L’utopica spiaggia Thai

Quattro settimane nella Thailandia centrale, luglio 2009

L'angoscia ha origine non nel guardare dei grassoni tedeschi che sfilano in costume su spiagge un tempo immacolate, ma deriva innanzitutto dalla nostra concezione, mutuata dai media, di come dovrebbero essere quelle stesse spiagge. È l'attesa in sé che spoglia le destinazioni a cui siamo diretti di parte della loro autenticità.
[ Rolf Potts, "Marco Polo non ci è mai stato" ]

Quel che mi è sempre piaciuto del buddhismo è la sua tolleranza, l'assenza del peccato, la mancanza di quel peso sordo che noi occidentali, invece, ci portiamo sempre dietro e che è in fondo la colla della nostra civiltà: il senso di colpa. Nei paesi buddhisti niente è mai terribilmente riprovevole, nessuno ti rinfaccia mai qualcosa, nessuno ti fa mai una predica o cerca di darti una lezione. Per questo sono paesi piacevolissimi e fanno sentire a loro agio tanti giovani viaggiatori occidentali, in cerca appunto di libertà.
[ Tiziano Terzani, "Un indovino mi disse" ]

Quanto a me, credo ancora nel Paradiso, ma ho capito che non è un posto dove andare: lo senti dentro, quando per la prima volta senti di far parte di qualcosa di unico... e quando lo trovi, quel momento... dura per sempre
[ "The Beach" ]

“In Thailandia,” riprese Robert, “tutti possono avere quello che vogliono, e tutti possono averlo al meglio.”
[ Michel Houellebecq, "Piattaforma" ]

Avevo scelto la Thailandia come destinazione del mio viaggio di luglio per una ragione molto terra terra: la Emirates proponeva biglietti aerei da Roma a Bangkok con scalo a Dubai a soli 400 euro. Eccomi quindi all'aeroporto di Dubai, ora locale le ventitré e trenta e una lunga notte da trascorrere lì (diciamolo che questo era uno dei motivi dell'infimo prezzo dei voli). Il problema dell'aeroporto di Dubai è che c'è un'unica smoking lounge minuscola dove l'aria è irrespirabile e la gente che aspira ad entrarci troppa. L'alternativa è fumare in un bar o ristorante dove sei obbligato ad acquistare una consumazione piuttosto esosa, da pagare possibilmente con carta di credito in modo da non ricevere inutile moneta degli Emirati Arabi come resto. Per farla breve sono entrata verso mezzanotte in un Irish Pub e ne sono uscita alcune Guinness dopo, al sorgere del sole. Le Guinness sono state gentilmente offerte dai diversi viaggiatori in transito che si sono alternati al mio fianco durante quella lunga notte del mio primo giorno di viaggio verso Bangkok; dunque devo ringraziare pubblicamente Malcolm, ingegnere scozzese, George, consulente aziendale gallese, e Justus, diplomatico kenyota di stanza ad Addis Abeba (con il quale mi sono moralmente impegnata a visitare presto il suo Paese). Inoltre grande stima al cameriere nepalese e alla cameriera filippina che facevano il turno di notte e che si sono ricordati di me quando sono ripassata al ritorno, più di tre settimane dopo, a bere un caffellatte.
Da non perdere
CI CREDIAMO VIAGGIATORI, MA SIAM TUTTI TURISTI
Il mio arrivo a Bangkok è praticamente identico all'arrivo di Leonardo Di Caprio nel film The Beach, con la differenza che nessuno mi offre sangue di serpente da bere e che nella camera accanto alla mia non c'è nessuno che fa sesso. Anche perché al quinto piano di questa guesthouse, che è la fotocopia di quella del film, ci sono soltanto camere singole ed è espressamente vietato l'ingresso ad estranei (in particolare – si precisa - alle prostitute).
Mi stabilisco anch'io nella Khao San Road, il ghetto degli zainisti (che mi sembra una traduzione più corretta dell'inglese "backpackers", rispetto a saccopelisti) mondiali di passaggio a Bangkok. Per le esigenze dei viaggiatori stanchi e straniti o dei nuovi arrivati come me è un posto più addomesticato rispetto al resto della città, ossia è uguale a tutte le località per turisti del mondo: gli internet point sono affollati di giovani che parlano tramite Skype con la fidanzata o con il fratello, o che scrivono su Facebook che stanno a Bangkok e hanno accarezzato una tigre, che hanno rischiato un incidente in pulmino e piove sempre.
Dopo un'indispensabile doccia, come prima cosa mi tolgo le scarpe e varco la porta di un centro massaggi per fare la conoscenza con il famoso thai massage: un'esperienza che unisce lo stretching e la ginnastica con il massaggio propriamente detto e che ripeterò con una spaventosa frequenza.
Allo scadere di un'ora sotto le sapienti mani della massaggiatrice mi siedo a un tavolino e ordino alla donna che cucina con il wok un piatto di noodles alle verdure e pesce. Dal banco di fronte compro la prima birra, la Singha (che si pronuncia “sing” e che in seguito verrà scalzata dalle mie preferenze quando assaggerò la Leo). A quell'ora gli avventori non sono tanti e dunque un neozelandese di origine turca, proprietario di un ristorante italiano ad Auckland, attacca inevitabilmente bottone con me, introducendomi nelle usanze cittadine e dilungandosi nel corso delle due ore trascorse insieme sulle pietanze italiane nella cui preparazione lui eccelle. Nonostante sia di una rara bruttezza, ci prova anche a chiedermi di rivederci, sottintendendo un possibile sviluppo sentimentale, ma viene prontamente fulminato dal mio sguardo schifato.

LA TRUFFA DELLA LONELY PLANET
Il primo risveglio a Bangkok avviene ad un'ora così tarda che le mie aspirazioni cultural-turistiche sulla giornata non possono assolutamente essere ambiziose. È il momento per fare esperienza della consueta “finta truffa della Lonely Planet”. In alcuni templi di Bangkok ti si avvicinano delle persone amichevoli e colte che ti consigliano di andare a visitare dei luoghi interessanti e meno battuti dai turisti. En passant ti indirizzano verso quello che loro definiscono l'ufficio del turismo, per ricevere indicazioni e organizzare al meglio il viaggio. In realtà questo ufficio non è altro che un'agenzia viaggi come mille altre (che però vende pacchetti molto più costosi della norma), da cui questi personaggi ricevono una sostanziosa percentuale. Per compiere questo stravagante tour, la donna che incontro mi dice che basta fermare un tuc-tuc e dargli l'equivalente di un euro (con cui un normale tuc-tuc di Bangkok non ti fa fare manco un chilometro, figuriamoci un tour di tre ore con varie soste).
Curiosa di conoscere i meccanismi della faccenda e comunque alle 14 del mio primo giorno in una metropoli sconosciuta che sta covando un temporale con i controfiocchi, mi imbarco sul tuc-tuc munita del foglietto thai-english accuratamente compilato dalla gentilissima signora di Chang Mai. Nel primo tempio un tale cerca di terrorizzarmi elencandomi gli innumerevoli furti, rapimenti e assassinii che avvengono ogni anno; quindi mi consiglia caldamente di rivolgermi all'ufficio turistico per prenotare un pacchetto. Di fronte al mio sprezzante disinteresse si spazientisce, affermando con convinzione che gli italiani non sono un popolo molto amato dai thailandesi perché siamo poco perspicaci. Alla fine però, con una metaforica capriola acrobatica, si qualifica come professore universitario (nientedimeno) e mi invita a cena. Rifiuto cortesemente e saluto, meditando sulle curiose abitudini locali.
Pensando che il tuc-tuc ci avrebbe spuntato qualche bath, mi faccio comunque accompagnare all'ufficio del turismo, dove un distinto signore mi propone istantaneamente un pacchetto di 21 giorni in Thailandia a “soli” 800 euro. Quando cerco di spiegargli che non è il mio genere di vacanza, l'ex gentile impiegato si alza in piedi, mi deride con i suoi colleghi sicuramente riferendosi al mio status di saccopelista spiantata e urlando mi indica la porta. Il giro prosegue con la visita del Marble Temple e dello Standing Budda. Nel frattempo aveva cominciato a diluviare a secchiate e dunque ho benedetto la santa donna che in cambio di un vaffanculo da un impiegato di agenzia viaggi ladra mi ha offerto un giro turistico di due ore al riparo dalla pioggia.
Alla fine il guidatore – che non parla inglese se non per una serie di frasi standard che aveva scritte su un taccuino – mi sbarca casualmente alla fermata del battello sul Chao Praya, in pratica alle spalle della mia guesthouse.
Mi resta il tempo per una bella passeggiata, con soste per mangiare uno spezzatino di pesce piccantissimo al lime e fagiolini, per comprare i pantaloni da pescatore e per farmi massaggiare. La sera esploro i locali e il mercatino di Khao San Road e ascolto il concerto di un chitarrista rock in compagnia di un australiano biondo coi dread e i tatuaggi, meccanico di caterpillar nella vita reale, che beve un white russian dopo l'altro come il grande Lebowski.

