Perché questo titolo?
Direi che gli aspetti più evidenti di un viaggio in Myanmar sono le migliaia di cupole, templi, pinnacoli che ci hanno sovrastato per la quasi totalità del viaggio.
Ma, subito sotto, ecco il sorriso dolce delle persone che si prestano a farsi fotografare, a dispetto della vita dura e senza garanzie che conducono (ma questo lo sappiamo noi, loro non dicono nulla).
La grazia delle sue donne nel cullare un bimbo, nel venderti una collana di conchiglie, nel trasportare un carico di mattoni sulla testa.
E' un paese di sorrisi, soprattutto, di una dolcezza disarmante. Per questo la Birmania ti entra nel cuore e soffri per lei.
Già da tempo Ivo mi chiedeva di fare questo viaggio.
Io c’ero già stata nel 1997, facendo quello che è tuttora il giro classico: Yangon, Pyay, Bagan, Mount Popa, Mandalay e stupenda regione limitrofa, per poi scendere al Lago Inle, Pindaya, Kalaw, Bago e Yangon di nuovo. Il viaggio l’avevo organizzato una volta raggiunta Yangon grazie a una piccola agenzia locale che mi aveva messo a disposizione macchina e autista. Gli alloggi, diciamo “molto basic”, li avevamo reperiti tappa per tappa grazie al nostro dolcissimo autista Uim. Si era trattato di uno dei miei viaggi più belli e intensi, a contatto con una popolazione che non ha eguali in fatto di gentilezza e disponibilità. Si era trattato di un viaggio nel tempo, in questo paese al giogo di un regime totalitario, rimasto indietro di decenni rispetto a molti vicini del sud-est asiatico. Si era trattato, insomma, di un viaggio che hai voglia di ripetere, di luoghi che hai voglia di rivedere, di conoscenze che hai voglia di approfondire. Il tutto, ovviamente, scendendo a patti con l’invito, fatto nel 1995 da Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione al governo e agli arresti domiciliari a Yangon da ancor prima che il suo partito vincesse le elezioni del ’90 - e che da allora vive in stato di semi reclusione - a non visitare il paese. Si tratta di una questione da affrontare prima di decidere di fare questo viaggio e non è forse mia competenza riportare i termini delle due posizioni: la mia scelta, sia la prima volta che questa, è stata di andare cercando di portare con la mia presenza il massimo beneficio possibile al singolo individuo, a imprese private, piccole agenzie, compagnie aeree private (in questo viaggio). Ognuno è poi libero di prendere le proprie decisioni, anche differenti dalle mie.
Saltato un altro progetto, mi trovo a inizio dicembre con un volo su BKK in waiting list. In attesa della conferma finale, che arriva solo a due settimane dalla partenza, cerco di capire cosa potrei eventualmente visitare nel Paese, visto che voglio evitare di rifare lo stesso viaggio della volta scorsa. Alla fine, nei pochi giorni a mia disposizione, cerco di fare stare: qualche giorno di mare, una meta nuova e l’approfondimento di un luogo già visto. Si rivelerà un’impresa, visto il periodo natalizio e i complicati orari delle tre compagnie aeree private che operano i voli interni birmani, e solo grazie a una piccola agenzia di Yangon, la KST Travel, che mi controlla in tempo reale la disponibilità dei posti e l’effettiva esistenza dei voli (fattore da non sottovalutare) riesco a combinare le tre mete. Nel valutare le varie ipotesi di viaggio, scopro inoltre che appoggiandosi a una agenzia, si ottiene qualche dollaro di sconto sia sulle tariffe aeree che su quelle degli hotel, il che non guasta.
Dopo aver più volte modificato i piani a causa degli orari aerei, a una settimana dalla partenza ho l’operativo voli definitivo e faccio partire una piccola caparra per la KST: ci tengo a sottolineare che il loro aiuto è stato basilare, visto il pochissimo tempo a mia disposizione per organizzare il viaggio, e si sono sempre dimostrati estremamente disponibili, al di là dei grossi problemi di comunicazione dovuti ai frequentissimi blackout a Yangon che me li facevano sparire per ore nel bel mezzo della trattativa via e-mail. Li ho scelti un po’ a caso, in realtà, sulla base di un racconto di viaggio reperito in rete: volevo una piccola agenzia, non pubblicizzata dalla Lonely Planet, e l’Adventure Myanmar utilizzata nello scorso viaggio, è ormai diventato un colosso.
Dopo aver trovato i voli, è partita la ricerca degli hotel, più che altro con scelte obbligate, a causa dell’affollamento della località di mare, Ngapali, e di alcuni voli ad ore antelucane che mi hanno fatto scegliere l’hotel più vicino all’aeroporto di Yangon. Molti dettagli li ho poi definiti una volta arrivata in loco, ma all’imbarco del primo volo gran parte del viaggio era già programmato e, cosa più importante, tutte le date fissate.24/12/2006
Niente di particolare da segnalare per il volo Thai che da Francoforte ci porta a BKK, se non l’inconveniente del secondo check-in obbligatorio, durato due ore, nell’enorme e scomodo aeroporto tedesco: malgrado i bagagli siano già stati inviati alla meta finale da Milano, siamo costretti a fare un’interminabile coda per le sole carte d’imbarco.
Senza gli intrattenimenti di bordo che certe compagnie e certi velivoli offrono, il volo, un notturno, mi sembra senza fine, ma si sa che quando si è in partenza, la tolleranza ai disagi è nettamente maggiore rispetto al ritorno.
25/12/2006
Sono perciò stordita quando atterriamo nel nuovissimo aeroporto di Suvarnabhumi, in un tripudio di strutture avveniristiche e luce. La procedura di immigrazione e il ritiro bagagli mi pare richiedano meno tempo rispetto al passato, tant’è che nel giro di mezz’ora siamo già a bordo di un taxi (200 Bath - 4 euro) diretti al Novotel Bangna, a pochi chilometri di distanza dall’aeroporto, dove contiamo di passare la notte che ci separa dal volo AirAsia per Yangon (prenotazione via internet circa 45 euro). Impossibile riposare: è da qualche anno che non torniamo in questa incredibile e caotica metropoli asiatica e la voglia di fare un giretto ci spinge a uscire ben presto, nonostante gli invitanti lettini accanto alla piscina promettano qualche ora di relax totale al sole.
