Le Everglades, il mare d’erba della Florida

Lontano della mondanità di Miami e delle spiagge alla moda, scopriamo gli splendidi scenari naturali del “Sunshine State”

Se qualcuno è capitato in questa sezione per cercare informazioni sulla Florida in generale, dico subito che questo è il diario sbagliato! Il viaggio che sto per descrivere non segue sicuramente i canoni e gli itinerari che la maggior parte dei visitatori di questo Paese vanno cercando. I dieci giorni che abbiamo avuto a disposizione io e mia moglie li abbiamo trascorsi quasi tutti alle Everglades (esclusa l’escursione di un giorno alle Keys) per poter godere al meglio la possibilità di avvistare animali in questo straordinario parco naturale americano. Dunque lontano dalle folle di Miami, dei parchi divertimenti, di Cape Canaveral e delle mete classiche di questo Stato tanto famoso. Solo immersioni nella natura, in quel poco che resta della Florida di 150 anni fa.
Sì, perché poco più di un secolo fa, Miami non esisteva (fu fondata ufficialmente nel 1896 e aveva allora meno di 500 abitanti), e la Florida era uno degli Stati meno popolosi d’America, l’esatto contrario di quello che è adesso. Poco più di un secolo fa il paesaggio tipico delle Everglades occupava addirittura un terzo della Florida!
La maggior parte dei viaggiatori riservano a questa zona solo una sosta frettolosa, proveniendo da Miami e andando verso le Keys, ed è davvero un peccato. Se da una parte ammetto che noi non facciamo testo perché siamo dei forti appassionati di natura, dall’altra devo dire che riservare una sola giornata alle Everglades, non serve neppure per avere una idea di quello che è questo straordinario ambiente.
Abbiamo dunque volutamente trascurato le altre attrattive dello Stato (Miami inclusa) per concentrarci su questo parco che, giova ripeterlo, rappresenta quello che un tempo era il solo ambiente di tutta la parte meridionale della Florida. L’area attualmente occupata da Miami è un’area bonificata e strappata alle Everglades. Sembra impossibile, ma un secolo fa la “downtown” di Miami era occupata da acqua, erba, animali selvatici: gli unici uomini a “percorrerla” erano gli indiani seminole che scivolavano sull’acqua con le loro canoe a fondo piatto.
Immergersi nelle Everglades è servito sicuramente ad immaginare come doveva essere tutto il sud della Florida a quei tempi e a farci conoscere a fondo un ambiente che non ha nessun altro paragone al mondo. Oltre a regalarci una meravigliosa e rilassante avventura.21 marzo 2011
Arriviamo a Miami alle 18.50, in perfetto orario. Dall’aereoporto si raggiunge facilmente la zona rent a car grazie ad un autobus che effettua diverse fermate davanti alle varie compagnie di noleggio: un tipo di organizzazione che si riscontra nella maggior parte degli aereoporti statunitensi.
Affittare l’auto negli Stati Uniti è facilissimo e anche qui non fa eccezione.
Dopo una breve fila ci viene consegnato il contratto e siamo liberi di scegliere l’auto tra decine di modelli simili. Questa è senza dubbio la parte che mi piace di più: pur non avendo particolari conoscenze di auto e motori, mi diverto a girellare per il parcheggio con (falsa) aria di esperto, per decidere quale sia l’auto migliore da scegliere. In realtà alla fine il criterio di scelta è semplicemente il numero di chilometri percorsi, il modello ed il colore, ma per l’ennesima volta faccio finta che non sia così e salgo su diverse vetture, per valutarne l’idoneità. Ogni volta scendo dalla vettura con l’aria di chi ne ha carpito tutti i segreti, pronto a valutare la prossima candidata. Il bel gioco viene stavolta brutalmente interrotto da mia moglie che, conoscendomi, dopo avermi fatto divertire per 10 minuti come una volpe nel pollaio, si limita a chiamarmi per nome, con lo stesso tono che usano le mamme con i bambini che fanno i capricci. Recepisco al volo il messaggio e pur protestando per non aver avuto tempo a sufficienza per operare una scelta oculata, decido per una Chevrolet bianca con pochissimi chilometri. Vorrà dire che in caso di problemi potrò sempre scaricare la colpa su di lei, che non mi ha lasciato il tempo necessario per scegliere il mezzo perfetto!
Fatta la nostra scelta, all’uscita l’impiegato addetto annota la targa sul contratto e siamo liberi di andare!
Per la cronaca il costo dell’auto, una economy di piccola taglia (che per gli standard europei è quasi una media!) è stato di 411 dollari per 10 giorni, tutto incluso.
