Vedere Panama e innamorarsene!

Da un viaggio in Centroamerica a una scelta di vita: mollare tutto e trasferirsi là!

 

Periodo del viaggio: Marzo-Aprile 2006 (poi Dicembre 2006-marzo 2007).
Partecipanti: due persone Info: Lonely Planet, internet (ricerche su Google), passaparola.

Come spostarsi

Volo: Amsterdam-Miami-San Josè. (prezzi più competitivi: CTS).
Costa Rica: San José-Cahuita-Puerto Viejo-Guabito (Sixaola).
Panama: Changuinola-Bocas del Toro-David-Playa Las Lajas-Panama City-San Blas.
Spostamenti: Bus, minibus, voli interni, taxi acquatico, lancha.

Da non perdere

Partenza il 10 Marzo da Bologna; prendiamo il volo per Amsterdam, dove siamo “costretti” a fermarci una notte causa limitata disponibilità. Per nulla dispiaciuti decidiamo di prendere un alberghetto in centro per poterci godere la città, mai visitata da nessuno dei due. Bellissimi i musei, a partire dal Van Gogh, proprio di fronte al nostro albergo.
Il giorno dopo ci imbarchiamo sul volo per Miami, dove abbiamo la coincidenza: dopo le solite 2 ore di dogana riusciamo per un pelo a prendere il nostro volo. Arriviamo a San Josè che è già mezzanotte, fortunatamente ostello e transfer in taxi già prenotati. L’ostello è perfetto: in pieno centro (di fronte al tribunale), internet e caffè gratis, telefonate internazionali a prezzi modici, uso cucina, pulito ma soprattutto una buena onda e sicurezza (Backpackers Hostel, http://www.costaricabackpackers.com).
Proprio lì vicino c’è un bel ristorantino di cucina tipica, prezzi buoni e cucina ottima! Alcune pietanze vengono addirittura servite su taglieri di legno ricoperti da foglie di banano.
La mattina dopo ce ne andiamo un po’ a zonzo per la città, a cercare un posada per la colazione, poi, finalmente con lo zaino in spalla, andiamo al Terminal Caribe per prendere il bus per Puerto Viejo. Proprio sul bus incontriamo una coppia di italiani che ci parla di Playa Cahuita, così decidiamo di fermarci anche noi lì, per poi proseguire, dopo qualche giorno, per Puerto Viejo.
Arriviamo tardissimo a Cahuita, causa strade messe male, e ci fermiamo nel primo alberghetto che troviamo, stanchi morti ma “felici” di essere finalmente nel bel mezzo delle giungla caraibica.
Il giorno dopo lo spettacolo è mozzafiato: a sinistra del paese c’è il parco nazionale: un promontorio dalle rive di sabbia bianchissima e dalla folta vegetazione, habitat di una miriade di animali, dai granchi azzurri ai bradipi. A destra c’è Playa Negra, una spiaggia infinita e semideserta dalla nera sabbia vulcanica.
Intanto troviamo un piccolo ostello, un po’ fatiscente, ma molto caratteristico, tranquillo e a buon prezzo. Rimaniamo lì per 4 giorni, abbagliati dalle bellezze del luogo, abbandoniamo definitivamente anche l’uso delle infradito e ci mettiamo a camminare scalzi come i locali, che sembrano subito apprezzare la cosa.
Ormai è giunto il momento di “abbandonare” i nostri nuovi amici, di buona mattina prendiamo il bus per Puerto Viejo, dove alloggiamo in un eco-camping ancora più spartano dell’ostello, ma ricco di viaggiatori con storie interessanti da raccontare, primi di tutti i proprietari, alcuni ragazzi argentini che da giramondo si sono trasformati in “albergatori”. Anche questa cittadina è molto bella, ma già più sviluppata di Cahuita. I locali si dimostrano abbastanza cordiali, una volta capito che non siamo “gringos” dal portafogli rigonfio. Ne incontriamo parecchi e con tutti scambiamo qualche parola di fronte al tramonto e qualche birra.
Dopo due notti passate attorno al fuoco, a nostro malgrado siamo “costretti” (dalla tabella di marcia) a ripartire, così saliamo sul minibus per la frontiera di Guabito-Changuinola. Inutile sottolineare che il viaggio in bus è stato stupendo, quasi un tour nei piccoli paesini sorti ai margini delle piantagioni di banane, anche se, ovviamente, pigiati tra persone e scatole piene di polli e pulcini pigolanti.
Arrivati a Guabito, sotto una pioggia scrosciante, arrivamo, praticamente sguazzando nel fango, alla frontiera, che altro non è che un vecchio ponte ferroviario in disuso che unisce le due nazioni: ad un lato si è in Costa Rica, all’altro si è già a Panama. La frontiera più bella della mia vita!
Arrivati a Changuinola, prendiamo il taxi che ci porta al porto, dove raggiungiamo Isla Colon, nell’arcipelago di Bocas del Toro, in acqua-taxi. L’isola non ci fa una buona impressione, gli anni di turismo “di massa” si fanno notare, in giro moltissimi turisti, soprattutto americani, più interessati a sbraitare, a bere e altro che alle bellezze naturali. Anche i locali si comportano di conseguenza: appena sbarcati ci assalgono, prima cercando di portarci al loro ostello “di fiducia”, poi cercando di venderci di tutto. Rimpiangiamo un po’ la gente di Cahuita e Puerto Viejo, che ci ha regalato tante belle chiacchierate e tanti argomenti su cui pensare.
Decidiamo subito di spostarci in un’isola meno commerciale e troviamo il piccolo paradiso di Bastimento, dove alloggiamo due notti all’Hostal Bastimento, caldamente consigliato: oltre ad essere meraviglioso, è provvisto di internet, telefono, cucina e una vista mozzafiato sull’arcipelago e la baia.
