"Non so voi ragazzi, ma io erano aaaanni che non mi divertivo così" (Fabrizio Bentivoglio in "Marrakech Express")
Mi sono innamorata del mondo arabo in Egitto, a Natale del 2002. In particolare, me ne sono innamorata una notte, in una Mercedes nera che attraversava il deserto del Sinai, ascoltando musica araba e preghiere alla radio, mentre l'autista mi accarezzava la testa cantandomi una ninna nanna egiziana, e fermandoci a bere il tè in piccoli locali lungo la strada. Mi sono innamorata del deserto su una moto, che ci portava in un territorio pazzesco, tutto di terra e rocce dorate dal sole che tramontava. Da qui un nostalgico Capodanno e la voglia di morderne un altro pezzo, di mondo arabo e di deserto.Ed eccomi qui. Febbraio 2003. Casablanca, aeroporto. Come tutti gli aeroporti e stazioni della mia vita. Il punto interrogativo di quello che sarà. La vita nella sua pienezza. Per la prima volta, sono partita da sola.
Per il momento l'equipaggio è di cinque persone, una Fiat Uno verde (o blu?) che ci accompagnerà e prenderà polvere, terra e sabbia. Si dorme a Settat, sulla strada per Marrakech, in un hotel freddo, dopo aver conosciuto tutti i ragazzi del gruppo e aver steso un programma di massima raccolti intorno ad una grande cartina del Marocco, mangiando banane nane e brioche.
Il paesino dove facciamo la prima sosta il giorno dopo è tutto rosa, pieno di terra e uomini con la jallaba, il tipico soprabito lungo e dotato di cappuccio. Mi viene voglia di far foto abbagliata dalla novità del posto, dei volti della gente che ci guarda, degli edifici, della frutta e del bar popolato esclusivamente di uomini che sorseggiano tè e caffè. Poi, tutto ciò sarà la regola.
Marrakech ci accoglie con calore e colore rosso cotto. La città fu fondata nel 1070 dagli Almoravidi, guerrieri nomadi berberi che la fecero capitale del regno a cui ha dato il nome: Marocco. C'è un bel sole e prendiamo le stanze in un albergo con i mosaici e le ceramiche arabescate, vicinissimo alla moschea della Koutubia, da cui la mattina dopo alle 5 e 45 il muezzin che chiama alla prima preghiera della giornata mi sveglierà. La piazza Jemaa El-Fna, vero fulcro della città, nella tarda mattinata è già caos, da cui ci redime immediatamente Mohammed, imponente nella sua jallaba rosso scuro, che si propone di farci da guida e che non ci abbandonerà fino al tardo pomeriggio. E' competente e carismatico, gentile e premuroso.
Chiariamo subito, girare per una città del Marocco senza una guida è impossibile: non perché sia esageratamente complicato, ma perché se ne sei sprovvisto decine di indigeni all'ora ti si proporranno per accompagnarti (le famose "false guide") e non riuscirai a dire di no.
Appena giunti in piazza mi fermo a guardare i serpenti e un uomo me ne mette uno sul collo, farmi scattare una foto così mi costa un paio di dirham. E' viscido e schifoso. Gli incantatori di serpenti sono alcuni dei tipici personaggi che si incontrano nelle piazze e nei mercati del Marocco, insieme ai cantastorie (el halka), agli ammaestratori di scimmie, ai gnawa che suonano tamburi e nacchere e ballano, ai venditori d'acqua (garaba) che fanno bere da pentolini di rame, agli acrobati berberi ecc.
Il giro nella medina è piacevolissimo, tutto è nuovo, spezie, colori, lampade e cocci. Mohammed come prima cosa ci fa visitare la Medersa Ben Youssef, la scuola coranica dove i giovani, oltre a studiare, alloggiavano anche, in più persone per stanza. Veniamo affidati per la visita a Salvatore, così soprannominato da Antonella perché parla un po' tutte le lingue contemporaneamente come il personaggio del “Nome della rosa”, e ogni volta che non capiamo una parola ci dobbiamo prima domandare in che lingua è.