Il tempo di imboccare la superstrada 836 prima e la 821 direzione sud poi, e siamo già in viaggio verso le Everglades! Siamo diretti a Florida city, dove abbiamo prenotato l’albergo. Per arrivare a destinazione ci impieghiamo circa 1 ora e mezza e paghiamo tre volte il pedaggio di un dollaro. La distanza è di circa un centinaio di chilometri.
Florida City, come la vicina Homestead, pressoché attaccata, non è certamente una bella cittadina. Si snoda lungo la strada principale che conduce alle Keys e i motels sono quasi più numerosi delle case! Noi ne abbiamo scelto uno su Internet, il Ramada, con un ottimo rapporto qualità prezzo, anche perché offriva prezzi speciali per il mese di marzo, che non è ovviamente alta stagione per le vicine Keys. Tutti questi motels, infatti, lavorano molto di più con i turisti di passaggio verso le Keys, piuttosto che con i visitatori delle Everglades, i quali sono certamente molto meno numerosi.
La struttura di quello scelto da noi è quella tipica del motel con l’accesso alle camere dall’esterno ed il parcheggio davanti alla camera stessa. Questo è a due piani e ci viene assegnata una camera al secondo piano. La stanza è molto buona, dotata anche di un forno a microonde che ci tornerà molto utile nei giorni a venire.
Dato che è già sera tardi e abbiamo mangiato qualcosina per la strada, andiamo subito a letto, per recuperare il più possibile la stanchezza e il fuso orario

22 marzo
Piove. E’ una vera disdetta, ma facciamo buon viso a cattiva sorte e decidiamo di dare una prima occhiata a tutta l’area che intendiamo esplorare per avere una idea dei posti migliori. Dunque entriamo nel parco, che dista una ventina di km da dove alloggiamo, pagando un biglietto settimanale di 10 Dollari: sì, con 10 dollari si può entrare al parco per tutta la settimana: ovviamente non ne approfitta quasi nessuno, viste le fugaci visite del 90% dei visitatori, ma stavolta hanno beccato i tipi giusti: che soddisfazione, entrare ogni giorno mostrando lo sgualcito biglietto acquistato nei giorni precedenti! Al terzo o quarto giorno cominceremo a temere che la guardia ci dica: ehi voi, la smettete di approfittarne, quando vi deciderete a comprare un altro biglietto, crumiri che non siete altro? Ovviamente non capiterà mai, ma da buoni Italiani che stentano a credere a tanta generosità, affronteremo il ranger sempre con un certo timore reverenziale, temendo magari di aver capito male e che ci rida in faccia, dicendoci che solo degli stupidi turisti italiani possono aver anche solo immaginato di poter entrare sette volte in un parco con soli 10 dollari!
Lasciamo queste vaghe preoccupazioni ai giorni seguenti e cominciamo la nostra visita.
Appena dopo l’ingresso del parco vi è un visitor centre, chiamato Coe’s visitor centre, che segna l’inizio della strada principale che si addentra nel parco.
Abbiamo deciso di percorrere tutta la strada principale, asfaltata, che va da qui fino al secondo visitor centre, il Flamingo, dove termina il tragitto. Lungo il percorso ci fermiamo ai vari punti di osservazione che hanno diversi nomi, a volte anche curiosi e descrittivi, come Aningha trail, Nine Miles pond, etc…
Vediamo ovviamente molti animali e la fanno certamente da padrone gli aironi, di varie specie, e gli alligatori, che sono praticamente dappertutto. Dall’ingresso del parco alla fine della strada ci sono 61 km, più varie deviazioni lungo il percorso. Oggi percorreremo solo la strada principale, fermandoci frequentemente dove la vegetazione lo permette e approfittando degli scorci che si aprono dalle frequenti aree di parcheggio.
Ritorniamo verso sera all’hotel percorrendo lentamente la strada a ritroso. Poco prima di arrivare a Florida City, in corrispondenza di un incrocio, c’è un famoso produttore/rivenditore di frutta chiamato Robert. Il suo negozio, sopra il quale campeggia una vistosa insegna “Robert is here” è diventato ormai un simbolo nella zona. Si racconta che quando fu aperto, nell’immediato dopoguerra, il proprietario, Robert appunto, esasperato dal fatto che tutte le auto gli sfrecciavano davanti senza fermarsi a comprare la frutta alla sua bancarella, scrisse a caratteri cubitali su un grosso cartello “Robert is here!” A quanto pare la cosa funzionò perché quella bancarella è ora diventata quasi un emporio dove almeno 5 o 6 dipendenti si occupano di disporre sapientemente la bellissima frutta sui banchi e ovviamente venderla alla gente di passaggio. Vi è anche un popolare chiosco dove si preparano fantastici frullati, purtroppo non molto a buon mercato. Per la verità tutta la frutta sebbene di primissima qualità, è più cara rispetto ai supermercati di Florida city.
Ma una sosta qui fa parte della tradizione: non c’è visitatore delle Everglades che non conosca Robert!

