibis Scarlatto (Eudocimus Ruber), un ibis completamente rosso avvistabile, però, solo nella stagione secca causa migrazione.
Dopo la colazione preparata dalla moglie di Ramon, accompagnati da Enrique, sleghiamo i cavalli e ci prepariamo per una giornata in sella. Era la prima volta che cavalcavo un cavallo e vi assicuro che sarà anche l’ultima. Ho avuto il fondoschiena come quello di un babbuino in estro per 10 giorni e credetemi, mai più. La cavalcata è durata circa 5 ore percorrendo la strada che unisce Rancho Grande ad una piccola azienda agricola. Al ritorno, dopo una rinfrescata al sedere partiamo subito con il pick-up per la caccia fotografica all’Anaconda.
Dopo due ore nell’acqua fino alle ginocchia ne troviamo una e dopo che Tony, un llanero di origine spagnola, gli ha bloccato la testa, in 5 la solleviamo. E’ impressionante quanto può essere grande un serpente e questo era lungo, circa 7/8 metri per 150 chili. La circonferenza del corpo nella parte centrale la coprivi con 4 palmi ed al tatto la pelle risultava liscia e fredda. Caricata sul cassone del fuoristrada e portata all’accampamento sarà poi liberata nella riserva. Per cena spaghetti al burro, verdura, pollo in umido, che sarà una costante nel prosieguo e Casabe, yucca tagliata sottile e fritta (credo che ciò che chiamano yucca in centro-sudamerica chiamino Manioca in Brasile).Il dopocena è stato allietato dalla voce e dal Cuarto (sorta di mandolino venezuelano) di Tony che orgogliosamente ci ha cantato canzoni tipicamente Llanere. Dopo il dopocena, ormai buio, in perfetta assonanza con i ritmi della natura ce ne andiamo a dormire.
Durante la notte Marina e la Mari giurano di aver visto un branco di “qualcosa” che pascolava intorno alla nostra stanza senza riuscire, però, a descriverli. Naturalmente io e Sergio, quando i “qualcosa” se ne sono andati e visto che per il caldo ti addormentavi a fatica, siamo stati svegliati per informarci della menata. Ringraziandole per la notizia cambiamo fianco.
Al mattino dopo una bella doccia fredda ci prepariamo per la colazione. L’acqua fredda non è una scelta ma calda non c’è, e vi garantisco che non ne sentirete la necessità. Durante la colazione siamo allietati dal ballo di due Delfini Rosa (Inia Geoffrensis) di fiume che amoreggiano proprio sotto la mensa del Rancho. Molto simili a quelli di mare differiscono per un muso più piccolo ed affusolato, una pinna dorsale quasi inesistente e naturalmente il colore.
I delfini saranno una costante nei quattro giorni che ci fermeremo e facilmente avvistabili in quanto hanno tempi di apnea molto più corti dei loro cugini di mare. Dopo un po’ di relax seduti sulla riva del fiume ci incamminiamo lungo la strada per, a detta di Tony, procurarci il pranzo. Con lenze ed ami ci fermiamo su di un ponte per pescare Piranha (Pygocentrus Nattereri). Non vi dico come sia andata ma a pranzo ci siamo pappati spaghetti e pollo in umido. Nel pomeriggio lunga camminata lungo la strada che dritta come un fuso, geometricamente divide in due la zona, avvistando numerosi caimani, uccelli di ogni tipo, ed un branco di Capibara in lontananza. Dopo cena ormai buio, a naso all’insù, cerchiamo nel cielo qualche stella cadente ma è finita come per i Piranha. La stellata è stupenda, la vista è aiutata dal buio totale e le stelle sembrano più luminose che alle nostre latitudini. Due chiacchiere ed andiamo a dormire.
Al sorger del sole, fatta qualche fotografia, dopo una bella colazione con pan-cake, marmellata e succo di maracuja o frutto della passione (che in Venezuela chiamano Parchita) aspettiamo che preparino la barca per un giro lungo il fiume che costeggia il nostro accampamento. Nel mentre immortaliamo due pappagalli (Ara Chloroptera), dei quali uno prossimo alla pensione, che abitano l’albero vicino alla nostra camera.
