Il viaggio di nozze non é una cosa che si può improvvisare, è IL viaggio, quello della vita, quello che ti resta dentro per sempre… e dove si va?
Noi non abbiamo avuto dubbi o tentennamenti: Sud Africa. Siamo partiti decisi fin dal primo momento; volevamo scegliere una cosa che poi, con magari dei bimbi, con altri impegni e altri budget, senza un mese di ferie dal lavoro, non saremmo più riusciti a fare. Le opzioni erano ovviamente tante, ma esclusa la troppo lontana Australia e gli Stati Uniti, più “a portata di mano”, l’Indonesia o la Polinesia Francese, il Sud Africa è rimasta l’unica vera scelta… e ci siamo buttati a capofitto in guide, siti internet, diari di viaggio per capire quali fossero le cose da non perdere e partire organizzati.
Siamo stati anche fortunati a trovare un Tour Operator (la South Side di Milano) che oltre ad averci assistito poi in maniera impeccabile, ha saputo proporre variazioni basate sull’esperienza alla nostra proposta arricchendola e completandola con gusto e una certa “esclusività” lasciandoci la libertà completa di scelta ed organizzazione per realizzare il nostro viaggio, non per farcene fare uno!Dal momento che il Sud Africa è nell’emisfero sud, le stagioni sono invertite rispetto alle nostre; il nostro viaggio, quindi, ci ha fatto vedere la faccia invernale della nazione e… ci ha procurato non pochi problemi nel far le valige!
Il problema maggiore è stato il capire, dalle notizie discordanti che avevamo, quanto facesse freddo; mentre il meteo, infatti, ci diceva che durante il giorno c’erano circa 16-18°C, amici che hanno fatto la stessa esperienza anni prima, ci dicevano di portare piumino e prepararci ad un freddo pungente: a chi dare ascolto?
Forse siamo stati fortunati, ma alla fine non ha fatto così freddo: di giorno si stava in camicia senza grandi problemi, la sera un giubbino o una felpa erano necessari ma sufficienti; discorso un po’ diverso durante le visite a Cape Agulhas e a Cape of Good Hope dove, invece, il vento che spazza i due capi fa scendere di parecchio la temperatura percepita e qui, qualcosa di un po’ più caldo, è molto utile!
In generale, come quasi ovunque, vestirsi “a cipolla” è la scelta migliore.
Per quanto riguarda la zona del Kruger il discorso non cambia molto anche se qui, non essendoci altro vegetazione, nel momento in cui il sole tramonta, la temperatura scende improvvisamente con no sbalzo termico molto elevato arrivando a toccare anche i 6-8 gradi sopra lo zero; se si considera che i safari si fanno solitamente di mattina presto (prima del sorgere del sole) o al tramonto (continuando con il buio) e che l’unico mezzo di trasporto è la jeep dei ranger che è completamente scoperta, è facile capire come sia semplice avere freddo!Durante la nostra visita abbiamo visto gente vestita nei modi più diversi ed opposti possibili! Non sappiamo se sia la povertà la causa, ma in giro per le strade si sono viste persone con il piumino con tanto di cappuccio calato sulla fronte a fianco di altre in pantaloncini e maglietta, o ancora maglioni di lana mano nella mano a vestiti senza maniche…
Per quanto riguarda noi abbiamo messo in valigia qualcosa di caldo (ma non troppo!) ed un giubbino leggero contro il vento, magliette con maniche lunghe e jeans; indispensabile (anche per darsi un tono da esploratori durante i safari!) un cappello, magari comprato sul luogo come abbiamo fatto noi!
I ranger mettono poi a disposizione, durante le escursioni nella savana, calde coperte per coprirsi; sono davvero utili quando il sole tramonta, ma non sono sufficienti: un pile (anche leggero) ed una felpa, sono davvero indispensabili, in abbinamento al giubbino!