Bangna è una cittadina ricca di negozi e centri commerciali a breve distanza dal limite est della capitale e quindi dal capolinea della sopraelevata, l’unico mezzo vincente nel terrificante traffico e smog di Bangkok. Con meno di 2 euro di taxi per raggiungere il terminal, ci troviamo in breve a bordo di uno dei “vagoni frigorifero” dello sky train, diretti al grande magazzino Central Chidlom, scelto a caso sulla cartina. Ogni volta che visito BKK, mi piace fare cose diverse, tanto, se si tratta di shopping, qui sono sempre scelte vincenti.
Ed infatti, passiamo il pomeriggio a curiosare e fare spese, acquistando tra l’altro vari articoli che non avevamo avuto il tempo di prendere prima di partire (o che semplicemente ho dimenticato). Questo grande magazzino, gigantesco e collocato su più di 10 piani, servito da qualche centinaia di addetti alla vendita e alle casse, diventa il nostro campo giochi in questa insolita giornata natalizia: dopo il primo acquisto, scontato per via di un qualche anniversario, entriamo in possesso di un primo buono sconto che scambiamo con alcuni buoni a sorpresa che comportano altri sconti su ulteriori acquisti che permettono di “pescare” altri buoni: insomma giusto l’ora tarda e lo stordimento del fuso orario, riescono a staccarci da questo girotondo da maniaci dello shopping.
E dopo una rapida cena in un semplice ristorante cino-thai affacciato sul viavai di centinaia di persone indaffarate, ce ne torniamo all’hotel per un po’ di meritato riposo.
26/12/2006
Sveglia poco dopo le quattro per raggiungere alle cinque l’aeroporto, giusto in tempo per questo volo antelucano su YANGON (Airasia, circa 60 dollari a persona).
Al contrario di quanto capita in Malesia, qui il check-in richiede molto tempo e le code sono lunghissime. Abbiamo solo il tempo di passare l’immigrazione, raggiungere il nostro remoto gate e imbarcarci: la preparazione al volo richiede più tempo che non volare a destino, dove arriviamo puntualissimi alle 8,30. Un po’ più laborioso è qui il controllo passaporti, ma una volta effettuato e recuperati i bagagli, siamo pronti per affrontare la nostra prima giornata birmana, che è splendida e illuminata da un bellissimo sole.
Peccato che non sia altrettanto puntuale la nostra guida, incaricata dall’agenzia di venirci a prendere. Racconto questo episodio solo per cercare di far capire la gentilezza e la disponibilità dei birmani: ci ritroviamo infatti in mezzo ai vari incaricati delle diverse agenzie, probabilmente con uno sguardo un po’ perplesso, visto che nessun cartello riporta il nostro nome né tanto meno quello della nostra agenzia. Si avvicina un ragazzo, una guida, e ci chiede in un italiano decisamente buono se abbiamo bisogno di aiuto. Gli spieghiamo, anche un po’ diffidenti, devo confessare, che pensavamo di trovare una guida della KST ma che evidentemente non è ancora arrivata. Al che lui, senza chiederci nulla in cambio, cerca nella sua agenda, chiede in prestito il cellulare a un’altra guida, e chiama la nostra agenzia per sapere dove sia finito il nostro accompagnatore. Rassicurati da lui, e confortati all’idea che l’agenzia esista veramente, aspettiamo insieme pazientemente l’arrivo del nostro ritardatario, e lui dei suoi clienti, ancora occupati nel disbrigo delle pratiche di immigrazione. Una volta giunta la nostra guida, ci salutiamo e ci augura un buon soggiorno in Myanmar: a giudicare dalla sua cortesia disinteressata, direi che la nostra esperienza birmana comincia sotto i migliori auspici.
Discorso ben diverso per il nostro accompagnatore: scopriamo che essere in ritardo non è il peggiore dei suoi difetti. Ben più grave è il fatto che lo paghiamo per avere una guida parlante italiano, ma lui l’italiano non lo sa: una fatica immane per cavargli quattro parole, impossibile effettuare una conversazione. E sarà ancora peggio, quando per spiegarci le meraviglie di Yangon, si affiderà esclusivamente alla lettura di un quadernetto su cui ha riportato, parola per parola, quanto scritto nella stessa Lonely Planet in mio possesso. Insomma, la mia idea di avere una comoda conversazione in lingua italiana, per facilitare a Ivo il primo impatto con la Birmania, visto che lui mastica poco l’inglese, fallisce miseramente. La prendiamo con filosofia e con una risata: che l’atmosfera birmana ci abbia già contagiato? Questa risulterà essere l’unica mancanza da parte della nostra agenzia, per il resto attentissima e molto disponibile.
Del resto la guida ha attestati di frequenza di 5 anni alla scuola di italiano di Yangon: ma evidentemente nessuno gli ha chiesto di mostrare le pagelle!
La prima novità che mi colpisce mentre ci rechiamo al nostro hotel è il traffico: una enorme quantità di veicoli, e conseguentemente di gente, di cui all’epoca della mia prima visita non c’era traccia; ed anche un abbellimento delle strade, grandi quartieri moderni, attività commerciali, qualche piccolo shopping center: ricordo che nel tragitto dall’aeroporto al centro, 10 anni fa, il primo complesso degno di nota era stata l’università, ragione di vanto dei cittadini di Yangon e eredità del dominio inglese. Ora la città inizia molto prima, e anche le code.
Nulla di paragonabile al traffico di Bangkok, ma indubbiamente sono cambiamenti che mi colpiscono. Il Paese è decisamente diverso.