Questi bellissimi pappagalli con delle lunghe code e dai colori sgargianti, rosso, verde e blu, per il loro docile carattere facilmente si trovano nei giardini delle case come animali di compagnia. Pronti con la barca, risaliamo il fiume addentrandoci subito nel groviglio di canali che questo formano. La fitta vegetazione in alcuni tratti forma delle volte sopra di noi dandoci un po’ di sollievo dai perpendicolari raggi di queste latitudini e permettendoci di vedere molti animali sugli alberi. Iguane di varie specie, testuggini dal collo torto a pelo d’acqua (Platemys Platycephala) e molti uccelli tra i quali uno molto strano, che a tre metri da lui riusciamo a scorgere solo dopo un quarto d’ora (siamo gente sveglia). Il pennuto in questione è un Nittibio Comune, uccello dalle abitudini notturne, di giorno se ne resta immobile su un ramo con la testa protesa in avanti, mimetizzandosi perfettamente. La livrea ha i colori che si confondono con la corteccia degli alberi ed il becco è interamente coperto da piume. Lasciato il volatile al suo pisolino continuiamo la navigazione avvistando un Martin Pescatore e due pappagalli in volo. Dopo un’ora di navigazione ci fermiamo su una riva del fiume e notiamo un Caimano che da sotto il pelo dell’acqua ci osserva. Avvicinatomi a circa un metro riesco a guardarlo dritto negli occhi. Gli occhi gialli sono fissi e guardano senza incertezze nei miei quasi a dire “sei due volte me ma non mi fai paura”. Adoro gli animali, per la loro fierezza, per l’impavidità, per il rispetto, per la totale assenza di vigliaccheria e perché tutto questo lo cogli in uno sguardo. Risaliti in barca a ritroso percorriamo lo stesso tratto di fiume avvistando un delfino intento a pescare.
Ritornati a casa, pranziamo ed aspettiamo un gruppo di turisti per un safari in fuoristrada. Partiamo verso le 15,00 e dopo un’ora ci fermiamo ai bordi di un campo. Ramon scende dal pick-up ed in compagnia di Enrique, con un ramo a forcella bloccano un caimano e dopo avergli legato la bocca ce lo mostrano. Il caimano, assieme allo Jacarè, è uno tra i più piccoli di questo ordine di rettili, si nutre di pesci, rane e piccoli roditori. Una caratteristica interessante, almeno dal punto di vista biologico-evolutivo, di questo animale è che ha l’ano perpendicolare rispetto alla colonna vertebrale e 18 dita alle zampe, unico tra i parenti del suo stesso ordine. Dopo aver liberato il caimano nel risalire la riva Enrique urta un favo di api ed al grido “le africane, le africaneeee” partiamo a razzo lasciando sola la Marina chiusa nella Jeep. Solo dopo aver seminato i ditteri contiamo le punture, sette Enrique, d’altro canto il casino l’ha combinato lui, e solo un paio io e Sergio.
Nel proseguo del viaggio avvistiamo moltissimi branchi di capibara ed un suggestivo temporale in lontananza. Ormai all’imbrunire i colori del cielo sono uno spettacolo ed i riflessi nell’acqua rendono l’orizzonte ancora più profondo. Il passaggio della Jeep spaventa un bellissimo Formichiere Gigante (Myrmecophaga Tridactyla) nascosto proprio vicino al sentiero. Scesi al volo lo circondiamo tagliandogli la strada e facendogli fare un po’ di ginnastica controvoglia. Riusciamo a scattare qualche foto prima che prenda la via della fuga. Questa specie è la più grande dei formichieri, difficilmente avvistabile in quanto solitario e molto pigro. Dorme dalle 14 alle 16 ore al giorno e si muove solo per la predazione. Lungo fino a due metri, dei quali uno di una folta coda, può pesare fino a 40 chili per un’altezza, alla schiena, di un metro. Marrone scuro con striature bianche e nere si ciba di formiche e termiti che cattura con una lingua viscida e appiccicosa lunga fino a 60 centimetri. Un po’ goffo nei movimenti è dotato di unghie lunghe ed affilate che usa per scavare e che lo rendono piuttosto pericoloso.
Andato l’amico risaliamo sul fuoristrada e torniamo all’accampamento. Dopo cena notiamo un sorta di grossa salamandra intrappolata in un contenitore di cemento adibito a riserva d’acqua, chiamato Ramon, la prende e ce la mostra. Lunga circa mezzo metro è un Tegu Comune, un grosso rettile predatore parente stretto dei Varani. In vena di lezioni di zoologia Ramon cattura due grossi rospi che, se fatti allo spiedo, ci si mangiava in sei. Un caffè veloce poi in branda.
