Fossi un uccello alto nel cielo, potrei volare senza aver padroni.
Se fossi un fiume potrei andare rompendo gli argini nelle mie alluvioni
E boschi e boschi cerco intorno a me, dov’è la terra che non ha barriere?
Dov’è quel vento che ci spingerà come le vele o come le bandiere?
La tua libertà, cercala, che si è smarrita.
Francesco Guccini – “La tua libertà”, 1971
Da non perdere
Giorno 1 – 01/06/05
Pisa, in treno, ore 01.05
Ho sognato una montagna che traeva musica dal vento. Parole dal cielo e melodie dai contorni degli alberi e dalle sagome dei fiumi.
Ferro, come rintocco, ferrovia nel buio della partenza.
Ho sognato un sole di luce fredda come un torrente di montagna. Non fa caldo, stasera.
Marsiglia, in treno, ore 16
Viaggio verso Tolosa, arriverò alle 19. Spostarsi non è stato facile: a Ventimiglia mi hanno fatto cambiare treno perché i ferrovieri italiani hanno deciso di tornare indietro prima della frontiera, preoccupati dallo sciopero dei colleghi francesi che li avrebbe bloccati lontano da casa. Lo sciopero non inizia prima di stasera ma questo piccolo contrattempo mi ha fatto perdere la coincidenza a Nizza, e per soli quattro minuti! Il primo treno disponibile sulla rotta costiera – dopo più di un’ora di attesa – non andava oltre Marsiglia. Un’altra ora fermo a Marsiglia, poi il diretto per Bordeaux che fermerà a Tolosa. Se lo sciopero non mi causerà altri problemi forse riesco ad essere a Pau per passarci la notte. Altrimenti mi arrangerò a Tolosa.
Cannes, le spiagge, la Costa Azzurra e le autostrade di ombrelloni e bambini a bagno hanno lasciato spazio – al di là di questo finestrino e oltre l’aria condizionata che mi mantiene lucido nonostante il sonno e i 30° – a paesaggi verdi e pianeggianti, rilassanti, come quelli della bassa costa tirrenica. Sono in treno dalla mezzanotte e mezza di ieri: questa traversata del Mediterraneo sembra un girotondo, continua a roteare su se stessa.
Giorno 2
Lourdes, ore 13.15
Lo sciopero dei ferrovieri mi ha impedito di arrivare a Pau ieri sera. Ho pernottato qui a Lourdes, in un minuscolo campeggio situato nel centro del paese. Mattinata dedicata all’approvvigionamento di informazioni e all’attesa dell’autobus per Pau – dal quale sto scrivendo – che però si è fatto attendere molto oltre il dovuto. L’improponibile ritardo è anch’esso dovuto allo sciopero: la mancanza di treni ha scaricato sul traffico di autobus tutto il peso dei trasporti, creando disagi e fortissimi ritardi. Da Pau mi aspetta l’ultima corsa per Etsaut, poi potrò cominciare finalmente a camminare.
I Pirenei, per ora visti solo da lontano, mi guardano con un’espressione di attesa. Caldo, ma ventilato. Il tempo ammorbidisce i disagi iniziali. Il sole li rende impalpabili. Come diceva John Savage: Let the sunshine in...
Etsaut, ore 23
Nessuno che parli inglese, ma non è difficile conoscere gente e fare conversazione. Le persone qui sono come le montagne, come il fiume che le attraversa e attraversa il paese, come il sole che illumina fino a tardi anche dopo essersi rincalzato fra una cima e l’altra, quasi a volersi rimboccare le coperte. Ti guardano, sorridono. Comunicano, non è difficile capire. È gente riflessiva, sembra, tranquilla, fuori dal mondo. Questi paesaggi colgono la fantasia impreparata e allora la mente associa altre e strane immagini, fino a catturare nella memoria figure di altri luoghi, suggestioni arcadiche, atmosfere nordiche, quieto senso di isolamento. Le montagne tutto intorno a questa stanza – in un piccolo ostello che sembra più una fattoria ottocentesca – hanno il fascino di un paradosso: quello dei grandi spazi aperti, sconfinati, liberi, ma protetti e sorretti quasi da una campana di vetro invisibile, una pellicola di cielo e di bosco che le salva e le conserva. Sarà la suggestione dell’orso, che ancora si aggira da queste parti seppur in un numero estremamente limitato di esemplari. Forse. Ma è più probabile che sia la calma e la luminosità del tutto, l’aria ventosa ma gentile, le nuvole alte e le foglie degli alberi che tentano di abbracciarle.