23 marzo
Oggi comincia l’esplorazione nel dettaglio del parco: scendiamo a colazione alle 6.00 in punto, quando apre la cucina. La cuoca, di colore, ci guarda un po’ di traverso, forse perché siamo i primi e avrebbe voluto finire di preparare in pace le uova strapazzate che sta cucinando. Nei giorni seguenti, benchè di carattere burbero, diventerà sempre più sorridente e quasi amichevole nei nostri confronti, forse per il fatto che saremo gli unici ospiti a fermarsi lì per più di una notte (ecco il perché dell’offerta speciale!). Probabilmente già dal secondo giorno ci avrà battezzato come appassionati di natura!
Partiamo alle 6.30, quando è ancora buio, ma questo ci permette di arrivare all’entrata del parco quando albeggia, che è uno dei momenti migliori per noi, non solo per la luce, ma anche perché il parco è pressoché vuoto. Arriviamo infatti alla zona più visitata in assoluto (lo scopriremo nei prossimi giorni), ovvero l’Aningha trail, quando la luce fa capolino tra le nuvole basse all’orizzonte. La giornata si prospetta serena, e questo ci riempie di soddisfazione.
Non è un caso che l’Aningha trail sia il sentiero più battuto del parco. Probabilmente questa è una delle zone più frequentate dagli animali, con vasti acquitrini che si fanno largo tra la fitta vegetazione. Il sentiero corre ai margini di un boschetto circondato da una pozza d’acqua per la prima parte, fino a sbucare in un sistema di passarelle e piccole terrazze sull’acqua, tutte in legno. La vista è sensazionale, con le acque poco profonde delle pozze pullulanti di caimani, che convivono con aironi bianchi, grigi, blu, tricolored, aninghe, ibis e cicogne americane.
Ovviamente anche la vegetazione circostante nasconde ogni tipo di vita animale: si riconoscono diversi uccellini, alcuni coloratissimi, tra le fronde che penzolano a pochi centimetri dall’acqua. Per un fotografo naturalista è un vero paradiso! Trascorriamo la prima ora in solitudine, ma verso le 8.00 del mattino, cominciano ad arrivare i primi visitatori; dapprima fotografi e birdwatchers, seguiti dai semplici appassionati dotati di binocoli, mentre chiudono la serie degli arrivi i turisti “normali”. Anche qui, come nel resto del mondo, il grado di apprezzamento della natura è segnato dagli orari di apparizione dei visitatori!
Fortunatamente il sentiero è piuttosto lungo, con vari punti panoramici, dunque non c’è mai una vera e propria folla.
Trascorriamo lì tutta la mattinata, tra alligatori che oziano pigramente al sole, aironi appostati immobili in attesa di catturare qualche pesce e la frenetica attività tra le fronde di piccoli uccellini insettivori.
Uno degli uccelli più fotogenici è senza dubbio l’aninga che, dopo essersi tuffata per pescare, è costretta ad asciugarsi al sole con le ali spiegate. Questo succede perché è uno dei pochi animali acquatici non dotati di uropigio, ovvero della ghiandola vicina alla coda che secerne un liquido impermeabilizzante per le penne. Questo la rende più rapida nei movimenti sott’acqua ma estremamente pesante quando riemerge, tanto da non essere quasi capace di volare.
Capita quindi spesso di vederle appollaiate sui rami, ad ali spiegate, per asciugarsi il piumaggio.
Nel pomeriggio ci spostiamo invece più a sud, arrivando a circa metà della strada che porta verso il secondo visitors centre, sempre accompagnati da numerosi avvistamenti.

24 marzo
Abbiamo deciso di “sacrificare” una giornata all’esplorazione delle Everglades per dedicarci ad una visita alle Florida keys. Sono vicine, certamente ci attirano di più della metropoli di Miami, quindi decidiamo di andare a dare un’occhiata. Partiamo al mattino presto (ormai ci siamo già abituati all’idea di alzarci presto) per sfruttare al meglio la giornata.
Dopo una rapida colazione sotto lo sguardo burbero della nostra cuoca, che oggi ci ha fatto addirittura un cenno di saluto, saliamo in macchina e puntiamo decisamente verso sud. Siamo vicinissimi alla prima delle 45 isole e isolette disposte in fila, a formare un lungo nastro di terra che si protende per 113 miglia nel mar dei Caraibi. Le isole, di origine corallina e vicinissime l’una all’altra sono collegate da un centinaio di ponti che rende ininterrrotta la strada fino a Key west, capolinea e cittadina più famosa della regione. Riesce davvero difficile trovare delle interessanti attrattive nelle Upper keys e nelle Middle keys, la prima parte della striscia di isole: la guida lonely planet sulla Florida che abbiamo acquistato fa i salti mortali per riuscire a scrivere tre paginette striminzite su cosa vedere nelle isole che vanno da Key largo (la più lunga con i suoi 53 Km o 33 miglia) e Boot key, che si trova all’incirca a 2/3 della strada.