LA SPIAGGIA DI UTOPIA
Grazie a circostanze fortunate, alle dieci di mattina sono già in assetto da visitatrice determinata che sa il fatto suo, decisa a non farsi distrarre da nessuno. Parto alla volta delle attrazioni più famose di Bangkok: il Wat Phra Kaew con il Budda di smeraldo, il palazzo reale, il Wat Pho con il gigantesco Budda sdraiato e il Wat Arun (il "tempio dell'alba" con la torre in stile khmer). I suddetti monumenti sono davvero ammirevoli, anche se un essere umano innocente dovrebbe avere il diritto di goderne senza sudare così copiosamente e senza rischiare di continuo un collasso durante quel continuo togliersi e mettersi le scarpe fuori dai luoghi sacri. Così torno in Khao San con il servizio di battelli “long-tail”, che mi sembra un modo molto più fresco e arioso di viaggiare rispetto a camminare sui marciapiedi roventi.
Per il pomeriggio avevo anch'io programmato di fuggire immediatamente da Bangkok alla volta delle isole del Golfo del Siam, benché nessun tossicomane pazzo mi avesse lasciato attaccata alla porta una mappa per raggiungerle, ricamandoci sopra tutta una storia leggendaria che non sta in piedi, come succede a Di Caprio nel film. Leo decide di andarci prendendo un treno notturno diretto a Surat Thani e portandosi appresso una coppia di francesi – cosa inconcepibile nella realtà, ovviamente a meno che non sei un figo biondo che la flessuosissima e sensuale fidanzatina francese vuole scoparsi. Io invece opto per una soluzione di viaggio ancora più facile e a buon mercato, che vendono in qualunque agenzia squinternata e si chiama “joint ticket” (biglietto combinato bus e traghetto). Questa usanza tipica della Thailandia consiste nel raggruppare un plotone di giovani occidentali con zaino sulle spalle, appiccicare ad ognuno un adesivo sul petto che dirà all'universo mondo dove sta andando e comandarli con dei modi piuttosto sbrigativi, come se fossero bambini in colonia. Non è raro che le tradizioni locali prevedano anche la narcosi dei suddetti saccopelisti e la conseguente rapina durante la notte in bus (com'è accaduto a persone che ho conosciuto).
Durante l'attesa mattutina al porto di Surat Thani, una ragazza ceca che è in viaggio da 6 mesi – probabilmente illanguidita dalla romantica alba che abbiamo ammirato insieme - mi propone di dividere la camera con lei a Koh Phangan, ma visto che non ho il suo stesso budget pidocchioso non mi faccio corrompere e arrivo a Koh Samui in tarda mattina, accompagnata dai delfini saltellanti. L'autista del pulmino vuole sapere a tutti i costi dove sarei andata a dormire; purtroppo, dopo la terza volta che gli dico di lasciarmi a Lamai beach che poi me la sarei vista io, sono costretta ad infrangere le note regole di civile rispetto thailandese che consigliano di non perdere mai la pazienza e non alzare la voce.
Pranzo tra anziani occidentali con gli occhi a cuoricino che guardano la loro dolcissima giovanissima compagna, osservo i travestiti che giocano a pallavolo, mi addormento tra le mani della massaggiatrice vicino al mare: così trascorre il placido pomeriggio.
La sera Lamai city è un mortorio, così vado a cena in un ristorante thai dove rimango diverse ore insieme ad una coppia di inglesi alcolizzati. Poiché è il compleanno di Dan, il padrone del ristorante, a una cert'ora arrivano tutti gli amici e si mangia e soprattutto si beve in allegra compagnia. Jo, panettiere tedesco che vive a Bristol da 52 anni, e sua moglie Lala, matta come un cavallo, tornano ogni anno in quest'isola per cui manifestano un entusiasmo immotivato, mentre nella loro tristissima città albionica a quest'ora sono tutti chiusi in casa o al massimo in un pub dove il tenore delle battute lascia molto a desiderare. Certo che la vita quotidiana per due esseri umani che si sono sposati vestiti da Teletubbies non deve essere semplice, considero tra me e me all'alba mentre faccio ritorno verso il mio bungalow.

QUEGLI OCCHI ALLEGRI DA ITALIANO IN GITA
Al mattino la proprietaria dell'agenzia viene personalmente al mio resort per accertarsi che mi prelevino per l'escursione prenotata. È una trentenne chiacchierona e allegra, ma con sbalzi d'umore terrificanti; il suo problema è che vuole un bambino, ma purtroppo è single e dunque cerca alacremente un boyfriend. Le andrebbe bene anche un fidanzato straniero e infatti nel passato ha già avuto una relazione con un italiano che l'ha portata a Napoli e Parigi, ma poi si sono lasciati.
Il pick-up che viene a prendermi è già occupato da 4 italiani che parlano incessantemente dei ristoranti dove hanno mangiato sorprendenti quantità di pesce spendendo solo 20 euro (io per mangiare ho speso al massimo 2 euro). Per un'incomprensibile ragione, mi aggrego al loro gruppo capitanato da Enzo, un italiano residente a Koh Samui da più di quindici anni, che lavora con un'agenzia viaggi, collabora con la trasmissione di Licia Colò e a tempo perso fa l'ammaestratore di cobra.
Ci fermiamo per uno snorkeling sulla “migliore barriera corallina della zona” con pesciolini “numerosissimi e non timidi”, come spiega il dépliant, che praticamente bussano alla maschera. E io non posso non chiedermi, se questa è la migliore, come devono essere le peggiori. L'isola di fronte, Koh Tan, è invece legata ad una curiosa storia di cani morti a causa degli ultrasuoni emessi dai pipistrelli.
La seconda tappa è l'isola di Koh Mudsum. Attracchiamo su questa spiaggia che in effetti avrebbe tutte le caratteristiche della famosa “spiaggia” del film omonimo, la quale però, tecnicamente, secondo l'autore del libro dovrebbe essere ubicata dentro al Parco Nazionale Marino di Ang Thong (che è una gita che non ho fatto perché ci volevano un casino di ore di barca). Invece il film lo hanno girato a Maya Bay, sull'isola di Phi Phi Leh, parco nazionale situato nel Mare delle Andamane, che oltre alla spiaggiosità e al mare turchese-verde, tiene una serie di faraglioni di fronte che rendono il tutto un po' più intimo e morboso, in linea con le situazioni tipo “Isola dei famosi” ma più estreme che si svolgono nel film. Questa spiaggia su cui ci abbandoniamo è praticabile solo da un paio di anni perché prima l'isola era monopolizzata dai coltivatori di perle che potevano anche spararti addosso se osavi avvicinarti. Qui possono, mica come in Italia che se qualcuno entra in casa tua e gli spari sei tu che vai in galera! si commenta amabilmente tra connazionali a mollo nell'acqua bollente. In questi casi di solito abbondano i confronti tra l'Italia e il Paese che in questo momento ci ospita, e in particolare qui si riflette sui motivi per cui un italiano di Riva del Garda da 15 anni ha rinunciato allo sci e non tocca la sua terra natia. A differenza del film, qui nessuno di noi manifesta l'intenzione di allungare a dismisura la permanenza, ma forse perché non abbiamo scoperto maestose piantagioni di marijuana all'interno dell'isola.