Valeva la pena venire fin quassù solo per passare una notte ad Etsaut. Che posto magnifico! Domattina comincio la mia traversata a piedi del parco nazionale, mi spingo verso est e vedo dove posso arrivare. Finora mi sono potuto muovere solo con gli autobus. Mi sono goduto il relax, la pace, il sonno di cui tanto sentivo la mancanza. Da domani si fatica, e parecchio anche. Prima di tornare in stanza mi sono voluto concedere una cena al ristorante del paese, tanto costa poco ed è situato proprio sulla sponda del fiume, nella piazzetta davanti alla chiesa, in faccia al tramonto alto e a forma di cuneo. Immerso in un quadro dalle nervature accese ma dai tratti morbidi, soavi, come vivesse sempre le prime ore del mattino, quelle in cui tutti i programmi sono permessi, anche quelli che non si possono portare a termine. Anatra, patate al forno, birra fredda davanti al caminetto spento ma ancora ricco di odori. Ho mangiato bene, in silenzio. Non c’è quasi nessuno. È tutto il giorno che non pronuncio una sillaba. E ne sono contento, pace e libertà sono anche questo: fuori dal tutto, lontano da tutti, come il mondo fosse mio, o deserto, o non esistesse proprio. L’unica volta che sono stato costretto a parlare è stato per chiedere informazioni per i bus. Da Lourdes a Pau, da Pau a Oloron, per poi arrivare qui. D’ora in poi solo sentieri davanti a me, solo gambe e piedi, solo io, le montagne, e tutto il resto. Com’è comodo il materasso…
Giorno 3
Capanna di St. Cours, ore 20
Enri, quando leggerai queste righe, immaginerai subito il rifugio che abbiamo sempre sognato: isolato nel verde, ma in quota, con vista sulle cime innevate, il rumore del fiume che scroscia a pochi metri, il silenzio interrotto solo dai tuoni, pur rari sul finire del temporale che ormai si sta silenziando. Una nebbia fitta avvolge tutto, il rifugio e l’aria che gli sta intorno, offuscando la vista ad altezza d’uomo ma lasciando aperto il cielo, trasformando questa baracca – nell’immaginazione – in una rocca medievale assediata dai barbari invasori. Beh, io ho appena smesso di sognarlo, ci sono dentro.
Il temporale mi ha sorpreso a metà strada fra il rifugio di Passette, oltrepassato poco dopo l’ora di pranzo, e il Col d’Ayous – con omonimo rifugio – che affronterò domani. Mentre queste due sono strutture attrezzate per accogliere i camminatori, quella dove mi trovo ora è in realtà una baracca di pastori. Infatti, anche se i francesi la chiamano baigt, parola che a noi suona come baita, in spagnolo acquista un nome molto più appropriato: cabana pastorale. È una capanna incustodita, sono stato sorpreso di trovarla aperta (le altre precedenti non lo erano). Sono solo, più solo che mai, in questa valle, la Vallèe d’Aspe, che ormai volge al termine. Pernotterò qui stasera, srotolando il mio materassino su queste dure tavole di legno, accendendo una candela, appendendo al filo teso gli abiti da asciugare. Non c’è altro qui dentro, a parte un vecchio tavolo sudicio di cera e polvere con una sedia rotta. Ma non ho bisogno d’altro, perché tutto ciò che mi occorre viaggia sulle mie spalle e nella mia mente. Sulle spalle la mia casa, nella mente il mio amore per tutto quanto c’è di bello al mondo. Per giocare a fare l’eremita – e poi… giocare… sarà la parola giusta? – la prima cosa da fare è lasciarsi dietro tutto quanto c’è di superfluo o inadeguato, tutto quanto c’è di sbagliato, di ingiusto, tutto quanto c’è di brutto, fuori e dentro, anche solo respirando. E la mia casa, tutta la mia casa, è ora a misura di spalle. La misura giusta: uno zaino. Così posso andare sempre avanti, senza mai dover tornare indietro, mai girare la testa, mai tornare a riprendere qualcosa – o qualcuno – lasciato alle spalle.
Sono partito da Etsaut alle 8.30 di stamani e ho seguito la strada verso sud, in direzione Urdos, fino al Fort du Portalet, una costruzione medievale che durante l’occupazione tedesca fu trasformata in prigione – purtroppo celebre per le torture – dal governo di Vichy. Ho trovato il forte “chiuso per lavori” e con lui era stata chiusa anche la possibilità di agganciarsi al sentiero, il GR10 – Grand Randonneur 10, quello che congiunge il Mediterraneo all’Atlantico – perché il forte-prigione ne costituisce l’accesso. Sono dovuto tornare sui miei passi per circa un chilometro prima di trovare un altro accesso: ho imboccato lo Chemin de la Mature, sentiero che costeggia un grande costone di roccia e corre lungo il filo di un precipizio panoramico (che offre anche la vista del Fort du Portalet dall’alto) e di una cascata, fino a ricongiungersi al sentiero principale, il GR10. Mi sono diretto a sud-ovest, fin nel cuore del Parco Nazionale dei Pirenei francesi, quasi sempre in mezzo al bosco, sotto un sole bianco per lo schermo spesso delle nuvole. Ho passato più di una forcella, non so quante, perché qui è tutto un sali-scendi continuo che rende difficile capire il mutare dell’altitudine. Tutto il giorno in marcia, con il vento che placava la forza estiva dei raggi solari, pur velati già dal cielo quasi mai azzurro. Poi è arrivato il temporale, nel mezzo del pomeriggio, così ho testato la mia attrezzatura antipioggia che dall’anno scorso ha subito numerosi miglioramenti. Infatti ho potuto continuare a camminare senza troppi problemi, a parte la scarsa visibilità – ria per il godimento del paesaggio – e il frastuono del temporale. Pioggia sì, ma anche tuoni, fulmini e tutto quanto serve ad un temporale estivo – fortunatamente non molto longevo – per fare un po’ di spettacolo.