Su molte guide abbiamo trovato indicazioni anche sui colori; vestire con colori neutri e “mimetici” non è obbligatorio, ma molto consigliabile: è una forma di rispetto verso gli animali che si vanno a disturbare a casa loro ed in più, come per il cappello, il vestire “da esploratore” vi fa sentire un po’ di più nell’Africa dei romanzi di avventura!11 e 12 giugno
Comincia a Malpensa il nostro viaggio, e non un viaggio qualsiasi, ma il nostro viaggio di nozze! Ce ne saranno altri (lo speriamo almeno!!), sempre affascinanti, coinvolgenti, divertenti ed emozionanti, ma per belli che potranno essere, non saranno mai come questo. Siamo sposati da 2 giorni, stiamo cominciando la nostra vita insieme e stiamo partendo per la nostra luna di miele: come potrebbe andare meglio?!?!
In realtà potrebbe, e ce ne accorgiamo una volta arrivati a Parigi dove l’aereo che in serata decollerà alla volta di Johannesburg ha qualche problemino tecnico; restiamo al gate in attesa di notizie, ma dobbiamo aspettare la bellezza di 5 ore per venire a sapere che il volo è cancellato e che ne dovremo prendere un altro il mattino dopo.
Fra delusioni, arrabbiature varie, tristezza e tanta stanchezza ritiriamo i nostri bagagli e cerchiamo la navetta messa a disposizione per il trasporto dal Charles de Grulle alla sistemazione in città; sono le 2.30 del mattino del 12 giugno quando arriviamo in hotel. Non disfiamo nemmeno le valigie: fra poco più di 3 ore verranno a riprenderci per tornare in aeroporto!
Una volta effettuato il check-in (non più con la SouthAfrican ma con l’Air France), mentre ci riposiamo un po’ dopo le fatiche della giornata (infinita) di ieri, chiamiamo il tour operator per metterli al corrente della situazione; efficienti e cortesi, ci avvisano che penseranno loro a ripianificare l’intero tour e che al nostro arrivo a Johannesburg ci attenderà un loro collaboratore per informarci di ogni variazione.
Come inizio poteva essere meglio, per fortuna sarà l’unico vero intoppo (e tutto sommato nemmeno troppo grosso!) del nostro viaggio!
Il volo è piuttosto comodo, ci possiamo distrarre con film da poco usciti al cinema e videogiochi visti direttamente sul mini schermo posizionato nel sedile davanti al nostro, ma veramente lunghissimo (12 ore circa) e l’averlo fatto interamente di giorno, dopo una giornata così stancante, è davvero pesante; arriviamo a Johannesburg, dopo aver attraversato l’intero continente africano, aver visto dall’alto il rosso del Sahara e le sconfinate verdi foreste equatoriali, alle 21, stanchi e spossati, ma contenti di essere finalmente arrivati a destinazione. Ad attenderci in aeroporto, sbrigati i controlli dei passaporti e della dogana, c’è l’incaricato del tour operator che ci consegna i voucher per gli hotel e ci ragguaglia sui cambiamenti: unica variazione è la città in cui ha inizio la nostra visita del Paese, non più Port Elisabeth come preventivato, ma, dal momento che abbiamo perso una giornata, George, 400 chilometri più ad ovest.
Il volo per la piccola cittadina è domani mattina, alle 7, quindi questa sera ci è stata prenotata una camera in un hotel vicino all’aeroporto, per essere comodi poi domani con il trasferimento… ed in effetti la struttura è a soli 10 minuti dall’aeroporto, il nostro amico, però, si è dimenticato di dirci che è un cinque stelle!
Una hall completamente affrescata ci accoglie per il check-in e veniamo poi accompagnati dal facchino con le valige fino alla nostra stanza o, meglio, al nostro “appartamento”; già, perché una volta aperta la porta di ingresso, il letto non si vede nemmeno! Un salottino fa da anticamera, il letto è nella stanza a fianco da dove si accede al bagno principale (… già, ce ne sono due!) che ha anche una fantastica vasca idromassaggio con tanto di cascata d’acqua! … e dopo un viaggio durato un giorno e mezzo, un bagno con le bollicine non ce lo toglie nessuno!