LADY BAR
Al ritorno mi faccio mollare vicino alla roccia a forma di pisello gigante detta “grandfather”: quindi percorro a piedi Lamai Beach che a quest'ora pre-tramonto è incantevole e anche l'acqua del mare è perfetta per un bagnetto pomeridiano. Mi sdraio su uno di quei materassini con il cuscino triangolare di cui sono dotati i bar sulla spiaggia, dove chiacchiero con dei genovesi che non è la prima volta che vengono in Thailandia. Il più bono dei tre afferma con sicumera di essere l'unico turista che in Thailandia non ha mai fatto sesso. Quando mi ha svelato che la sua famiglia è originaria di Bari, si è creata una certa confidenza, ma nonostante ciò, mentre sulla spiaggia si comincia a preparare la magica atmosfera della sera (griglie, pesci e crostacei nel ghiaccio, candele, comodi sedili, lucine), i mosquitos arrivano a frotte e vado a riposarmi nella mia casetta di legno.
La sera decido di approfondire la conoscenza dei go-go bar, che la sera prima erano chiusi a causa del Budda Day, durante il quale non si beve e non si fa festa (e questa era la ragione del mortorio). Ce ne sono decine tutti vicini, c'è un bancone in legno e un paio di pali di metallo dove queste minuscole ragazzine fanno finta di essere eccitanti per questi panzoni che bevono la birra, finché una qualche ragazza gli si avvicina e chiacchierano tutta la sera, oppure continuano per la notte, oppure addirittura per una settimana o due. Durante la gita Enzo mi aveva fatto un quadretto piuttosto squallido dei rapporti uomo-donna in questo Paese, spiegandomi senza mezzi termini che gli uomini sono fondamentalmente delle merde, che si sposano con ragazze molto giovani che poi mollano senza problemi quando sono vecchie (ossia a 25-30 anni) e se ne trovano un'altra. In quel caso la legge thailandese non li obbliga a versare alimenti o comunque a provvedere in qualche maniera alla famiglia, così molte donne, non sapendo come mantenere i figli, li lasciano dai genitori e vanno a prostituirsi a Patpong in Bangkok, oppure a Pattaya, Koh Samui, Phuket o altre località turistiche. I venti euro che guadagnano per una sera li vanno a versare immediatamente in banca.
La stessa realtà me l'ha confermata Sasi, questa ragazza che mi invita a bere nel bar dove lavora - fondamentalmente il loro lavoro è questo, quindi se sei uomo o donna non cambia, basta che consumi, e io consumo un paio di birre mentre cerco di capire lei come la pensa. La pensa prima di tutto che vorrebbe avere il mio colore di pelle. Poi che vorrebbe avere i miei stessi diritti di donna farang che se mio marito mi lascia almeno mi dà i soldi per dare da mangiare ai nostri figli. Ovviamente quella di Enzo e di questa ragazza minuta e dal sorriso perenne è solo una delle realtà, come al solito non si può generalizzare: ci sono anche uomini come si deve e ci sono una moltitudine di donne senza scrupoli, che magari hanno passato un'infanzia poverissima nel nord est del Paese e poi, accalappiato il farang di turno, passano le giornate dal parrucchiere e dall'estetista e mangiano solo ostriche e champagne tirandosela un casino.

POI PRENDO IL VIZIO!
Dopo un paio di giorni a Koh Samui, verificato l'alto grado di cementificazione e gli infiniti lavori in corso, le spiagge non eccelse, i puttanieri uguali a tutti gli altri, e comunque dopo la bellissima gita alle isole e le persone interessanti conosciute, ho ritenuto che fosse giunto il momento di spostarmi nell'isola di Koh Tao, evitando accuratamente Koh Phangan dove il Full Moon Party aveva attirato adolescenti impasticcati di tutto il mondo. Purtroppo prima di arrivare a Koh Tao bisogna caricare i suddetti deficienti da Koh Phangan (tappa obbligata nel tragitto della nave) i quali crollano senza forze in ogni angolo libero, cercando invano di riprendersi dagli eccessi della notte appena terminata.
Koh Tao è il paradiso in questo pomeriggio di tempo perfetto in cui mi fermo a pranzare in un baretto ombroso e ventilato. Trovato il mio bungalow nella foresta, mi faccio massaggiare in riva al mare col venticello guardando il tramonto. La sera è tutto un trionfo di lucine, musica lounge, cuscini e divanetti, ragazzoni biondi reduci dalla giornata di immersioni. Questo Paese ti vizia: tutti i piaceri della vita loro te li offrono anche se non li hai chiesti, penso. Al Vibes conosco questa ragazza inglese bionda e frizzante che sta cercando di trasferirsi sull'isola per fare la baby sitter, dopo aver insegnato un anno alla Primary School di Bangkok. Tanti europei son stufi di come vanno le cose a casa loro e io non posso dargli torto. Dopo si avvicina un finlandese e io, lo giuro, ci provo a capire il suo inglese ma dopo 10 minuti, estenuata, devo lasciar perdere. Vado a finire allo spettacolo delle Drag Queen, dove mi diverto un mondo.
Il vento che si era alzato la sera porta il brutto tempo: rimando la gita di snorkeling e, approfittando del cielo velato, passeggio verso il centro dell'isola tra vegetazione tropicale e scorci di mare. Sulla strada che conduce alla spiaggia di Aow Leuk compro un vestito, ché non ne potevo più di andare in giro con il pareo libico legato in modo sommario e ormai ridotto a uno schifo. La passeggiata è piuttosto impegnativa e quando arrivo finalmente in questa meravigliosa baia dotata di un'acqua turchese cristallina mi immergo istantaneamente, sguazzando per un'oretta. In pratica finché non comincia un diluvio massiccio che sarebbe durato tutto il pomeriggio.
Nel frattempo avevo fatto amicizia con queste due italiane con cui chiacchieriamo alcune ore, prima in acqua e poi nel ristorante a picco sul mare. Una è di Trento e sta spendendo qualche giorno al mare prima di andare in Myanmar insieme ad un'altra italiana conosciuta virtualmente sul sito compagnidiviaggio. L'altra è una romana diventata buddista da alcuni anni, in viaggio con due amiche abbandonate alla loro coattaggine su un'altra spiaggia. Lei a un certo punto è dovuta andar via perché una tipa le era entrata nel motorino preso in affitto, sfasciandoglielo, e dunque doveva gestire questo inquietante incontro con l'uomo che affitta i motorini e la responsabile dell'incidente. Invece io per andarmene da lì tento di salire sul motorino con la Carla, ma purtroppo la mia fobia nei confronti dei motorini guidati da donne italiane sulle isole dalle strade scoscese e non asfaltate ha la meglio e preferisco prendere un passaggio da un pick-up lasciando la trentina sola con la sua gomma bucata.