Mi sono bagnato comunque, e già prima che scendesse dal cielo la prima goccia. Perché lungo il sentiero sono incappato in un torrente molto vivace, talmente vivace che deve aver travolto la passerella approntata per oltrepassarlo. Fortunatamente si tratta di un torrentello molto magro ma ci ho messo ugualmente un quarto d’ora per capire come passare dall’altra parte senza fare il bagno, e non è andato tutto perfettamente liscio. Basta vedere le mie scarpe e i miei pantaloni adesso per rendersene conto.
In questa prima giornata ho camminato e basta, e me la sono goduta a pieno la natura e la gioia del passo. Ma non ho marciato tanto quanto avrei voluto. Non sono ancora in forma, i muscoli devono ancora riscaldarsi a dovere. Alla fine comunque, il bilancio è positivo. Giornata ricca e spumeggiante, adrenalinica anche se a tratti malinconica. Una o due volte lungo il cammino sono stato assalito da una folata di tristezza. Quando il cielo si è fatto scuro e la vista ha accorciato sensibilmente il suo raggio d’azione, anche il mio animo si è rabbuiato e ha cominciato a sentire il freddo pungente della solitudine. L’aria si era fatta pesante, la larga mantella impermeabile mi stava stretta, incollata addosso, e mi impacciava nei movimenti più elementari. Poi la luce è tornata non appena ho intravisto il tetto di questa cabana pastorale. E tutto ha preso il sapore dell’acqua fresca di montagna, quello delle mete raggiunte e degli ostacoli superati. È dolce fumare a stomaco pieno incappucciato in una calda felpa, con il freddo che da fuori si fa largo fra le crepe della capanna. Le candele sono accese. Manca solo un buon bicchierino di grappa e il mondo sembrerebbe una sinfonia in oro o una coperta di vapore.
Giorno 4
Rifugio d’Ayous, ore 14
Mi sono fermato a pranzo in questo piccolo rifugio in vetta al Col d’Ayous. Di fronte a me il lago di Gentau e il Pic du Midi d’Ossau. Valicando il passo di Ayous mi sono lasciato alle spalle la Vallèe d’Aspe per affacciarmi su quella di Ossau. Per un po’ sarà solo discesa…
Ma dalla baracca di ieri sera al Col d’Ayous è stata una gran salita, dapprima buia e intrappolata nella nebbia, quasi senza contesto, senza la possibilità di vedere niente intorno a me – ad un certo punto ho anche smarrito il sentiero: fra le rocce non è facile mantenere la giusta via – poi è tornato il sole e si sono aperte decine di vette al sorriso dello sguardo, venate di mille torrenti, chiazzate di bianco per la neve che andava a formare i più fantasiosi disegni fra le rocce. Il vento tira forte e fa freddo quando il sole passa dietro le nuvole. Ad ogni sosta devo mettermi qualcosa addosso per ripararmi dalle folate gelide.
Il panorama è ampio, serpeggiante, con chilometri e chilometri di cime bianche che si danno la mano in un infinito girotondo tutto intorno allo sguardo. Non c’è che da girare la testa, ovunque l’orizzonte è disegnato con la maestria di un poeta cieco, pittore d’istinto. Dalla cima del Col d’Ayous si possono vedere tre versanti e tre valli contemporaneamente, a sud, a est, di fronte a me, e anche a nord-ovest, alle mie spalle, lungo il gigantesco canalone di pietre che mi ha fatto grigia ma calda compagnia per tutta la mattina.
Le tavole di legno dove ho dormito stanotte erano durissime, da fachiro, ciononostante ho avuto un lungo sonno di dodici ore, dalle 9 di ieri sera alle 9 di stamani: ero consapevole di aver molto sonno arretrato pronto a chiedermi di saldare il conto, ma non immaginavo tanto. Stamattina poi, appena sveglio, l’aria era gelida e l’acqua del torrente solida come il ghiaccio e fredda come la neve. Dopo essersi lavati la faccia in una situazione come questa, penso che una persona possa fare qualsiasi cosa, a parte forse volare. Poco male, su questi monti ci pensa la fantasia a volare, compiendo traiettorie d’aquila, ad ali spiegate fra le punte più alte delle dita delle montagne. Forse non si può trovare la pace quassù, ma credo che la si possa fabbricare con poca fatica.
