La Norvegia. Finalmente. Me ne parlò per la prima volta il mio amico pisano Francesco anni fa, con l’idea di andare a vivere là, in quella specie di paradiso terrestre. Non avrei mai detto allora che un giorno ci sarei poi andato, come turista, insieme alla mia compagna Rossana. Circa duemila euro spese in una settimana (due mesi di stipendio), ma ne valse sicuramente la pena.Sabato, 11 agosto 2007
A letto presto per la levataccia delle 5.15, con la paura di perdere il treno. Fuori era ancora buio e le strade deserte. Arrivammo a Santa Maria Novella con un’ora di anticipo. Ne approfittammo per prendere un caffè (l’ultimo caffè italiano, la cosa di cui avremo sentito poi maggiormente la mancanza) e studiare la brochure della Giver. Il treno per Milano partì puntuale alle 7.08 ed arrivò altrettanto puntuale a Milano alle 10. Non c’era un minuto da perdere. Ci precipitammo a comprare i biglietti per il pullman-navetta che ci avrebbe portati all’aeroporto di Malpensa (ne partiva uno ogni mezz’ora e il nostro era appunto alle 10.15). Neanche il tempo di andare in bagno.
Infine salimmo sull’aereo verso le 12.45. L’orario di partenza era le 13.05. Si trattava di un aereo della SAS, la compagnia scandinava: a bordo c’erano riviste in inglese e norvegese. Non speravamo di avere il benvenuto e le istruzioni di volo in italiano. Le hostess, sospetto norvegesi, salutavano con l’odioso inglese e ci guidarono ai nostri posti. Per Rossana quello era il primo viaggio in aereo ed era un po’ nervosa.
Recuperati i bagagli ci avviammo tutti verso l’uscita dove incontrammo finalmente i nostri accompagnatori della Giver. Eravamo infatti tre diversi gruppi di altrettanti tour e ci vollero due pullman per portarci all’hotel Christiania, a Oslo, dove alloggiavamo tutti quanti. Durante il viaggio di una cinquantina di minuti uno degli accompagnatore ci diede il benvenuto e le prime informazioni relative al programma della serata. Si poteva cenare in albergo, a buffer, con 255 corone (una trentina d’euro), oppure andare in qualche ristorante tipico spendendo sicuramente di più. Sapevo già, per sentito dire, che la Norvegia è cara ma... diammine! Prima della partenza avevamo cambiato circa 200 euro a testa in corone norvegesi (il cambio è di 7,5 corone per 1 euro), ne riportammo a casa giusto una per ricordo.
Serata ad Oslo
L’Hotel Royal Cristiania (il nome dell’antica Oslo, dal regnante Christian IV), quattro stelle, è situato in pieno centro, praticamente a due passi dalla via principale che attraversa diritta tutto il centro dalla stazione ferroviaria fino al castello. C’era una specie di enorme cortile interno, coperto da vetrate situate all’altezza del dodicesimo piano, con curiosi ascensori panoramici da cui si vedeva allontanarsi e avvicinarsi il ristorante a buffer, lussuoso come tutto il resto. Rimanemmo a bocca aperta dopo che, distribuite le chiavi (che erano delle tessere magnetiche), raggiungemmo la nostra camera. Neanche la stanza era da meno quanto a lusso. La vista era sul cortile interno, sfavillante di luci e colori, ma notai con piacere che c’erano pesanti tendaggi: avevo sentito dire infatti che in Norvegia d’estate si usava andare a dormire con la luce, senza nessun tipo d’imposta, e questa cosa mi preoccupava alquanto visto che mi occorre il buio per dormire. Ma non avemmo questo tipo di problemi durante il soggiorno in Norvegia: tutti gli alberghi avevano le loro tende, così come le loro brave bibbie protestanti nei cassetti dei comodini e – purtroppo – le loro orrende specie di piumoni pesantissimi che rendevano la notte un tormento (non faceva particolarmente freddo, e comunque erano decisamente eccessivi).
Sistemati i bagagli e prenotato il buffer (non avevamo molta voglia di andare a cercare ristoranti altrove), scendemmo al bar al piano terra dove ci prendemmo un succo di frutta. Ancora dovevamo abituarci all’idea di essere in Norvegia, terra tanto fantasticata ed adesso reale intorno a noi. Tutto ci sembrava strano e consueto al tempo stesso. Il cielo era nuvoloso e la temperatura intorno ai venti gradi, decisamente piacevole. Si stava bene a mezze maniche.
Il buffer era relativamente caro ma abbondantissimo! C’era di tutto, dalla pasta al dessert, piatti freddi e caldi di cui uno poteva prendere a volontà, senza limiti. C’era solo la scomodità di alzarsi ogni volta da tavola per andarli a prendere. Provammo parecchie cose, molte le lasciamo nel piatto, alla fine eravamo più che sazi. Scoprimmo poi che negli alberghi norvegesi (almeno quelli che abbiamo visto, ossia uno o due al giorno) i buffer sono più o meno tutti uguali, così come l’arredamento delle camere (letti separati, orridi piumoni, poltrone e divani e tende pesanti).