La pioggia però ci rovina un po’ i piani, quindi decidiamo di fare rotta verso il Pacifico, dove di piogge, in estate, non c’è neanche l’ombra. Ritorniamo in barca a Changuinola e proseguiamo in bus per David, capitale del Chiriqui. Arriviamo che è già buio, ma riusciamo a prendere al volo l’ultimo bus per San Felix, da dove, con il taxi raggiungiamo finalmente la Playa! Fortunatamente la marea è bassa, quindi il tassista ci può accompagnare fino a Las 3 Palmeras, quattro chilometri dopo la fine della strada. Il viaggio in jeep su quella spiaggia immensa e buia è “surreale ma bello”, così come le stelle che sembrano tuffarsi in mare.
Arriviamo al camping e non appena scendiamo dalla macchina il ragazzo del bar corre ad abbracciare Massimo, il mio compagno, che era già stato lì due anni prima. Ci fanno una festa improvvisata, come se fossimo dei parenti che non vedono da anni.
I giorni a Las 3 Palmeras scorrono lentamente, scanditi dalle maree, dai tramonti, dagli immancabili festini serali, dalla gente stupenda che conosciamo. I locali imparano a conoscerci, un po’ per le mie pastasciutte, un po’ per le partite a calcio di Massimo sulla playa, dopo una settimana ci sentiamo già parte della loro comunità… in paese tutti ci conoscono (anche chi non ci aveva mai visto prima) e ci salutano, si fermano per scambiare due chiacchere.
Un giorno, mentre camminiamo per le viuzze del paese, ci fermiamo a guardare un bellissimo giardino di buganvillee multicolori con all’interno un “pavo real”, una sorta di pavone con la faccia da tacchino. Mentre siamo lì a guardare un po’ stupiti questo strano animale da giardino, esce la padrona di casa, una vecchina creola, che ci chiede da dove veniamo e se ci piace il posto. Noi le rispondiamo estasiati, dicendole che sia il posto che la gente che lo abita sono stupendi. Allora la vecchina ci dice: “siete buona gente, perché non trovate della terra e venite a vivere qui con noi?”. Rimaniamo a bocca aperta… la vecchina ride e rientra in casa, noi ci guardiamo in faccia un po’ sconvolti: la vecchina aveva detto quello che entrambi avevamo “paura” di dire all’altro.
Da questo momento la nostra vacanza e anche la nostra vita cambiano: il giorno dopo, come già pianificato, partiamo alla volta di Panama per prendere il volo interno per San Blas, mitico arcipelago corallino al confine con la Colombia abitato esclusivamente dagli indios Kuna. Per quattro giorni ci godiamo il paradiso tropicale costituito da 365 atolli corallini, di cui solo una sessantina abitati. Le rigide leggi dei Kuna sono riuscite a tenere lontano villaggi turistici e resort, e tutte le attività della comunità, dal turismo alla pesca, sono degli indios stessi. Il vero Caribe, come altrove era forse ai tempi di Gaugain!
Dopo questi quattro giorni passati a fare snorkeling e mangiare pesce appena pescato nel paradiso dei Kuna, ritorniamo quasi con ansia a Panama City, per riprendere il bus che ci riporta nel nostro paradiso, Playa Las Lajas. Appena arrivati ci mettiamo subito al lavoro per trovare la “terra promessa” di cui parlava la vecchina, e nel giro di pochissimi giorni… la troviamo! Iniziamo le trattative con i proprietari, ripromettendoci di tornare nel giro di qualche mese per far diventare quel pezzo di terra il nostro futuro.
Con molto dispiacere arriva l’ora di tornare verso San Josè dove, a giorni, ci aspetta il volo di rientro verso l’Italia. Da San Felix prendiamo il bus diretto per San Josè, dove pernottiamo nuovamente al Backpackers per poi prendere l’aereo la mattina dopo.
Tornati a casa, la nostra testa non ha spazio per nient’altro che il nostro sogno, cominciamo a studiare tutto su Panama, dalla geografia, all’economia, contattiamo chiunque ci possa dare informazioni utili, dall’ICE (Istituto Commercio Estero del ministero degli esteri italiano) all’IPAT, l’istituto panamense del turismo. Custodiamo gelosamente il nostro “segreto”, soprattutto per scaramanzia ma anche un po’ per timore che famiglia e amici ci prendano x pazzi…
Dopo sei mesi di “sofferenza” finalmente arriva il momento di ripartire per la nostra nuova casa. Il 10 Dicembre 2006 ci imbarchiamo su un volo per Panama City dove siamo costretti a rimanere per dieci giorni per sbrigare le pratiche burocratiche. In questo lasso di tempo impariamo ad amare anche la nostra nuova capitale, i suoi quartieri poveri come Casco Viejo e Calidonia, il cuore finanziario pieno di grattacieli futuristici che si specchiano sulla baia (Marbella), le sue zone residenziali (tra gli altri il quartiere ebraico e quello di Bella Vista) dalle ville coloniali, spesso ormai decadenti, che vantano parchi privati spettacolari: dei piccoli angoli di giungla nella metropoli…
Arriviamo a “casa” poco prima di Natale e ci rimbocchiamo subito le maniche: prima il taglio dell’erba e la pulizia del terreno, poi la costruzione del nostro primo ristorante, un chiosco provvisorio (in attesa della costruzione vera e propria) un po’ sbilenco ma fatto totalmente con le nostre mani. Una sensazione indescrivibile!
A gennaio 2007, dopo quasi due mesi di full-immersion quasi ascetica nell’indescrivibile bellezza naturale del luogo, ci raggiungono a Playa Las Lajas degli amici di Modena. Prendiamo l'occasione e, assieme a loro, accettiamo l'invito di un “amigo” del pueblo, Raoul, che si offre come guida per il guado delle mangrovie e la risalita sull'unica altura della zona, una collinetta scoscesa alle spalle della spiaggia. Ci viene detto che lassù in cima, oltre che una vista mozzafiato abbraccia le foci dei due fiumi, che segnano il limitare dei 14 chilometri ininterrotti di battigia, e le isole di fronte, vi sono sparse rocce vulcaniche porose, solcate da antichi geroglifici Indios quasi svaniti, la cui memoria si perde nelle generazioni passate; pochi stranieri, ci dicono, sono saliti fin lassù per ammirarli.