THROUGH THE MONSOON
Nonostante il tempo non sia proprio invitante, prima o poi lo dovevo fare questo benedetto tour con lo snorkeling. Certo avrei preferito recarmi con il sole alla stupenda isola di Nangyuan – in pratica tre isolette da cartolina collegate da sottili strisce di sabbia, ovviamente sede di un esclusivo resort (prezzo di ammissione due euro, orario in cui devi sbaraccare le 17) –, alla baia dei Manghi e alla Hin Wong Bay, dove si può osservare con la maschera una meravigliosa barriera corallina con pesci stupendi in quantità. E poi il viaggio di ritorno su questa barchetta di legno colorata non è comodissimo e ci metto un bel po' per riprendere l'equilibrio una volta scesa.
Mi ristoro in uno dei milioni di bar rasta che infestano il Paese, dove l'unica colonna sonora concessa è Bob Marley e c'è sempre il thailandese con i dread, lo sguardo stolido e il sorriso ebete, che in questo caso sta cercando malamente di scrivere con un pennarello le voci del menu del bar su cartoncini di carta fatta a mano. E' in compagnia di una bellissima ragazza lituana con i capelli corti la quale qualche mese fa, appena adocchiato questo bar, aveva all'istante deciso di fermarcisi a lavorare ed era stata sua l'idea di questi menu fatti a mano tremendi e soprattutto poco pratici in un Paese dove piove sempre (oltretutto li sta facendo scrivere al thailandese rasta chiaramente semianalfabeta). E questo nonostante la lituana sappia il fatto suo e infatti mi parla a lungo della situazione sociale ed economica del suo Paese dopo il crollo dei regimi comunisti.
Sulla strada del ritorno incontro le due italiane e mi faccio coinvolgere in una serata mal assortita in compagnia delle amiche romane coatte di cui sopra e di un tedesco e uno svizzero tedesco istruttori di diving che vivono sull'isola. E' paradossale viaggiare da sola e poi ritrovarmi con quattro donne italiane a digiuno di inglese e che parlano a voce troppo alta, mentre cercano di mangiare un piatto siberiano o mongolo in maniera impropria. Per fortuna anche al tedesco la situazione pare insopportabile e ha la gentilezza di accompagnarmi in motorino alla mia spiaggia, lasciando il collega svizzero a bearsi della simpatica compagnia.
Decido di lasciare l'isola. Il mare non è propriamente quello che si dice una tavola, ma erroneamente penso che il traghetto superveloce non dia problemi. Non mi rendo conto del dramma che sto per vivere nemmeno quando vedo i passeggeri appena sbarcati: bende sugli occhi, visi bianchi come stracci, donne sostenute a braccio dai compagni, omoni che si siedono a metà passerella sulle loro stesse valigie guardando nel vuoto. Persino la ragazza ceca che è in viaggio da 6 mesi (che ne deve avere di pelo sullo stomaco) è ridotta a una schifezza umana. La mia occasionale compagna, una ragazzona canadese dotata di quella inscalfibile serenità tipica di chi frequenta lunghi seminari di yoga in India, mi calma dicendomi che in biglietteria le hanno detto che il tragitto è tranquillo. Ora, io non so che idea hanno i thailandesi della tranquillità, però due ore e mezza in un'imbarcazione che dà delle tuzzate contro le onde così forti che le griglie da cui entra l'aria condizionata si staccano dal soffitto (sfiorando la testa mia e di altri passeggeri), piena di gente che urla aggrappata alla poltrona davanti e vomita in continuazione, insomma a me non sembrano tanto tranquille. Per fortuna la canadese col suo sorriso ayurvedico tiene a lungo poggiata la mano sulla mia dicendo È tutto okay (mentre io sono intimamente convinta di stare vivendo i miei ultimi minuti di vita, pensando Che cazzo sono venuta a fare in Thailandia, aveva ragione mia madre: non me ne potevo andare come tutti in campeggio nel Salento?) Quando finalmente scendiamo, la canadese mi svela che, avendo vissuto dieci anni su una barca ormeggiata nei pressi di Vancouver, non era stata particolarmente turbata dall'esperienza.

TERRA! TERRA!
Ognuno per la sua strada: la mia è prendere una stanza a Chumpon e non muovermi fino al giorno dopo per nessuna ragione al mondo. E infatti trovo subito alloggio presso una guesthouse molto accogliente ed economicissima, di cui sono l'unica cliente. La ragazza che la gestisce non ha più di diciannove anni ed è di una dolcezza disarmante. Insieme a lei, sul divano, guardo il telegiornale. Come ogni sera alle 8 per una buona mezz'ora trasmettono tutto il resoconto dell'intensa giornata del re e della regina, durante la quale normalmente aiutano un casino di gente e benedicono plotoni di persone in divisa che si stendono ai piedi del re e, con la testa vicina ai suoi piedi, ricevono una foglia sull'orecchio e uno sbaffo sulla fronte, che il re Bhumibol gli appone con le mani tremanti dato che è parecchio anziano e infatti è al potere da 63 anni. Questo amore per la famiglia reale è così grande che praticamente tutti hanno in casa delle foto del re e della regina più o meno recenti, oppure portano un braccialetto di plastica arancione con scritto I love the king, frase che scrivono anche sugli autobus e in infiniti altri posti.
A Chumpon celebro la felicità di essere ancora viva: vado al mercato, mangio pollo fritto, compro dei vestiti e vado a cena in un locale poco avvezzo alla presenza di farang. Qui purtroppo sbaglio ordinazione e mi ritrovo un'enorme zuppa di pesce piccantissima che cerco di mangiare bevendoci su un'intera birra grande gelata, ma poi devo miseramente lasciare lì sul tavolo, mentre questo gruppo rock thailandese capellone suona sul palco.
Al Farang Bar faccio due chiacchiere con questo inglese arrogante, il quale smanetta su Facebook col suo laptop, pieno di acredine nei confronti dei suoi vecchi amici che hanno messo tutti su famiglia e non si divertono più come un tempo. Mi racconta che l'unica volta che è stato in Italia ci è venuto in aereo per una giornata soltanto (a Milano, in via Montenapoleone), per comprare un portafogli di Gucci e per bere del vino rosso con la sua morosa dell'epoca. Quando va in bagno ne approfitto per scappare.
Dopo la traversata da incubo avevo definitivamente abbandonato la mia precedente idea di recarmi all'arcipelago di Tarutao, a sud-ovest, dove c'è questa meravigliosa Koh Lipe: non volevo nemmeno sentirne parlare di isole. Decido quindi di raggiungere il parco nazionale di Khao Sok con un mini van.
Scendo vicino al resort che mi aveva consigliato quella ragazza della guesthouse di Chumpon, dicendomi – almeno credo - che era di qualche suo parente. E raccatto anche una coppia di olandesi sovrappeso che mi sembravano un po' impacciati sulla strada. E infatti il posto è stupendo, gestito da una famiglia molto unita: Lek, che fa anche l'accompagnatore nelle gite, sua moglie che ha appena partorito, la mamma di lei, i genitori e i due fratelli single di Lek, che la sera trascorrono il tempo infilando pietre preziose per farne collane. Peccato che è veramente isolato nella giungla e dopo le 7 e mezza non posso raggiungere la strada principale perché vige una compatta oscurità punteggiata di lucciole e rane gracidanti. Gli unici clienti del resort, oltre me e la coppia di ciccioni, sono i membri di una famigliola di olandesi biondissimi. Dopo mangiato non c'è altro da fare se non chiudersi nella casetta sospesa. La notte è lunga e piena di angoscia: i terrificanti rumori della foresta non cessano un secondo e si ingigantiscono fino a stordirmi; tra di essi posso distintamente riconoscere un essere che si lava i denti rumorosamente per ore e un altro che in pratica russa come una locomotiva.