L'edificio - restaurato di recente - è molto bello, specialmente il cortile interno con i marmi e il legno di cedro finemente lavorati, e le calligrafie, antichissima arte nel mondo islamico. Fondata nel XIV secolo dai Merinidi, fu poi ricostruita nel 1565 dal sultano saadiano Abdallah Al Ghalib ed è una delle più grandi di tutto il Maghreb.
Il pomeriggio dopo un pranzo tipico in un bellissimo riad, a prezzo obiettivamente esagerato per il paese in cui siamo, si entra nella temibile fase dello shopping. E' un delirio: 18 persone quasi tutte drogate da lampade, tappeti, babuches, caffetani, cuscini in pelle, teiere, portaceneri e cocci di infinite fogge.
Mohammed ci porta anche in un'erboristeria berbera, dove, soggiogati da tre giovani in camice bianco che ci fanno annusare per mezz'ora spezie, erbe medicinali, oli e saponi, promettendoci miracolose guarigioni dalla cervicale, paghiamo minimo 10 volte più del loro reale valore tè, kajal o rossetti berberi (io però rimedio un piacevole massaggio ).
Al tramonto è d'obbligo sostare nella piazza Jemaa El-Fna, "…la chiamano "Piazza dei Morti", in memoria delle esecuzioni che una volta si svolgevano sotto una delle sue tetre porte rosse. Ora è la piazza dei vivi, il centro di tutta la vita, i divertimenti e le chiacchiere di Marrakech, e gli spettatori si accalcano così fitti intorno ai cantastorie, agli incantatori di serpenti e ai ballerini che la frequentano, che si riesce a indovinare cosa succede all'interno dei vari circoli solo dal monologo lamentoso o dal persistente battito di tamburi che ne proviene." (Edith Wharton, In Marocco).
Il colore che il sole dona agli edifici è indescrivibile e man mano che si va avanti nella notte e cominciano ad accendersi le luci, l'atmosfera si fa irreale: profumi, suoni, parole, danze, cibi che cuociono scatenando un profluvio di odori speziati e appetitosi, cantastorie, donne velate che ti prendono la mano per decorartela con l'henné, rivenditori di cd, lumache e spiedini, bancarelle di spremuta d'arancia e tajin a cuocere su fornelletti, acrobati e musicanti... e la cosa bella è che i turisti non ci sono, o se ci sono non sono loro i veri destinatari della festa.
E' il momento adatto per rifugiarsi in uno dei caffè che si affacciano sulla piazza, dotati di terrazza panoramica. Prendo un tè con Paolo e il colpo d'occhio vale davvero la pena; poco dopo arriva un uomo già conosciuto in giornata nel souk, che parla italiano e ha vissuto a Torino. "Di dove siete? Milano? Roma?". Solita litania.
Mangiamo in hotel, un ottimo ristorante a buffet, forse il migliore del viaggio, tajin e couscous, carote alla cannella, melanzane, zuppa di legumi. Tè alla menta per finire. A tal proposito, devo confessare che per la prima volta durante un viaggio ho pensato seriamente: voglio un piatto di spaghetti! Dopo 3 o 4 giorni di questa roba infarcita di spezie, ero ko. "E' piccante come cucina. Cioè è speziata, troppo speziata come tipo di cucina" "Non ti piace?" "Sì che mi piace. E' speziata. Era meglio due spaghetti, perché due spaghi fanno schifo..." "A me sembra tutto buonissimo. C'è l'agro e il dolce insieme..." (Diego Abatantuono & C. in “Marrakech Express”).
Il giorno dopo, prima di partire per il grande e misterioso sud, una mezza mattinata è dedicata alle visite delle tombe dei sultani Saaditi, scoperte nel 1917, e del Palazzo El-Bedi. Entrambi risalgono al XVI secolo, quando fu al potere la dinastia dei Saadiani, che ridiede splendore a Marrakech dopo gli alti e bassi dei periodi precedenti in cui al potere erano gli Almohadi e poi i Merinidi. In particolare il sultano saadiano Ahmed el-Mansour, detto il Dorato, attuò una vincente politica espansionistica e utilizzò le riparazioni di guerra dei portoghesi e l'oro di Tombouctou per decorare e rendere sfarzosa la città.