Quando siamo infine usciti per la nostra prima passeggiata ad Oslo, verso le 20, c’era ancora molta luce. Trovammo una pizzeria italiana, “Bella Napoli”, di cui prendemmo nota per un pasto futuro, quindi ci dirigemmo verso Karl Johans Gate, la via principale del centro: un viale larghissimo, pieno di negozi, ristoranti, bar ed alberghi. Non andammo però molto lontano: eravamo stanchissimi, anche per la levataccia della mattina e lo stress del viaggio. Alle 21.45 eravamo già sotto le coperte.
Domenica, 12 agosto 2007
Oslo e dintorni. Frogner Park e Vigeland
Primo giorno tutto norvegese. Inizia nella pratica il tour con i suoi ritmi frenetici che, se da una parte hanno reso possibile vedere tante cose in una sola settimana, dall’altra ci hanno fatto passare una vacanza tutt’altro che riposante.
Abbiamo iniziato con un buffer abbondantissimo, dove accanto alle cose viste la sera prima per cena (mi parve un po’ strano che i norvegesi facessero colazione con pesce e formaggio) c’era un po’ di tutto: dal latte (rigorosamente freddo) all’orrido caffè norvegese (che nulla a che vedere col caffè italiano), dai cereali alle classiche frittate con pancetta, eccetera. Con queste colazioni è facile arrivare al pranzo senza spuntini intermedi.
Mattina nuvolosa. Temperatura: 20 gradi, piacevole nonostante l’umidità. Scendendo, dopo aver caricato i bagagli sul pullman, facemmo la conoscenza del nostro autista “vichingo” locale, che ci avrebbe portato a giro per tutta la settimana. Si chiamava Vidar ed aveva una somiglianza sorprendente con l’attore Anthony Hopkins: un tipo taciturno come da stereotipo norvegese, ma molto esperto e tutto sommato simpatico.
Incontrammo anche la nostra guida che ci avrebbe accompagnato per tutta la mattina, per lasciarci poi in mano a Sonia, la ragazza piemontese che invece ci avrebbe accompagnato per tutto il resto del tour. La guida parlava un ottimo italiano, anche se un po’ “straniero”.
La visita alla città si svolse quasi esclusivamente a bordo del pullman. Facemmo molti giri, con la nostra sarda che ci spiegava via via edifici e monumenti. Il centro di domenica mattina era pressoché deserto e il traffico ridottissimo. Facemmo una prima fermata al celebre Frogner Park, meglio conosciuto come parco di Vigeland per la presenza delle opere dello scultore norvegese, note come “Il ciclo della vita”. Rimasi molto colpito da quelle sculture, tanto che cercai di fotografarle tutte con la macchina digitale (la scheda di memoria era per fortuna molto capiente).
Lasciato il parco, uscimmo dalla città per raggiungere la vicina collina di Holmenkollen: poco più di 400 metri sul livello del mare ma con un clima da alta montagna (a quelle latitudini, ci spiegò la guida, le condizioni di montagna si trovano a quote molto più basse rispetto all’Italia: per fare un paragone ci disse di aggiungere 1000 metri alla quota norvegese). Facemmo una sosta brevissima presso il trampolino da sci per le olimpiadi invernali, avvolto nella nebbia, e quindi un’altra presso un simpatico ristorante per sciatori (Frogner Seteren) dove trovammo un’atmosfera molto suggestiva, con fuoco scoppiettante nel camino e colazione invitante.
Tornati in città, il gruppo si divise. Una parte scese presso la Galleria Nazionale mentre un’altra parte più piccola (tra cui io e Ross) preferì scendere all’albergo e cercare un posto dove pranzare. Di vedere musei non se ne parlava proprio: c’era pochissimo tempo ed era alto il rischio di perdersi, inoltre il museo dei vichinghi, quello che valeva forse di più la pena visitare, non era proprio in città ma occorreva addirittura prendere un bus o un traghetto.
Ci mettemmo dunque alla ricerca di un ristorante a prezzo accettabile, visto che il pranzo era libero. Dopo molto girare intorno alla Karl Johans Gate, ci fermammo infine in un ristorante cinese sulla via principale: prezzi relativamente economici e piatti simili ai ristoranti cinesi in Italia. Tanto per andare sul sicuro.
Usciti dal ristorante cinese ci infilammo, poche decine di metri più avanti, in un pub scozzese dove avemmo la pessima idea di prendere un caffè. A parte il sapore pessimo (una tazzona di un liquido oscuro che non aveva neanche vagamente il sapore del caffè) nell’ora successiva andammo in bagno tre volte. In compenso l’ambiente era carino e c’era anche una libreria, con libri palesemente decorativi (c’erano un po’ di tutto, in inglese naturalmente, con libri più vecchi che antichi).
Nel tempo che ci rimaneva prima dell’appuntamento con il pullman all’hotel facemmo quasi tutta la via principale fin quasi al castello, scattando foto e godendoci un po’ di raro sole spuntato nel frattempo. Oslo è una città multietnica ne più ne meno che le nostre città italiane, con molti extracomunitari a giro, mimi, mendicanti e artisti di strada. Ci fermammo in un negozio di musica per scoprire cosa ascoltavano i norvegesi (molta musica in inglese, come sospettavo, ma anche molta in norvegese sconosciuta in Italia) e in un negozio di souvenir per comprare due cartoline.