Non ci è difficile capire il perché: la vegetazione preclude per lunghi tratti la vista del mare, e la strada è fiancheggiata da trailer parks e case di scarsissima qualità, economiche case vacanza di pensionati e turisti che vogliono godersi i luoghi senza spendere molto. D’altra parte la zona delle keys è spesso colpita de devastanti tifoni, cosa che non invoglia nessuno ad investire su case belle e solide, che, in caso di danni, comporterebbero spese ben più onerose per manutenzioni rispetto alle casupole con tetti in lamiera. Per quanto comprensibile, il risultato è però sconfortante: non si può certo dire che è un piacere guidare tra queste costruzioni precarie e davvero brutte a vedersi!
Proviamo qualche deviazione dalla strada principale, a volte seguendo i consigli della lonely planet, a volte improvvisando, ma il risultato è sempre lo stesso: rapide inversioni di marcia davanti a piccole spiagge a volte molto belle, ma quasi sempre rovinate dalla presenza di costruzioni esteticamente orribili!
Nel giro di tre ore ci ritroviamo quindi già nelle lower keys, e qui la storia comincia a cambiare: dopo il seven miles bridge, dal nome più che mai evocativo, sono sempre più frequenti i tratti di strada dove si vede il mare a destra e a sinistra, in un susseguirsi di spiagge e isolette sempre più suggestive.
Ci fermiamo al Bahia Honda State park, allontanandoci dalla strada principale. Lasciamo l’auto e ci incamminiamo lungo la magnifica spiaggia bianca: a ridosso del litorale vi è una serie di sentieri naturalistici dove è possibile avvistare farfalle e uccelli. Per entrare nel parco si paga una modesta somma, e vale una visita, anche se la striscia di terra del parco termina nei pressi di un osceno ponte ferroviario abbandonato.
La prossima fermata è nell’isola successiva, la No name Key, dove è possibile avvistare il cervo delle Keys, una specie endemica di cervi, più piccoli dei cervi normali, considerato specie in pericolo. L’occasione è buona per provare di nuovo ad allontanarsi dalla strada principale: abbiamo già capito che farlo è un must, per poter godere di una atmosfera più rilassata e tranquilla. I cervi si aggirano tranquilli tra le case degli abitanti, circondate da bei giardini. Avvistarli non è molto difficile, e anche avvicinarli è facile, sembrano decisamente abituati alla presenza umana.
La difformità di questi cervi, soprattutto nella taglia, viene dal lungo isolamento che hanno dovuto subire durante la formazione geologica di queste isole: relegati in piccolissimi habitat, dalle risorse limitate, le loro dimensioni hanno cominciato a diminuire e si sono evoluti limitando anche il numero di cuccioli partoriti dalle femmine, fino ad arrivare ad uno solo per ogni parto.
Dopo aver rischiato l’estinzione, anche come al solito per l’invadenza dell’uomo che li relegava in aree sempre più piccole, ora sono protetti e godono di discreta salute, pur essendo ancora considerati specie a rischio.
Dopo la parentesi naturalistica procediamo lentamente verso la nostra meta, Key West. La cittadina, che si trova nella punta estrema della strada lunga 133 miglia, ci ripaga davvero delle parziali delusioni che abbiamo patito durante il viaggio di avvicinamento.
Key West si può senza dubbio definire piacevole, anche se ormai è piuttosto lontana da quella atmosfera trasgressiva che molto ha contribuito a farla conoscere nel mondo. Non è più la patria di artisti, gay, letterati, personaggi stravaganti di vario genere. Ora è solamente una vivace cittadina in stile coloniale dove il lusso sta prendendo sempre più il sopravvento sulla precarietà, l’originalità e l’improvvisazione dei suoi originari abitanti. Intendiamoci, si vedono ancora personaggi eccentrici e folkloristici, ma non si può fare a meno di notare come questi siano ormai divenuti contorno, non certo protagonisti della vita del luogo.
Key west offre molto, ma anche una semplice passeggiata lungo le vie contornate da edifici in stile coloniale ottimamente conservati, può essere appagante. Da non perdere la casa di Ernest Hemingway, che somiglia in modo impressionante alla sua residenza cubana. Circondata da un vasto giardino, ad ogni angolo si vedono spuntare i gatti che furono la passione dello scrittore. Alcuni sono diretti discendenti dei suoi animali, dato che ne conservano un singolare difetto genetico: sono gatti a sei dita!