Raggiunto il Parkview Hotel (30 dollari a camera), sbrighiamo rapidamente le pratiche, lasciamo i bagagli e partiamo subito per l’agenzia. Arriviamo, neanche a farlo apposta, mentre è in corso uno dei tanti black-out: Mon, la ragazza che ha “subito” la mia interminabile serie di e-mail ci viene incontro, scusandosi per l’ascensore fermo e per il caldo torrido, offrendosi di prepararci un bel the, caldo ovviamente: il piccolo ufficio assomiglia più a un salotto che alla sede di un’agenzia turistica e c’è una simpatica atmosfera familiare mentre fissiamo i dati degli ultimi hotel da prenotare e confrontiamo orari e date dei voli. Mon e le sue colleghe sono simpatiche ed efficienti e in breve prendiamo gli ultimi accordi, saldiamo il conto e ci permettono di cambiare anche i soldi.
Alle 11 siamo pronti a iniziare l’esplorazione della città: prima tappa (anche 10 anni fa era stato così) è la BOTATAUNG PAYA. Si tratta della ricostruzione della pagoda distrutta durante la seconda guerra mondiale e la sua particolarità è che l’interno è cavo e si può visitare: si tratta di una serie di corridoi laminati in oro e ricoperti di specchietti, intervallati da grandi nicchie in cui sono conservati antichi o vecchi ex-voto, recuperati in gran parte dalle rovine dello stupa precedente. Nell’insieme un ambiente decisamente kitsch, ma le scene di devozione a cui assistiamo, soprattutto nell’ampio spazio esterno pieno di altarini e statue degli animali che rappresentano i giorni della settimana in cui si è nati, riportano a un’atmosfera di raccoglimento e di rispetto per quella che è una delle tre grandi pagode di Yangon e soprattutto per i suoi fruitori.
Certo non è facile trattenere il sorriso all’interno dei templi buddisti di Birmania. Mi riferisco soprattutto a quanto si trova nelle strutture costruite attorno allo stupa principale, destinate per lo più alla raccolta di oboli e elemosine, sia con gigantesche teche in vetro piene di banconote di sconosciuti tagli che con “strumenti” più arditi, più adatti a un luna park che a un luogo di culto. Per esempio 4 Buddha seduti che si danno le spalle ai cui piedi sono poste delle ciotole contrassegnate da cartelli che indicano salute, soldi, amore e altri oggetti del desiderio. La struttura gira su se stessa, all’interno di una gabbia, e i devoti lanciano delle banconote accartocciate nelle varie ciotole nel tentativo di essere esauditi. Devo dire che ci hanno colpito i lanci molto precisi delle persone attorno a noi che non hanno mai mancato la ciotola di loro interesse. In un’altra sala, una serie di lastre di alluminio in movimento, crea l’illusione di un mare dalle cui acque emerge di tanto in tanto un drago o una ciotola, quest’ultima con il solito evidente significato.
E poi c’è un laghetto con ponticello da cui la gente getta dei piccoli pesci gatto, in vendita nello stand apposito, o libera delle piccole tartarughe: ovviamente la pozza di acqua un po’ putrida pullula di tartarughe e pesci gatto giganteschi, visto che alcuni devoti, invece di liberarne di nuovi, scelgono di nutrire gli attuali residenti.
Al di là del laghetto, un piccolo padiglione è dedicato al culto dei nat (gli Spiriti, eredità di epoca prebuddista) e a una divinità indù: devo dire che il fatto di tenere “buoni” tutti, mi piace molto. Una dottrina improntata a un sano “non si sa mai nella vita”, la trovo pacifista, giustamente possibilista e lontana dagli assolutismi di altre religioni, che tanta distruzione e dolore hanno portato alle vicende umane, non solo recentemente.
Recuperiamo le scarpe e veniamo condotti al vicinissimo fiume Yangon, che scorre proprio di fianco al tempio: in realtà si tratta solo di un ampio letto fangoso su cui si svolgono comunque dei piccoli traffici.
Altra importante pagoda è la SULE PAYA, che segna praticamente il centro della città. Artisticamente non colpisce affatto, le sue dimensioni sono ben poca cosa ma la collocazione è così insolita che non passa inosservata, visto che costituisce il fulcro di una rotonda stradale, tanto che raggiungere l’ingresso non è privo di rischi, nel traffico cittadino. Direi anzi che superata questa difficile prova, la prima operazione da compiere è una ricca donazione di riconoscenza per lo scampato pericolo. Che sia questo un altro degli stratagemmi studiati per raccogliere fondi?
Gli edifici sorti attorno alla “rotonda” sono quanto di più disparato si possa immaginare: residui di palazzi di epoca coloniale, alcuni edifici vittoriani restaurati e trasformati in sede di qualche ente pubblico, parecchi condomini stile anni ’70 in evidente stato di degrado, un ampio prato all’inglese dove non si stenta a immaginare un gruppo di britannici intenti a disputare una partita di cricket, alberi secolari, giganteschi cartelloni pubblicitari di qualche prodotto non ben identificato. Nell’insieme, ha un suo fascino. Ed è in realtà la sintesi dell’intera Yangon.
A completare il quadro delle caratteristiche architettoniche della città, mancano solo le vecchie case dal tetto in lamiera e soffocate dalla vegetazione ed è in una di queste che ci rechiamo ora, per il pranzo. La nostra solerte guida ha deciso che i vari ristoranti che incrociamo durante il tragitto sono troppo costosi e ci ritroviamo perciò in questa affollatissima locanda, dove in breve viene sgomberato un intero tavolo per noi (evidente atto di cortesia, visto che qui le tavolate sono miste) e ci viene chiesto di scegliere da enormi catini, il nostro menù odierno. In realtà scegliamo solo il piatto principale (a occhio e croce si tratta di gamberi, pesce di fiume e verdure in umido, ma non ci giurerei), poi la casa offre in automatico ciotoline varie di salse, intingoli, un’ottima zuppa di derivazione sconosciuta, verdure fresche condite in maniera insolita e alla fine, un dolce stucchevole che mi rimarrà tenacemente aggrappato ai molari per una buona mezz’ora. Diciamo che per la sua tipicità, è stata l’unica scelta vincente della nostra guida per l’intera giornata.