Laruns, ore 20.20
Cosa ci faccio qui, sperduto fra i monti e le capre? Cammino, certo, e mi godo la natura. Ma non solo: soprattutto prendo la vita con calma. Come adesso, in questa birreria a Laruns…
Improvvisazione. L’arte di saper rispondere con immediatezza, rapidità ed efficacia agli imprevisti che si pongono sulla via. Il programma deve poter essere cambiato dieci volte in dieci minuti, come è accaduto stasera.
Sceso a valle dal Col d’Ayous, ho seguito il GR10 fino alla strada, passando attraverso una fitta boscaglia, con alberi neri, acqua ovunque per terra in forma di pozze – a centinaia – e fango. Poi si è fatta di nuovo radura, ma non rocciosa come in quota, stamattina, bensì erbosa, fresca, con tappeti di fiori. Poi la strada, direzione Gabas. Il GR10 infatti si interrompe, o meglio si ricongiunge alla strada per un tratto, fino al piccolo paese di Gabas, grande approssimativamente come una delle piazze della nostra città. Una sosta al bar del paese, tanto per sentire di nuovo il sapore del caffè, ed erano le 17.30. Chiacchierando con la barista (io a gesti, lei in francese, ma ci siamo intesi senza grandi difficoltà) sono venuto provvidenzialmente a sapere che il tratto di sentiero che unisce Gabas a Gourette – un altro paese di simili dimensioni – è interrotto da un impegnativo muro di neve, e che non lo si può oltrepassare senza ramponi e piccozza. Essendo sprovvisto di entrambe, non ci ho pensato un attimo: sono uscito di corsa dal bar, ho alzato il pollice lungo la strada, e nel giro due minuti ho trovato un passaggio per Laruns, dove mi trovo adesso. In tutto, dall’ultimo sorso di caffè al posizionamento del sedere sul sedile della macchina ospitante, sì e no 3 minuti. Azione lampo, senza pensare.
Mi sono sistemato nel piccolo ma accogliente campeggio del paese. Sei euro e settanta, doccia a pagamento compresa, mi è parso un ottimo affare di questi tempi. E mi sono concesso un’altra cena fuori, in questa birreria di legno e odore di zuppa e selvaggina. Bevo birra, fumo beatamente al chiuso e riempio queste pagine di memorie fresche di chilometri calpestati con passione ed energia. Dopo aver fatto la doccia – da 48 ore non mi sono potuto lavare e la terra e la neve mi sono entrate dappertutto – ogni impresa sembra potersi compiere. Domattina prenderò l’autobus per Gourette e da lì proseguirò sul solito sentiero…
Ho esordito dicendo di prendere la vita con calma, differentemente da come sono costretto a fare quando la quotidianità mi tiene lontano dalle mie montagne. Mentre da questo breve resoconto potrebbe sembrare tutto l’opposto. Invece, repentini cambi di programma e autostop al volo a parte, le ore si sono susseguite con estrema lentezza. Tutto mi scorre addosso come la neve che fiocca d’inverno dietro i vetri delle case di montagna. Anche il bucato – pur impegnativo e faticoso per me che non ne sono avvezzo – ha preso parte a questa lenta e dolce discesa verso la sera, il meritato sonno e le avventure che domani torneranno immancabili come le rocce, i corsi d’acqua, i tanti laghi, i passi che si inseguono e la fatica che monta di pari velocità al mio avvicinamento alla perfetta sintonia fra il piede, lo scarpone e la terra sotto di me.
Cosa serve per fare un montanaro felice? Un sole chiaro e limpido che illumini la strada di fronte, una brezza fresca per combattere il sudore, la borraccia sempre piena, le scarpe asciutte, e il panorama che si fa bello al tuo passare, rendendo grazie della visita all’uomo che sa apprezzare i doni della natura. Anche se non ho avuto proprio tutto questo (il sole, per esempio, spesso è mancato, e anche le scarpe sono state tutt’altro che asciutte), posso dire di essere un montanaro felice. Stasera soprattutto.
Giorno 5
Sentiero sopra Gourette, ore 14.15
Un giorno sprecato, nella logica del tragitto. Ma mi sono divertito.
Svegliato alle 7 con la promessa della Madame del campeggio che l’autobus per Gourette sarebbe passato alle 8.35, ho aspettato invano davanti alla fermata fino alle 9. A quel punto ho capito – e ho avuto conferma dalla Madame della boulangerie – che la domenica di autobus non se ne vede neanche l’ombra… Piano B: autostop, di nuovo. Il primo passaggio mi scarica a Eaux-Bonnes, un nome un programma. Il secondo mi porta fino a Gourette.
Non ci sono indicazioni per l’imbocco del sentiero, allora mi faccio indicare la strada col dito da un tizio di passaggio. Il dito punta ad est, verso un valico, in alto, e la cartina conferma l’indicazione. Inizio a camminare fiducioso e punto il valico, su per una salita durissima, spaccagambe, per più di due ore. I miei polpacci sono già di metallo incandescente quando giungo alla conclusione che del sentiero non v’era traccia da nessuna parte. Sull’altro versante della valle solcata dal fiume di Gourette vedo infatti il sentiero che riporta a sud, da dove provenivo ieri e da dove sarei passato se non fosse stato per la dritta sulla neve e la conseguente deviazione su Laruns. Forse c’è un bivio, ho pensato – e l’ho pensato a lungo – proviamo a ricongiungersi con la via maestra.