14 agosto 2006. Dopo i saluti partenza da Rancho Grande alle 05,55 ed alle 07,00 siamo a Mantecal. Colazione con panini, prosciutto e formaggio e proprio davanti alla panaderia, alle 08,00 prendiamo l‘autobus che per 6 dollari a testa ci porterà a San Fernando de Apure. Lungo la strada per San Fernando molti sono i posti di blocco, cercano 3 evasi e, nell’ultimo, ormai alle porte della città, ci fanno scendere, dopo una perquisizione e qualche domanda ripartiamo. Alle 11,30 siamo al terminal cittadino, non distante dal fiume che con il santo ha dato il nome alla città, l’Apure appunto, e celeri prenotiamo l’autobus, un bus-cama diurno, che per 9 dollari e 315 chilometri ci condurrà a Maracay. Alle 20,00 siamo a Maracay e dopo vari tentativi troviamo posto all’Hotel Aventino (calle Lopez Aveledo n° 15/a detras de la plaza de toros tel. 245 7412 www.hotelventino.com), decisamente di qualità superiore rispetto alle nostre abitudini: per la cifra di 28 dollari a camera prenotiamo i prossimi due giorni.
Il quartiere, non che ci interessasse ma è decisamente ben tenuto, probabilmente abitato dalla borghesia ricca, e con un’ampia piazza al centro, Plaza de Toros. Il Toros della piazza, come a Wall Street, mette in bella mostra gli zebedei simbolo di fertilità e buon auspicio. A due passi dal nostro hotel c’è una bella pizzeria e per cena decidiamo di tradire la cucina venezuelana e di lanciarsi sulla mediterranea. Ordiniamo due pizze medie “alla napoletana” e 4 birrazze. Poco dopo arrivano le nostre pizze fumanti, e per farci sentire a casa, nella miglior tradizione napoletana, decidono di farci un giro con il ketchup. Chiediamo se possono metterci anche un paio di ciliegine sciroppate, ma ne sono momentaneamente sprovvisti. Terminata la cena facciamo due passi in plaza de toros, una toccatina ai coriandoli e poi a letto.
Dopo la sveglia ci rechiamo in agenzia per cercare un volo per Los Roques. Lo troviamo con l’Avior per l’indomani ed anche se a nostro avviso è un po’caro decidiamo l’acquisto. Lo paghiamo 222 dollari a testa, andata il 16 e ritorno il 19 agosto. Quando saremo in aeroporto al banco della Avior lo stesso volo lo vedrò pagare 162 dollari. Buona cosa sarebbe stata, appena arrivati a Caracas, recarsi al terminal nazionale ed acquistare subito i biglietti facendo un giro tra le varie compagnie, ma del senno di poi son pieni i cimiteri (non so se il proverbio sia così ma ci siamo capiti).
Appena usciti Sergio e Mari decidono per un giro all’Henry Pittier, “noi” per acquisti a Maracay (il noi lo metto per gentilezza). Dopo aver chiesto indicazioni andiamo subito al mercato coperto, una costante in Sud America che sempre mi affascina. Prevalentemente rivolto al cibo, ci fermiamo in un negozietto strabordante di erbe e piante. E’ un negozio di medicina naturale ed il titolare, gentilissimo, ci elenca le varie erbe chiamandole in perfetto latino, con la scientifica nomenclatura binaria, ed illustrandoci le malattie che curano. Il giorno passa curiosando nei vari negozi ed alla sera riforniamo il gruppo e ce la raccontiamo a cena.
16 agosto 2006. Dopo una lunga doccia, sarà l’unica per i prossimi quattro giorni, raggiungiamo il terminal e prendiamo un ejecutivo per Caracas (3 dollari) ed in 2 ore e ½ siamo al terminal “La Bandiera”. Da lì pensavamo ci fosse un autobus per l’aeroporto ma così non è stato. Usciamo e dopo un chilometro a piedi lungo la strada principale, entriamo nell’omonima stazione della metropolitana. Con il primo treno e 20 centesimi di dollaro raggiungiamo la stazione di Gato Negro. Da quella stazione molti sono i mezzi di superficie per l’aeroporto (direzione La Guaira), ma essendo in ritardo decidiamo per un taxi. Contrattiamo per 20 dollari e lasciamo Caracas. La strada per l’aeroporto è sempre molto intasata ed un incidente peggiora le cose. Il tassista, sgaggio, esce dalla statale per prendere una secondaria che si snoda nei Ranchitos (Favelas) che formano l’umile periferia di Caracas. Alle 14,30 siamo in aeroporto in notevole anticipo in quanto il check-in sarà solo alle 16,00. Pagati i 15,5 dollari a testa di tasse aeroportuali mangiamo una pizza ed alle 17,30 partiamo per Los Roques. Con un bielica da 40 posti in 40 minuti siamo sull’isola. Sotto di noi scorrono decine di piccoli atolli ed i colori del mare variano al susseguirsi di quest’ultimi. Atterriamo a Gran Roque, l’isola più grande e la sola abitata delle 350 che formano l’arcipelago. In prossimità dell’aeroporto, da Oscar Shop noleggiamo per tre notti 2 tende per 6 dollari al giorno cadauna.