Le visite riprendono di buona lena con il KARAWEIK, un’imponente struttura in cemento armato “ormeggiata” alla riva di uno dei vari laghi cittadini, il KANDAWGYI, nella foggia di un’antica barca reale. Malgrado la totale mancanza di rilievo artistico, questo ristorante, teatro anche di spettacoli folcloristici, è un simpatico elemento decorativo perfetto per le foto ricordo. I giardini dei dintorni (ingresso a pagamento) sono molto curati e tutto è collocato in modo da costituire un perfetto scenario per la barca stessa. Tutto questo non esisteva 10 anni fa e dà l’impressione di essere un tentativo di riqualificazione urbana poco funzionale, fumo negli occhi per il turista, e anche per i cittadini, probabilmente, fatto dalle autorità con gli spiccioli rimasti dalla spoliazione delle ricchezze del paese.
Approfondiamo la conoscenza di Yangon con la visita della CHAUKHTATGYI PAYA, un gigantesco Buddha dormiente protetto da un’immensa tettoia in lamiera, comunque meritevole; la KABA AYE PAYA, una pagoda a detta della Lonely Planet “moderna”, che ci sembra un po’ carente di calore umano e atmosfera; la KOHTATGYI PAYA, altrettanto moderna ma resa particolare da un colossale Buddha seduto in pietra e dai ridenti giardini pieni di bambini vocianti, giovani monaci intenti nelle chiacchiere, e la posizione particolare in cima a una collina; nei pressi, un povero elefante bianco vive la sua vita di segregazione su una piattaforma in bella vista, con il solo compito di portare fortuna a chi gli rende visita.
Il pomeriggio volge ormai al termine quando finalmente veniamo scaricati di fronte agli ascensori che permettono l’accesso in tutta comodità a quello che secondo me è l’unico vero rilevante motivo di visita di Yangon: la SHWEDAGON PAYA. Questo monumento non si può liquidare con la semplice indicazione di pagoda: è una collina su cui è stato costruito questo formidabile insieme di stupa, tempietti, padiglioni, altari, cappelle, statue, collegato alla città da quattro scalinate monumentali, su cui domina l’imponente zedi, una struttura a forma di campana alta 98 metri e completamente ricoperta di lamine d’oro. In cima allo zedi, c’è un’asta a cui sono appese decine di campanelle d’oro e d’argento; l’asta sostiene anche una banderuola a vento d’oro e una sfera cava piena d’oro e diamanti. Un piccolo museo fotografico collocato tra i vari edifici sulla piattaforma della Shwedagon permette di farsi un’idea più precisa dell’entità del “tesoro” che domina la città, che in certe occasioni viene calato e rinnovato con doni preziosi, ex-voto e donazioni varie.
Speravamo che la nostra guida, almeno in questa occasione, ci stupisse con qualche spiegazione o indicazione sulle abitudini dei tanti che si trovano qui, compiono abluzioni, pregano seduti a terra di fronte a una statua o a una cappelletta; che ci raccontasse perché tante persone se ne stanno sedute in gruppo a conversare come fossero al bar, occasionalmente aprendo borse e consumando qualche spuntino. Invece, nulla: non prova neanche a leggere i suoi appunti o sillabare dalla Lonely Planet. Semplicemente ci anticipa di qualche passo e ci osserva, anche un po’ spazientito, quando la visita comincia a dilungarsi. E’ che la Shwedagon Paya non è solo lo splendido insieme di edifici e le sue ricchezze, ma è soprattutto lo spettacolo dei devoti che verso il tramonto sembrano moltiplicarsi, come se dopo la giornata lavorativa venissero qui a rilassarsi, a cercare rifugio, quasi fosse una casa. Alcuni, in particolare le donne, si dedicano a ripulire i marmi, spazzando con corti scopini morbidi (so che è una forma di donazione nei confronti della pagoda stessa); altri collocano decine di lampade a olio sui bassi muretti che contornano lo zedi e predispongono per la sera. Mano a mano i tanti neon che illuminano i templi e i buddha si accendono e, nel rosso del tramonto, ci lasciamo lungamente cullare dal salmodiare di un gruppo di fedeli.
L’irrequietezza molto poco zen del nostro accompagnatore ci richiama alla realtà, perciò scendiamo da una delle lunghe scalinate e raggiungiamo la macchina. In hotel, congediamo con sollievo la guida e dopo una doccia ci concediamo un rapido ma soddisfacente pasto in un vicino bar - ristorante, il Black Canyon. Trattandosi di un locale moderno e “casual chic”, è molto frequentato dai giovani benestanti di Yangon e residenti stranieri, ed è quindi interessante osservare come si siano perfettamente adattati ai dettami della moda occidentale, sia in tema di abiti che di abitudini.
Il tempo di collegarmi rapidamente a internet per prenotare il Novotel di Bang Na per l’ultimo giorno prima della partenza e per scoprire che non c’è l’accesso a hotmail (come indicato dalla LP) e concludiamo questa lunghissima giornata con un coca e rum come unici avventori nel bar dell’hotel, allietati da un gruppo musicale e la loro birmana versione di qualche evergreen e brevi interludi di classici natalizi.
27/12/2006
Giornata di trasferimenti e brevi visite.
Malgrado l’evidente stanchezza, è impossibile resistere a letto quando fuori ci aspetta Yangon con i suoi abitanti e un’altra fantastica giornata di sole che però non arriva a far superare i 26 °C.
Dopo la colazione e un ulteriore cambio di dollari in previsione della lunga trasferta fuori città, alle nove ci facciamo accompagnare in una libreria indicata dalla LP per acquistare l’unico testo reperibile in materia di Mrauk-U, nostra prossima meta di soggiorno. La Bagan Bookshop è una stanzetta affacciata su un vicolo, ed è ancora chiusa quando arriviamo noi. Alcuni vicini corrono a chiamare il proprietario seduto in un “ristorante di strada” lì vicino ma gli diciamo di finire il suo pasto mentre noi continuiamo il nostro giretto in questa vecchia fatiscente Yangon. L’attesa è ricompensata dall’acquisto di A Guide to MRAUK-U - An ancient city of Rakhine, Myanmar - edito nel 1992 a cura di un professore universitario del Sittway Degree College, Tun She Khine; il testo è un po’ datato ma è tuttora l’unica opera nota sull’argomento.