Costeggiamo il palazzo reale e le mura color rosso terra e annusiamo velocemente la Mellah, il quartiere ebraico. Le mura della città, che circondano la medina per circa 12 chilometri, risalgono alla fine del XI secolo, all'epoca degli Almoravidi, prima dinastia che governò la città. I giardini della Menara, opera degli Almohadi (così come la moschea di Koutoubia e quella della Kasbah), a detta di tutti sono un posto molto romantico e più che degno di una visita, magari sul calesse, ma purtroppo non ne abbiamo avuto il tempo. Per inciso, la storia del Marocco è un continuo susseguirsi di dinastie, ognuna giungeva dall'interno e soppiantava quella precedente.
Si parte: dobbiamo attraversare l'Atlante per andare a sud, valicando il passo Tizi-n-Tichka. Già da Marrakech, "…i monti del'Atlante risplendono vicini, e si potrebbe scambiarli per la catena delle Alpi se la loro luce non fosse più fulgida e non vedessimo tutte quelle palme tra i monti e la città." (Elias Canetti, Le voci di Marrakech).
Atlante: che bel nome. Dà l'idea della geografia varia del Marocco, un libro da sfogliare per ritrovarci dentro tutti i paesaggi, dalle colline verdi che sembra di essere in Toscana alle montagne innevate con il vento che ti ferisce gelido, dalle deserte spianate di terra scura alle rocce che prendono tutta la luce del mondo dal sole, dalle valli ripiene di oasi e circondate da massicci di terra alle dune di sabbia a perdita d'occhio. Facciamo sosta in un paesino in alta montagna per un panino con brochette di agnello, gli uomini del posto ti darebbero qualunque cosa in cambio di un oggetto italiano, un venditore di fossili e bigiotteria in cambio di due Camel Light mi ha voluto regalare per forza un orribile minerale. Anche in mezzo alla strada ti vogliono vendere le ametiste: sbucano da chissà dove correndo e rischiano di farsi investire dall'auto. Emozionante avvicinarsi al deserto: ai lati delle strade distese senza fine e alle spalle la quinta dell'Atlante innevato che ormai si allontana.
Lungo la strada verso Ouarzazate sorpassiamo una macchina evidentemente in panne e due uomini che trafficano sul cofano aperto. Massimo vuole assolutamente caricarli, così facciamo accomodare questo signore in jallaba giallo zafferano, dai denti tremendi e la pelle scura, originario del deserto, giunto in Marocco nel 1975 a seguito della cosiddetta "Marcia verde". Ci racconta che ha fatto l'assistente alla regia per Bertolucci, che da queste parti ha girato “Il tè nel deserto”. La compagnia è felice di questo diversivo, scattiamo foto e poi giungiamo a destinazione. Una casa piena di tappeti dove ci accoglie un affascinante uomo in turbante e vestito azzurro che ci invita per un tè: commerciano in tappeti e turbanti. Ospitano spesso degli italiani: il mese successivo sarebbe andato da lui Alessandro Baricco, ci comunica.
Solo la mattina dopo, leggiamo sulla Lonely Planet di stare in guardia perché capita spesso, nelle strade del sud, di trovare uomini che fingono di avere un guasto all'auto per portare l'ignaro turista in una rivendita di tappeti. Ci ridiamo su, nessuno ci ha venduto niente e abbiamo conosciuto gente interessante! Comunque siano andate le cose, salutiamo tutti, Inshallah, se dio vuole siamo a Ouarzazate, città dove ci sono gli studi cinematografici, una fantastica kasbah, un numero sproporzionato di hotel e uno dei tramonti più belli visti in Marocco. La città nacque nel 1928 come postazione militare dell'esercito francese, poi nel tempo ha attirato l'attenzione del turismo e del cinema grazie ad una posizione molto favorevole, punto di partenza per raggiungere le valli del Draa e del Dades.
Visitiamo la kasbah di Taourirt, che fu il palazzo del pascià, meravigliosamente conservata, tutta in pisé color sabbia. Ci accompagna una guida che ci racconta che ha interpretato la parte del coccodrillo nel film “Il gioiello del Nilo”, risponde al cellulare frequentemente ("è mia moglie", dice) e ci prende in giro inventandosi che ha due mogli (in realtà la donna più importante della sua vita è la mamma).