Verso Beitostølen
Alla partenza dall’albergo facemmo la conoscenza con la nostra nuova guida: Sonia. Quarantenne, mora, piemontese, ma molto simpatica e molto loquace, sguardo ipnotico da troll, ci avrebbe accompagnato in pratica fino al check-in dell’aeroporto di Oslo quel sabato della partenza, senza abbandonarci mai. Si prese cura bene di noi. Nei giorni successivi riempì le ore di pullman narrandoci ogni singolo aspetto della Norvegia e dei suoi abitanti, dal loro carattere chiuso e cupo, dovuto all’isolamento e alla scarsità di luce, alle loro abitudini, usanze, credenze, eccetera. Costeggiando i nostri primi fiordi ci spiegò come riconoscere a colpo d’occhio un lago da un fiordo (i primi tendono ad avere un po’ di spiaggia sassosa, mentre i secondi sorgono direttamente dall’acqua). Sonia parlava in continuazione, ma non annoiava mai e soprattutto non era mai pedante.
Poco dopo la partenza iniziò la pioggia. Anche quella ci avrebbe accompagnati, con pochi intervalli, fino al rientro in Italia. Ma la Norvegia era bella anche col cattivo tempo.
Facemmo una sosta in un luogo chiamato Valdresporten, in un piccolo ristorante dove scoprimmo che i norvegesi “cenano” tra le 15 e le 17 (quando noi invece facciamo merenda). Proseguimmo poi diretti per Beitostølen (800 metri d’altitudine) verso le 19.30, in tempo per cena e facemmo una breve passeggiata nei pressi dell’albergo.
La luce era magica. Non c’era granché da vedere: giusto una collinetta ai cui piedi sorgeva una specie di pub, qualche negozio chiuso ed una strada dove non passava un’anima. Eravamo molto stanchi, così andammo a letto presto, verso le 21.30. In quella settimana prendemmo l’abitudine di andare a letto presto viste anche le levatacce che si aspettavano la mattina successiva e il fatto che comunque le giornate erano frenetiche.
Sul letto ci aspettava il solito tremendo piumone, preludio a sudate notturne. Quella notte non riuscimmo a dormire bene anche a causa del temporale che era sempre lì, dietro la finestra, quando suonò la sveglia delle 6.30.
Lunedì, 13 agosto 2007
Quel giorno ci aspettavano, stando alla brochure del viaggio, 335 km in pullman. Io e Ross riuscimmo ad aggiudicarci il posto davanti, posto che dovemmo poi comunque cedere per far si che si avvicendassero anche gli altri (come raccomandato da Sonia). Per fortuna i problemi di mal d’auto non furono troppi.
Partimmo sotto la pioggia scrosciante e bellissima. Sonia, mezza addormentata anche lei ma non meno loquace, ci diede istruzioni su come acquistare un troll, il celebre folletto dispettoso norvegese presente in tutti i negozi di souvenir. Molte leggende circolano su questo curioso personaggio; ci sorprese soprattutto la serietà con cui Sonia ce ne parlava, come se credesse davvero nell’esistenza dei troll.
La chiesa di legno di Lom
La nostra prima tappa della giornata era presso la chiesa di legno (“stavkirke” in norvegese) di Lom (pronunciato “lum”). Il tempo fu gentile; smise di piovere giusto il tempo per visitare la chiesa e il vicino negozio di souvenir, dove Ross comprò appunto un troll. La chiesa di legno era affascinante, peccato non fosse consentito fare foto all’interno. Ci fece da guida un giovane norvegese che parlava inglese e veniva tradotto da Sonia. Notammo anche che ogni chiesa norvegese, di legno o di pietra, è sempre circondata da un cimitero. La cosa ci sembrò alquanto insolita; fornì ovviamente a Sonia il pretesto per parlare dei riti funebri dei vichinghi e dei loro attuali discendenti nordici.
Ogni tanto Sonia riprendeva fiato lasciandoci alla “contemplazione” del paesaggio, sempre mutevole e maestoso, magari con un sottofondo musicale. Non poteva mancare Grieg, il celebre compositore norvegese (scoprii in quell’occasione la sua nazionalità) autore del “Mattino”; nell’aspetto fisico praticamente un clone di Einstein. Nessun’altra musica poteva essere più adatta in quei momenti. Facemmo anche alcune soste per ammirare meglio il paesaggio e scattare foto. Saliti fino ai 1000 metri, iniziammo a ridiscendere verso il fiordo del Geiranger, percorrendo una stretta strada tutta curve, resa ancora più insidiosa dalla nebbia. Il nostro autista rimaneva sempre impassibile, anche quando incrociavamo altre macchine o pullman che si dovevano fermare e retrocedere.
In battello sul Geirangerfjord
Pranzammo in un ristorante vicino al fiordo, stavolta non a buffer ma serviti a tavola dai camerieri come in un ristorante tradizionale. I camerieri indigeni, in qualunque ristorante andavamo, si stupivano che io e Ross bevessimo solo acqua e nessun alcolico. Subito dopo pranzo scendemmo all’approdo dei traghetti. Il pullman sarebbe salito sul traghetto, ma noi ci saremmo imbarcati a piedi e avremmo preso posto sul ponte per ammirare i paesaggi incantati del fiordo, mentre un altoparlante diffondeva in varie lingue informazioni turistiche sul fiordo e sulle cose da vedere. La spiegazione in italiano era data da una curiosissima voce con uno spiccato accento siciliano. Altra cosa notevole vista dal ponte del battello, oltre alle antiche fattorie abbandonate sulla riva del fiordo, un gabbiano che ci seguiva e che osservavamo sospeso a mezz’aria mentre volava alla stessa velocità del battello.