Continuiamo la nostra passeggiata accompagnati da uno studente che ci chiede gentilmente di farci compagnia per conversare un po’ in inglese. Ci dice poco di sé ma ci bombarda di domande e ci accompagna in un’altra grande libreria, dove però non troviamo nulla di nostro interesse, e prima di salutarci per recarsi a scuola, ci mette sulla strada per il BOGYOKE AUNG SAN MARKET, tappa imperdibile dello shopping. Sono brava e evito di appesantire ulteriormente il bagaglio (del resto, 10 anni fa avevo già fatto la mia razzia!), ma mi innamoro di una serie di statue di legno che raffigurano il buddha e 5 monaci che lo seguono per la questua. Mi riprometto di pensare all’eventuale acquisto, prendo il numero di telefono di questo negozio creato all’interno del mercato stesso e ce ne torniamo in albergo per chiudere gli zaini e recarci in aeroporto per il nostro volo Bagan Air delle 13,00 (77 USD con scalo a Thandwe, dove cominciamo a dare “un’occhiata” dall’alto a Ngapali). La Bagan è un’ottima compagnia, la più recente delle tre private, e con un servizio leggermente migliore. Arriviamo quasi puntualmente a SITTWE dove ci attende un rappresentante dell’agenzia locale e un’auto con l’autista che si occuperà di noi fino alla nostra partenza, domani, per Mrauk-U. Purtroppo pare sia tardi per partire questa sera stessa - quanto meno si vuole evitare di farci navigare senza luce - o forse vogliono semplicemente incrementare un po’ il turismo a Sittwe, che, obiettivamente, non offre molto.
Passiamo in hotel a depositare i bagagli (Shwe Tha Zin USD 40) e cominciamo a esplorare questa tranquilla cittadina di provincia: tralasciamo l’imponente museo (e un po’ ora mi dispiace) e ci dedichiamo a una pagoda non menzionata dalla LP la cui caratteristica è di assomigliare molto alle moschee del nord della Malesia, con un ampio spazio colonnato dove le persone stanno sedute a terra in gruppi a chiacchierare; un’altra pagoda, sempre non menzionata dalla LP, con un grande Buddha seduto, sovrastato da un insolito tetto a più stati di lamiera al cui culmine spicca un orologio molto british e una cupoletta dorata da chiesa russa, il tutto decorato con arrugginite “trine”, sempre di lamiera. Purtroppo non mi è possibile citare i nomi perché pur avendo trascritto “i suoni” pronunciati dal nostro autista, mi risultano attualmente illeggibili, ma ritengo che soprattutto la seconda sia imperdibile, per eccentricità, arditezza architettonica e style fusion (o confusion, che dir si voglia).
Altra tappa è il monastero ricavato in una antica villa coloniale, il MAKA KUTHALA KYAUNGDAWGYI, dove osserviamo le teche piene di antiche monete (ma ho l’impressione che la polvere che le decora sia ancora più antica delle monete stesse) e altri “reperti” vari poco identificabili, ma dove soprattutto ci dedichiamo a un’interessante conversazione a sfondo calcistico con i giovani monaci.
Ci divertiamo a diventare fonte di interesse e divertimento nel locale mercato, aggirandoci tra bancarelle e enormi pesci essiccati appesi. Andiamo ad osservare il tramonto al Point, una sorta di parco in cima alla penisoletta su cui sorge Sittwe con vista sul Golfo del Bengala; e infine, secondo una perversa logica del nostro autista, quando ormai è quasi buio, visitiamo la LOKANANDA PAYA, la più grande pagoda della zona che sorge appena fuori città. Della pagoda vediamo ben poco ma veniamo presi d’assalto da gruppi di studenti in gita dalla regione limitrofa ed è molto piacevole stare a conversare in questo inizio di notte birmana, tranne che per i nugoli di zanzare che si interessano esclusivamente a me e che scatenano le risate dei nostri simpatici amici.
Cena a base di autan e pesce al piacevole River Restaurant, coffee mix in un bar per coppiette lungo la Main Street e rientro in hotel: anche domani la sveglia suonerà molto presto…
28/12/2006
…talmente presto che, quando ci presentiamo nella sala da pranzo in cima all’hotel (gran bella vista), è ancora tutto buio e solo dopo aver lungamente bussato, ci viene ad aprire il personale che a quanto pare alloggia qui per la notte.
Alle 7,30 siamo sulla nostra barchetta che in quasi 7 ore circa ci porta a MRAUK-U: dal porto fluviale di Sittwe navighiamo placidamente nella bruma del mattino. Improvvisamente il fiume diventa enorme, tanto che penso di essere giunta al mare. Solo dopo parecchio, quando vedo i bufali che si bagnano e i piccoli villaggi che si susseguono sulla sponda fangosa, mi convinco che siamo già sul fiume che risale fino a Mrauk-U. Fa freddo e recuperiamo dagli zaini tutte le felpe e gli indumenti utilizzabili per cercare di contrastare questa umidità che entra nelle ossa. Il sole è ancora troppo fioco per fare il suo lavoro e i barcaioli, mossi a pietà, ci forniscono qualche coperta. Cerco di dimenticare il disagio studiando le origini dell’antica città che stiamo per visitare: è evidente che l’autore della LP ha preso a piene mani dal testo dell’universitario birmano.
Gradualmente il fiume si restringe fino a diventare a tratti poco più largo di un canale: siamo circondati da campi coltivati e alte canne; qualche pagoda sorveglia in distanza il nostro passaggio. Si fa fatica a immaginare che proprio qui, in questo splendido contesto, nel novembre 2004 cinque turisti italiani e due birmani abbiano perso la vita a causa di un ciclone che ha capovolto una barca come la nostra, poco dopo il tramonto. Forse è in fondo per questo che malgrado il nostro insistere, non ci hanno voluto far partire ieri pomeriggio.
