Myanmar, un Paese privato del colore

Un reportage di qualche mese fa da una delle terre più martoriate, purtroppo ancora oggi di drammatica attualità. Da leggere e meditare

A Myou
a Soe
alla ragazza che con la sua voce ha accompagnato le mie serate al Yuzana Garden…
al popolo birmano
Fotogrammi sgranati, filmati impexelati dalla tecnologia.
Immagini fugaci di monaci scalzi che marciano sotto la pioggia battente di Yangon.
Un reporter che cade a terra, un soldato del regime che lo uccide a sangue freddo.
Myanmar?
I monaci lasciano i monasteri: cento, mille, decine di migliaia. A loro si unisce la gente comune della Capitale e quella delle altre città del Paese.
E’ una giornata di inizio autunno, gli occhi del mondo stanno guardando attraverso le poche notizie filmate che riescono a uscire dal Paese il destino di questa gente.
Nessuno è dalla parte del governo di Myanmar, solo le autorità cinesi e quelle indiane non sanno dove stare e si astengono da prendere posizioni. Le due potenze asiatiche non vogliono compromettere i loro rapporti economici con i generali che stanno governando il Myanmar con pugno di ferro da oltre trent’anni.
I militari al potere in Myanmar si sentono gli occhi del mondo puntati addosso, ma non ci stanno a piegarsi. All’alba del nuovo giorno iniziano i primi raid nei monasteri ribelli, i soldati cercano di reprimere la più grande protesta contro la giunta degli ultimi vent’anni, ignorando tutti gli appelli internazionali a fermare la repressione.
Mizzima news, il portale dei dissidenti birmani all’estero, aggiorna costantemente la situazione. Il mondo vede e sta a guardare in silenzio, non reagisce. Le Nazioni Unite si mettono in moto, lentamente. Troppo lentamente.
Intanto la carneficina continua.
Improvvisamente vengono interrotte le linee internet, il Paese è isolato, nessuno sa più nulla.
Quanti arresti, quanta gente è finta nelle galere, quanti morti.
Seguo con apprensione l’evolversi della lotta non violenta dei monaci e spero in una mobilitazione dei mediattivisti per raccogliere testimonianze e annodare i fili della solidarietà internazionale.
Il viaggio dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Ibrahim Gambari è stato un fiasco. Il generale Than Shwe, capo della giunta militare, lo ha incontrato con leggerezza e menefreghismo. Il Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi osserva dalla sua casa di Yangon, dove è agli arresti domiciliari, il lento scorrere del tempo che non sta portando a nessuna risoluzione pacifica.
Le incursioni che si susseguono fanno supporre che i generali del regime, che hanno convissuto con tutte le sanzioni possibili che l’occidente gli ha imposto, ignorino qualsiasi appello al cambiamento o almeno a un dialogo che porti a un compromesso.
A certe ore del giorno le strade dell’ex capitale paiono tranquille, ma appena si muove qualcosa nei pressi del centro commerciale o nelle vicinanze della Swedagon Paya, i militari ritornano a farsi vivi con tutti i loro mezzi a disposizione a ricacciare indietro ogni forma di rivolta.
Autopompe e idranti sono stati piazzati anche nelle vicinanze della Pagoda di Sule, altro punto nevralgico della rivolta.
Ma cosa sta succedendo in Birmania. Cosa sta succedendo in questo Paese che ho imparato ad amare e allo stesso tempo a compatire. Ho visitato il Myanmar più volte, e come tutti quelli che lo hanno fatto prima di me, mi sono portato a casa, nel mio cuore, il sorriso della sua gente.
Un popolo straordinario, come quello cambogiano, come quello delle alte vette dell’Himalaya, come quello che ho incontrato in tante altre parti del mondo, durante il mio peregrinare volto alla ricerca di storie da raccontare. Anche qui, in questo angolo di mondo dimenticato da tutti, contrariamente a quanto gradirebbe la mia agenzia, ho messo nella mia Nikon le pellicole in bianco e nero. I paesaggi sono incantevoli e suggestivi, i riflessi dorati delle pagode che svettano verso il cielo mozzano il fiato. Il gioco delle nuvole, sempre contrastate e dense di pioggia creano ombre e giochi di luce senza eguali. Ma come potrei fotografare un sorriso enfatizzandolo con un tono caldo o una pennellata di colore. Come potrei snaturare lo stato d’animo di un popolo con l’aggiunta di una sfumatura cromatica. La monocromia di un’immagine in bianco e nero è in grado di rendere l’intensità del soggetto, di coinvolgere e guidare chi la osserva in un percorso privo di dubbia interpretazione o retorica. Ci si ferma davanti a un ritratto, o a una scena di vita quotidiana, ci si lascia coinvolgere e trasportare dai sentimenti che ognuno di noi ha dentro di sé, senza farsi suggestionare o distrarre dagli elementi naturali che ci circondano. L’uomo deve essere osservato con attenzione, bisogna guardare attentamente le sue rughe, lasciarsi prendere dall’espressione del suo sguardo, studiare l’intreccio delle sue mani che raccontano il suo passato. Una fotografia a colori rischierebbe di farci commettere degli sbagli, di condurci in un’altra direzione, senza poi cogliere, una volta arrivati alla fine del nostro percorso di osservazione, il vero significato che il fotografo ha voluto trasmetterci. Nel mio modo di comunicare attraverso semplici istantanee monocromatiche, non c’è nessun desiderio di contagio, desidero solamente trasmettere una parte del sottile velo emozionale che mi ha coinvolto durante l’attimo della ripresa, il mio pensiero nel breve attimo quando la macchina fotografica emette il suo clic e impressiona, per sempre, un frammento di vita su un supporto di gelatina.