All’interno della casa, si respira l’atmosfera coloniale che contraddistingue questo angolo di Stati Uniti. Altra costruzione di cui consiglio la visita è la Heritage House, classica costruzione in stile caraibico, che conserva al suo interno una serie di pregevoli pezzi d’epoca: sembra di fare un salto indietro nel tempo! L’atmosfera della cittadina si respira tuttavia passeggiando lungo la Duval street, la via più centrale di Key West. Intendiamoci, sono numerosissimi i negozi assolutamente kitsch, ma devo dire che fanno parte del folclore del luogo. La via termina in quello che teoricamente sarebbe il punto più a sud degli Usa, e proprio per questo uno dei punti più fotografati d’America, anche se in realtà il vero punto più a sud è un po’ più in là, in una base navale off-limits per i civili. Comunque sia, qui siamo ormai a poche decine di chilometri da Cuba.
Dobbiamo con rammarico rinunciare ad una gita all’isola di Tortuga, di cui abbiamo sentito parlare un gran bene, visto che abbiamo riservato un solo giorno di visita alle Keys, ma i nostri animali delle Everglades ci aspettano! Prendiamo dunque la via del ritorno, fermandoci incuriositi dopo alcuni chilometri a visitare un centro di raccolta attrezzato in caso di uragani: una grossa costruzione in cemento sulla quale campeggia un inequivocabile disegno di un mulinello di vento, a simboleggiare appunto il tornado. Fortunatamente la stagione degli uragani è ancora lontana e il centro di raccolta è deserto…

25/29 marzo
Riunisco il resto del soggiorno in un unico capitolo: il parco, pur nella sua diversità, è un unico immenso spettacolo naturale. Abbiamo più volte percorso le stesse strade, gustando sempre spettacoli diversi e a volte inaspettati. Quello che conta non è tanto il numero e la sequenza degli avvistamenti, quanto il fatto che qui il contatto con gli animali è continuo e ravvicinato.
Il sentiero che percorriamo di più è l’Anhinga trail, il primo che troviamo dopo l’ingresso del parco. E’ senza dubbio quello che offre più possibilità di avvistamenti perché siamo alla fine dell’inverno, la stagione più secca: il sentiero corre intorno al Taylor Slough, un canale d’acqua dolce che fa da serbatoio idrico per tutta la zona. Di conseguenza lungo gli 800 metri del trail si osservano numerosissimi alligatori, aninghe, tartarughe, aironi.
Singolare l’incontro con un alligatore che, dopo aver catturato un enorme florida gar (un pesce locale lungo quasi un metro) si avvicina al sentiero esibendo la sua preda ai passanti. Uno spettacolo affascinante e brutale allo stesso tempo… Restiamo incantati ad osservare il rettile con la fauci spalancate, dalle quali pende il pesce ormai senza vita.
Ma le scene di caccia più interessanti e divertenti sono quelle offerta dall’aninga, chiamato anche uccello serpente, per la forma sinuosa del collo. Proprio il collo, unito al becco appuntito, è l’arma usata per catturare i piccoli pesci di cui si nutre. Abilissima nuotatrice, l’aninga si immerge nelle acque poco profonde dei canali e nuota in apnea finchè riesce ad infilzare con il becco appuntito, grazie al movimento sferzante del collo, la sua piccola preda. Lo spettacolo non finisce qui, perché con il pesce nel becco l’uccello riemerge e usa di nuovo i muscoli del collo per lanciare in aria il suo pasto e ingoiarlo con movimenti veloci ed esperti. Ma quanto è difficile seguire le fasi di questa rapida pesca!
Notiamo anche diverse tartarughe, tra le quali la curiosa florida softshell turtle, dal carapace, lo dice la parola, più tenero del normale. Proprio per questo la malcapitata è una delle prede preferite degli alligatori. La tartaruga fa tenerezza, con il suo naso prominente che sembra una piccola proboscide e la sua aria innocua. La sua principale occupazione è quella di nutrirsi ed evitare di diventare a sua volta cibo per i predatori.
Davvero fortunato invece l’avvistamento di un’altra tartaruga, molto più rara, la tartaruga alligatore: dall’aspetto meno piacevole della precedente, questa tartaruga è piuttosto pericolosa perché ha un morso straordinariamente forte. Non conoscendo neppure l’esistenza di questo animale, io non so nulla di questo pericolo, e mi avvicino forse un po’ troppo per fotografarla. Fortunatamente la tartaruga si limita ad alzare il collo in segno di allarme: pur non sospettandone la pericolosità, istintivamente arretro, come faccio sempre prudentemente con gli animali che non conosco. Più tardi, leggendo le caratteristiche dell’animale, mi renderò conto che è stato una saggia decisione! Già ho corso un rischio il giorno prima, spostando una tartaruga dalla strada, afferrandola per il carapace… in quella occasione ho messo bene le mani lontane dalla testa, ma una volta di più ho imparato che non bisogna mai sottovalutare le potenzialità di difesa degli animali, per quanto possano apparire innocui e indifesi!