Arriviamo che sono quasi le due, in un caldissimo assolato pomeriggio, e veniamo accompagnati rapidamente al nostro alloggio, il Vasali Hotel (35 USD). Si tratta di un complesso appena fuori dal centro (centro!) del paese: una serie di bungalow con veranda e un bel giardino, sovrastati dalla più alta collina della zona, su cui svetta la Shwetaung Paya, la Pagoda della Collina d’Oro.
Lasciamo i bagagli e partiamo subito alla scoperta del sito: il nostro autista decide che per oggi ci occuperemo solo della zona sud, che a dire il vero mi lascia poco soddisfatta, ma che costituisce un’introduzione a quanto vedremo domani. Iniziamo perciò con la JINAMANAUNG PAYA, leggermente diroccata ma posizionata in cima a una collinetta che permette scatti suggestivi e un primo impatto dall’alto su Mrauk -U. Ammiriamo così le varie colline che costellano la città, la maggior parte delle quali sono sormontate da una paya; vediamo così gli ampli campi coltivati, i fuochi accesi dai contadini e i grandi bacini artificiali creati ai tempi d’oro della città, quando Mrauk-U era la ricca capitale del regno Rakhaing, tra il 1430 e il 1784, epoca a cui risalgono tutte le pagode oggetto della nostra visita.
Ripartiamo e l’autista ci consiglia di fare quattro passi in coincidenza con la PORTA DI LAKSAYKAN, un attraversamento di quanto resta delle vecchie mura della città. Ci ritroviamo così di fronte a due grandi bacini e ci incamminiamo seguendo le donne che vanno a prendere l’acqua con grossi vasi d’alluminio: la campagna qui è spettacolare e anche se per il momento la visita lascia a desiderare dal punto di vista archeologico, siamo ampiamente ripagati dallo splendore del verde e della natura.
Nuova sosta al BANDOOLA KYAUNG, un vecchio monastero parzialmente integrato da nuove strutture in cemento. Ovviamente, malgrado l’ottima posizione, non ci colpisce affatto.
Ce ne andiamo abbastanza rapidamente e l’autista ci porta al Palazzo Reale. O meglio, a quanto resta del PALAZZO REALE, ossia l’accesso, parte delle mura e le fondamenta, visto che il palazzo era costruito in legno ed è andato completamente distrutto. C’è ben poco qui da vedere, a parte il museo che sta chiudendo. Ma su nostra richiesta acconsentono a ritardare la chiusura permettendoci così di vedere i pezzi che compongono la collezione: parecchie stele, ricche di iscrizioni, teste di Buddha, qualche statua. In realtà si tratta di ben poca cosa se si pensa all’estensione e alla evidente ricchezza di questo sito: probabilmente si tratta di uno dei tanti posti che hanno costituito luogo di rifornimento selvaggio per i vari antiquari di Bangkok che non restano mai a corto di antichità di origine birmana.
Ultima tappa prima di rientrare è la HARIDAUNG PAYA al tramonto. Arriviamo con abbondante anticipo e ci accomodiamo in attesa. Osservando come la luce cambi lentamente e come, con l’accensione dei fuochi nelle abitazioni nella valle sottostante, il paesaggio si riempia di fumo che gradualmente si incendia del colore del sole nascosto dietro alle nubi all’orizzonte. Decisamente un tramonto molto suggestivo.
Rientriamo in hotel, ottima cena (notevole il cuoco del Vasali ma bisogna avvertire per tempo per permettere di fare la spesa) e riposo. Anche questa giornata è stata lunghissima.
29/12/2006
Alla mattina alle sette e mezza, l’aria fresca, fuori dal bungalow, è una sferzata a cominciare rapidamente la giornata di visite. Dopo una colazione un po’ asfittica (unica piccola nota negativa dell’hotel), siamo pronti ad iniziare l’esplorazione della zona a bordo della nostra jeep, residuato di qualche remoto evento bellico. Le strade sono infatti in gran parte sterrate e posso immaginare che nella stagione delle piogge anche fare poche centinaia di metri, qui, sia una vera impresa. Si comincia comunque a notare qualche segno di cambiamento in corso: incontriamo infatti quasi subito un piccolo cantiere, dove gruppi di donne si occupano della preparazione del fondo stradale per la creazione della strada vera e propria. Anche se molte di loro ci salutano e sorridono in maniera discreta, è sempre un colpo allo stomaco vedere donne che spaccano e trasportano pietre, soprattutto se si considera che si tratta di lavori obbligatori a cui tutti i birmani si devono puntualmente sottoporre. Una sorta di esazione fiscale in forma di forza lavoro. Per me, lavori forzati.
La prima tappa è al tempio KOETHAUNG, letteralmente “santuario delle 90.000 immagini”: di Buddha, ovviamente. Collocato al centro di un’ampia pianura di campi coltivati, la prima immagine che mi colpisce è quella del terreno attiguo al complesso in cui un uomo ara il suo campo al seguito di un grosso bufalo. Ed è una costante di tutte le visite: i templi, i santuari, le rovine qui non sono altro che lo sfondo a una intensa, faticosa vita rurale. E noi pochi turisti siamo bizzarri, curiosi ospiti. Al tempio, ancora sottoposto a una discutibile opera di restauro, ci attendono i bambini, i ragazzini, che ci adottano nel corso della visita. Si tratta di una brutta pratica che sinceramente tendo a scoraggiare in ogni modo, visto che so che, come in tutti i paese poveri, in molti casi questi bambini non frequentano la scuola per riuscire a raccogliere gli oboli dei turisti. Fortunatamente sarà questo l’unico caso qui a Mrauk-U, mentre è purtroppo un’abitudine consolidata in altri luoghi.
La parte di maggior pregio è a mio avviso quella nelle gallerie che circondano interamente il complesso: 90.000 buddha di varie dimensioni (mi sembrano tanti ma sinceramente non li ho contati), a tutto tondo o in bassorilievo, indifferenti al nostro passaggio, se ne stanno celati nell’ombra degli stretti passaggi o in pieno sole, laddove il soffitto è crollato. Ed essendo questa la nostra prima visita odierna, ci divertiamo a scrutare attentamente tutte le immagini, a perdere tempo girando liberamente, facendo foto e osservando gli operai che mettono le gallerie in sicurezza.