Quando finalmente ho desistito, perché in cima alla sella che sembrava un valico non c’era alcun sentiero, ho deciso di passare il fiume per riportarmi sulla via che conduce di nuovo a Gourette. Ho passato oltre due ore nel tentativo di trovare un guado praticabile, uno cioè che non comportasse l’immersione delle gambe nella corrente freddissima del fiume. Ho cercato su e giù per la riva, ma inutilmente. Alla fine mi sono deciso a togliermi le scarpe, svuotare le tasche e mettere tutto nello zaino, e infine guadare il corso d’acqua in ciabatte nel punto in cui l’acqua è meno profonda e la corrente meno forte. Mi sono comunque bagnato fino alle ginocchia e i piedi si sono congelati come li avessi messi in una cella frigorifera: saranno stati sì e no dieci metri di traversata, ma dieci metri di tutto rispetto, soprattutto nei confronti dei miei piedi. A quel punto erano le 13.30 e ho colto l’occasione per asciugarmi gli arti inferiori al sole mangiando qualcosa. Adesso non posso far altro che tornare indietro, verso Gourette, poi dovrò inventarmi qualche alternativa.
Alla fine, come ho detto, ho fatto tanta fatica per non arrivare da nessuna parte. Ma mi sono divertito: per una volta ho scalato la schiena di una montagna senza l’aiuto del sentiero segnato.
Arrens, ore 20.35
Se c’è una cosa chiara e lampante in questi luoghi è che in qualsiasi paesino tu sia, in qualunque valle, su qualunque versante, non appena entri in un ristorante sono due i piatti che cercano di appiopparti a tutti i costi: i legumi e l’anatra. E se non ti piacciono i legumi (come nel mio caso), resta poco da scegliere. Tre volte ho fatto visita ad un ristorante, in tre minuscole località diverse, e per tre volte le prime cose che mi volevano far magiare – quasi a forza – sono state queste. In un’occasione sono riuscito a dire di no all’anatra ma le altre due, compreso stasera, no.
Da Gourette ho preso due passaggi rapidi e provvidenziali in autostop: il primo, un maestro di sci del luogo (Gourette è una stazione sciistica di una certa importanza), ora a riposo per l’estate, mi ha portato fino al Col d’Aubisque, da cui si gode un notevole panorama a 360°. Il secondo, una coppia di anziani olandesi in vacanza, fin qui ad Arrens. Vallèe d’Arrens, la terza toccata in questo tragitto. Sarebbe stato impossibile arrivare fin qui a piedi, dati gli imprevisti di stamattina, l’autobus inesistente e l’errore di orientamento. E poi è stato piacevole tornare a praticare un po’ di autostop, è sempre un’esperienza stimolante, e mi mancava.
Il tempo si è fatto stabilmente bello e le montagne hanno assunto un’aria più amichevole e morbida sotto la luce del sole. Credo siano i tuoni ad irritarle, più delle nuvole. Il rombo aereo le innervosisce e le rende più scure, scontrose, con un’espressione da pugile ferito ma ancora voglioso di menare le mani. Il volto e il collo mi bruciano per il troppo calore incamerato tutto insieme e i piedi, troppo spesso bagnati, sembrano quelli del mostro della laguna nera di Jack Arnold. Ogni giorno sono più forti però, i miei piedi. Ogni giorno mi sento più forte io. Come un diesel, carburo lentamente, ma quando entro a pieni giri macino rocce e sentieri con la forza di una scavatrice. I muscoli delle gambe sono caldi e tesi, anche le salite più ardue si arrendono al passo deciso e sgusciante, tranquillo ma serrato, della mia marcia. La stanchezza, prima accusata tutta nella testa e sulle spalle – per il veleno della quotidianità cittadina, del lavoro, delle notti sotto caffeina – scende pian piano fino alle gambe, per andare a scomparire nelle notti dei lunghi sonni. Vado a letto sempre molto presto e mi libero giorno dopo giorno delle fatiche raccolte lungo la strada dei densi giorni fiorentini.
Arrens è un paese deserto, totalmente deserto, sindrome da domenica sera. Un paese fantasma. Ho girato per le sue stradine di pietra e fra i suoi canali caratteristici, senza mai incontrare un’anima. Sensazione strana, inquietante, ma anche affascinante. I tetti delle case sono neri, i prati ben curati e le finestre in legno, tutte serrate. C’è aria di spettri, ma dai miei sogni se ne sono andati da un pezzo.
Giorno 6
Arrens, ore 15.30
Incatenato ad Arrens. Immobilizzato. Un giorno intero buttato via…
È terribile essere soli quando si è malati. Non poter contare su qualcuno che si occupa di te. Soffrire il freddo sotto il sole battente di giugno. Dover badare a se stessi con la testa che scoppia e le gambe che tremano.