Riprendendo il percorso lungo la strada principale, si incontrano altri sentieri, alcuni dei quali corrono a ridosso dei numerosi hammock, parola che significa amaca. Gli hammock sono delle macchie di latifoglie che occupano pezzi di terreno, generalmente detriti di varia origine, leggermente rialzati rispetto alla prateria alluvionale. La parola “leggermente” va quanto mai presa sul serio, visto che lungo il percorso si incontrano cartelli che indicano l’arrivo a dei “valichi” dalla rispettabile altitudine sul livello del mare: 3 piedi (circa un metro), 4 piedi, addirittura uno di 5 piedi; da far concorrenza alle nostre Dolomiti!
Questi frequentissimi hammock hanno un ruolo importantissimo all’interno delle Everglades, perché costituiscono un vero e proprio microcosmo che ospita forme di vita, soprattutto vegetali, completamente assenti nel resto della piana alluvionale circostante. La presenza di alberi ad alto fusto inoltre, costituisce una barriera naturale nei confronti dei numerosi tifoni che si abbattono sulla zona, contribuendo a smorzarne l’intensità.
La sweet bay pond è la pozza che ci riserva l’incontro forse più interessante di tutto il viaggio: sorprendiamo un airone blu, o garzetta di reef, dallo splendido piumaggio tendente all’azzurro/grigio intento a pescare a pochi metri dalla riva. Sembra quasi non accorgersi di noi (in realtà ci ha visto e ci controlla molto bene!) e io mi avvicino molto lentamente con la macchina fotografica. Giunto a quella che considero la distanza minima accettabile dal pennuto, circa 5 metri, aspetto e comincio ad osservarlo: benché stia seguendo certamente i miei movimenti con la coda dell’occhio, qualche minuto dopo essersi reso conto che non intendo avvicinarmi ulteriormente, sembra riacquisire in pieno la concentrazione. Una rapida sferzata proprio sotto alle sue zampe, ed eccolo riemergere con uno splendido pesce giallo nel becco, grande quanto un pugno. Il pesce è molto bello, dello stesso colore delle alghe circostanti (ci chiediamo se è una coincidenza) e si dibatte furioso nella stretta del becco vigoroso dell’airone, non ancora rassegnato alla sua triste fine!
Non sa ancora che non c’è davvero nulla da fare, i becchi di questi uccelli sono dei pugnali mortali.
Prima di volare via per consumare il pasto in santa pace la garzetta mi lascia il tempo di fotografarla mentre zampetta impettita tra i pochi centimetri d’acqua. Sembra quasi voler vantarsi per la sua destrezza, mostrando al pubblico degli umani quanto abile sia stata la sua mossa vincente. Una piccola sfilata di pochi metri, ed eccola dispiegare la ali per andare ad ingollare la propria preda all’altra sponda della piccola pozza, lontano da occhi indiscreti.
Un altro punto estremamente interessante è la Mrazek pond, a circa due terzi del percorso della strada che penetra all’interno del parco. La pozza è molto vicina alla strada, motivo per il quale è più facile avvistare animali al mattino, soprattutto aironi e spatole rosa, quando il passaggio delle automobili è meno frequente. Per la verità gli animali sono abbastanza abituati al passaggio delle auto e anche alla loro sosta. Tuttavia è innegabile che un ambiente tranquillo è senza dubbio più rassicurante per tutta la fauna. Davvero suggestive le nebbie che per tutto l’inverno potrebbero fare la loro apparizione in questa pozza, soprattutto al mattino presto.

Ma come si sono formate e come sopravvivono le Everglades, divenute patrimonio dell’Umanità dell’Unesco? La storia è davvero interessante.
La zona non è altro che una immensa palude che si forma grazie alle acque del lago Okeechobee, parecchi chilometri più a nord. Il lago è profondo al massimo solo 3 metri ma è immenso, oltre 1900 km. quadrati, come una provincia italiana. Ogni anno durante la stagione umida, l’acqua lentamente trabocca dalle sponde pressoché inesistenti del lago e inonda la piana a sud. Dato il dislivello pressoché nullo, il movimento delle acque è impercettibile e dunque si crea il fenomeno del ristagno idrico. Attualmente le Everglades coprono una superficie di circa 150 x 65 chilometri, ma originariamente, prima delle bonifiche umane, occupava un’area 5 volte superiore.
