La seconda parte di questo viaggio parte dalla pista del Reagan Airport, lo scalo cittadino di Washington utilizzato per le tratte domestiche (un bel “salotto”, è comodo da raggiungere e offre panorami impagabili della città in fase di decollo), dal quale partiamo con un volo della Jet Blue, direzione Boston.
Da qui, macchina a noleggio e muso puntato in direzione nord, verso l’agognato verde da cui ci aspettiamo una bella rinfrescata.
Come ho già avuto modo di raccontare, per me e mia moglie si tratta di un ritorno negli stati del New England, già visitati 16 anni prima in viaggio di nozze, quindi questa zona è un concentrato di ricordi e di emozioni e la strada diventa presto una ricerca di quanto già visto, di com’era ieri e di com’è oggi.
Il nostro obiettivo è di vivere un po’ del Maine che l’altra volta avevamo soltanto “assaggiato” e poi di proseguire in Canada, in quel New Brunswick che ci incuriosisce proprio perché poco frequentato; d’altronde, ci diciamo, se rappresenta la continuazione del Maine da una parte e del Quebec dall’altra, non può che essere un posto bellissimo…
Prima tappa il Maine del sud: la cittadina di York e il faro di Cape Neddick, per finire a cena a Kennebunkport, ovviamente da Allison’s, lo stesso ristorante in cui di 16 anni prima avevamo trovato rifugio dalle condizioni atmosferiche disastrose e ci eravamo tuffati in un lobster roll ristoratore.
Questo non è il Maine dell’immaginario collettivo, quello delle foreste che finiscono nel mare e dei porticcioli con case di legno colorate, però vanta immagini da cartolina, a cominciare appunto dal faro di Cape Neddick, splendidamente posto su un’isoletta / scoglio a ridosso della costa e fotografatissimo in ogni stagione e condizione atmosferica, è il faro per antonomasia, quello ogni bambino disegnerebbe.
Prima di raggiungere il faro, però, è d’obbligo un po’ di shopping ai Kittery Outlets; ritengo che una sosta negli outlets americani sia allo stesso tempo decisamente conveniente, soprattutto ora che l’euro è discretamente forte rispetto al dollaro, e anche in certo senso istruttiva, perché ci mostra senza alcuna pietà quanto veniamo presi in giro in Italia negli acquisti delle firme statunitensi “alla moda” (i classici Abercromie, Gap, Brooksfield, Tommy Hilfiger ecc.).
Pur non reggendo il confronto con la follia degli outlets di Orlando, quelli di Kittery sono abbastanza completi dei negozi di maggior interesse, io li consiglio senza dubbio.
Poco più a nord si trova Kennebunkport, una vivace cittadina costiera frequentata da un turismo di standing abbastanza elevato, tanto da ospitare anche la villa della famiglia Bush. Il centro, fatto di casette di legno poste su palafitte, è molto suggestivo, soprattutto quando la sera si illumina di mille lucine poste alle finestre, lungo le scale o negli stretti vicoli dove si concentrano le piccole botteghe acchiappa-turista.
L’altra volta, e questo sarà il penultimo paragone che faccio, Kennebunkport era fredda, deserta e preoccupata per il rischio incombente di una piena che la inondasse dopo la pioggia battente dei giorni prima; stavolta, il caldo è appiccicoso anche di sera e il paese è affollato di macchine e turisti.
Saliamo ancora, fino all’Acadia National Park, icona di quel Maine tanto agognato, in cui alla visita di pittoreschi villaggi, con negozi, ristoranti e locali sufficientemente “trendy”, ma sempre con quel qualcosa di “rude” tanto tipico di queste zone, si affianca la possibilità di godere di una natura sostanzialmente selvaggia.
Certo, seguendo i frequentati itinerari turistici sarà difficile imbattersi in un orso o in altri animali se non di piccole dimensioni, ma una sosta nel folto del bosco o sulle piccole spiagge affacciate sui laghetti verde scuro dà comunque una bella sensazione di libertà, con l’impareggiabile profumo di resina delle foresta americana o il silenzioso tepore di una striscia di sole che si riflette sull’acqua cristallina.