Intanto pioggia e sole si alternavano, costringendoci a scendere al coperto e a risalire. Sotto coperta c’era un bar dove si poteva prendere bevande e merendine a prezzi esagerati. Qui, al tavolo accanto al finestrino, io e Ross scrivemmo una poesia ispirata alle “Sette Sorelle”; una serie di cascate spettacolari che ne fronteggiano un’altra, sulla riva opposta, detta “Il Pretendente” (la leggenda narra che le sette sorelle non sapessero decidersi e che il pretendente sconsolato nell’attesa si fosse trasformato in cascata, o qualcosa del genere). Con la pioggia le “sorelle” erano particolarmente vispe.
Temporale sul ghiacciaio del Briksdal
Il giro in battello durò circa un’ora. Sbarcati a Hellesylt, Ross si accorse di aver dimenticato l’ombrello sul traghetto. Ovviamente iniziò a piovere. Più avanti l’avrei perso anch’io il dannato ombrello così, arrivati al negozio di souvenir vicino al ghiacciaio di Briksdal (Briksdalbrine) ne comprammo un paio a testa con i colori della Norvegia, che erano anche dei ricordini simpatici oltre che utili. Con questi, e con l’impermeabile, ci avventurammo sul sentiero verso il ghiacciaio che si ergeva maestoso ed invitante sopra di noi. Non fu una buona idea.
La prima parte della salita fu faticosa ma tranquilla. Attraversammo un ponte vicinissimo ad una cascata che, con i suoi spruzzi, ci diede un assaggio di ciò che ci aspettava più avanti. Notammo anche vari cumuli di sassi messi dai turisti che – come ci aveva spiegato Sonia – facevano parte di una specie di rito simile alle monete nella fontana di Trevi o allo sfregamento del Porcellino a Firenze: in pratica un augurio a ritornare in quei luoghi. Anche io e Ross ergemmo il nostro piccolo cumulo, non si sa mai...
Dopo circa una mezz’oretta iniziò a piovere, poi a diluviare, con lampi e tuoni spaventosi. Arrivammo vicini al ghiacciaio ma ritenemmo prudente tornare indietro, mentre altri proseguivano incuranti sotto l’acquazzone. Era una scena surreale. C’erano macchine a noleggio, scoperte, piene di turisti giapponesi sconvolti che cercavano di ripararsi con teloni impermeabili, in mezzo al sentiero stretto e fangoso. Si sentivano imprecazioni in tutte le lingue. Arrivammo infine al pullman bagnati fradici (io ero uno dei pochi previdenti che aveva sia l’ombrello che l’impermeabile, ma avevo comunque i piedi a mollo e i jeans bagnati fino al ginocchio), in largo anticipo sull’ora della partenza.
Oldenfjord
L’Oldenfjord Hotel, a Olden, era un albergo con vista spettacolare sull’omonimo fiordo. Ci arrivammo per cena. Dopo la solita cena a buffer, dove appunto ci abbuffammo in modo esagerato, ci godemmo un bellissimo tramonto dalle vetrate dell’albergo e poi dalla camera. Fu lì che feci le foto più belle del viaggio, con quella luce dorata che accendeva le ultime gocce di pioggia. Rimanemmo un po’ nella hall, arredata con la solita libreria puramente decorativa (molti vecchi libri in norvegese di cui cercavo di indovinare il significato, sforzandomi di richiamare alla memoria quelle poche nozioni studiate anni fa e ormai cadute nel dimenticatoio), mentre Ross chiacchierava con l’ormai inseparabile Paolo e con altri compagni di viaggio che cominciavamo poco a poco a conoscere.
Alle 21.30 eravamo già a letto, stanchissimi.
Martedì, 14 agosto 2007
Sognefjord
Trovammo la solita pioggia battente al nostro risveglio; pioggia che però ci diede un po’ di tregue nel corso della giornata. La sveglia era alle 7.30, solito buffer e tutti sul pullman (dimenticavo sempre di riconsegnare la chiave alla reception e doveva farlo sempre per me Sonia) per imbarcarci, a Fjærland, sul Sognefjord, per la solita minicrociera in battello. L’aria frizzante era piacevole ma la pioggia che iniziava improvvisa ci costringeva a scendere sempre sotto coperta. Ross e Sonia si misero a chiacchierare del mestiere di accompagnatrice turistica.
Pranzammo in un hotel a Sogndal, una graziosa cittadina di cui visitammo poi, nelle due ore lasciate miracolosamente libere prima della partenza, il centro commerciale (dove comprai un paio di cd) ed una chiesetta posta nella parte alta. Intanto era tornato il sole e faceva persino caldo, anche se eravamo molto lontani l’afa fiorentina. Era sempre strano trovare chiese circondate da tombe.
Ripartimmo alle 15.30 per la seconda minicrociera sul Sognefjord. Appena imbarcati e sistemati sulle sedie panoramiche sul ponte, iniziò puntualmente a piovere. Stavolta la traversata durò un paio d’ore, ma non aggiunse nulla a quello che avevamo già visto.