Tappa successiva a poche centinaia di metri di distanza: difficile farsi un’idea precisa di questa PIZI PAYA in quanto si trova su una collinetta e tutta la copertura è andata distrutta mettendo allo scoperto i 4 Buddha seduti che si danno vicendevolmente le spalle, sovrastati da un quinto in equilibrio sul poco rimasto della struttura della pagoda originaria. Inoltre il tutto è avvolto in una rigogliosa vegetazione che ne cela la vista fino a quando non ci si trova proprio a ridosso: eppure, non si ha l’impressione di rovina ma di mistero e di legittima riservatezza, come se la natura fosse andata a sopperire là dove la realizzazione umana aveva fallito il suo scopo di protezione e celebrazione.
Ovviamente la Pizi Paya costituisce un ottimo punto di osservazione per l’intera piana, i suoi splendidi campi e, a breve distanza, il Tempio Koethaung.
Saliamo anche alla PAYA OUK, costruita come offerta devozionale da un re per salvaguardare l’unione del Paese in un periodo di crisi (Oke significa tenere il controllo dell’intero stato). E’ stata evidentemente restaurata e si caratterizza per bel il frontone all’ingresso e per le 29 ampie nicchie contenenti Buddha seduti che costellano l’intero basamento circolare. Malgrado le dimensioni nettamente superiori, la Mong-Khong-Shwe-Du lì di fronte risulta un po’ anonima.
Anche la NIBBUZA PAYA è su una collina: in realtà si tratta di tre pagode collocate ad altezze differenti ma al momento solo la prima è integra e visitabile.
Siamo già allo sbando mentale, a furia di incamerare immagini, quando arriviamo alla SAKYAMANAUNG, un grosso complesso: una pagoda di 85 metri dalla forma insolita e riccamente decorata, circondata da pagode minori, su un’ampia spianata circondata da mura. All’ingresso, ci concediamo alcune foto coi vari carretti a cavallo addetti al trasporto dei turisti e con le due statue di giganti inginocchiati che controllano severi il nostro passaggio. Il sole picchia, ormai, tanto che i giganti sono protetti da inestetiche pensiline, e le visite stanno diventando faticose.
La valle è stretta in questa zona e attraverso dei viottoli percorsi da mandrie di vacche magre, raggiungiamo la RATANAMANAUNG: di per sé non particolarmente appariscente, senza nicchie, né statue, si ricorda per un piccolo edificio separato, detto sima, interamente in pietra, con un’insolita volta e pieno di antichi Buddha. Peccato per l’obbrobriosa pavimentazione in piastrelle tipo bagno anni ’80, peraltro comune a molti ambienti in cui il restauro è stato affidato a un occhio poco esperto interessato al solo aspetto pratico.
Alle spalle della pagoda, su una collina, un ampio monastero ci osserva ma decidiamo di non salire: ci mancano ancora i templi maggiori e temiamo di non riuscire a vedere tutto.
Superiamo un villaggio incuneato tra due piccoli rilievi e svoltiamo in una valle un po’ discosta: la percorriamo tutta, prima di iniziare le visite e riconosco che è questa una delle parti della visita che mi ha maggiormente emozionato.
Sul fondo della valletta, si individuano i resti delle mura di mattoni della città e la strada termina in corrispondenza con la PITAKATAIK, la libreria, o meglio una delle 48 librerie che esistevano nell’antica città di Mrauk-U. L’autista ci informa che è anche chiamata Fiore di Pietra e questo nome si addice decisamente a questo piccolo edificio di pochi metri interamente ricoperto di intarsi, fiorellini, volute e gugliette: il tutto è purtroppo in grave stato di degrado e la squallida tettoia di lamiera sembra solo un tardo tentativo di salvare quello che doveva essere un capolavoro di scultura e intaglio nella pietra. Rimango un po’ perplessa di fronte alla dimensione veramente minuscola dell’edificio, lungo 4 m e alto meno di 3, finchè non ricordo che i libri buddisti non sono altro che rotoli di scritture per lo più su foglie di palma pertanto non ingombranti come i nostri tomi.
Ripercorriamo lentamente a piedi la valletta ritornando sui nostri passi: muovere continuamente la jeep significa alzare enormi nubi di polvere, lungo la strada sabbiosa e diciamo perciò all’autista di aspettare un po’ all’ombra di un alberello rachitico e di raggiungerci solo quando avremo visitato i vari templi che costellano la strada.
Il primo che incontriamo riusciamo a identificarlo a fatica come HTUPARYON PAYA: si tratta di una pagoda senza indicazioni di sorta e completamente immersa nella vegetazione. Ci addentriamo con cautela, visto che tutte queste visite si svolgono ovviamente a piedi nudi, e con non pochi disagi per i nostri piedini cittadini, raggiungiamo il retro dove la nostra curiosità viene ripagata dalla vista di una bella nicchia riccamente decorata con altorilievi e un bel Buddha ombreggiato dalle frasche, probabilmente non originale ma molto pittoresco, nell’insieme.
Cercando di liberarci dalle spine insidiose di certi arbusti che si divertono ad attaccarsi ai nostri vestiti e, ahimè, alla nostra pelle, raggiungiamo un altro tempio poco distante, il LAUNGBANPYUK, che si caratterizza per delle enormi formelle a forma di loto, colorate e invetriate, che decorano l’intero muro di cinta. Non siamo soli, in questa visita: veniamo infatti raggiunti da un nutrito gregge di capre che aggiungono via via ulteriori insidie organiche al percorso dei nostri poveri piedi martoriati.