Durante uno dei miei viaggi nell’ex Birmania, ho scattato delle fotografie a una cantante che intratteneva i clienti nel ristorante del Yuzana Garden di Yangon. L’inquadratura in sé non aveva nulla di stimolante, anche il risultato della stampa fotografica finale non era nulla di eclatante. Ma allora perché ho ripreso quella scena. Perché mi sono intestardito nell’utopica speranza di poter riprodurre la melodia della sua voce attraverso un messaggio visivo. A volte succede, è facile cadere nel tranello dei sentimenti personali nella speranza che anche gli altri possano in qualche modo coglierne l’essenza. Eppure, riosservando quella scena fissata su un foglio di carta politenata, risento l’armonia di quella voce che mi ha tenuto compagnia nelle serate di solitudine seduto davanti a un piatto di gamberetti e a una bottiglia di birra Mandalay.
Ma come siamo pretenziosi noi fotografi. A volte ci sentiamo degli artisti della comunicazione, dei narratori, dei pittori tecnologici che grazie ai nuovi strumenti di registrazione, crediamo di poter comunicare ogni cosa, così come le abbiamo recepite noi stessi. La fotografia non deve essere solo uno strumento per raccontare agli altri, a volte è bene rassegnarsi e usarla solo per registrare in nostri ricordi più belli. Il tempo cancellerà inesorabilmente le nostre memorie, non c’è mirror naturale che tenga. E allora è in questa fase che le nostre istantanee entrano nel loro ruolo di primaria importanza. Basta uno sguardo e il file del ricordo di quel momento, archiviato nella memoria della nostra mente, viene riattivato. Tutto riprende forma e riassume il valore originale.
Mentre trascrivo questi appunti, dal sito di Mizzima News apprendo che nella notte la polizia ha arrestato altri membri della Lega nazionale per la democrazia, oltre a dissidenti di altri partiti che sono stati incarcerati nelle galere alla periferia della Capitale.
Mi vien da pensare se le popolazioni Ann e Akha del triangolo d’oro, ai confini con la Cina, sanno di quanto stia succedendo fuori dalla regione di Kyaing Tong.
Troppo isolati, troppo tenuti in disparte per essere coinvolti in problematiche che non siano il raccolto di riso o il nuovo aratro a motore importato dalla Cina.
Durante la mia permanenza nel triangolo d’oro, i contadini mi parlavano con entusiasmo del nuovo bue d’acciaio utilizzato per lavorare nei campi. Una specie di motozappa con motore a scoppio capace di lavorare i campi dalla mattina alla sera con pochi litri di carburante. Un vero successo per questa gente, considerando anche il fatto che costa solo 200 dollari, contro gli 800-900 di un bufalo adulto.
Parlare a questa gente di democrazia e di Yangon è come parlare ai cinesi di Tibet e del Dalai Lama, ti guardano e sgranano gli occhi come se stessi parlando della luna o di un altro pianeta.
Mentre scrivo queste poche righe ho sparpagliato sul pavimento del mio studio le fotografie in bianco e nero accuratamente stampate. Ad ogni capoverso le osservo con la coda dell’occhio e con sguardi più veri, a volte fugaci, a volte più intensi. Voglio ritornare con la mente in quei luoghi che tanto mi hanno regalato.
C’è anche una bella fotografia che ritrae Myou, il mio autista, mentre beve una tazza di tè.
Da qualche mese sto provando a mandare messaggi via internet a Soe, il ragazzo che sta nell’ufficio dei taxi di Yangon e che potrebbe sapere qualcosa di Myou. Non ho mai avuto nessuna risposta.
La censura blocca tutta la posta in entrata e in uscita. Anche se i media non ne parlano più e tutto sembra finito, il silenzio sta facendo altre vittime.
Washington e Parigi hanno chiesto al governo cinese di usare la sua influenza per convincere la giunta militare a fermare la repressione, i Ministri degli esteri dei G8 si sono accordati su una formula simile, ma senza minacciare sanzioni, per rispetto della posizione della Russia.
Interessi economici più importanti della libertà di un popolo.
Ma che importa se milioni di birmani vivono nella repressione, chi se ne frega se le porte dei monasteri sono state sfondate e hanno saccheggiato e portato via mille cose, tentando di cancellare migliaia di anni di cultura.
Qualche giorno fa ho chiamato l’Ambasciata del Myanmar di Roma per chiedere un visto, mi hanno risposto che rilasciano solo permessi turistici e che l’importazione di attrezzature fotografiche e computer è soggetta a severi controlli doganali. Mi piacerebbe ritornare in Myanmar e poter stringere di nuovo la mano di Myou. Mi piacerebbe anche poter registrare questo ricordo, con la mia macchina fotografica. Solo per me.

Dal mio ufficio, 15 novembre 2007

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