Stalheim
Alcuni posti hanno una storia. A volte la storia è dolorosa, come nel caso dello Stalheim Hotel, a Stalheim. Ce la raccontò Sonia sul pullman mentre raggiungevamo l’albergo, attraverso uno spettacolare canyon reso ancora più suggestivo dalla pioggia e dalla nebbia. Pare che, durante l’occupazione nazista della Norvegia, l’hotel fosse stato trasformato in una delle cliniche deputate al progetto Lebensborn, un delirio eugenetico di Himmler, prima di ritornare ad essere un albergo come tanti altri, sperduto in mezzo a montagne suggestive. Sarà stato quel racconto, sarà stata l’atmosfera nebbiosa e decisamente autunnale (in effetti là in Norvegia si era già al termine dell’estate, nonostante le mezze maniche del nostro autista), ma mi venne l’ispirazione per una canzone sulle note del mio amico musicista Paolo Filippi:
Vi sono luoghi
In un respiro dove
Cala l’autunno
Dove arriva l’autunno
Prima che altrove
fa sera presto
sempre più presto
copre la sera
Eppure
È dolce il tramonto
Scompare il sole
Dietro i suoi monti
E accende la pioggia
Che segreta va via
Là sentirai
Oltre il muro bianco
Il perdono del cosmo
Risposte
Che non avrai.
Scrissi questi versi poco prima di cena. La stanza aveva una vista spettacolare sul piazzale dell’hotel e sui monti circondati da banchi di nebbia che avanzavano verso di noi in modo quasi minaccioso. Dopo la solita cena a buffer facemmo un salto al negozietto di souvenir, nella hall (spesso vi sono negozi di questo tipo all’interno degli alberghi norvegesi, per fare shopping senza uscire), dove comprai una “cartolina dvd”. Nel salone c’era un pianoforte di cui si era impossessato un napoletano del nostro gruppo ed aveva coinvolto i suoi conterranei in esibizioni canore di “O sole mio” (che in quelle condizioni climatiche sembrava ironico), “Torna a Surriento”, ecc. Era insolito insomma sentire quel repertorio così a nord, con quell’atmosfera quasi natalizia.
Mercoledì, 15 agosto 2007
Verso Bergen: la cascata di Tvindenfossen e la cattedrale di Voss
Sonia ci aveva annunciato, con gran gioia da parte nostra, che dopo i primi frenetici giorni il programma si sarebbe fatto più rilassato. A quei ritmi infatti non ce l’avremmo fatta ancora a lungo. La pioggia ci diede il buongiorno anche a Stalheim; lasciammo il sinistro hotel (sinistro solo per la sua storia però, per il resto era un albergo lussuoso) verso le 9 per raggiungere la costa e Bergen, la seconda città più importante della Norvegia. Sonia ricominciò con le sue lezioni di cultura norvegese. Scoprimmo con grande sorpresa che, benché la Norvegia sia carissima, le case sono relativamente a buon mercato, addirittura meno care rispetto ad una città come Firenze: una tipica villetta in campagna, ad esempio, la si poteva trovare a 800.000 corone (circa 100.000 euro). Anche in città i prezzi erano abbastanza bassi. La mente ritornò all’antico progetto di emigrare in Norvegia che io e il mio amico Francesco Felici accarezzavamo diversi anni fa.
Lungo la strada per Bergen facemmo una prima sosta presso la cascata di Tvindenfossen (ossia “cascate gemelle”; “fossen” in norvegese vuol dire “cascata”, anche se con tutte le tombe che avevamo visto in quei giorni l’assonanza suggeriva altri signi-ficati). Si diceva che chi si bagnava nelle sue acque sarebbe ringiovanito di cinque anni in una settimana. Molti sembravano dar credito alla leggenda, qualcuno – ci disse Sonia – bagnandosi anche in zone innominabili! La cosa era pittoresca e poi, come si dice, non si sa mai... anche io e Ross ci bagnammo la faccia al volo prima che il solito acquazzone ci costringesse a rifugiarci sul pullman..
La seconda sosta fu nella cittadina di Voss, le cui uniche attrazioni turistiche erano costituite dalla cattedrale gotica e dalla “croce di Olaf”. Quest’ultima era un pezzo di pietra incrostato di muschio, che somigliava vagamente ad una croce, posto in un prato a memoria di Sant’Olaf, un monarca che cristianizzò la Norvegia intorno all’anno 1000. La cattedrale invece era più interessante: ci rifugiammo tutti lì quando ricominciò a piovere forte (quel giorno la pioggia si accaniva in modo particolare con noi). Era una chiesa di pietra e non di legno, ma pittoresca. Ripartimmo verso le 11.
Bergen
Bergen, che fu per un certo periodo la Capitale al posto di Oslo, ci accolse sotto un acquazzone che quasi ci impediva di vedere le sue vie, il porto e gli abitanti. Vidar ci fece fare un giro in pullman della città, peraltro non molto grande (225.000 abitanti) ripercorrendo più volte le stesse strade per non arrivare troppo presto all’hotel Rica, dov’eravamo attesi alle 13.