L'edificio è davvero splendido, ammiriamo la stanza della favorita con le grate lavorate alla finestra, il bagno, la sala ricevimenti, la moschea, i buchi nei muri per comunicare con il piano di sotto tramite delle corde. Qui hanno girato il film di Bertolucci.
Proseguiamo il giro della kasbah attraversando i vicoli stretti, assistiamo ad uno splendido tramonto da una terrazza (io ero in pieno trip da tramonti), tutto è color sabbia. Le caratteristiche somatiche delle persone stanno cambiando a vista d'occhio. Non so perché ma andiamo sempre a finire dentro qualche posto dove vendono tappeti... Prima di ripartire si fa shopping in una cooperativa di artigianato, dove vendono belle statuine degli acrobati berberi. E' quasi buio, il paesaggio è spettacolare, ci dirigiamo verso El-Kelaa M'gouna, dove passeremo la notte, addentrandoci nella cosiddetta "via delle mille kasbe". Una luna enorme appare all'orizzonte, siamo tutti inebetiti da tanta bellezza, ognuno nella propria auto.
El-Kelaa è la città delle rose, e tra una rosa e l'altra sbagliamo hotel, abbiamo anche dei componenti dell'equipaggio con problemi gastro-intestinali, febbre, mal di testa. Si cena in un tendone al freddo, molti danno forfait. A tale proposito va aggiunto che viaggiare in Marocco in febbraio ha l'indubbio vantaggio di trovare pochi turisti e di evitare il caldo, però per lo stesso motivo capitano frequentemente hotel e ristoranti con i termosifoni non funzionanti, senza considerare la pessima abitudine di non chiudere mai le porte da nessuna parte.
Come dio volle, abbiamo dormito e siamo pronti per un'esaltante giornata, dedicata alle meraviglie della Gorges du Dadès, un canyon scavato tra l'Alto Atlante e il monte Saghro, e delle Gorges du Todra, gole vertiginose tagliate nella roccia. Da Boumalne du Dadès la strada sale per molti chilometri tra spettacolari montagne, oasi rigogliose di palme, kasbe e ksour (villaggi fortificati) dello stesso colore della terra perché realizzati con terra e paglia.
C'è il sole e ogni tanto ci fermiamo a scattare qualche foto: il fiume è incassato profondamente nella gola, attraversata dalla strada appena percorsa che sembra una lingua grigio scuro. Decidiamo di fermarci nel pressi del fiume immerso nel verde, dove le donne lavano i panni per stenderli sui rami degli alberi oppure trasportano enormi ceste piene di legna o paglia, dove gli uomini al solito stazionano seduti sulla strada e un ragazzino si offre di guardarci le macchine per pochi dirham, dove ci sono cani, bambini dolcissimi e uno ksar davvero bellissimo.
Il pranzo ce lo dobbiamo procacciare in un paese lì vicino. L'alternativa al ristorante nel Marocco del sud consiste quasi esclusivamente in un panino da riempire a scelta con formaggino, tonno, omelette o alici al pomodoro, acquistabile in una delle infinite drogherie tutte uguali. L'arrivo di cinque auto nella piazza del paese scatena curiosità, ma il vero boss è un tuareg dalla pelle scura, gli occhi di carbone e un ricco turbante nero su veste bianca, che ci tampina fino ad obbligarci praticamente a mangiare il solito tajin in un ristorante abbattuto con i tavoli fuori. Si offende perché gli do del bugiardo, se ne va platealmente incazzato e poi torna con delle Heineken davanti alle quali facciamo pace e scattiamo una foto insieme per suggellare la nostra amicizia. I bambini ci guardano e cercano in tutti i modi di pulirci le scarpe per pochi dirham.
Le gole del Todra si raggiungono partendo da Tineghir, percorriamo in macchina questo spettacolo della natura: oasi e montagne per giungere ad una strada che taglia altissime montagne illuminate dal sole, che comincia man mano a scendere. La spaccatura attraverso la montagna in alcuni punti è un passaggio di pochi metri tra pareti verticali di circa 300 metri. Non ho parole, le nostre Fiat Uno arrivano ovunque. Un te' nell'unico hotel della zona, assaporo per la prima volta da quando sono in Marocco un che di turistico.