13 giugno
Siamo in giro per il mondo da due giorni ma per ora ci siamo solo “spostati”: il viaggio vero, quello in Sud Africa non è ancora cominciato! … ed anche questa mattina ci aspetta un aereo ed un volo di un paio d’ore per arrivare alla nostra linea di partenza.
Dal finestrino del turboelica, però, il Sud Africa ci accoglie cominciando a mostrarci quei paesaggi che ci toglieranno il respiro; non ci sono le vaste pianure che ci aspettavamo, ma un mare di terra, increspato con tanti monti arrotondati dall’erosione del tempo che disegnano morbide vallate e che, con il sole basso della mattina, giocano con le ombre e con i colori.
Atterriamo finalmente a George dopo aver scorto dall’alto anche l’oceano: ora comincia davvero la nostra vacanza e la nostra avventura!
Ad attenderci fuori dall’aerostazione c’è la macchina a noleggio che ci porterà in giro per il Sud Africa nei prossimi giorni; è una Toyota, una Corolla ma… tre volumi! Come in tutto il mondo, anche qui, le grandi case costruttrici di automobili vanno in contro alle esigenze del mercato commercializzando prodotti creati ad hoc; ci abitueremo a vedere anche Volkswagen Polo e Renault Clio con il “sedere sporgente”, ma ogni volta ci strapperanno un sorriso.
Sbrighiamo tutta la burocrazia per il noleggio anche del GPS, ma adesso viene il difficile: guidare. Già, perché una cosa è dire “noleggiamo una macchina e andiamo in giro da soli”, un’altra è farlo quando tutti vanno contromano! La guida a sinistra, in realtà non sembra creare grandi problemi, grazie anche allo scarso traffico che c’è in zona ed alle strade che, non avendo molti incroci, non consentono grandi errori; un po’ più complesso, invece, è decidere dove andare.
Prima della partenza da casa, infatti, avevamo studiato un itinerario di massima da seguire durante il nostro viaggio, una sorta di piccolo roadmap per non dimenticarsi città importanti o panorami da non perdere; con il cambio di programma, però, ci troviamo a dover improvvisare, almeno per oggi.
Abbiamo tutta la giornata a disposizione e, dal momento che fra l’altro è “di strada”, decidiamo di dedicarne una parte alla visita del Wildlife Cango Ranch, ad Oudshoorn, circa 60km da George.
In realtà l’impatto non è dei migliori: il parco sembra una via di mezzo fra uno zoo e Gardaland con un percorso guidato fra “gabbie”, seppur senza sbarre, dove vengono tenuti esemplari di specie non necessariamente sudafricane; facciamo così la conoscenza dei lemuri, dell’ippopotamo pigmeo, della tigre oltre che dei leoni e dei ghepardi. E sono proprio loro uno dei motivi della nostra visita: in realtà il parco è solo lo strumento commerciale per sovvenzionare una riserva, situata poco distante e di dimensioni ben maggiori, che ha lo scopo di proteggere e reintrodurre in natura i ghepardi. Visto il fine, certamente nobile, chiudiamo allora un occhio sullo sfruttamento della cattività di questi animali…
L’altro motivo, il principale, è che, a differenza di ogni altro zoo che abbia mai conosciuto e visitato, qui non solo è possibile vedere gli animali, ma li si può anche toccare: chi può vantarsi di aver accarezzato un ghepardo?! Vicky sì (mentre io ho immortalato il momento)!
Non è come ce lo si aspetterebbe, nel senso che accarezzare questi gattoni non è come passare la mano su un peluche; il pelo è molto ispido e duro e quindi trasmette una sensazione di “selvatico”, ma l’emozione del momento è davvero impagabile; soprattutto quando, passati primi timidi e paurosi approcci, si osa un po’ di più e si sente che i ghepardi apprezzano molto cominciando a fare le fusa come se fossero dei micini in salotto!