Aspettiamo le 2 del pomeriggio del giorno dopo, da secoli il momento in cui la marea si ritrae pigramente, lasciando la battigia secca per quasi un chilometro e abbassando il livello del canale di acqua salmastra in cui sorge la foresta di mangrovie. L'unico momento del giorno, ci dicono, in cui il guado non è particolarmente rischioso.
Ci presentiamo con le nostre scarpe da trekking, la nostra guida scuote il capo e ci spiega pazientemente che non è possibile camminare tra le radici, fino alla cintola nell'acqua fangosa, con delle scarpe ai piedi, l'unico modo è senza. Un po' stupiti, un po' intimoriti ci mettiamo le "changletas", le infradito, e ci incamminiamo in fila indiana lungo il limitare del pascolo, che si trova tra la strada e le mangrovie. Arrivati ad un certo punto, la nostra guida alza con la punta del machete la parte superiore della staccionata di filo spinato e ci fa segno di passare in mezzo. Inutile dire che ci ho lasciato un pezzo di maglietta attaccato. Superato tutti il filo spinato, ci ritroviamo nel pascolo nell'erba alta fino alla coscia. C'è una piccola mulattiera quasi invisibile che segna il cammino che porta all'entrata del "manglar": arriviamo quasi a metà quando una cinquantina di torelli, giovani ma già provvisti di un bel paio di corna, si riunisce di fronte a noi, guardandoci con occhi terrorizzati e curiosi. Subito ci preoccupiamo della situazione, ma veniamo tranquillizzati con un "no te preocupes, se non alzate le mani di scatto non ci caricano". Guadagniamo il più velocemente possibile il limitare della foresta, i cui alberi da vicino appaiono immensamente più alti e maestosi di quanto non sembrino dalla spiaggia.
Ci viene spiegato che qualche anno prima è stato scavato tra le radici un canale profondo fin sotto il livello della bassa marea, per far passare un tubo dell'acqua: noi l'avremmo risalito con il favore della secca. Ci togliamo anche le infradito e cominciamo, sempre in fila indiana, ad avanzare nell'acqua melmosa, sulle radici scivolose del fondo. Nel giro di pochi metri siamo immersi fino alla cintola, senza poter vedere dove stiamo mettendo i piedi, che ogni tanto trovano un punto vuoto e ci fanno scivolare in acqua fino alle spalle. A questo punto mi sono chiesta..."ma chi cavolo me l'ha fatto fare???", ma, non avevo ancora finito di pensarlo, che ecco planare sopra di noi un piccolo stormo di pappagallini dalla sgargiante livrea verde. Tutta la bellezza selvaggia, aspra, eppur delicata della natura mi appare davanti agli occhi e rende certamente più sopportabile l'acqua densa e scura in cui siamo immersi. Finalmente arriviamo ad un ponticello che ci permette di evitare l'ultima parte del guado, dove l'acqua è sempre alta e l'unica maniera di passare è nuotare.
Ci fermiamo per un po' ad ammirare la foresta, immobile nel suo silenzio quasi mistico, rotto solo dai fruscii delle foglie e dai brevi richiami degli uccelli, che volano armoniosi da un ramo ad un altro. L'erba è molto più alta che nel pascolo, mi arriva alle spalle, la nostra guida, che ci precede, apre un varco a colpi di machete. Quasi mi dispiace disturbare il placido equilibrio di quella distesa verde che ondeggia sinuosa al minimo soffio di vento.
Cominciamo la lenta risalita verso la sommità del "cerro". Ci viene fatto promettere da Raoul di rivolgere le spalle alla baia sottostante durante l’ascesa, per evitare di rovinare lo spettacolo finale. Accettiamo di buon grado e continuiamo a salire, con le nostre ciabattine per niente adatte alla passeggiata. Arrivati nei pressi della cima, tra gli alberi che sono più che altro arbusti dal tronco tortuoso, scavato dal vento e dal sole, ci sono, sparsi qua e la, quasi un gigante li avesse scagliati lì, dei massi di roccia vulcanica porosa e friabile, coperta da un sottile velo di licheni. La nostra guida fa scorrere la punta del machete su dei piccoli canali appena accennati ed ecco balzare ai nostri occhi la linea dei vecchi graffiti. Ce ne sono molti, la maggior parte consumati dagli elementi, c'è una sorta di drago, un occhio, un coccodrillo e altre figure per noi incomprensibili.
Essendo così presi a giocare ai piccoli Indiana Jones, ci scordiamo quasi della "sorpresa", che non tarda a lasciarci senza parole per la sua indescrivibile visuale. Una sensazione animale di pura libertà, lassù sopra la playa, sul tetto di quel piccolo mondo naturale, con le isole tutt'attorno come una collana, ma di certo ben più preziose di qualsiasi gioiello. Ed ecco la foce del fiume al limitare est della battigia che si allarga in una laguna, tutta la lunghissima lingua di sabbia che si va allargando man mano che la marea si ritrae, lasciando un velo d'acqua che riflette il cielo...
Ci laviamo via il fango delle mangrovie in un ruscello di acqua limpidissima e gelida, dove riusciamo anche ad intravedere una di quelle simpatiche lucertoline che corrono sul pelo dell'acqua.
Dopo le foto di rito, scendiamo per l'altro lato della collina, dove incrociamo la strada che porta alla spiaggia. Proprio all'ultima curva troviamo un grande stagno dove le mucche convivono con fenicotteri neri, bianchi e rosa. Stanchi ma colmi dell'avventura appena vissuta, ci incamminiamo sulla spiaggia verso le nostre capannine di bambù, dove ci aspetta una buona razione di “pollo frito y arroz” ma, soprattutto, un bel paio di cervezas Atlas a testa.