Devo aver bevuto dell’acqua cattiva, avvelenata da urina di capra probabilmente. Fatto sta che stanotte sono stato svegliato alle 3 da tremende fitte alla pancia. Il resto lo lascio alla facile immaginazione di ognuno… Stamani poi il problema ha continuato a perseguitarmi, aggravato da un fortissimo mal di testa e da una generale debolezza – a mala pena mi reggo in piedi e, quando ci provo, barcollo – che non mi ha permesso di lasciare Arrens come da programma. Sento dolori ovunque, il mio famoso senso dell’equilibrio vacilla, anzi manca proprio all’appello. Ho passato tutta la giornata orizzontale, fra il dormire e il cercare di dormire per riprendermi, o meglio a collassare, in tenda. Ho la fronte bollente, forse è febbre. Non ne sono sicuro però perché potrebbe essere anche la reazione a tutto il sole di ieri. In farmacia mi hanno dato delle pasticche contro la diarrea e credo che un certo beneficio lo stiano già regalando. Ho perso un giorno di cammino, dunque. Speriamo solo che domattina mi senta in grado di proseguire. Ora torno a chiudere gli occhi.
Giorno 7
Lago di Estaing, ore 15
Tira sempre un vento freddo, spesso forte, su queste montagne. Neanche sotto il sole a picco delle ore centrali della giornata si riesce ad avere caldo.
Stamattina mi sentivo rimesso a nuovo, come rinato, pronto a dar ancora battaglia su per i sentieri. Quelle medicine sono davvero portentose, mi hanno trasformato da sentirmi uno straccio da sbattere a leone ruggente nel giro di 24 ore. Avendo dormito praticamente per tutta la giornata di ieri, stamattina alle 7 ero già in piedi. Disfatta la tenda e lasciato lo squallido campo semi-attrezzato e il deserto quasi fantasma paese di Arrens, mi sono incamminato molto presto per il sentiero del Tour du Val d’Azun, che percorre lo stesso tragitto – per un po’ – del GR10, ma passa più in alto, toccando punte più interessanti e offrendo panorami più ampi. Per le prime due ore è stata un’altra salita spaccagambe, con pendenze davvero molto severe. Poi una lunga discesa, anch’essa ripidissima e non meno impegnativa per le punte degli scarponi. Il tutto nel vuoto verde di un colle erboso che si arrampica sulle gambe delle montagne, si insinua fra i passi, sale e scende aprendo scenari nuovi ad ogni curva. Schermo panoramico, come al cinema.
Dopo la discesa mi sono ritrovato nel mezzo alla Vallèe d’Estaing, a metà strada fra il paese di Estaing – alle mie spalle – e l’omonimo lago, dove mi trovo adesso. Il colore verde è stato il tema dominante di questa giornata. Prima la radura erbosa delle salite in Val d’Azun, poi il fitto bosco, verde scuro, della discesa, poi ancora radure e prati lungo tutta la nuova valle e infine anche adesso, anche il lago, circondato di alberi che lo stringono come in una cornice, riflette molte tonalità di verde dalle onde delle sue acque.
Ora riprendo il cammino verso la cima di Barbat dove dovrei trovare una capanna incustodita ma aperta dove passare la notte. L’ultima notte da solo, in montagna.
ore 17
Aquile reali. Sopra la mia testa volteggia una famiglia di aquile reali. Troppo lontane per poterle fotografare ma abbastanza vicine da poterne riconoscere l’estesa apertura d’ali e il caratteristico volo. Sono addirittura quattro! Che creature meravigliose …
ore 18
Dopo le aquile anche gli avvoltoi. Sono tanti, una decina più o meno. Questa volta mi sono venuti vicinissimi, girando intorno ad una carcassa di mucca a cui avevano già mangiato gli occhi e il cui ventre presenta evidenti segni di beccate. Nelle vicinanze del cadavere, adagiato lungo il ruscello che sto risalendo dal lago di Estaing fino alla sorgente, c’è anche un gregge di pecore: gli avvoltoi le hanno tormentate per mezzora, rincorrendole, simulando degli attacchi in 4 o 5 alla volta, facendole così fuggire via.
Lungo la via ho poi scoperto il motivo della presenza delle aquile sul sentiero: avevano ucciso una lepre. Quando sono passato io non ne rimaneva altro che la pelle, come un guscio vuoto. Un grande spettacolo: uccelli rapaci che si nutrono e interagiscono con le altre specie a loro modo, proprio qui davanti a me.
Capanna di Barbat, ore 20.20
Duemila metri di altitudine. Ad un’ora di marcia dalla cima del Col d’Ilheou, che passerò domattina. Dopodiché, tutta discesa fino a Cauterets, dove avrà fine quest’avventura.