Lasciamo i ghepardi ma non il parco e gironzolando un po’ arriviamo al recinto che ospita un cuccioletto di ippopotamo nano; con un po’ di carote e qualche foglia sventolate come invito a pranzo riusciamo a convincerlo a vincere la paura e ad avvicinarsi a noi e così riusciamo ad avere il nostro secondo contatto (due in una giornata!) con un animale selvatico… e anche lui ci sorprende! La sua pelle, spessa e più scura del “cugino dalle dimensioni standard”, è ben lontana da come ce la immaginavamo: ruvida e venata da numerose screpolature.
Visitato il resto del parco salutiamo il nostro primo scorcio di Africa e ci rimettiamo in macchina. Sulla via del ritorno attraversiamo Oudtshorn, nulla di speciale, ma visto che la strada principale è costeggiata da numerose case in stile coloniale costruite completamente in arenaria, decidiamo di parcheggiare e fare una passeggiata per guardare con più calma; ma non ci riusciamo per più di due minuti.
Non c’è un vero e proprio motivo, ma non ci sentiamo sicuri, ci sentiamo gli occhi di tutti addosso a noi ed ai nostri zaini e, viste le misere condizioni di vita di molte delle persone che vediamo sedute agli incroci delle strade, non siamo molto tranquilli. Purtroppo questa sensazione, sottolineiamo del tutto personale, non ci lascerà nemmeno nei giorni seguenti non appena si abbandona la strada principale o quando si cammina per le grandi città…
Ci rimettiamo in macchina tornando verso George ma dopo pochi chilometri ci fermiamo, ai margini di una via secondaria completamente sterrata, a fare una picnic ammirando prati e montagne che un po’ ricordano i nostri paesaggi (anche se i colori qui sono tutta un’altra cosa!) e cercando di cogliere con lo sguardo o con la macchina fotografica scorci particolari; vengono a farci compagnia durante il pranzo un folto gruppo di struzzi: la zona è nota in tutto il mondo per l’allevamento intensivo di questi giganteschi (sono veramente imponenti!) uccelli che vengono lasciati liberi di spostarsi negli immensi campi recintati attorno alle rare fattorie.
Mangiando cerchiamo di trovare fra appunti e cartine la prossima meta; indecisi decidiamo solo di avvicinarci a Knysna, la cittadina nella quale pernotteremo per i nostri primi due giorni in SudAfrica; immettiamo le coordinate nel GPS e… ed è lui a scegliere per noi! Già, perché al posto di farci seguire la veloce strada che già abbiamo percorso in mattinata, decide che la via più breve attraversa il Montagu Pass. Ci troviamo a percorrere una strada che prima si arrampica sulla montagna e poi scende in una ripidissima discesa dall’altra parte, completamente sterrata e senza nemmeno la sicurezza di un muretto o una protezione laterale, ma il panorama che si ammira salendo e che gustiamo dall’alto ci ripaga del timore di restare a piedi in un posto dimenticato da tutti, di bucare una gomma o di perderci!
Torniamo sulla strada principale e proseguiamo per Knysna attraversando George e guidando (non senza timore visto che ho sempre la netta sensazione di essere contromano!) lungo la N2 che segue la costa da Cape Town fino a Port Elisabeth; il paesaggio non è certamente quello che ci aspettavamo: niente savana, baobab o “cose africane”, bensì pini e abeti, fiumi e lagune circondati da boschi fittissimi e colorati di un verde intenso. È la Knysna Forest, parco naturale protetto, che vanta alberi che primeggiano in altezza e che ospita, ma ovviamente è difficilissimo fare il suo incontro, l’ultimo elefante allo stato brado della zona.