Purtroppo a Marzo 2007 siamo “dovuti” ritornare in Italia per organizzare il grande trasloco e un bel po’ di tempo ci manca per tornare, finalmente, nel nostro paradiso… ma Dicembre non è neanche poi così lontano e sarà l’inizio della nuova vita! Voi che ne pensate?
Elisa e Massimo

 

4 commenti in “Vedere Panama e innamorarsene!
  1. Avatar commento
    LA Spiaza
    25/02/2011 14:03

    si, viviamo da 4 anni a Playa Las Lajas. puoi guardare il sito delle ICE (istituto commercio estero) della farnesina per avere info. In bocca al lupo! Ely

  2. Avatar commento
    ely
    25/02/2011 00:45

    Ciao sono interessata al costa rica! Avete poi realizzato il vostro sogno? Vorrei scambiare quattro chiacchiere con voi... Hasta pronto, ely

  3. Avatar commento
    Giorgioshanty
    25/07/2008 17:53

    Meglio comprare dolari in Italia .

  4. Avatar commento
    Pollon
    29/01/2008 12:45

    Di un consiglio avrei bisogno.sto epr partire per il costarica ed il nicaragua vorrei sapere dove e' piu' conveniente cambiare i dollari se in Italia o direttamente la'.Riguardo l'euro?e' ben accettato da tutte le parti?Grazie

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