La capanna di Barbat è appoggiata alle rocce, sotto il Pic du Barbat ad ovest e il Col d’Ilheou a sud-est. Vecchia, sporca, cade a pezzi. Sarà qui da qualche decennio, senza nessuno che se ne prenda cura. Dentro è ancora peggio – o meglio, dipende dal punto di vista: a me piace proprio così, come fosse una trincea – con i suoi quattro materassi bucati e bruciacchiati, lerci come porcili, ospitali come una prigione, messi su delle reti spezzate e scricchiolanti che a malapena reggono il mio esile peso. Tutto ciò lo trovo straordinario: dormire qui dentro, come un rifugiato, a combattere con le mosche e con le capre, le prime con la loro folta colonia all’interno della struttura, le seconde appostate ad un metro dalla porta, e non si capisce se vogliano o meno entrare a farmi compagnia. Tanto la porta non si chiude, e questo mi pone qualche problema in vista del vento freddo della notte. Il compensato che riveste le pareti interne e il soffitto fa sembrare questo rifugio un container dei tempi di guerra. Nessuno minimamente schizzinoso, o con uno spiccato senso dell’igiene dell’ambiente, dormirebbe mai qui dentro. Lo sporco sembra occupare più posto dell’ossigeno, è impossibile non respirarlo. Il pavimento, soprattutto il pavimento, pare uscito da un film dell’orrore di serie B, uno splatter ad alto tasso di succo di pomodoro, poco dopo la consumazione della strage.
Poco più su, a dieci minuti di cammino, c’è il piccolo laghetto di Barbat. Come i nostri laghetti dolomitici d’alta quota. Azzurrissimo, limpido come il fondo degli occhi di una donna nordica. Glaciale. Perfetto nella forma e nelle atmosfere. Questo specchio d’acqua di poche decine di metri quadrati sembra provenire direttamente dal passato remoto, quando acqua era sinonimo di purezza. Un piccolo paradiso incontaminato, un’oasi per camminatori dove passare una notte stringendosi nel sacco a pelo per tenere lontano il freddo.
Fuori dalla porta si sono sistemate due tendine. Quella più vicina a me è di una coppia di olandesi sulla trentina: simpatici, gentili. L’altra è di uno strano ragazzo inglese che viaggia da solo, come me: modi e tono di voce da lord ma look da hippy. Entrambi li avevo già incontrati ad Arrens: sono arrivati quassù per un sentiero diverso dal mio. Domattina continueremo il percorso insieme.
Giorno 8
Cauterets, ore 15.45
La giornata è stata piena e ricca. Dal Col d’Ilheou la civiltà sembra sparire fra le nuvole e la nebbia, ci sono solo rocce e neve, marmotte che corrono a nascondersi al nostro avvicinarsi, e rapaci che fanno la ronda a pochi metri sulle nostre teste. Una bellissima camminata, lunga e tortuosa, ma dolce e seduttrice.
Stanotte non ho dormito bene. Un po’ per la porta che non chiudeva e che quindi ha fatto passare l’aria fredda che si scatena col buio. Ma un po’ anche per il rumore di falegnameria creato da un animale – probabilmente un grosso topo – che si è fatto la casa dentro la capanna stessa.
Ci siamo svegliati tutti presto, prima delle 7, e abbiamo iniziato l’ultima salita insieme: io, l’inglese che ho poi ho saputo chiamarsi Mark, un programmatore di computer di Northhampton, e i due olandesi. Dopo circa due ore però io e Mark abbiamo staccato la lenta coppietta e abbiamo proseguito di passo svelto fino al paese di Cauterets, viaggiando a trazione sciistica.
Noto con interesse quanto sia differente camminare in compagnia piuttosto che in solitaria. Di meglio c’è che si va più veloci, stimolati dallo spirito di competizione che scaturisce dalla volontà di fare bella figura di fronte agli stranieri. A volte anche troppo veloci, tanto che gli olandesi non ce l’hanno fatta a starci dietro e Mark ha lasciato a me l’onore e l’onere di fare il passo, stare in testa, e decidere l’andatura, restando in scia come in una volata all’arrivo di tappa. Poi è sempre piacevole condividere l’emozione di un paesaggio, la fatica di una salita, la sigaretta meritata durante una sosta. Dividere il pranzo e, se capita, anche l’acqua. Di peggio c’è che non puoi più contare solo tu te stesso: esistono anche gli altri, con le loro esigenze. Esigenze di fermarsi, di mangiare e bere, scattare una fotografia, riposarsi. Ogni decisione deve essere condivisa e non si può agire d’istinto o attraverso ragionamenti che lasciano lo spazio di un lampo, improvvisi, come invece amo fare in questo tipo di vacanza.
La compagnia dei tre avventori è stata comunque piacevole. Sono tutte persone interessanti, che hanno visto molto mondo e hanno tanto da raccontare. Buoni conoscitori della montagna e dei suoi segreti. Mark mi ha anche rifornito di preziose gocce per purificare l’acqua – che la fanno sì diventare alquanto disgustosa, però salvano da imprevisti come quelli accorsi ad Arrens – così da permettermi di riempire le borracce, stamani a Barbat, in estrema sicurezza, visto che con la salita di ieri avevo finito quasi tutta l’acqua presa alla partenza e non mi volevo arrischiare di nuovo a fare il pieno lungo il cammino, con tutte le capre e le pecore che girano da queste parti..