Il primo approccio con la città non fu per nulla incoraggiante. Avute le chiavi della camera, la nostra era la 318 al terzo piano, scoprimmo che – dopo tanti alberghi principeschi e suggestivi – eravamo capitati in una specie di loculo con vista su di un passaggio claustrofobico ingombro di impalcature. La camera era microscopica, ci si rigirava a malapena, priva della luce esterna.
Il pranzo era libero. Molti seguirono il consiglio di Sonia, di andare cioè nei ristoranti del porto che ci aveva indicato, oppure al mercato del pesce (per cui Bergen è famosa) dove avremmo potuto mangiare al volo un panino con qualche specialità marinara. Ma io e Ross non avevamo voglia di inzupparci per finire chissà dove, e spendere magari cifre esagerate, così pranzammo col solito buffer in hotel al solito prezzo di 30 euro (o meglio, il corrispondente in corone visto che l’euro non lo volevano neanche sentir nominare). Neanche il buffer era granché, inoltre eravamo noi due soli.
Ritornammo in camera, indecisi sul da farsi. Ci era entrata una sorta di malinconia, con tutta quella pioggia e quello squallore. Quasi non avevamo neanche voglia di uscire. Uscimmo comunque perché non ci andava di trascorrere la giornata tra quelle strette mura. Impermeabile, ombrello e scarponi e via.
Dopo l’acquazzone si alternava con una rapidità sconcertante sole e pioggia. Sonia ci aveva informato che Bergen, con la sua media di 275 giorni di pioggia all’anno, è la città più piovosa della Norvegia. Chissà come fanno a vivere gli abitanti. Faceva anche piuttosto freddo. Camminammo per un po’ a caso, girando intorno alla grande vasca con fontana non distante dall’albergo, per prendere poi le stradine in salita alla ricerca del duomo, tanto per vedere qualcosa. Ci fermammo in una specie di sala da tè gestita da una ragazza del Bangladesh; prendemmo appunto del tè caldo al limone. Al tavolo accanto al nostro due ragazze norvegesi mangiavano un piatto di pasta; venne naturale chiederci, vista l’ora (circa le 16) se stessero cenando o pranzando o cos’altro.
Bergen, dicevo, è una città piccola e piovosa. Non c’è poi moltissimo da vedere, se non si gradisce star troppo all’aperto e se non si vuol mettere troppo spesso mano al portafoglio. La cosa senza dubbio più interessante che val la pena è il quartiere anseatico, vicinissimo al porto. Si tratta di un dedalo di vicoli tra casette molto pittoresche, tutte di legno dipinto a colori vivaci. Anticamente i mercanti della Lega Anseatica vivevano qui, in questa specie di ghetto dove avevano scelto di chiudersi. Era uno scenario che a Ross ricordava qualche film western: in effetti le case, un po’ decadenti e di stile ottocentesco, a più piani, con scale storte e interi corridoi dove si poteva salire e guardare il paesaggio, poi scale e passaggi sospesi attraverso il vicolo (pavimentato anch’esso di legno), ricordava qualcosa del genere. Al piano terra c’erano molti negozi, e qualcuno anche ai piani superiori, ma pareva che per il resto non ci abitasse nessuno. I turisti potevano salire e scendere liberamente. Era molto suggestivo.
Nel resto del pomeriggio gironzolammo nella zona del porto, fermandoci in qualche negozio di souvenir (in uno di questi comprai una maglietta; il commesso era italiano, fu un piacere trovare qualcuno che non ci parlasse in inglese) e in un orrendo fast food dove Ross prese un hamburger prima di cena. Cenammo poi in un ristorante cinese vicino al porto. Era bello, dopo tanta pioggia e grigiore (a parte i colori vivi delle casette anseatiche), trovare un ambiente caldo, accogliente e colorato come sono di solito i ristoranti cinesi. Questo in particolare era anche piuttosto affollato e un po’ rumoroso, ma ci siamo trovati bene e siamo riusciti miracolosamente a farci capire dal cameriere cinese (che parlava inglese).
Quando uscimmo, verso le 21.30, c’era ancora molta luce ed era piacevole stare ancora un po’ a giro prima di tornare nella lugubre stanza d’albergo. Percorremmo tutta la lunga via che dal porto arriva fino alla chiesa di S.Giovanni (Johans Kirke) che si staglia col suo colore rosso scuro come un razzo contro il cielo ancora ingombro di nubi. Notammo anche diversi gruppetti di giovani, ragazzi e ragazze, bottiglie in mano, già ubriachi per la strada. L’alcolismo, come ci aveva spiegato Sonia, è uno dei maggiori problemi dei paesi scandinavi: l’altro lato della medaglia del “paradiso” nordico. Ma gli ubriachi norvegesi non sono quasi mai molesti; questi che incontrammo noi ci salutarono e una ragazza fece un gesto verso Ross come ad invitarla ad unirsi alla bevuta. Tirammo diritto. È curioso davvero come il carattere chiuso dei nordici si tramuti poi nel suo opposto grazie all’alcool.