Sulla strada del ritorno una partita di pallone di ragazzi in un contesto favoloso. Ci fermiamo infine per visitare una grande oasi con la relativa kasbah abbandonata, guidati da un gruppo di ragazzini agilissimi e intelligenti, furbi e tutti grandi sorrisi e informazioni. Chiunque va in Marocco resta colpito dall'enorme numero di bambini e ragazzini. E' un paese davvero giovane che fa evidentemente tanti figli, che poi emigrano in Europa. L'analfabetismo è un problema importante, la scuola non è obbligatoria e quindi si invitano calorosamente i turisti a non dare soldi ai bambini che ti si avvicinano anche nelle lande più desolate del paese: altrimenti possono pensare che è più redditizio spolpare i turisti piuttosto che studiare e imparare una professione. Purtroppo non è raro osservare turisti che gettano a piene mani penne, caramelle, soldi dai finestrini delle loro auto, come se i bimbi fossero degli animaletti da zoo. Tu per loro, bambini e adulti, sei poco più di una banconota viaggiante, vieni da un paese ricco, hai i soldi per viaggiare, nella tua tv è un profluvio di tette e culi, montepremi e quiz. Almeno però come italiano sei un po' più simpatico rispetto all'odioso francese e un po' meno dissanguato rispetto al ricco americano.
Ci mettiamo in macchina definitivamente diretti a Er-Rachidia, dove passeremo la notte. Fuori dall'hotel ci aspettano dei ragazzi: sapevano del nostro arrivo perché l'indomani andiamo in gita a Merzouga con Ben, il fratello di uno di loro. Scambiamo due chiacchiere e mi comunicano solennemente che io ho antenati arabi. Si cena fuori in un ristorante spartano dove trasmettono la partita Barcellona-Inter, il calcio unisce e divide i popoli. Mi piace molto l'idea, in questo momento.
La guida Ben stava dormendo perchè pensava che ormai non saremmo più arrivati. Ci mette un po' a riprendersi, è grande e grosso, con un turbante bianco e la jallaba verde pistacchio, scuro di pelle. Quando inizia a parlare non la finisce più: si sofferma parecchio a parlare del suo divorzio e dei costumi riguardanti il rapporto uomo-donna. Ci fa il quadro della situazione nel Marocco attuale, in bilico tra tradizione e modernità, Islam e parabole, legge coranica e poliziotti corrotti.
La nostra destinazione il giorno dopo è Merzouga, da cui raggiungeremo l'oasi Oubira nel deserto di sabbia, il mitico Erg Chebbi, dove passeremo la notte in tenda. Sono i posti dove Abatantuono & company si avventuravano con biciclette scassate per cercare gli amici nel film “Marrakech Express”.
La strada, che costeggia il fiume Ziz, ci porta prima presso la sorgente blu di Meski, poi nello ksar di Maadid, ospiti di una famiglia che ci offre il tè e i dolcetti. Il capofamiglia ha 54 anni ma ne dimostra 70, la donna è silenziosa e apparentemente timida e legge la mano a Silvia e Sara raccontando loro un sacco di fregnacce. I ragazzi del posto giocano a pallone e sfoderano come sempre la conoscenza delle lingue per spillarci soldi o oggetti. Hanno il colore della pelle molto scuro.
Per giungere a Merzouga è possibile percorrere un tratto di strada non asfaltata che corre nel nulla dell'hammada, l'altipiano formato da lastre di rocce che preannuncia l'erg, in mezzo a distese luccicanti di pietre e fossili. A un certo punto il gruppo si ferma ad ammirare un vero miraggio! Sembra davvero un lago per un effetto ottico. Anche la sosta per fare pipì è esilarante, ci siamo solo noi, sparsi, e tutto intorno è spazio a perdita d'occhio.
Giunti all'hotel, dove lasceremo bagagli e auto, facciamo conoscenza con i dromedari che ci porteranno all'oasi, tutti accucciati in cerchio e già carichi delle nostre borse e delle coperte colorate.