L’interesse verso quest’area cominciò a manifestarsi solo nel secondo dopoguerra: prima di allora gli americani si avventuravono da queste parti solo per sterminare gli indiani Seminole che per secoli sono stati gli unici abitanti di questa area ricca sì di vita ma abbastanza inospitale e poco salubre per gli umani. Quando si cominciarono a bonificare vaste zone per la costruzione di Miami e creare nuove terre per l’agricoltura, cominciarono i guai per l’ecosistema: purtroppo la zona veniva considerata solo come una macchina per fare soldi, tanto è vero che quando nel 1947 fu istituito il parco nazionale (che copriva solo una parte dell’area conosciuta come Everglades, mare d’erba), la maggior parte degli americani era contraria e comunque stupita: per loro quella era solo una stupida palude infestata da zanzare e alligatori, per i nuovi coloni l’importante era imbrigliare l’acqua, bonificare i terreni, costruire case. Nel giro di tre decenni, le Everglades rischiarono di scomparire: l’avvelenamento delle acque da fertilizzanti e la loro canalizzazione portarono ad una progressiva riduzione delle specie animali, e all’inquinamento di tutta la parte di mare antistante alle keys, con acque poco profonde e quasi immobili. Anche la parte protetta ne risentì pesantemente, perché veniva a mancare l’apporto naturale di acqua che arrivava da molto più a nord! La presa di coscienza dell’enorme scempio provocato cominciò solo alla fine degli anni 90, forse troppo tardi. Gli stanziamenti per ritornare allo status quo, perlomeno nelle aree ancora paludose sembrano non essere ancora riusciti ad invertire completamente la tendenza e riportare l’area al naturale equilibrio richiesto per la sua conservazione.
Ora si sta ritornando lentamente indietro, speriamo non troppo lentamente! D’altra parte la difficoltà di gestione dell’area si può comprendere valutando l’impatto della forte e continua pressione umana: nel 1960 vivevano nel sud della Florida 5 milioni di persone: 40 anni dopo sono diventate 16 milioni ed il numero è in continua ascesa, tanto che si calcola che siano 800 le persone che ogni giorno si stabiliscono nel sud di questo Stato. Tutta questa gente, oltre ai 40 milioni di persone che arrivano nel corso dell’anno per le vacanze, hanno bisogno di acqua per vivere e la sottraggono all’ambiente! Questo, assieme all’opera di canalizzazione per sottrarre terreni per l’agricoltura, come già accennato, ha comportato un danno ambientale pauroso, con ripercussioni in tutte le aree delle Everglades, ma anche nel tratto di mare circostante. Il diminuito afflusso di acqua ne ha determinato un aumento della salinità con conseguente distruzione dell’habitat per molte specie di pesci autoctoni che costituivano la base della catena alimentare degli animali presenti. Come spesso succede in natura, i mutati equilibri causano una reazione a catena, dunque negli ultimi decenni si è assistito ad un effetto domino… un solo dato su tutti: le coppie di uccelli nidificanti sono diminuite del 93% rispetto al 1930!
Dunque non oso immaginare cosa debba essere stato questo posto 80 anni fa: a me sembra di vedere animali dappertutto (ahimè sono evidentemente abituato agli ambienti naturali italiani!), ma ovunque si vada si sentono rangers che con aria contrita denunciano lo scempio praticato dall’uomo in questi ambienti unici.
Il visitatore che si immerge nella natura delle Everglades, non sapendo ovviamente come erano 50 o 80 anni fa, non ne percepisce il drammatico cambiamento. E’ difficile pensare che gli aironi, per esempio, siano ridotti di oltre il 90% di numero, visto che si vedono quasi dappertutto! Eppure la loro riduzione è un messaggio inequivocabile di modificazione dell’habitat, come lo è la diminuzione dei pesci.
Per fortuna sento anche dire che negli ultimi anni il fenomeno si è perlomeno fermato e si cerca faticosamente di fare marcia indietro. Certamente non si tornerà più agli anni d’oro (come si può pensare di far sparire Miami?), ma perlomeno evitare la scomparsa di questo piccolo pezzo di ambiente faticosamente conservato sarebbe già un successo!
Lasciamo dunque le considerazioni sul difficile futuro del parco e torniamo alla nostra cronaca.
Intorno all’area del Flamingo center le possibilità sono notevoli: si possono per esempio noleggiare canoe per esplorare la vasta rete di canali naturali che scorrono tra le mangrovie e nascondono mille animali grandi e piccoli: andare in canoa da queste parti può inizialmente generare una certa inquietudine, ma in realtà non è per niente pericoloso. L’acqua non è mai particolarmente profonda (a volte poche decine di centimetri) e gli alligatori non sono per niente aggressivi. Teoricamente si potrebbe pure smontare… se non fosse perché tra i numerosi alligatori ci sono anche alcuni coccodrilli e quelli sono senz’altro da temere molto di più. Esiste anche la possibilità di uscire in barche con delle guide esperte, verso il mare aperto. Da novembre ad aprile vengono cercati anche i manati, soprattutto nella zona di confine tra acqua dolce e salata. Li cerchiamo anche noi, e li troviamo!