Purtroppo, arriviamo con la pioggia. Percorriamo le strade di Mount Desert Island con una luce triste e colori poco brillanti. Visitiamo il faro, ci compriamo per pochi dollari presso un rigattiere un vecchio galleggiante di legno che adesso campeggia a fianco della porta di casa nostra (sotto lo sguardo perplesso dalla maggior parte delle persone che entrano), poi la sera si avvicina ed è già ora di una bella aragosta nel tanto tipico Thurston’s, che occupa una casa di legno affacciata sul molo, con tavoli spartani e “vetrate in plastica” a difesa dalla pioggia.
Una precisazione: il lobster shack è una sorta di fast-food delle aragoste; si va al banco, si sceglie l’aragosta (viva) in base alla misura che si preferisce, poi si viene chiamati per ritirare il proprio piatto, in pratica un vassoio con aragosta bollita e salse varie. L’ambiente è molto alla mano, i prezzi decisamente favorevoli e le aragoste spesso ottime.
A dire il vero, credo che le aragoste che mangiamo in Maine siano i più modesti astici, ma in inglese lobster sta sia per l’uno che per l’altra, e a noi italiani viene più facile chiamarle aragoste.
L’indomani splende il sole, quindi arriviamo a Bar Harbour, noleggiamo le biciclette e ci avventuriamo per l’itinerario che segue le vecchie “Carriage Roads”, finanziate da Rockefeller agli inizi del ‘900.
Un consiglio per chi, come me, ha un po’ la fissa di organizzare tutto prima di partire: nonostante le raccomandazioni che si leggono in internet, non è indispensabile prenotare le biciclette in anticipo, noi siamo arrivati nel periodo peggiore e in una splendida giornata di sole, ma non abbiamo avuto difficoltà a trovare disponibili una bici e un tandem. Inoltre, i negozi di noleggio si trovano numerosi nella via che scende al porto di Bar Harbour, quindi l’offerta mi sembra sia assolutamente adeguata.
Gli itinerari percorribili sono numerosi, le strade ampie, ben segnalate e assolutamente ciclabili; l’unico problema, semmai, è che non sono del tutto in piano, quindi vanno affrontate salite e discese anche un poco impegnative.
In una mattina si riesce a fare un bel giro, sufficiente a stancarsi pesantemente; le strade passano nei boschi e costeggiano bellissimi laghetti; mi sono però mancate la vicinanza con il mare e le vedute della costa, sostanzialmente assenti.
Passiamo un placido pomeriggio in Bar Harbour, nella zona che si affaccia sul mare, un po’ a guardare l’acqua che si ritira lentamente dalla baia con l’arrivo della bassa marea, un po’ passeggiando tra negozi di souvenir e locali; tutto, qui, richiama il mare, sa di salsedine e legno consunto e, ovviamente, di aragoste.
Questa zona e il Maine centrale in genere meritano una sosta di qualche giorno di più; in verità, bisognerebbe avere il coraggio di dedicare al Maine l’intera vacanza, mentre noi italiani tendiamo immancabilmente ad abbinare altro. Per chi ha il coraggio di questa scelta, confermo che non si tratterà di tempo perso.
Saliamo ancora, lungo la costa del Downeast Maine che le guide definiscono come il Maine più autentico, quello non intaccato dal massiccio afflusso turistico delle zone più frequentate.
Prima, però, è d’obbligo una sosta a Bangor, o meglio a Derry, per un pellegrinaggio alla casa del “Re”, Stephen King. E la casa è proprio lì, facilmente fotografabile in una via residenziale del tutto normale, neanche presa d’assalto; fa effettivamente l’effetto di una villa qualsiasi, se non fosse per i ragni che compongono l’inferriata e le creature mostruose sparse nel giardino. Ammetto con un pizzico di fastidio che manchiamo la foto un po’ più da intenditori, quella alla statua del boscaiolo Paul Bunyan, che si anima in It, posta in un parco adiacente alla Main Street; il tempo è poco e, non trovando subito il parco, rinunciamo.
La suggestiva estremità nord-orientale degli Stati Uniti si chiama Quoddy Head: un faro a strisce bianche e rosse, una targa nel prato che celebra il fatto di trovarsi nel punto più orientale degli Usa continentali, una passeggiata lungo la scogliera con panorami spettacolari, una foresta che finisce dritta nell’oceano, qualche spiaggetta poco accessibile tra le rocce. E numerosi posti, comprese le panchine che si incontrano lungo il percorso, in cui sedersi ad ammirare il silenzio grandissimo di questi luoghi.