ZEITGEIST
Quegli odiosi dell'agenzia di Surat Thani non mentivano quando mi parlavano di piogge e frane, infatti il parco vero e proprio è impraticabile e il governo lo ha chiuso per una settimana. Per fortuna proprio lì vicino c'è un lago stupendo grande quasi duecento chilometri quadrati, con dentro centinaia di isolotti e baie e grotte lavorate dalla pioggia. E dunque partecipo a una gita meravigliosa con tutti questi olandesi, ciccioni e non. Ora, qui, anche se siamo dentro a un lago, il paesaggio è identico a quello dove hanno girato il film The beach e dunque il cerchio si chiude. In realtà è identico tranne un particolare: manca la spiaggia bianca con le palme, visto che appunto siamo in un lago. Anche se, a dirla tutta, pure sulla spiaggia di Phi Phi Leh hanno piantato cento palme da cocco perché non corrispondeva ancora esattamente agli standard hollywoodiani di come avrebbe dovuto essere la tipica spiaggia thailandese, quindi la "spiaggia" continuerà ad essere un'utopia, come volevasi dimostrare.
Il lago lo percorriamo in barca, quindi ci fermiamo presso le case galleggianti di bambù dove facciamo dei bagni da film e mangiamo un pesce enorme appena pescato. Con una zattera di bambù arriviamo all'ingresso del sentiero che penetra in una foresta scivolosa e ricca di piante endemiche, felci, bambù e (ovviamente) zanzare, vermi palla, formiche giganti e camaleonti. Quindi sudati e pieni di bolle raggiungiamo questa grotta con le stalattiti e le stalagmiti e il ragno delle grotte, grosso ma innocuo. Al ritorno sostiamo in un punto panoramico ad ammirare il lago e la diga che serve produrre l'elettricità per tutta la Thailandia del sud. Appena ci fermiamo per fare benzina i due olandesi sovrappeso scendono senza nemmeno chiedere il permesso, entrano a razzo nel negozio, fanno incetta di schifezze da mangiare e in men che non si dica fanno fuori innumerevoli snack al cioccolato, patatine e bevande gasate. Tra l'altro, penso, se tutti questi olandesi fossero stati italiani sarebbero diventati subito amici per la pelle, invece loro, anche se sono quattro gatti in Olanda (e mi sembra che provenissero pure da città vicine), hanno continuato tutta la gita a trattarsi con freddezza e a scambiarsi frasi di circonstanza.
Tornata alla base chiedo a Lek di accompagnarmi in un resort più vicino alla strada, perché lì mi sentivo davvero troppo isolata. E lui, che è proprio un gran bravo ragazzo, mi porta in questi bungalow dove trovo subito un'atmosfera calorosa e festaiola. Trascorro una serata piena di birre e chiacchiere all'interno di questa piccola comunità di miei simili tra cui il vivacissimo Jaime Antonio (australiano di origine cilena), i suoi due compagni di viaggio, una ragazza sudafricana molto carina, un americano coi capelli lunghi che vive da 10 anni a Barcellona e un inglese. Si è discusso tra l'altro del documentario americano “Zeitgeist” che dimostra come gli uomini di questo secolo vengano presi per il culo quotidianamente dalla religione, dai media, dai politici, dalle banche e da tutti i poteri forti, interessati soltanto a tenerli nell'ignoranza; e individua nell'educazione e nell'amore l'unica soluzione. E noi effettivamente non stiamo facendo altro che mettere in pratica questi principi.

SÌ, VIAGGIARE
Un mini van mi conduce alla stazione dei bus di Surat Thani, da dove sta partendo un grosso pullman con aria condizionata diretto a Bangkok. Ci salgo intenzionata a scendere a Hua Hin: dal finestrino osservo per molte ore camion carichi di durian e ananas, distese immense di noci di cocco, diversi Budda seduti o sdraiati. A Hua Hin è tutta un'altra storia: grossi grattacieli e hotel di lusso mi accolgono sul viale. Prendo una stanza economica sul molo, arredata con mobili di legno lucido (praticamente come dormire su una nave); dall'ampia terrazza contemplo la costa adorna di mille lucine. In giro noto molti turisti thailandesi in grappoli familiari, numerosi puttanieri soli di ogni provenienza e rari stranieri sperduti come me, che sicuramente si chiedono cosa diavolo ci stiano facendo lì. Evitando accuratamente le decine di ristoranti italiani, svedesi, svizzeri, tedeschi, francesi, norvegesi, mi reco al mercato notturno per una cena con riso e granchio seduta ad uno dei tanti tavolini di plastica, da cui posso agevolmente seguire i concerti di Michael Jackson trasmessi dal piccolo televisore. In centro conto anche numerose sartorie che vorrebbero inutilmente imitare lo stile italiano e magari anche vendermi un vestito. Poiché l'ambiente del centro risulta privo di interesse per me che non so che farmene delle lady bar, me ne vado a passeggio sul lungomare deserto, riscontrando in lontananza la nave illuminata che difende la residenza del re (il quale appunto ha scelto di vivere qui). Questa ragazza paffuta che fa la cameriera nell'unico bar aperto vicino al porto, mi racconta che i malesi che lavorano sulle navi sono pericolosi quando scendono sulla terraferma e infatti sono obbligati a tornare a dormire a bordo. Trascorriamo un paio d'ore come vecchie amiche, parlando un po' di tutto e insegnandoci a vicenda le frasi più banali delle nostre rispettive lingue.
Al mattino è molto nuvoloso e la spiaggia, ampia e orlata di palme, è triste e deserta con la bassa marea, punteggiata dai buchini dei granchietti che entrano ed escono. Il numero di ombrelloni e sdraio pronte ad ospitare clientela che non c'è mi fanno pensare che in altre stagioni ci debba essere una certa affluenza e anche i cavalli con cui fare passeggiate sulla battigia sono annoiati. Solo al bar rasta se ne fregano altamente di tutto e stanno lì con i loro dread e i sorrisi stolidi. Dopo aver fatto il bagno vado a visitare il Wat e, non avendo altro in programma fino al primo pomeriggio, mi concedo un meraviglioso thai massage. Dopo pranzo prendo un treno diretto a nord dalla caratteristica stazione rossa. La carrozza di terza classe si presenta con sedili duri, finestrini spalancati, ventilatori arrugginiti al soffitto e una sfilata continua di gente che vende noodles conditi, riso, bevande, snack di ogni genere, a conferma del fatto che in questo Paese la gente non fa altro che mangiare dalla mattina alla sera. I controllori indossano un'uniforme attillatissima che li fa assomigliare a poliziotti o militari, visto che anche loro, persino nella fase scolastica, portano queste camicie elasticizzate e devono essere alti e ben messi. C'è sempre qualcuno che lava per terra, cosa che non deve stupire visto che sia la manodopera sia l'acqua non mancano in questo Paese che offre bagni ovunque pulitissimi. Molti passeggeri indossano le mascherine, come accade in tutti gli ambienti affollati, poiché la gente ha paura di prendersi le malattie, soprattutto questa nuova influenza suina. Cambio mezzo a Ban Pong e raggiungo Kanchanaburi in compagnia degli studenti in divisa che tornano a casa da scuola, tutti muniti di i-pod e bevande in lattina.