Dopo aver chiesto il permesso gratuito all’ufficio dell’Imparques, sulla spiaggia montiamo la tenda, in buona compagnia, in quanto molte erano le tende già montate almeno tante quanti gli idiomi parlati. Per cena ci spostiamo in riva al mare e diamo inizio alle danze tagliando la forma di ”Peccorino Paisà”, giuro era scritto così, e terminando con “Jamon de Apure” (prosciutto di Apure) coccolati dal rumore delle onde. Prima di lasciare Maracay, in un supermercato, con 40 dollari, abbiamo fatto provviste che ci manterranno in vita sino al giorno del rientro a Caracas. Con quattro birre brindiamo ai Carabi e ci infiliamo nelle tende.
17 agosto 2006. All’alba smontiamo la tenda e celeri ci dirigiamo al porto per prenotare la barca che ci porterà a Crasquì. Tre sono le isole liberamente campeggiabili, Los Roques è parco nazionale, Crasquì, Francisquì e Madrizquì, sembrano però più polacche che venezuelane, scegliamo la prima perché più lontana e bella. Alle 09,00 partiamo per l’isola e ci accordiamo per il rientro che sarà alle 10,00 del 19 di agosto, due giorni dopo. Il mare è mosso ed il driver non mangia pane e volpe così che la colazione si ripresenta ad ogni onda. L’attracco all’isola ci fa dimenticare il viaggio. La spiaggia è lunga e deserta e la sabbia bianca fa risaltare l’azzurro del mare. Piantiamo la tenda sotto le uniche palme dell’isola e ci tuffiamo per assaggiare l’acqua.
Crasquì, sarà l’unica che vedremo dell’arcipelago, è un isola stretta e lunga circa 3 chilometri, la vegetazione è bassa e cespugliosa e la barriera corallina poco abitata, almeno in prossimità della riva. Sicuramente più bella, a detta di tutti, e con una ricca barriera corallina, è Cayo el Agua, distante circa un ora di mare. Non descrivo i tre giorni sull’isola in quanto dovrei elencare una lunga e monotona sequenza di pennichelle, ma l’emozione di vivere su un isola deserta in mezzo al mar dei Caraibi, con le sole parole è difficilmente trasmettibile a meno che tu non ti chiami Leopardi e sia nato a Recanati. Lascio alla vostra immaginazione perché nel mentre è arrivata la barca a riprenderci.
19 agosto 2006. Di nuovo a Gran Roque, lasciamo gli zaini in prossimità dell’aeroporto e facciamo un giro dell’isola. L’isola è piccola e consta di una sessantina di “Posadas” ed altrettante case di pescatori. Il pueblo si sviluppa alle pendici di una collinetta sulla cui sommità si erge un faro. Ci fermiamo per pranzo in un ristorante sul mare dove mangeremo Barracuda (Sphyaena Borealis) e french fries. Il Barracuda popola tutte le acque tropicali del mondo e negli ultimi anni è sempre più presente anche nel Mediterraneo. Predatore vorace e velocissimo si ciba solo di animali vivi, di color argenteo distinguibile dalla grande pinna caudale e dalla mascella inferiore prominente. Ottima la carne, pochissimo consumata alle nostre latitudini. A pranzo terminato raggiungiamo la vetta della collina dove notiamo che la vegetazione si riassume in piccoli cactus e piante grasse.