Non distante da Machiasport si trova Jasper Beach, la spiaggia famosa per la singolare musicalità dei sassi che rotolano con l’andamento delle onde. Leggo che ci sono soltanto due spiagge al mondo con questa caratteristica tipologia geologica: quella di Jasper, appunto, e un’altra in Giappone. Ovviamente, noi capitiamo in una giornata di assoluta calma, il mare non è solo “un olio”, ma è fermo, praticamente una distesa di cemento grigio-azzurro; cerchiamo di ascoltare la timida risacca e ci sembra di scorgere un accenno di sonorità ma, ahimè, temo sia puro auto-convincimento.
La frontiera è una piccola rottura di scatole e, anche se si dice tre indizi che fanno una prova, mi accontento di due. Perché è la seconda volta che passo direttamente da funzionari / poliziotti americani a quelli canadesi e in entrambi i casi ho notato una notevole differenza: lo statunitense è freddo, pone domande a raffica con tono inquisitorio, pure a noi che siamo con tutta evidenza una famiglia in vacanza; il canadese, invece, è sorridente, affabile e, pur non rinunciando ai dovuti controlli, mette assolutamente a proprio agio.
E qui apro una parentesi sulle considerazioni che abbiamo fatto osservando il comportamento degli americani quando indossano una divisa, di qualunque tipo essa sia.
Per la mia limitata esperienza, trovo l’americano un buon tipo, di norma sufficientemente gentile e cordiale, comunque generalmente estroverso. E allora qualcuno mi dica, io proprio non lo capisco, perché l’americano cambi totalmente atteggiamento quando indossa una divisa, che sia quella autoritaria da poliziotto di frontiera, quella da addetto ai bagagli dell’aeroporto, oppure quella “insignificante” da bigliettaia della metropolitana di Washington o da addetto alla coda, ripeto addetto alla coda, del Rockefeller Center: è allora che il mite americano si trasforma in un indisponente cerbero, che applica le regole più banali con una ferocia ed un’ottusità inaudite.
L’unica spiegazione che mi do è che sia una questione di abitudine, o meglio di indole, cioè che gli americani gradiscano farsi guidare e ricevere istruzioni per ogni piccola cosa, mentre noi siamo meno propensi a riconoscere l’autorità fine a se stessa, soprattutto quando si esplicita imponendoci di farci avanti di 30 cm., o sottoponendoci di continuo moduli da compilare, o ancora trattandoci come potenziali terroristi per il fatto che passiamo un confine.
Chiusa parentesi, riprendiamo la nostra strada nel New Brunswick, ci aspetta il traghetto per Grand Manan Island, la maggiore della Fundy Island, poste appunto nella Bay of Fundy.
Grand Manan è un posto di assoluta tranquillità, famoso soprattutto per il whale-watching. Arrivando con il traghetto nel piccolo porto, si capisce subito che si sta approdando in un luogo separato dal resto del mondo, con ritmi lentissimi e assenza di rumore.
L’unico ristorante della zona chiude presto, noi arriviamo intorno alle 19 e 30 e siamo già al limite della chiusura; la serata passa sulla spiaggia antistante il nostro motel, giocando a fare composizioni con legni raccolti e piccole rocce, mentre una famiglia in parte a noi si cimenta nella realizzazione di un falò radunando rami e piccoli tronchi.
Grand Manan è così: la sera si sta a osservare il tramonto, un uccello marino o un peschereccio che scivola nella baia; il motel non ha camere lussuose, la porta in legno cigola e i vetri sono resi opachi dalla salsedine, ma sedersi fuori dalla porta a guardare la notte che scende sul mare con un caffè in mano è una sensazione appagante.
Purtroppo, la mattina successiva il tempo è grigio e piovigginoso, il che uccide la nostra intenzione di girare l’isola e di effettuare escursioni a piedi. Dobbiamo limitarci alla breve passeggiata che porta al faro, certamente suggestiva, ma non così diversa rispetto ad altre fattibili sulla terraferma.
Come dicevo, il pezzo forte” dell’isola sono le escursioni in barca per il whale-watching; sembra che il mare di Grand Manan, infatti, sia il punto maggiormente frequentato dalle balene nella Bay of Fundy, a sua volta parte del gruppo di luoghi al mondo dove meglio è possibile dedicarsi a questa attività.