SLEEPING ON THE RIVER KWAY
Alla stazione dei bus di Kanchanaburi mi diverto qualche minuto a scherzare con i guidatori di moto-taxi: l'alito del tipo che mi accompagna sa troppo di birra per i miei gusti e appena scesa tiro un sospiro di sollievo. La mia sistemazione è davvero stupenda a quest'ora del tramonto: un'ampia casa di legno con un letto a tre piazze, galleggiante sul fiume immobile colorato dai riflessi della sera. E infatti sono restata quattro notti in questa magione, cullata dal fiume Kwai. Al piccolo schermo della terrazza-ristorante la sera tutto il personale guarda le telenovele thai che hanno come protagonisti uomini in abito scuro di taglio italiano e donne elegantissime compostamente sedute su divani in broccato (la cameriera e il guardiano di notte sognano scioccamente di diventare come loro). Nell'internet point conosco questa ragazza milanese che è venuta in Thailandia per frequentare un corso di Thai massage a Chang Mai. Trascorriamo insieme la sua ultima serata prima della partenza: andiamo al mercato notturno (sushi insipido e pesce fritto) e al bar conosciamo Joe, il figo del paese, che accompagna i turisti nelle escursioni e fa i tatuaggi.
In questa città c'è il famoso ponte ricostruito sul fiume Kwai. La storia racconta che durante la seconda guerra mondiale i giapponesi invasero la Thailandia e costrinsero una multietnica congerie di prigionieri a costruire questa ferrovia che avrebbe collegato la Thailandia alla Birmania, col proposito nascosto di arrivare fino in India. Sfiancati dalle terribili condizioni di lavoro furono in tantissimi ad ammalarsi e morire e poi alla fine il ponte di Kancha fu abbattuto dalle bombe, rendendo inservibile la ferrovia stessa. Visito anche il cimitero, dove riposano le vittime occidentali della guerra.
Sul viale principale è una teoria infinita di concessionari di auto ed esercizi commerciali dell'indotto automobilistico, finché non mi estasio di fronte al negozio dove realizzano e vendono le casine degli spiriti. Questi tempietti in legno colorato, presenti davanti ad ogni casa e in ogni angolo delle città, servono a ingraziarsi gli spiriti - o pii - che secondo il popolo thailandese vivono ovunque, invisibili, e devono essere tenuti buoni offrendo loro fanta, coca, frutta, patatine, fiori ecc. (anche i doni si sono adeguati a tempi, ahimè!). Tiziano Terzani raccontava che quando si trasferì a Bangkok con la sua famiglia molti segnali negativi gli dimostrarono che gli spiriti non erano contenti, così dovettero ingraziarli con la visita al Budda di smeraldo e invitando dei bonzi a bonificare, diciamo così, la casa.
Una giornata è dedicata alla gita organizzata alle cascate di Erawan, per cui mi ritrovo come sempre in questi casi insieme ad un miscuglio di viaggiatori canadesi inglesi francesi con cui si parla quasi sempre in inglese. Appena arrivati nel parco nazionale faccio amicizia con Monika, questa ragazza slovacca da tanti anni adottata dall'Italia, che non le pare vero di poter finalmente parlare italiano. Arranchiamo insieme fino al settimo salto delle cascate, incontrando nel tragitto le simpatiche scimmie macaco che vivono sugli alberi. Poi facciamo il bagno in una di queste piscine naturali piene di pesci che ti mangiano la pelle morta, una sensazione a prima vista molto seccante, ma poi assolutamente imperdibile quando apprendi che questo pedicure con i pesci, definito Terapia del Dr. Fish, è l'ultimo grido in fatto di trattamenti di bellezza (infatti è molto costoso e si sta diffondendo in tutto il mondo). Non solo dà risultati estetici che tutti giudicano strabilianti, ma è anche un ottimo modo per curare la psoriasi e addirittura le ferite più gravi.
Dopo le cascate ci portano a fare la gita sull'elefante, poi in una grotta con statua di Budda e infine su un treno che percorre un pezzo di "ferrovia della morte". Tornati a Kancha, Monika vuole farmi assaggiare assolutamente il durian, quel frutto gigante con la buccia piena di aculei, per il quale lei impazzisce e che puzza così tanto che è vietato portarselo dietro in autobus e in treno. A me fa effettivamente vomitare.
Le giornate a Kanchanaburi scorrono fluvialmente in rilassatezza, seguendo i ritmi "take it easy" tanto cari ai thailandesi e intanto riflettendo vagamente su come proseguire il viaggio. Sdraiata sull'amaca in bar ombrosi, sul lettino di un centro massaggi sottoposta ad un massaggio alle erbe (che consiste nel passare su tutto il corpo un tampone che è appena stato immerso in un pentolone esalante odore di bietole lesse e zenzero), al tavolino del bar a bere Sang Sen mischiato con una bevanda gasata a scelta e molto ghiaccio, viziata da questi due pseudo-pellerossa che gestiscono un locale dove suonano dal vivo, al centro commerciale con gli studenti in divisa (all'ultimo piano impazza il karaoke: ognuno nella propria stanzetta a cantare la canzone prescelta accompagnata dal video), nel locale di Joe in compagnia di volta in volta della varia umanità dei viaggiatori: una ragazza olandese i cui genitori hanno una guesthouse laggiù, due ragazzi francesi taciturni, una ventenne canadese che ha la mamma lesbica e il fratello tossico, una tedesca ubriaca che barcolla per la strada.