Giovedì, 16 agosto 2007
Addio a Bergen
Anche la mattina era libera, così decidemmo di alzarci alle 8.30 per andare ancora un po’ in giro per la città, sperando invano nel bel tempo: pioggia e sole si alternarono in pratica fino alla nostra partenza. Rifacemmo un giro simile a quello della sera precedente: ritornammo al porto, dove prendemmo qualche assaggio di pesce al mercato (ci diedero pezzetti di salmone e persino di carne di balena). Qui al porto c’erano molti italiani venuti a lavorare, attirati dagli alti stipendi, magari per una stagione: infatti si sentivano tutti gli accenti regionali, dal romano al veneto, dal napoletano al milanese (il fiorentino mancava). Ci infilammo poi in un gruppo di turisti per visitare la Mariakirke (la Chiesa di Maria). Molto più interessante (e gratuita) invece la chiesa di S.Giovanni, che visitammo infine anche all’interno (la sera prima era chiusa). Ross rimase colpita dal ritratto del santo, dietro l’altare.
Pranzammo in un ristorante italiano, Stragiotti, nei pressi della chiesa. Fu un po’ una delusione; il cuoco era sì italiano, ma la cameriera, quando le chiedemmo un tavolo nella nostra lingua, ci guardò stupita (persino un po’ ostile) e ci rispose in inglese. Anche lì! Riuscimmo comunque ad intenderci, continuando a parlare in italiano (molto probabilmente capiva la nostra lingua ma non la sapeva, o non la voleva, parlare). Il menù, almeno quello, era in italiano, seppure con qualche piccola sgrammaticatura che si riscontra sempre all’estero. Alla fine del pranzo, a base di pasta, ci gustammo il nostro primo caffè espresso all’italiana di cui sentivamo moltissimo la mancanza. Visti i prezzi norvegesi, il ristorante era anche relativamente economico.
Alle 14.30 eravamo puntuali in albergo all’appuntamento con Sonia e il pullman.
Addio città di pioggia e di pesce!
Ulvik
Lasciata Bergen sotto la consueta pioggia, ci dirigemmo verso la cittadina di Ulvik, dove avremmo pernottato. Facemmo una sosta presso un’altra cascata, ben più spettacolare di quella “ringiovanente” (anche se con una leggenda così interessante dietro...). La cosa che la rendeva spettacolare era il fatto che un sentiero di montagna passava praticamente dietro al getto d’acqua ed era possibile così osservare il paesaggio sotto un velo liquido e scrosciante. Anche lì vennero delle belle foto. Prima di ripartire, tanto per cambiare sotto la pioggia, ci rifocillammo in un bar nei pressi della cascata. Presi una specie di enorme crèpes con la marmellata, deliziosa. Io e Ross non riuscimmo tuttavia a trovare la tanto decantata da Sonia marmellata alle more artiche, molto probabilmente per la nostra scarsa dimestichezza con le etichette scritte in norvegese. Anche qui trovammo gli indigeni a cena, ad un orario strampalato anche per me che non è (quasi) mai troppo presto per mangiare.
Alle 18.15 eravamo già all’albergo, bellissimo e con vista spettacolare sul fiordo.
La sera era chiara e bellissima, nonostante le grandi nubi scure che scorrevano tra le montagne affioranti dall’acqua. Sembrava non voler mai annottare. Quando infine fu buio era l’ora di andare a letto, piuttosto tardi rispetto agli standard di quei giorni: verso le 22.30.
Venerdì, 17 agosto 2007
Hardanger
L’ultimo giorno di vacanza iniziò alle 8. Solita pioggia al risveglio. Ci aspettava un viaggio in pullman di 360 km, il più lungo. Destinazione: Oslo.
Eravamo tutti un po’ malinconici, presto ci saremo lasciati e saremo tornati alla nostra vita di sempre. Cercai di scacciare questi pensieri negativi per godermi la giornata, ancora di vacanza a tutti gli effetti. Prendemmo l’ennesimo traghetto col pullman, stavolta però rimanemmo a bordo: pioveva e faceva freddo. Attraversato l’Hardangerfjord, ci dirigemmo verso l’altipiano di Hardanger.
Era prevista una sosta per ammirare le spettacolari cascate di Voenfossen (168 metri) ma non avemmo un filo di fortuna. Oltre alla pioggia c’era una nebbia fitto che ci impediva di vedere ad un metro di distanza. Delle cascate sentimmo solo il rumore, che si confondeva con quello delle gocce di pioggia sull’ombrello. Ci rifocillammo al vicino Fossli Hotel, la cui atmosfera ricordava molto la caffetteria di Holmenkollen: anche lì trovammo un fuoco scoppiettante nel camino ed un tè caldo. Pare che quel luogo avesse ispirato Grieg per una sua opera...
Molto più interessante fu la sosta successiva, presso un accampamento lappone a quota 1050 metri. Sonia non ci nascose il fatto che non era un vero e proprio accampamento lappone (i lapponi non costruirebbero mai le loro capanne vicino alla strada) ma una cosa per turisti, e che non è corretto chiamarli “lapponi” (nella loro lingua vuol dire “straccioni”) ma “sami” (che, sempre nella loro lingua, vuol dire “uomini”). Man mano che salivamo di quota, sparivano i boschi di abeti per lasciare posto ad arbusti sparsi ed infine ad erba e licheni in ampi spazi lunari privi di vita dove, a detta di Sonia, di notte appariva tutto di un suggestivo colore blu. Noi trovammo invece predominanti i colori grigio del cielo e verde acceso della vegetazione. Anche la temperatura – che tenevamo d’occhio dal display del pullman – scendeva progressivamente fino a toccare i 6 gradi. Quando scendemmo tirava vento e faceva un freddo boia anche col golf, il bomber e l’impermeabile.