Ci affidiamo alla compagnia Whale and Sails Adventures, che dà l’opportunità di una crociera a bordo di una barca a vela, esperienza che ci mancava nei nostri precedenti di “cacciatori” di balene.
La crociera dura diversa ore, dal mattino al pomeriggio inoltrato; a pranzo ci viene offerta una tazzona (più di una a dire il vero) di chowder che, manco a dirlo, lì in mare aperto sembra la più buona del mondo.
Nel pomeriggio, splende il sole; goderselo nel silenzioso scivolare della barca a vela è un piacere incommensurabile.
Sì, ma le balene? Diciamo che non ne ho mai viste tante, così numerose e così vicine, tanto che una ci bagna con il vapore del suo spruzzo: passano in parte e sotto la barca, in un giocoso incontro che non ha nulla di spaventevole, nonostante la mole ben visibile in verde chiaro appena sotto la superficie dell’acqua.
Unico rammarico è il fatto che anche questa zona, come già nel vicino san Lorenzo, è frequentato da una specie di balena che non usa il classico e scenografico movimento dell’immersione con la coda che si alza; peccato, Matilde anche stavolta non ha potuto assistere a questo momento tanto emozionante.
Tornati sulla terraferma, passiamo la serata a St.Andrews, descritta nelle guide come località affascinante, viva e interessante dal punto di vista architettonico; meno male che ci stiamo giusto per la cena, perché sinceramente trovo abbia ben poco da offrire, sarà che i negozi sono già chiusi, ma mi aspettavo decisamente di più.
Anche la vicina Saint John non ha granché da dire.
Leggo di eleganti vie con vecchi palazzi ristrutturati, di shopping e di locali; non so che dire, per me Saint John vale giusto due passi nel centro commerciale, per vedere due negozi e per un prelievo in banca, niente più.
D’altro canto, non è altro che la millesima conferma del fatto che noi europei in America ci andiamo per la natura, per la società e le tradizioni, non certo per visitare le cittadine, ben poco interessanti salvo rare eccezioni…
La costa ci porta ancora più a nord, al Fundy Trail, “the ultimate Bay of Fundy eco-adventure”, come trovo in internet.
Questo piccolo parco occupa in effetti un tratto di costa sostanzialmente incontaminato, anzi, per dirla tutta si legge che sia l’unico tratto di costa rimasto selvaggio dalla Florida al Labrador.
Qualche decina di chilometri di foresta, scogliere, spiagge nascoste e poco accessibili; la presenza dell’uomo è riscontrabile nelle postazioni panoramiche in legno disseminate nei punti più spettacolari.
Il Fundy Trail Park è percorribile a piedi, in bici o in macchina. Noi abbiamo scelto di camminare per un po’ nel primo tratto, quello più vicino a Saint John e fino al Salmon river, oltre il quale sembra che i percorsi divengano meno accessibili.
Esperienza assolutamente spettacolare, da non perdere.
Attraversiamo il Fundy National Park purtroppo senza avere la possibilità di fermarci.
Si tratta di un quadrato di foresta fittissima a ridosso della costa, interrotta soltanto dalla strada che gli passa in mezzo e da qualche laghetto disseminato qua e là.
Più oltre ci parleranno delle possibili escursioni, dei laghi balneabili e delle attrazioni del parco. Per la maggior parte si trovano nella zona più vicina alla costa e ad Alma, il resto del territorio è pressoché selvaggio e richiede un impegno di più giornate. Peccato, ci resta il rammarico di non avere una giornata da dedicarvi, credo ne valga assolutamente la pena.
Più su, come cantava Renato Zero, anche se con tutt’altro significato.
La strada si riavvicina alla costa in prossimità del villaggio di Alma.
In ogni viaggio c’è sempre un punto di arrivo, non solo geografico, un luogo che subito percepisci come tuo, che ti entrerà dentro e non ti lascerà facilmente. Non è necessario che abbia qualcosa di particolare, molto spesso si tratta di un’attrazione difficile da spiegare, ma sai già che quello sarà IL ricordo della vacanza.
Stavolta quel luogo è Alma.