Attraversiamo la strada e risaliamo un lievissimo pendio per raggiungere un Buddha seduto che ci dà le spalle, neanche menzionato dalla LP. L’iscrizione dice ANAWMA IMAGE - Princess Anawzar - 1501. Rimaniamo a bocca aperta di fronte allo splendido basamento riccamente decorato e oggetto di un evidente recente restauro: animali fantastici, figurette umane impegnate nelle più svariate occupazioni (le jataka), trine di pietra levigata. Viene naturale immaginare che l’ispiratore di un’opera di tale garbo e delicatezza sia una donna, una principessa, in questo caso. Alle sue spalle, tutta la valle fa da sfondo a questo piccolo gioiello.
A lato, l’insolita SHWEKYATHEIN PAGODA è la sentinella di un luogo per me magico.
Raggiunti dal nostro autista, torniamo all’imbocco della valletta, in prossimità di un villaggio. Su due promontori, sorgono altri due piccoli complessi. Il primo, il RATANASANRWAY, consiste di due notevoli pagode che si contraddistinguono per la pietra molto scura e per le ricche sculture. Anche qui sono evidenti i segni di un massiccio restauro.
Sull’altra collina troneggia invece il MAHABODHI SHWEGU, dove finalmente incontriamo i primi turisti occidentali intenti ad ammirare i pregiati rilievi che ricoprono interamente la galleria d’accesso alla sala principale della pagoda.
E’ mezzogiorno e ci fermiamo a gustarci la brezza e ad osservare la vita del villaggio che scorre alla base della collina: parecchie donne e bambini con gli immancabili vasi di alluminio si approvvigionano d’acqua al pozzo sottostante.
Inizia così la fase della visita dei templi più grandi e significativi in questo che è uno dei luoghi più fuori dal tempo che abbia mai visitato.
L’autista ci lascia infatti alla ANDAW PAYA e ci dice di continuare a camminare sulle piattaforme fino a quando ci troveremo di fronte alla lunga scalinata dell’ingresso principale della pagoda Shittaung, percorrendo quindi il cammino logico di visita al contrario.
La Andaw è costituita da una serie di sedici stupa ben conservate (o piuttosto ben restaurate) che introducono a un paio di capre e a un tempio ottagonale. Entriamo nella totale oscurità e illuminiamo con la pila e il flash pareti colorate, budda di giallo vestiti e una triste atmosfera di abbandono. Usciamo per raggiungere l’accesso posteriore alla SHITTAUNG, la pagoda forse più famosa di Mrauk U. Qui ci viene chiesto di pagare il biglietto per la visita dell’intero sito (10$) e una tassa per l’illuminazione (scarsa) dei monumenti. Il posto è decisamente “importante”, come dimensioni e con tutte le sue figurette degli altorilievi, “scolorate” distrattamente, con picchi di colore di un tentativo di restauro amatoriale. Decisamente non amatoriale l’imponente restauro della struttura esterna, ma con risultati anche meno felici: la pagoda sembra modellata col pongo.
Ci lasciamo alle spalle la Shittaung, scendendo la lunga scala che porta ad alcune bancarelle presso le quali in nostro autista si sta rifocillando. Beviamo qualcosa anche noi e mangiamo della frutta prima di procedere alla visita alla terza grande pagoda di questo gruppo settentrionale. La DUKKANTHEIN PAYA ricorda in effetti un bunker, come annunciato dalla Lonely Planet, ma il suo interno mi incanta: il corridoio costellato da 146 nicchie si arrotola su sé stesso fino alla stanza principale centrale, sopraelevata e illuminata naturalmente da un finestrone, dove siede un grande Buddha. Le nicchie attraversano il muro da parte a parte così percorrendo il corridoio si può ammirare sia il retro che il fronte delle tante statue che osservano il nostro passaggio. Inoltre molte nicchie sono adornate sui lati da splendide figurette di nobili signore nell’atto di offrire il fiore del loto a Buddha, adornate da splendide acconciature nei sessantaquattro diversi stili previsti nell’antico mondo rakhine. Sicuramente l’interno più interessante, qui a Mrauk U.
Raggiungiamo l’autista e continuiamo il vagabondaggio tra le varie piccole pagode rimaste. Lentamente i colori cambiano e a dispetto della bellezza degli edifici, è la campagna che diventa protagonista, insieme ai suoi abitanti. Ci soffermiamo a lungo a goderci scene di vita contadina, i giochi dei bambini, il momento del bagno e del bucato nei tanti bacini artificiali creati ai tempi d’oro. Il sole comincia il suo declino ma l’ambiente si scalda di calore umano. Si accendono i primi fuochi e noi, dopo una bibita fresca al bar Moe Cherry in paese, ci facciamo accompagnare in hotel per prepararci al rito del tramonto. Alle spalle del Vasali si erge infatti, come dicevo, la collina più alta della zona, chiaramente decorata con una bella pagoda dorata, la SHWETAUNG PAYA. E da qui, in totale solitudine e in pace assoluta aspettiamo che il sole completi il suo percorso, lasciando rapidamente spazio alle brume, le ombre e le foschie di un paesaggio quasi irreale.
30/12/2006
L’alba ci regala alcune delle immagini più belle del viaggio. Mentre già siamo in navigazione verso Sittwee sul fiume immerso nella nebbia, il sole fa capolino illuminando il paesaggio di una calda tinta tra il rosa e l’arancio. Qua e là emergono brevemente le ombre di piccole canoe dirette verso il villaggio, per poi sparire immediatamente dietro un’ansa del fiume. Poi la nebbia ha la meglio e per mezz’ora siamo costretti a navigare con estrema cautela per evitare di andare a sbattere contro la riva. Forti dell’esperienza dell’andata, ci siamo vestiti con tutti i possibili abiti disponibili e ci godiamo sonnecchiando lo scorrere del fiume e delle sue indimenticabili immagini.
Il ritorno richiede molto meno tempo e quasi senza rendercene conto siamo nuovamente al porto fluviale di Sittwee. Abbiamo anche il tempo per una comoda sosta al River Valley Restaurant per un piatto di pasta di soya e una Myanmar Beer, prima di attendere lungamente all’aeroporto per il nostro volo Air Bagan che ci porterà a Tandwee a goderci qualche giorno di mare.
Sarà l'inizio della parte conclusiva del resoconto di viaggio, prossimamante sulle pagine virtuali di Ci Sono Stato!