I ragazzi che ci accompagnano, e che lì si occuperanno anche della cena e della musica, sono tutti vestiti di azzurro e sono molto gentili e sorridenti, parlano tante lingue. Il mio dromedario viene chiamato Totti da Said, sfortunato 21enne che si sorbirà le mie domande a raffica durante le due ore di traversata, ed è il primo della mini carovana, rispetto a molti altri non sballonzola troppo, quindi arrivo abbastanza in forma. Per fortuna il cielo, che dalla mattina era coperto, si apre prima del tramonto e rende caldo e dorato il paesaggio. Restiamo francamente rapiti, chi aveva mai visto solo sabbia raccolta in dune così alte a perdita d'occhio?
Giunti all'accampamento, scaliamo una grande duna calpestando lo spigolo lisciato dal vento. Da lassù ammiriamo un tramonto pazzesco, dall'altra parte in lontananza ci sono le montagne dell'Algeria. Su una duna più distante spiccano due minuscole figure azzurre che pregano.
La serata prosegue tra tè, cena mangiata tutti dallo stesso piatto, musica berbera “à la Fiorello”, con i tamburi e i crotali (nacchere in ferro), aspettiamo con ansia la luna e quando arriva rende la notte spettacolare, da godere anche in quei pochi attimi di pace quando esci dalla tenda per fare pipì. In qualche modo, si dorme. Durante la notte sono svegliata un paio di volte dal terrificante raglio di un asinello che pare lo stiano sgozzando.
All'alba ci prepariamo per partire, cado da un dromedario che forse stamattina è un po' nevrotico, su un tappeto di cacca fortunosamente secca. Molti di noi preferiscono percorrere la strada a piedi, nella sabbia morbida, arrossata sempre più dal sole che sta sorgendo. Raggiunto l'hotel tuareg, ci preparano un'ottima colazione.
Prima di partire e salutare i ragazzi berberi, Said mi dà il suo biglietto da visita con il numero di telefono; gli piaci ma è timido, mi confida il suo collega. C'è anche il berbero che la notte prima per due volte mi aveva invitato ad appartarmi con lui, che però è impenetrabile. E ci credo, con quei denti, al massimo mi puoi gabbare al buio!
Da Merzouga a Fès sono diverse ore di auto, lasciato Ben a El-Rachidia, salutato con affetto da tutto il gruppo (Inshallah!), attraversiamo diversi paesaggi e superiamo l'Atlante, innevato e addirittura con delle strade a rischio chiusura per neve, ci fermiamo a mangiare un panino in un villaggio spazzato da un vento freddissimo dove l'intera comunità si affaccenda per sfamarci e indicarci la strada.
Si attraversa prima la splendida valle dell'Oued Ziz, poi man mano si entra nella foresta di cedri di Azrou per cui questa zona è giustamente famosa. Una parte del gruppo ha avuto la fortuna di incappare nelle fantomatiche scimmie dei cedri, offrendo loro una banana. Attraversiamo la cosiddetta "Petite Suisse", che ci lascia piuttoso interdetti: ma dove siamo capitati? Casette dai tetti rossi e aguzzi! Ifrane è luogo di villeggiatura della famiglia reale, stazione sciistica, un altro mondo rispetto al sud che abbiamo appena lasciato. Tanto è vero che ci fanno subito una multa per aver superato con la linea continua.
Arriviamo a Fès nel pomeriggio, per la prima volta siamo alloggiati nella ville nouvelle. Sono contenta perché finora abbiamo visto solo la parte più povera del paese, una visione un po' deformante. Subito ci affianca un ragazzo sul motorino che ha capito che siamo italiani e ci accompagna all'hotel, proponendosi come guida per l'indomani. Purtroppo invece scegliamo un'altra guida, Ali, che si rivelerà una vera e propria schiappa. Passeggiamo in quattro ragazze sole, attirando la curiosità e gli sguardi di tutti gli uomini seduti nei caffè. Ceniamo in un orribile ristorante dove non mangio praticamente nulla. E' terminata da pochi giorni la festa di Aid El Kebir, che ricorda il sacrificio di Abramo. In questo giorno ogni famiglia uccide un agnello secondo un rito particolare e lo mangia, mentre una parte della carne viene data ai poveri. In conseguenza di ciò in molti ristoranti non hanno più scorte e ci dobbiamo accontentare degli avanzi. Inoltre per lo stesso motivo, molti marocchini sono andati a festeggiare a sud, nei loro villaggi di origine, e solo adesso cominciano a tornare a casa.