Niente di che: qualche casa, addirittura un quartierino residenziale, pochi alberghi e ancor meno negozi, rivendite di aragoste più numerose dei negozi, un porticciolo dove si osserva evidente la prepotente marea della Bay of Fundy. Ma ha quell’aspetto da frontiera che mi affascina così tanto, l’aria tersa, il silenzio rotto dai gabbiani e dal rumore degli alberi delle barche, la strada percorsa da pochi pick-up e qualche marinaio sul molo intento a lavorare sulle nasse per la pesca delle aragoste.
La vita scorre lenta e sonnacchiosa, un universo divide Alma dagli ambienti trendy del Maine centrale.
E qui è per me un obbligo citare il più brutto ma miglior ristorante della vacanza: il Harbour View Market & Restaurant. Consigliato dal proprietario del nostro motel, si tratta di una sala annessa ad un piccolo supermercato, un posto sostanzialmente squallido, ma nel quale ho gustato la miglior chowder e la più spettacolare aragosta del viaggio, oltre tutto a prezzi bassissimi
A dispetto dell’apparenza tranquilla, Alma offre numerose attrazioni, a partire dal Kajaking nella baia, fino ai vicini Hopewell Rocks e Cape Enrage.
Proprio Hopewell Rocks è la nostra prima destinazione, la passeggiata sul fondo dell’oceano ha un fascino difficile da scordare.
Questo sito è davvero degno di nota, affollato di turisti ma adeguatamente attrezzato per accoglierli, ben strutturato e organizzato. Dal visitor center partono le passeggiate che scendono sulla costa, anzi “dalla” costa, visto che imponenti scale in ferro portano, nelle ore di bassa marea, a camminare laddove normalmente c’è l’oceano.
Questo è il posto al mondo dove maggiore è il dislivello tra bassa e alta marea, che può addirittura raggiungere i 16 metri. In effetti lo spettacolo è impressionante e “walking on the ocean floor”, come dicono le cartoline del posto, è un’esperienza curiosa e particolare.
A ridosso della costa si gira tra formazioni rocciose dalle forme più diverse, tra grotte, passaggi angusti e vedute più ampie, alla ricerca dello scorcio e della foto che meglio possano rappresentare la spettacolarità del luogo, con un occhio attento ora a non finire nel fango e a non fermarsi oltre l’orario di arrivo dell’alta marea.
Per carità, nulla di inquietante: gli orari di accesso sono ben segnalati e, per estrema ratio, qua e là sono presenti torrette “di salvataggio” per chi possa venir colto di sorpresa dal repentino salire dell’acqua che, comunque, immagino non avvenga così velocemente da impedire la ritirata strategica.
Nonostante il nome, troviamo un Cape Enrage davvero poco arrabbiato.
Baciato da uno splendido sole e battuto dal vento, è uno dei più bei promontori con faro che abbiamo visto, nonostante sperassimo in un mare ben più agitato (d’altronde in internet non trovo nemmeno un’immagine di Cape Enrage battuto dalle onde, forse il nome ha un altro significato…).
A Cap Enrage è installata una spettacolare “zip line” a strapiombo sul mare; non ho il coraggio di provarla, ma la consiglio caldamente a chi non soffra di vertigini.
Prima di lasciare la zona, passiamo del tempo a goderci il tramonto seduti sulla vicina Barn March Island Beach, anche questa fortemente interessata dal fenomeno della marea. Noi costruiamo il nostro omino di pietre posto a baluardo contro l’acqua in arrivo e semplicemente oziamo per un po’, coca e patatine al tiepido sole della sera…
Il giorno successivo giriamo definitivamente la macchina verso sud: ci aspetta un lungo viaggio, che in tre giorni ci porterà prima nel Maine, poi a Boston, quindi definitivamente a casa.
Percorriamo l’interno di New Brunswick e Maine: la strada è lunga, attraversiamo foreste, zone poco interessanti, bellissimi laghetti e paesini sperduti e malandati.
Abbiamo anche qualche momento di panico, quando ci troviamo con la macchina quasi a secco di benzina e nessuna traccia di essere vivente per tratti lunghissimi; mai pensato che si potesse essere così felici nell’incontrare un distributore…
A metà giornata siamo a Boothbay Harbour, la gemella di Bar Harbour con la quale si contende la palma di luogo più “in” del Maine.