LA CASA DELLA GIOIA
Finalmente riesco ad abbandonare Kancha e recarmi a Sangkhlaburi, al confine con la Birmania, seguendo il consiglio di quell'inglese conosciuto l'altra sera, quello che affermava che la Thailandia ha la forma di un'ascia. La strada per arrivarci è molto panoramica, soprattutto l'ultimo tratto, quando comincia ad intravedersi questo enorme lago tra gli alberi e le montagne. Il lago fa parte del parco nazionale più vasto di tutto il Paese e per il momento posso vedere delle case che ci galleggiano dentro. Considerando che dall'acqua spuntano delle cime di albero, devo dedurre che in altre stagioni il livello del lago sia più basso di diversi metri, ma potrei anche arrivare a pensare che non ha ancora raggiunto l'altezza massima e che comunque nel frattempo questa gente continua ad abitare nella stessa casa che per l'appunto non può affondare. Alla guesthouse consigliata dal tatuatore Joe (che alla fine era un buon diavolo) è disponibile una stanza per una notte con un'incantevole vista sul lago e su tutte le nuvole inevitabili nella stagione delle piogge, ma che rendono il tutto brumoso e malinconico a livelli da lago Maggiore in primavera.
Prima di partire all'esplorazione dei dintorni devo mangiare un riso al pollo d'ordinanza; quindi mi reco al panificio dotato di internet. Questa attività fa capo al Baan Unrak ("La Casa della Gioia"), il centro di accoglienza per bambini orfani ed abbandonati e ragazze madri che si trova lì vicino in cima alla collina. Questo me lo spiega Giulia, che è di Firenze e sta facendo due mesi di volontariato in questa remota terra piovosa. Molte persone, in particolare bambini, per sfuggire al regime birmano, passano il confine e restano in zona perché non hanno un regolare permesso d’immigrazione in Thailandia. Questo centro, fondato dall'italiana Didi alcuni anni fa, offre ospitalità a queste persone, dà loro da mangiare e un minimo di assistenza sanitaria, in una regione molto colpita da malattie come l'AIDS, la malaria, il tifo. Inoltre i bambini frequentano la scuola e le donne sono impiegate nel centro di tessitura in cui si producono sciarpe, stoffe e vestiti che sono in vendita qui. Giulia mi invita il giorno dopo al centro dove ci sarebbe stata la consueta esibizione di yoga del mercoledì, attività che insieme alla meditazione, alla ludoterapia ecc., fa parte integrante del programma finalizzato ad uno sviluppo olistico - come si dice adesso - dei bambini.
Nel frattempo è scesa la sera e io non ho molto da fare se non tornare alla guesthouse e bermi qualche birra insieme ad un olandese biondo che ha preso troppo sole. Costui flirta tutta la sera con questa ventenne bionda dell'Ohio, che è tornata a Sangkhla dopo che l'anno scorso aveva lavorato alla Casa dei bambini, perché si è presa a cuore la causa di non so più quale bambina birmana problematica. Questa americanissima ventenne bionda in calzoncini, oltre a far sbavare l'olandese e il suo amico americano giovanissimo che si è portata con sé, ha anche un fidanzato rimasto negli States con cui fa da morire la scema al telefonino, lo comanda a bacchetta e gli chiede di metterle i soldi sul conto. Che poi si è scoperto che lei aveva avuto non so quale enorme eredità da qualche parente morto e dunque ha un casino di soldi che può spendere come le pare e piace e quindi non ha questioni pratiche di cui occuparsi se non questo fidanzato con cui ci ha confessato che non fa un gran sesso, questo amico sfigato evidentemente innamorato di lei e un problema che aveva avuto al ritorno dal suo precedente viaggio in Thailandia, che consisteva nel fatto che non aveva fatto la cacca per un mese a causa di un misterioso parassita. Comunque questo problema poi si era risolto da solo e dunque lei ora può continuare a preoccuparsi del telefonino nuovo, dei calzoncini in colori diversi, dei mobili della sua casa fighissima e poi ovviamente dei giri per il mondo che lei, pur avendo solo vent'anni, ha fatto in lungo e in largo. Purtroppo, essendo gli unici frequentatori del bar (tranne due francesi che notoriamente non cagano nessun altro a meno che non ne abbiano un effettivo bisogno), ho trascorso più del tempo necessario con questo insopportabile terzetto.

LA PIOGGIA
Per la mattina ho prenotato una gita per visitare il lago e i dintorni e purtroppo mi ritrovo in compagnia di un gruppo organizzato che viene da Bangkok, capitanato da questa guida thailandese antipaticissima. Dopo la gita sul lago marrone, durante la quale ammiriamo il ponte di legno e il tempio sommerso (visibile interamente in gennaio e completamente sott'acqua in ottobre), il capo gita mi comunica contrito che purtroppo non sarebbe stato possibile fare la passeggiata a piedi nella foresta, visto che è tutta un pantano, e dunque che devo andare sull'elefante per un'ora e mezza. Io la gita sull'elefante l'avevo già fatta e non l'avevo trovata molto divertente, quindi avevo proprio una faccia di cazzo nel video che riunisce tutti i momenti salienti della giornata con sottofondi musicali azzeccati, al quale abbiamo potuto assistere la sera a cena. Non solo nella foresta è pieno di zanzare e a tratti piove, ma devo pure condividere il posto con una neozelandese che non si capisce nulla di cosa dica, nonostante io cerchi in tutti i modi di farle capire che l'inglese non è la mia prima lingua e che deve parlare più lentamente. Smontati dall'elefante ci danno il solito piatto di riso e pollo e ananas per dessert, che insieme all'anguria e alle banane è l'unico frutto che offrono ai turisti, nonostante l'abbondanza di frutta tropicale di cui sono provvisti. Dopo il pranzo questa guida antipatica ci fa vedere come funziona la faccenda dell'albero della gomma, che secerne un liquido bianco che loro raccolgono e poi attraverso vari passaggi in contenitori diversi viene fuori il prodotto finale, cioè un tappetino di gomma.
Tornati alla guesthouse comincia il diluvio universale e dunque attendo un po' prima di farmi accompagnare nella mia nuova stanza, ubicata nella casa della mamma del titolare ricco della guesthouse. Siccome la pioggia non accenna a diminuire, me ne infischio altamente e mi organizzo con ombrello e impermeabile per andare a vedere il Budda gigante sdraiato e il Wat Somdet, che avevo intravisto sulla strada al momento dell'arrivo. Visito il mercato e infine vado allo spettacolo di yoga. Questo è un pomeriggio magico in cui gioco a lungo con i ragazzini prima dell'esibizione e in particolare stringo amicizia con una tipina flessuosa con la frangetta, che se ne sta tutto il tempo appollaiata sulle mie gambe a scattare impropriamente con la mia fotocamera, mentre assistiamo insieme a numerosi altri turisti alle evoluzioni acrobatiche dei nanetti birmani. La sera ceno alla guesthouse osservando i miei commensali, soprattutto il gruppo organizzato che ormai odio con tutto il cuore, e poi vado a dormire: una notte infinita popolata di galli e scrosci di pioggia e zanzare.
Al risveglio un pick up mi porta al Three Pagodas Pass, che segna il confine con il Myanmar. Avevo letto che si può attraversarlo per un giorno per recarsi in questa cittadina birmana ricca di negozietti e sale da tè tipiche. Purtroppo l'edizione della Lonely Planet di cui ero fornita è stata scritta prima della chiusura della frontiera e dunque scopro soltanto al mio arrivo che i turisti latitano e la zona è ormai in crisi da tre anni; infatti anche i resort che avevano costruito sono vuoti. Mi spiega la faccenda questo simpaticissimo birmano rifugiato qui che mi propone un giro in moto per vedere i dintorni: il mercatino, il monastero giapponese e il cartello che segnala la frontiera. Anche lui sta pensando di trasferirsi in Malesia visto che non riesce a guadagnare più un bath. Solo ora capisco come mai tutti quelli a cui avevo detto che andavo al Passo delle tre pagode mi guardavano come per dire: E che cavolo ci vai a fare?, tranne quelli che proprio me lo chiedevano: Che cavolo ci vai a fare?
Qui gli uomini masticano il betel, che è quella roba indiana eccitante rossa che fa sembrare a tutti che gli sia scoppiata una granata in bocca.