I manati sono dei mammiferi che si sono adattati alla vita marina: sono dotati di polmoni e devono riemergere ogni circa 4 minuti per respirare (1 minuto quando in forte attività). Li vediamo mentre mangiano, una attività che li vede impegnati almeno 4 o 5 ore al giorno, visto che arrivano a pesare fino ad una tonnellata. Sono animali schivi, inoffensivi, che fortunatamente non hanno nemici naturali, eccetto purtroppo l’uomo. Anche i manati stanno diminuendo drammaticamente di numero e purtroppo la prima causa di morte sono le imbarcazioni ad alta velocità, gli airboats, che li urtano quando risalgono a respirare… Un ottimo motivo per consigliare di non usare queste barche nemiche della natura, ora fortunamente bandite dalla maggior parte del parco, utilizzate solo nella parte a nord che noi abbiamo evitato!
Dal Flamingo center partono anche le barche che si spingono verso l’Oceano, alla ricerca dei delfini che infatti avvistiamo, anche se piuttosto distanti. Li vediamo catturare alcuni pesci e giocare con le malcapitate prede, gettandole in aria! Osserviamo anche un gran numero di aquile pescatrici, avvistamenti che si ripetono anche sulla terraferma, dove le aquile si posano spesso sugli alberi, per mangiarsi in santa pace i pesci catturati. Ne avvistiamo una addirittura a pochi metri dal centro e ben presto la gente, attirata dalla curiosità nel vederci fotografare qualcosa tra le fronde, forma un rumoroso capannello a pochissimi metri dal rapace. A dispetto della sua natura, l’aquila non sembra per niente spaventata e presta la sua attenzione solo al pesce che ha tra gli artigli. Decisamente abituata alla presenza umana!

CONSIDERAZIONI FINALI
Dunque una vacanza alle Everglades si rivela decisamente interessante e piena di spunti naturalistici! Tra le altre specie avvistate ci sono vari tipi di airone, come l’airone verde, l’airone tricolore, la nitticora, la garzetta nivea. E poi innumerevoli piccoli uccellini, come il meraviglioso cardinale, dal piumaggio rosso fuoco, la dendroica gialla, il pettirosso americano, varie specie di orioli. Ancora, imponenti rapaci come l’avvoltoio nero e l’avvoltoio tacchino, il falco pellegrino, la poiana spalle rosse. Non mancano infine uccelli più comuni e conosciuti, come la spatola rosa, la cicogna americana, l’ibis bianco, il cormorano crestato, il picchio della Carolina, il pellicano bruno, le sterne di varie specie. Insomma, ogni giorno permette di avvistare nuove specie ed è diverso dal precedente.
Le nostre giornate sono state segnate quasi sempre da visite mattutine di buon’ora, rientro a Florida city nelle ore centrali della giornata, e ulteriore escursione pomeridiana nel parco, cercando sempre di sfruttare le prime ore della giornata, non solo per la luce migliore, ma anche perché sono gli stessi animali ad essere più attivi al mattino e alla sera.
Dal punto di vista della organizzazione logistica, la presenza, da non sottovalutare, di un forno a microonde nella stanza del nostro motel, ci ha portato spesso, soprattutto per il pranzo, a considerare il fai da te: abbiamo individuato un supermercato con un ottimo banco gastronomia, dove le specialità erano quasi tutte messicane: non ci è voluto molto a capire che anche il personale era messicano o cubano, per cui abbiamo presto smesso di parlare inglese e ci siamo rivolti agli inservienti in Italiano/Spagnolo… Un ottimo sistema per essere presi in simpatia! Con pochi dollari portavamo in camera deliziose vaschette contenenti taco, fagioli, carne asada, pollo in salsa di pomodoro. Un alternativa decisamente più valida e sana del classico cibo yankee! La sera abbiamo invece optato per diversi ristoranti, dei quali il più valido si è rivelato essere il Cracker Barrel, giusto di fronte al nostro motel, dalla parte opposta della strada. Un locale in stile vagamente Country, dove si mangia per 25/30 dollari a testa.
Ultima considerazione la merita la stagione: il periodo migliore per la visita va da ottobre a fine marzo (noi siamo andati ad inizio marzo). I mesi invernali sono senza dubbio piacevoli non solo per la temperatura, ma soprattutto per l’assenza di zanzare. Sembra che il periodo estivo, oltre che essere decisamente caldo e umido, possa rivelarsi un inferno per la persecuzione delle zanzare!
Per usare un termine visto su di un cartello all’interno del centro visitatori di Flamingo centre, il livello delle zanzare può arrivare ad essere definito “isterico”.
Viva l’inverno della Florida, dunque!

Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento, contattaci per ottenere il tuo account

© 2024 Ci Sono Stato. All RIGHTS RESERVED. | Privacy Policy | Cookie Policy