Un bagno ristoratore nella piscina della Code Cove Inn e siamo pronti per la passeggiata in paese, tra innumerevoli negozi di souvenir, barche che trasportano turisti a spasso nella baia, locali e alberghi lussuosi.
Meglio Boothbay Harbour o Bar Harbour? Non saprei, sono entrambe molto affascinanti, ricche e ben tenute, una gode della costa spettacolare che la circonda, l’altra ha la fortuna di essere la porta d’accesso dell’Acadia National Park.
La sera ci aspetta un capitolo importante del nostro viaggio: Pemaquid Point, che per me e Stefi ha un sapore del tutto particolare, è un tuffo al cuore, accende emozioni da occhi lucidi…
Sedici anni prima c’era la burrasca, il mare era buio e incazzato e le onde si gettavano sulla scogliera con un ritmo infernale; eravamo soli al faro e ci sentivamo al centro della bufera. Pemaquid per noi è sempre stato sinonimo di vento, di libertà, di spazi enormi e desiderio di casa e, perché no, di amore.
Stavolta siamo in una placida sera, il mare è calmo e c’è altra gente, a cominciare da nostra figlia Matilde.
Se ne sono infrante di onde sugli scogli, ma qui a Pemaquid gli anni sembrano essersi azzerati; per me è un po’ come se fossimo stati lì la sera prima, se durante la notte la tempesta avesse lasciato il posto a questo splendido tramonto rosa, come se il vento si fosse preso le persone che nel frattempo se ne sono andate e ci avesse portato Matilde.
Bando ai sentimenti personali, Pemaquid è un posto bellissimo, è il faro sulla scogliera per antonomasia, impossibile da perdere per chiunque si trovi in zona.
Scattiamo un milione di foto al faro, al cielo, alle rocce e ai curiosi riflessi che si creano nelle pozze tra gli scogli, ci sediamo per un po’; Pemaquid Point è un vecchio amico che vorremmo vicino per tanti anni ancora… See you old chap.
Una bella aragosta bollita AL Saw’s Wharf – New Harbour conclude il nostro Maine 2012.
La mattina successiva, un poco di shopping nel celebre LLBean (e negli outlets che lo circondano, non pubblicizzati ma numerosi e ben forniti), nel paese di Freeport.
LLBean è famoso perché non chiude mai, 365 giorni all’anno 24 ore su 24; aperto nel 1912, a quanto leggo ha chiuso le porte per due volte nella storia, per i funerali del fondatore e per l’assassinio di Kennedy. Avviato con la vendita dell’indistruttibile scarponcino in pelle e gomma (secondo me decisamente inadeguato al gusto italiano), LLBean si è ampliato fino a diventare ciò che è oggi, cioè un piccolo paese a sé stante, fatto di grandi negozi dedicati l’uno alla vita all’aria aperta, l’altro agli sport acquatici, alla casa, ecc.
Caratteristiche sono le borse in tela, adatte più che altro per piccole gite, sulle quali, si dice, le ragazze-bene di Boston amano farsi ricamare le proprie iniziali.
Noi, chissà perché, resistiamo all’acquisto della borsa, salvo poi ordinarla qualche mese dopo per posta dal negozio on-line (regolarmente arrivata, con tanto si sigla ricamata).
La giornata di sole ci induce ad una sosta a Old Orchard Beach, una sorta di baraccone americano pieno di gente, di musica, hot-dog e montagne russe.
La spiaggia, che si sviluppa attorno al molo old-style, è uno dei luoghi balneabili di maggiore frequentazione della zona. In effetti, la lingua di sabbia è affollatissima di bagnanti (e di gabbiani a volo radente…) e parecchie persone si tuffano in un mare dal colore improbabile e gelido. Intendiamoci, Orchard Beach non ha nulla a che vedere con le nostre spiagge, però il contesto è frizzante e mette allegria, soprattutto per il luna-park vecchio stile a ridosso del lungomare, nel quale si trovano vecchie giostre come il labirinto degli specchi, la gara della pesca all’aragosta e cigolanti e sgangherate montagne russe.
Nutriamo grandi attese per l’ultimo appuntamento della vacanza: la serata al Fenway Park di Boston per la partita tra Red Sox e Los Angeles Angels.