L’arcipelago di Los Roques, con le isole ABC (Aruba, Boneire e Curacao) hanno clima tendenzialmente arido e sono fuori dalle rotte dei grandi uragani estivi che regolarmente spazzano il Caribe ed il Golfo del Messico. Scendendo dalla collina facciamo la conoscenza di tre pescatori che ci offrono una canna ed un paio di sorsate di Rhum. Accettiamo entrambe e, dopo i saluti, raggiungiamo l’aeroporto, un po’ più sorridenti di prima. Alle 17,00 partiamo per Caracas dove, per 5 dollari, in taxi raggiungiamo l’Hotel Tanausu a Catia la Mar nel quale passeremo la notte spendendo 12 dollari a testa. La sera ceniamo a base d’aglio nell’omonimo ristorante e stanchi ci corichiamo prima di Carosello.
20 agosto 2006. E’ il giorno della partenza di Sergio e la Mari che saluteremo qui per poi riprendere la via di Caracas. Conosciuti pochi giorni prima della partenza abbiamo trascorso settimane dividendo tutto come vecchi amici, sperando in un invito, perché no, per il prossimo viaggio.
Rimessi gli zaini in spalla in compagnia di due americane arriviamo Caracas. In metropolitana raggiungiamo il quartiere di Altamira dove a pochi passi si trova l’Hotel La Floresta dove ci fermeremo per 2 notti. Sconsigliata dai più perché brutta, sporca e pericolosa, mi sento in dovere di aggiustare il tiro. Non fa eccezione di tutti i problemi che sopporta una grande città, a tutte le longitudini, ma i pregiudizi che mi ero fatto sono stati disattesi. Inserita in una valle con estese foreste a farle da contorno gode di ottimo clima. Il traffico è sicuramente inferiore e meno caotico di quanto mi aspettavo, pochissimi i grattacieli, per lo più palazzi bassi e ben distribuiti, numerosi e ben tenuti i parchi cittadini. Più che parchi pubblici sembrano orti botanici con vaste aiuole fiorite e curate.
Essendo molto vasta a piedi abbiamo visitato la zona intorno al nostro alloggio che con La Mercedes e La Castellana definiscono la zona più elegante. Proprio girando molti parchi tra i quali l’orto botanico adiacente all’università abbiamo trascorso il primo giorno di permanenza terminando la serata in un ristorante dove, alla griglia, cucinavano ogni tipo di carne.
21 agosto 2006. Alla sveglia, dopo la colazione in hotel, in autobus arriviamo in Plaza Venezuela dove, a pochi passi, raggiungiamo e visitiamo il Museo D’Arte Moderna. Usciti dal museo ci consigliano il piccolo villaggio di El Hatillo, borgo coloniale ristrutturato ed ideale per gli acquisti di fine vacanza. Poco distante da Plaza Bolivar, la prima che incontriamo dedicata al Libertador, si trova il più grosso negozio di souvenir che abbia mai visto nel quale Marina è entrata per riapparire dopo 3 ore con due striminziti pappagallini in legno.
Ormai incosciente, non per la lunga attesa ma per le birre che sorseggiavo nella vana attesa di vederla uscire, riprendiamo l’autobus e torniamo a Caracas in circa un’ora. Nel teatro all’aperto proprio al centro dei giardini di Altamira seguiamo una rappresentazione di bravissimi artisti di strada per poi finire la serata in una pizzeria a due passi dall’albergo. Nell’uscire dalla pizzeria ci consegnano una pizza uguale a quella che abbiamo mangiato in quanto è giorno di “ compri due paghi uno”.
22 agosto 2006. Oggi è l’ultimo giorno e lo dedicheremo all’acquisto del rhum. Su indicazioni del portiere dell’hotel ci rechiamo alla più grande “licoreria” di Caracas ma credetemi, trovarla è stata un’impresa. Le indicazioni dei passanti erano completamente discordanti ed abbiamo girato su noi stessi per due ore, tanto che ho fin pensato che Caracas si fosse messa d’accordo per farmi uno scherzo. Dopo aver finalmente trovato la tienda ed aver acquistato sette bottiglie di quello buono, torniamo in hotel e, recuperati gli zaini, in men che non si dica siamo all’aeroporto. A metà del ponte che conduce alle partenze dei voli intercontinentali lasciamo cadere gli zaini e ci fermiamo un istante, uno sguardo alla strada, alle sue Cadillac, alla sua gente e ripetendo un gesto fatto tante volte, ci carichiamo gli zaini in spalla e, contenti di averlo fatto insieme, ci ritroviamo dove tutto è cominciato ....... circa un mese fa.