La cosa che più colpisce di questi monti è la straordinaria rapidità con cui si passa da un paesaggio alpino, con grigie rocce nude, neve e vette spoglie a formare mille disegni tutto intorno al sentiero, ad uno boschivo o con larghi prati verdi, come fossimo scesi di chissà quanti metri. Mentre poco più avanti la natura è pronta riprendere l’aspetto duro e inflessibile delle altezze rigide.
Giorno 9
Nizza, ore 8.40
Un colpo dietro l’altro, senza sosta. Arrivato a Cauterets ho trovato subito l’autobus per Lourdes e l’ho preso. Alla stazione di Lourdes per fare i biglietti per il giorno dopo, ho notato un treno notturno che portava diretto a Nizza e ho quindi deciso di saltare la prevista sosta con pernottamento fra i santuari e i pellegrini. Ho preso anche quello. Nei miei piani c’era una serata di riposo nel paesello dei miracoli, una doccia – la cui voglia nonché necessità urlava e urla ancora vendetta – un letto come si deve, e una comoda partenza al mattino seguente. L’idea di passare un’altra notte dormendo come capita non mi allettava affatto, comunque sono saltato sul treno. Fortunatamente due devote della Madonna, di ritorno alla natia Reggio Emilia – due sprovvedute a cui avevo dato una mano con i bagagli nonché a trovare il treno giusto (livello di imbranataggine nelle operazioni a minimo tasso di logistica: decisamente irriproducibile), che poi era il mio stesso treno – mi hanno accolto nel loro scompartimento cuccette e sono così riuscito a dormire fin qui a Nizza, tutta la notte. Ora sono su un treno che va a Ventimiglia. Dopodiché, adieu a la France!
Simona e Adriana sono le due devote in pellegrinaggio. Simona ha 28 anni: discretamente scema, ma soprattutto decisamente bruttina, lavora in una ditta di riparazione caldaie. Adriana ne ha invece più di 60, pensionata delle poste, “stimata” pranoterapeuta di Sassuolo nonché pluribenedetta dal cielo che le ha permesso di avere più di un incontro vis-à-vis con la Madonna in persona, visioni mistiche come piovessero, premonizioni di morte e malattie gravissime per un esercito di fortunatissimi parenti (padre compreso), oltre a – dulcis in fundo – la possibilità di comunicare con le anime trapassate, soprattutto con la madre. Per lei è la trentesima e passa visita con bagno nell’acqua santa di Lourdes. Per Simona invece questo viaggio è stato il battesimo del fuoco, pardon, dell’acqua. Purtroppo lei non ha mai avuto visioni ma ieri ha sentito la Madonna che le toccava il cuore ed è contenta. Comunque, c’è sempre Padre Pio che veglia su di lei…
Il problema con Adriana, che mi trova simpaticissimo nonostante il mio scetticismo – scetticismo che sono stato ben attento a non tramutare in sarcasmo, anzi mi sono sforzato di prestare attenzione, simulare interesse, persino rispetto, nei confronti dei suoi aneddoti da guaritrice magica… in fondo ero loro ospite e non stavo pagando la cuccetta – è la logorrea. Davvero inarrestabile, anche mentre dorme e russa. Ce l’ha coi negri ovviamente, ma è dalla parte dei poveri – parole sue – infatti chiede solo 25 euro per ogni seduta di pranoterapia, “il minimo indispensabile per poter fare la spesa tutti i giorni e pagare il mutuo della casa”. Visto che dormire in cuccetta non mi è costato niente, perché il mio biglietto era per un semplice posto a sedere in seconda classe, ho pagato il supplemento, o meglio il fio, in altra forma: sorbendomi cioè le storie di magia e superstizioni, madonne e padri pii, miracoli e premonizioni, morti che appaiono in sogno (ma che si dimenticano i numeri al lotto in paradiso, devo dedurre, sennò Adriana avrebbe estinto il mutuo della casa) e guarigioni al solo tocco della mano fatata dell’anziana pazza. Due ore di succo concentrato di religiosità schizoide e paranoica, poi ho potuto dormire fino alle 7 di stamani. Ora in cui siamo arrivati nei pressi di Nizza. Qui le nostre strade si sono divise. La mia dice che la vacanza è finita e che casa non è più così vicina, non è più asservita alle mie spalle. Ma in fondo, non è più neanche molto lontana.
Sarà forse un’assurda battaglia ma ignorare non puoi
che l’assurdo ci sfida per spingerci ad essere fieri di noi.
Francesco Guccini – “Cristoforo Colombo”, 2004
al prossimo viaggio, amici
il vostro eremita con la casa sempre sulle spalle
At last! Someone with real expestrie gives us the answer. Thanks!