L’accampamento consisteva in tre capanne di cui due per figura ed una era un negozietto di souvenir. Dentro trovammo una simpatica vecchietta sami, sorridente, circondata da oggetti di ogni tipo: dagli onnipresenti troll alle cose che si trovano identiche in ogni negozio di Oslo, ma anche cose tipiche fatte a mano dai sami, carissime ovviamente. Io e Ross non comprammo nulla, ma guardammo divertiti la ressa di gente che si accalcava per domandare i prezzi, e i calcoli di conversione tra euro e corone che la signora effettuata con sorprendente abilità. I sami accettano anche gli euro.
Oltre alle capanne, fatte tutte di legno e paglia, c’era anche una casetta tradizionale norvegese, dotata di riscaldamento (dove la signora abitava d’inverno) ed un palo altissimo dove svettava la bandiera sami: un misto di cerchi e linee in cui i diversi colori simboleggiavano cose come la notte artica, il sole e la terra o qualcosa del genere.
Verso Oslo
Il resto del viaggio fu un po’ amaro. Ci avvicinavamo sempre di più alla Capitale e alla fine di quella vacanza.
Pranzammo in un ristorante lussuoso a Gol, sempre a buffer. Non c’erano più i ritmi frenetici dei primi giorni; non ripartimmo prima delle 13, anche se nei dintorni non c’era molto da vedere. I più indugiarono a tavola chiacchierando del più e del meno.
L’ultima parte del viaggio fu la più malinconica. Sonia ci diede le istruzioni per il nostro ritorno. Un gruppetto avrebbe preso l’aereo per Napoli ed avrebbe avuto la sveglia alle 4 di notte (!!!), un altro l’aereo per Roma con sveglia alle 5. Noi avevamo l’aereo per Milano e quindi la sveglia relativamente più tardi: alle 5.30. C’erano poi un paio di fortunati che sarebbero partiti nel primo pomeriggio e si sarebbero alzati con tutta calma.
Eravamo quasi arrivati a Oslo quando spuntò ironicamente il sole. I napoletani lo salutarono con cori di “O sole mio” e “O soldato ‘nnamurato”, sotto lo sguardo impassibile di Vidar. I napoletani avevano anche promosso una colletta per l’ottimo lavoro svolto da Sonia e dall’autista vichingo: anche io e Ross contribuimmo con 5 euro a testa. Sonia ringraziò commossa e poi passò il microfono a Vidar chiedendogli di dirci qualcosa in norvegese. Quello obbedì. Naturalmente nessuno di noi capì una parola, ma apprezzammo lo stesso.
L’ultima cosa che notammo della Norvegia fu la disciplina degli automobilisti. C’era un molto traffico, per il rientro dei pendolari, ma la corsia dedicata ai pullman – che in Italia sarebbe stata occupata dalla macchine – era liberissima e così non subimmo rallentamenti.
Ultima sera ad Oslo
Arrivammo al Christiania Hotel, dopo una settimana d’assenza, verso le 17. Anche stavolta la cena era libera. In un primo momento pensammo di pranzare alla Bella Napoli, ma alla fine optammo per il solito buffer in hotel. Facemmo comunque un’ultima passeggiata nella solita Karl Johans Gate, prima di cena, anche per spendere gli ultimi spiccioli che non avremo poi potuto cambiare in Italia.
La cena fu malinconica, sia per la partenza imminente sia perché non era nel solito lussuoso cortile, occupato per una sfilata di moda, ma in uno stanzone cupo al piano terra a lume di candela. Anche stavolta eravamo gli unici del nostro gruppo ad aver scelto di cenare in hotel, gli altri erano andati in qualche ristorante tipico.
Spinti dalla curiosità facemmo un salto nel cortile dove si teneva la sfilata di moda. C’era tutta gente strana, i vip nordici e i giornalisti, molti vestiti in modo appariscente, tutti con drink in mano e atteggiamenti un po’ snob. Gli uomini poi sembravano tutti gay. Ci sentivamo decisamente fuori posto con la nostra “normalità”.
Quando chiudemmo le tende, verso le 21, c’era ancora molta luce fuori.
ciao enervit, grazie per il commento: nessuna negatività riguardo alla Norvegia, luogo bellissimo, né all'organizzazione davvero ottima. L'unica "negatività" riguarda semmai il dispiacere di tornare alla solita vita e al lavoro :-) buon viaggio
ciao, io parto per la norvegia domenica e sono da sola o meglio con giver. spero di vivere una settimana entusiasmante per quanto, immagino, ci sia da stancarsi per via del pulman. ho letto la tua esperienza e devo ammettere di aver percepito un pò di negatività?sbaglio?
Ti ringrazio per il commento, naturalmente non è che piove sempre in Norvegia :-) E' stato comunque bello. Buon viaggio!
Ho letto con piacere questo viaggio anche se con un po' di malinconia per il tempo che avete trovato, visto che nel mese di agosto 2008 andro' a fare pure io lo stesso tour, sperando che il tempo sia piu' clemente. Grazie del bel diario in piu' siamo della stessa regione (Pisa)