Tranne qualche partitella su campetti minori, questa è il nostro primo vero incontro con il mondo dello sport professionistico americano; oltre a tutto, i Boston Red Sox sono una delle franchigie storiche della Baseball League e lo stadio che li ospita, il vecchio Fenway Park che giusto nel 2012 festeggia i suoi 100 anni di storia, è un vero mito che porta con sé storie e leggende come solo nello sport Usa sanno creare e raccontare.
Dopo aver pagato una fortuna per un parcheggio nelle vicinanze dello stadio, ci facciamo trasportare nell’entusiasmo della festa che ad ogni partita si anima nella via che affianca l’impianto: tanta gente festante, bande e figuranti che coinvolgono i tifosi, birra e hot-dog in quantità ciclopica.
I negozi di souvenir sono stra-pieni di gente che acquista e anche noi facciamo abbondantemente la nostra parte.
La partita, di per sé comunque avvincente, è molto spettacolarizzata da grandi effetti sui tabelloni luminosi, musiche, coinvolgimento del pubblico, addirittura assistiamo ad una richiesta di matrimonio sulle tribune, con la gente che esulta come per un gol al novantesimo (il paragone calcistico in questo caso è un insulto, ma è quello rende meglio…).
Notiamo che l’atteggiamento dello sportivo americano, in una partita “qualunque” quale è quella a cui assistiamo, è totalmente diverso dal nostro. Innanzitutto la gara dura 3 ore abbondanti e a metà il 50% degli spettatori se n’è andato; poi, la gente segue sì con entusiasmo, ma anche con distacco, se ne va al bar, fa addirittura la coda al bancomat, mangia in continuazione; forse per la natura stessa del baseball, la partita diventa un modo per stare insieme, per partecipare ad un evento, ma non ho visto nessuno seguire le fasi di gioco mangiandosi le unghie per la tensione…
Quello che faccio fatica a spiegarmi sono il pubblico così numeroso, l’entusiasmo e il costo della serata tra biglietti, cibo e shopping, alla luce della frequenza e del numero delle partite di baseball di una stagione (spesso in una settimana si giocano 4-5 partite in casa). E poi, perché andarsene a metà partita? Questo proprio non riesco a capirlo…
Noi siamo contenti, nonostante la durata infinita del match ce ne stiamo inchiodati al seggiolino quasi fino alla fine, quando dobbiamo cedere all’orario in vista del viaggio del giorno successivo.
Gli ultimi giorni si assomigliano un po’ tutti: si programma qualcosa da fare, si cerca di centellinare i minuti, ma la testa è inevitabilmente in aeroporto e la giornata non è molto di più che un inesorabile trascinarsi in quella direzione.
Noi scegliamo di tornare per una capatina a Salem, sicuri che a Matilde possa piacere visto che si parla di magia e streghe.
Sarà perché è l’ultimo giorno, sarà per il soffocante caldo umido, ma Salem ci risulta alquanto faticosa.
La riga rossa tracciata sul marciapiede segna il percorso che unisce i punti salienti della cittadina e ne agevola notevolmente la visita. Noi la seguiamo per po’, poi ci rifugiamo all’ombra dello Witch Museum per assistere alla rappresentazione dei famosi fatti del 1692 che hanno portato all’episodio di suggestione collettiva, al processo ed all’esecuzione di 19 persone accusate di stregoneria; il museo è forse un po’ datato (l’avevamo visto anche nel ’96), ma resta comunque interessante e istruttivo.
Al di là dei colori (nero e viola) di Salem e del carico di atmosfere dark, musiche “oltre tombali” e ghost tour a raffica, quello che ci impressiona sono i negozi che non scherzano affatto, vale a dire quelli che trattano di magia e di esoterismo per veri addetti ai lavori, con tanto di libri di magia, addette alla predizione del futuro, sfere di cristallo, candele propiziatorie e ogni altro articolo inerente al mondo magico; il tutto in un ambiente asettico e “normale”, ma proprio per questo decisamente inquietante.
Per chiudere con una nota ben più spensierata, Stefi non può andarsene da Salem senza una foto con la statua di quella che è la strega per eccellenza per chi era bambino negli anni ’70: la Samantha di “Mia moglie è una strega”, qui raffigurata nel gesto che tutti ricordiamo dell’effettuare un incantesimo toccandosi il n