BACK TO BANGKOK
Dopo diverse ore di viaggio, vengo catapultata di nuovo in Khao San Road, a Bangkok, nel bel mezzo di branchi di giovani non sbarbati biondastri con lo zaino, uomini soli a caccia di business o ragazze, disperati pieni di piercing, italiani in coppia critici su tutto.
Ritrasformata in turista coccolata da docce, Skype, massaggi, magliette a basso prezzo, riso e pollo, concerti e birre, trascorro la sera con un sosia di Paolo Conte ad ascoltare musica dal vivo. Il sosia è un sudafricano appena arrivato, che ha vissuto anni negli States e anni in Australia. Quando gli chiedo i motivi di queste scelte geografiche, mi risponde: Perché no?
Nel lungo sightseeing mattutino ormai sono scaltrissima e posso rispondere con sufficienza ai personaggi che mi consigliano di andare a vedere il Marble Temple e lo Standing Budda; gli faccio vedere addirittura la foto contro la quale loro non possono fare altro che ammutolire e salutare. Al Wat Sutatthepwararam c'è un cartello che avverte di fare attenzione alle persone amichevoli che ti segnano sulla mappa alcuni luoghi di interesse o ti portano a visitare altre località turistiche, perché viene fuori che sono borseggiatori oppure ti conducono in posti indecenti o non etici (e io mi chiedo cosa potesse avermi borseggiato o quale cosa non etica mi avesse proposto all'epoca la gentile dama di Chang Mai). Visito alcuni Wat, salgo sulla Golden Mountain da cui ammiro un grandioso panorama che mescola il monumentale della città antica con il futuristico dei quartieri moderni, attraverso il quartiere specializzato nella vendita di statue di Budda e altri articoli religiosi.
Con il taxi d'acqua raggiungo in un battibaleno il quartiere Siam, quello nuovo pieno di grattacieli e centri commerciali. Qui anche solo per attraversare la strada devi servirti delle passerelle sopraelevate e comunque tutti gli shopping center sono collegati tra loro senza bisogno che tu esca all'aperto a sudare. La tentazione di fare shopping non mi sfiora nemmeno, ma non posso farmi sfuggire la pulizia dei denti a 20 euro dalla dentista Suzie, che mi bacchetta impietosamente per il mio tartaro e per la mia incapacità di stare con la bocca aperta mentre l'acqua deborda.
Poiché aveva iniziato a diluviare, con Monika ci rimpinziamo di ravioli al vapore e altre prelibatezze in un ristorante cinese al coperto. Un certo collega dell'ufficio le aveva consigliato di passare la serata a Chinatown, così la raggiungiamo a piedi (che è un lungo noioso cammino), per scoprire che di sera è completamente deserta. Dunque assoldiamo un tuc-tuc che ci conduca a Sukhumvit a vedere i templi del sesso. In realtà la noia, la squallida compagnia e i prezzi europei mi fanno passare la voglia di proseguire lì la serata e dunque gettiamo soltanto qualche sguardo nei semibui locali. Tra l'altro Monika aveva già visto lo spettacolo e non ne era stata molto entusiasta. Al mercato è pieno di musulmani e mi chiedo come possano convivere i burqa con le tette di fuori.
Al mio quartiere ci torno con un finto tassista di moto che mi fa così cagare sotto che gli do la metà del compenso pattuito (che lui accetta senza battere ciglio, d'altra parte).

IN BILICO SUL FINE-SETTIMANA
In programma questo sabato c'è il mercato galleggiante di Taling Chan che sta alla periferia nord occidentale di Bangkok ed è raggiungibile con il bus. Si tratta di un piccolo mercato dove fondamentalmente i thailandesi vanno a scofanarsi di pesce. Il klong, che sarebbe il nome thai del canale, è affollato di barche su cui cucinano granchi e pesci giganti e diverse altre imprecisate caterve di cibo, mentre sul pontile sono sistemati i tavoli. Noi partecipiamo ad una gita in barca sui canali, salutando la gente che abita in queste case di legno e sta sulla terrazza a passare il tempo, mentre i ragazzini fanno il bagno tuffandosi dalla scaletta di legno. Ci fermiamo a visitare l'ennesimo wat e un centro dove coltivano differenti tipi di orchidee. Durante la crociera va molto di moda acquistare il "lucky bread" (che sarebbe pane in cassetta) e buttarlo in pasto ai pesci praticamente intero.
Ci proviamo a tornare a Chinatown di giorno ed è un delirio: caldo e puzza e inquinamento e bancarelle (colore predominante: nero). A respirare ci rechiamo al Lumpini Park, che è così salutare che non si può manco fumare all'aperto. Accanto c'è il night market, con un enorme capannone stipato di tavoloni tipo festa della birra, dove si può mangiare e bere. Il mercato di vestiti e accessori è molto ricco e interessante, ma ormai sono distrutta dalla giornata molto impegnativa così torno a Khao San al mio bar preferito, dove suona ogni sera il mio gruppo rock preferito specializzato in LedZeppelinPinkFloydGuns&RosesDeepPurple. Chiacchiero con un giovanissimo russo ingenuo, figlio di due tedeschi che si erano conosciuti in Siberia (dove lui è nato), che in attesa di andare a Pattaya a trovare un amico si era associato ad un tedesco arrogante e a due ragazze. Khao san è praticamente uno zoo.
Per la domenica, avevo programmato con Monika una gita ad Ayuttaya, la vecchia gloriosa capitale, sostituita da Bangkok dopo essere stata spazzolata via dai birmani. Purtroppo il caldo asfissiante ha reso insopportabile il Budda sepolto dalle radici di un albero, il Budda gigante sdraiato, il Budda seduto con la canottiera gialla, il laghetto, i resti degli antichi templi, i monaci, gli elefanti, il mercato, il cocco caldo. E non ho fatto altro che sognare una doccia.
La scintillante serata finale la trascorro con un imponente negro della Guyana inglese, interessato all'Italia in quanto sta per partire per Torino. Il tipo si spaccia per professionista nel commercio delle pietre preziose (oltre che gastronomo), ma ciononostante è completamente a secco di soldi. Costui mi conduce in un accogliente locale dove si ascolta ottima musica blues dal vivo; lì conosciamo questi simpaticissimi thailandesi appassionati di musica che risolvono il problema della penuria di soldi perché ci offrono da bere. Infine con loro concludiamo la serata a mangiare anatra e cantare pezzi thailandesi in un bar-karaoke.
L'ultimo giorno è identico a tutti gli ultimi giorni di tutti i viaggi, in cui l'unica incombenza è finire i soldi e riuscire a raggiungere l'aeroporto in tempo.
La notte a Dubai, mancando l'entusiasmo e la vitalità iniziali, la trascorro dormendo su una sedia allungabile ricoperta della maggior parte del contenuto del mio unico bagaglio, quello a mano.

Un commento in “L’utopica spiaggia Thai
  1. Avatar commento
    maxtiri
    28/01/2011 14:24

    Brava Robinia. Non sono letteralmente riuscito a interrompere la lettura se non alla fine. Sono stato anch'io sia a bangkok che a Koh Samui e ho scritto un diario su questo sito. Sono sincero, non riuscirei a fare una vacanza con zaino in spalla come hai fatto te ma devo ammettere che la tua esperienza di Thailandia sia "più a fondo" della mia. Massimo

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