I giornali locali sottolineano quanto le grandi città siano deserte e i problemi di traffico ridotti in questi giorni di festività. Per la prima volta in tutto il viaggio troviamo alcolici nel ristorante. Di solito i ristoranti non li servono perché è necessaria una licenza particolare e inoltre nelle medine è vietato venderne. Qui invece possiamo bere della birra e anche il vino, servito nella bottiglia di coca cola (una schifezza, riferiscono). Tra l'altro anche l'hotel era dotato di bar, purtroppo affollato quasi esclusivamente di uomini, che si girano all'unisono a guardare l'unica donna che vi entra.
L'ultimo giorno è dedicato alla visita della città di Fès, la città più antica del Marocco, del quale fu per molto tempo capitale e centro del commercio e della vita culturale, nonché sede della più antica università.
Fez el Bali è la parte vecchia della città, ben conservata e molto vivace. La medina di Fès conta circa un migliaio di vicoli ed è divisa in un'infinità di zone diverse, a seconda delle attività che vengono svolte: c'è il souk del rame, quello del legno, dell'henné, della frutta secca e così via. In genere, ognuno dei piccoli quartieri è dotato della moschea, della medersa, della fontana e del forno. Bisogna stare attenti agli asini, che passano a gran velocità, con delle "scarpine" di gomma che attutiscono il rumore, con un carico ingombrante e l'uomo che li porta urlando "balek!", attenzione!. Tina stava per baciarne uno sulla bocca.
Tra drogherie che vendono coca cola e sigarette, bancarelle di candele votive e incensi, specchietti e chincaglieria, c'è una macelleria dove pesano le galline vive, accanto vendono trippa bianca e maleodorante, i datteri e i fichi secchi sono pieni di mosche (chissà d'estate), i ragazzi ci vogliono vendere a tutti i costi scatolette lavorate e braccialetti, ti seguono per ore in una trattativa itinerante squisitamente insopportabile.
Ci sono diverse mederse, tra cui la più famosa è quella di Attarin. Alcune bellissime moschee le possiamo vedere solo da fuori. Sono molto affollate perché è venerdì, giorno di festa. Per questo motivo la maggior parte delle botteghe sono chiuse; ciononostante le vie della medina brulicano di gente, chissà come sarebbe stato in un giorno normale! Tra l'altro, man mano che si avvicina il mezzogiorno molte di esse chiudono per la preghiera.
Saliamo in un negozio di prodotti in pelle per ammirare dal terrazzo la zona dei conciatori, molto famosa, con le tinozze di colore che servono per tingere la pelle e gli uomini che lavorano con la gambe immerse nei rossi e verdi, coperte solo da vecchi jeans tagliati a mezza coscia. Il giallo è il colore più prezioso in quanto si ottiene dallo zafferano, spezia molto costosa. L'odore di pelle mi disgusta. Girare in 18 nella medina i Fès non è la cosa più saggia e comoda del mondo, i gruppi si dividono. L'addio è frettoloso, inaspettato, scattiamo foto di gruppo tra cibi e spezie, ci liberiamo dell'inutile Ali che in realtà ci aveva fatto vedere sempre le stesse viuzze!
In quattro ci aggiriamo liberi e leggeri per scoprire le meraviglie della città, finalmente! Il museo del legno Nejjarin ricco di splendide mensole, porte, contrafforti, armi, con un bel terrazzo dove gustare l'ennesimo tè riscaldati dal sole. E' l'unico museo che abbiamo visitato: nei paesi islamici infatti i musei sono pochi ed espongono solo oggetti, tessuti, calligrafie, resti archeologici ecc., mai dipinti o sculture perché la legge islamica proibisce tutto ciò che è figurativo.
