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Contributo di Mario Boccia
da "La Nuova Ecologia"
ORRORI DA NON DIMENTICARE
Srebrenica è un nome che mette i brividi.
"Niente di simile dovrà più ripetersi, in nessun luogo e per nessun popolo": queste la parole del Raisu-i-ulama incise in una stele di marmo del memoriale di Potocari.
"8372… morti". I puntini di sospensione, incisi accanto alla cifra, indicano che il conto potrebbe non essere finito. Tante persone sono scomparse senza lasciare traccia, tanti resti sono ancora senza nome.
A Srebrenica c'è stato un "salto di qualità" nell'orrore "normale" della guerra di Bosnia. Un crimine pianificato ed eseguito con diligenza. Qualcosa di incomparabile con altro. La più grande strage di civili mai eseguita in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Anche a Kravica e Bratunac ci sono memoriali, ma pochi li hanno raccontati: sono i memoriali dei morti serbi. E' un fatto grave. Quasi che il rispetto della memoria dei morti di Potocari fosse sminuito dal racconto della verità. Si tratta di molte centinaia di persone, non di migliaia, ma per chi ha perso qualcuno o tutta la propria famiglia non c'è differenza. Carnefici e vittime tornano a essere tali, quale che sia la loro religione.
Ricordare è fondamentale, ma la memoria non è neutrale: si può usare per alimentare l'odio o per combatterlo. La scelta è netta. Riconoscere il proprio dolore in quello degli altri è difficile, non impossibile: alla Cooperativa "Insieme" ce l'hanno fatta. "E' pacifismo in pratica" ama ripetere Rada.
UNA STORIA ESEMPLARE
A guerra appena finita, nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa del genere: in Bosnia-Erzegovina a Bratunac, pochi chilometri da Srebrenica, esiste un posto dove lavorano insieme donne i cui mariti, figli, padri, fratelli sono stati uccisi da opposti nazionalismi.
Eppure, non solo la Cooperativa "Insieme" esiste, ma si consolida e cresce. Il mondo della realpolitik è capovolto.
Quando Rada Zarkovic, storica pacifista jugoslava, arrivò a Bratunac per la prima volta raccolse diffidenza ma anche curiosità e stupore. Era nel posto giusto. Nel 2003 la Cooperativa aveva dieci soci e un sogno: costruire le condizioni per il ritorno di chi era stato costretto a lasciare le proprie case, serbi o musulmani che fossero. Oggi ha 400 soci e il sogno, diventato realtà, si permette il lusso di progettare il futuro.
Eppure il luogo era il peggiore possibile: per la tragedia avvenuta, per la divisione del territorio su base etnica - prima realizzata dalla guerra e poi sancita dagli accordi di Dayton - e per la percezione diffusa di una giustizia di parte. La scommessa era riattivare la produzione agricola tradizionale dell'area: la coltivazione dei frutti di bosco, soprattutto dei lamponi. "Perché i lamponi trasformano la parola ritorno nella parola restare, perché ogni pianta darà frutti per dieci anni, costituendo un incentivo a rimanere".
Tra i ritornati, moltissime donne vedove. Alla fine del 2004 le donne capofamiglia nel comune di Bratunac erano 1080, oggi sono quasi raddoppiate: segno che i rientri continuano perché si diffonde la fiducia che ricominciare è possibile.
La Cooperativa aiuta a vincere la paura, le donne si sentono più forti. La determinazione del primo gruppo e la capacità di trovare finanziamenti e gestire i partner italiani hanno permesso alla Cooperativa di fare il primo salto di qualità, acquistando un impianto di congelamento.
Ma i soldi non bastano mai e il prossimo passo deve essere quello di investire ancora per avviare una linea di trasformazione dei frutti di bosco: da prodotto grezzo congelato a dolci e prodotti finiti naturali, come le marmellate biologiche.
In cinque anni di esperienza il lavoro si è raffinato, anche grazie ai contributi di esperti agronomi italiani e cileni. L'attenzione e l'amore per la natura sono al primo posto. Selezionare le qualità di frutta più adatte e resistenti ha permesso di usare sistemi di coltivazione a basso impatto ambientale.
Quando è il tempo della raccolta dei lamponi e il camion della Cooperativa fa il suo giro fra i produttori, è difficile riconoscere una contadina serba da una musulmana. Aspettano il camion al lato della strada e portano le cassette sul pianale per la pesatura, aiutate da figli e nipoti. Un gesto semplice, che diventa solenne come un'affermazione di volontà.
Anche il momento della pulizia dei frutti sul nastro trasportatore ha qualcosa di speciale. Le donne indossano una tuta rossa pesante (si lavora a meno 5 gradi) e coprono i capelli con una cuffia. Sulla tuta c'è scritto "Insieme" e le mani corrono sul nastro che trasporta i lamponi rossi ballonzolanti.
Le operaie della Cooperativa sono un gruppo vero, non artificiale come le "identità etniche" della guerra. Hanno gli stessi problemi pratici e la voglia di superarli.
Anche di fronte al lutto la solidarietà resiste. Rada racconta di quando è arrivata la notizia che i resti di un familiare di una donna sono stati identificati (un evento ripetuto più volte nel corso di questi cinque anni di attività): tutte le donne sono andate a farle le condoglianze, serbe o musulmane che fossero.
"Il dolore è un sentimento egoista - afferma Rada - Maggiore è il dolore provato, minore la voglia di conoscere quello degli altri. L'istinto protegge la memoria dei propri morti, evitando intrusioni. Eppure è solo facendo il contrario che si può riprovare a vivere, anche nel rispetto della memoria di chi non c'è più".
UN FILM
La realtà della Cooperativa "Insieme" è raccontata anche nel film "Sarajevo, BiH - Storie da un dopoguerra" di Emanuele Cicconi, scritto con l'autore di questo reportage Mario Boccia.
Il film, presentato in anteprima al Sarajevo film festival 2008 di agosto, non parla della guerra ma della situazione attuale e offre uno spaccato tristemente reale sui problemi strutturali e sulle difficoltà della vita quotidiana. Da qui il firm prende lo spunto per raccontare tre storie esemplari della ricostruzione dal punto di vista culturale, sociale ed economico, fra le quali la Cooperativa "Insieme" di Rada Zarkovic.
Le tre storie raccontate si elevano dalla dimensione balcanica per parlare dei problemi e soluzioni possibili comuni a molte situazioni post-belliche.