Giungiamo alla bellissima porta Bab Boujeloud, che separa Fez el Bali da Fez El Jedid (Fez nuova): costruita nel 1913 ha la parte esterna blu, colore di Fès, e quella interna verde, colore dell'Islam. La zona è vivace, ci sono il bagno turco, un cinema con più sale, la gente ci saluta allegramente, acquistiamo cd di musica araba e rai. Ci si affianca Rashid che ci guiderà nell'ultima parte della nostra visita: attraversiamo il quartiere andaluso e diverse botteghe dove lavorano e vendono tappeti, stoffe ricamate, caffetani, oggetti in legno e ceramica. Sostiamo pochi istanti nel puzzolentissimo fondak delle pelli dove separano la pelle dalla pelliccia.
Come dio volle, siamo fuori dalla medina, entriamo nel lussuoso hotel Palais Jamai, per capire se è possibile fare un bagno turco di alto livello, ma è riservato ai soli ospiti dell'hotel. Con la macchina raggiungiamo la mellah, il quartiere ebraico. In realtà in tutta Fès gli ebrei rimasti sono soltanto 10 o 15 famiglie, come ci spiega - con il suo inglese stentato - Rashid, che rincontriamo casualmente anche qui, mentre come sempre cerca di vendere i suoi braccialetti.
In questa zona, adiacente alla medina, c'è un immenso mercato molto più occidentale a dire il vero e tantissima gente che passeggia. La caratteristica del quartiere ebraico è che le case sono dotate di balconi, mentre nelle città vecchie le pareti degli edifici sono chiuse o tutt'al più dotate di finestre con grate. Costeggiamo anche la moschea e il cimitero ebraico e visitiamo la sinagoga, perfettamente restaurata di recente, con il pozzo per le abluzioni riservato alla sposa. Per farci entrare Rashid ha dovuto bussare ad una porta e far uscire una donna con le chiavi, a cui abbiamo dovuto dare dei soldi.
L'ultima sera ceniamo in un ristorante vicino l'hotel, che sicuramente d'estate è un po' più allegro. Mi vergogno di me, ma ho preso una paella! Silvia dice: "Ci pensate che oggi siamo qui e domani c'è Amendola in tv?". C'è la radio accesa e sentiamo nettamente la parola "Silvioberlusconi" durante la lettura delle notizie: ci guardiamo straniti, che sarà successo? Stiamo proprio per rimettere i piedi per terra.
Per raggiungere Casablanca la mattina dopo percorriamo l'autostrada. Il tratto fino a Rabat è pressoché deserto. La benzina costa moltissimo per il reddito medio di un marocchino e quindi l'auto è un lusso: nel paese circolano numerosissime biciclette.
Mi è rimasta impressa l'immagine degli uomini con la jallaba e il cappuccio appuntito calcato sulla testa che pedalano. Così come mi sono rimaste in mente le istantanee di coppie di uomini che camminano abbracciati o mano nella mano (e non sono omosessuali, anche perché l'Islam condanna l'omosessualità), oppure ragazze e ragazzi giovani che baciano la mano a donne o uomini più anziani. Mi mancherà il tè alla menta, buonissimo, che bevevamo praticamente sempre e ovunque, corredato di teiera, vassoio tondo in rame e bicchieri piccoli e decorati. Mi mancherà l'odore di raz-al-hanout. Mi mancheranno gli occhi truccati delle donne velate. La terra. La luce del sole. I denti rovinati. Le pagnotte calde di forno. La sabbia. La musica nelle piccole bancarelle. I ragazzini che vanno a scuola. I dromedari. I mosaici. I pali della luce. I muezzin. La neve sulle montagne. I compagni di viaggio.
Grazie. Chokran. "Italiens? Siete i benvenuti. La prima volta in Marocco? Tornerete?" Se dio vuole. InshallahLetture consigliate:
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ciao robinia, mi sapresti dire gentilmente il nome o un recapito dell'erboristeria berbera nella medina di marrakech.. quella dove ci sono i tre giovani in camice bianco =)) grazie
brava hai proprio centrato molte cose del marocco, complimenti anche allo stile di scrittura divertente e leggero. ABito a Essaouira e ti mando un bacione sincero, Francesca