Raggiungiamo Knysna ma non ci fermiamo; abbiamo deciso di spingerci un po’ oltre e tornare in città solo dopo il tramonto in modo da vedere anche un po’ di quella parte di Garden Route che avremmo dovuto visitare se non ci fosse stato l’inconveniente tecnico al nostro aereo; ci fermiamo solo quando arriviamo a a Plettensberg Bay, una delle località più rinomate del Paese, dove passano le proprie vacanze i sudafricani che possono permettersi prezzi da Europa. Vogliamo sentire un po’ il profumo del mare e passeggiamo, accarezzati dalla luce rosa del tramonto (sono le cinque e mezza del pomeriggio… è inverno!), sulla lunghissima e deserta spiaggia; non c’è nessuno se non una famigliola, alcuni surfisti che stanno tornando a casa ed un paio di coppie, l’acqua del mare ci culla con il suono ritmico delle onde e noi ci riposiamo un po’ facendo fotografie e cercando di realizzare che tutto quello che vediamo è reale e non siamo dentro ad un quadro!
I colori ci colpiscono, la luce è avvolgente e la nebbia che vela i promontori all’orizzonte dall’altra parte della baia sembra giocare con le creste dei monti e con le alte onde che si infrangono al largo.
Non è facile con il buio, una volta tornati a Knysna, trovare il nostro hotel; è direttamente sulla marina, ad un passo dalla zona portuale della cittadina, quella più commerciale, turistica e tranquilla, ma solo dopo un paio di tentativi troviamo l’ingresso alla via secondaria dalla quale si accede; al check-in troviamo una cartello di benvenuto dedicato a noi “honeymooners” (!!) ed in camera, semplice ma molto carina seppur con due letti (fortunatamente molto ampi!!) divisi, una bottiglia di champagne sudafricano che decidiamo di lasciare chiusa ed aprire più tardi.
Passeggiamo un po’ per le vetrine dei negozi (già tutti chiusi per la verità) che formano la marina e decidiamo di fermarci a mangiare in uno dei ristoranti che incontriamo riuscendo così a gustare, prima di andare a nanna, i calamari più buoni che abbiamo mai assaggiato!
14 giugno
Ci svegliamo presto e ad accoglierci c’è… la nebbia! Fortunatamente non quella a cui siamo abituati a casa, ma una nebbiolina sottile che sale dal mare e che nasconde gli alberi delle barche ormeggiate nella marina e che riesce a rendere ancora più suggestiva la vista che dalla vetrata della nostra stanza abbiamo sulla laguna di Knysna.
Colazione e poi al volante per raggiungere Mossel Bay, piuttosto lontana da Knysna, ma meta per la nostra mattinata; oggi abbiamo deciso di darci, almeno in parte, alla cultura visitando il complesso del museo dedicato a Bartolomeo Diaz che si trova proprio in questa piccola cittadina.
Passeggiamo un po’ per il verde parco che unifica i diversi edifici che compongono il museo prima di entrare ad ammirare il pezzo forte dell’esposizione: all’interno di una costruzione appositamente realizzata c’è la riproduzione fedele e funzionante della caravella con la quale il navigatore spagnolo compì la prima circumnavigazione del continente africano.
Completamente in legno, con le vele di pesante stoffa beige, fa bella mostra di sé questa imbarcazione che per l’epoca pensiamo dovesse essere il non plus ultra, ma che, vista con gli occhi di oggi, da una parte non può non rubare un sorriso per come è tozza e tutto sommato di dimensioni ridotte, dall’altra un applauso di ammirazione per quei coraggiosi marinai che affrontarono un viaggio verso l’ignoto a bordo, davvero, di un “legnetto”!
Pensavamo fosse un po’ una tappa del nostro viaggio noiosa, invece restiamo affascinati dalla nave e dai numerosi cimeli che sono raccolti nei corridoi che, ruotando attorno alla caravella, consentono di ammirarla da ogni punto di vista; ci fermiamo ad osservare con interesse le riproduzioni delle vecchie mappe e gli strumenti di navigazione di allora, gli abiti che vestivano i marinai ed il comandante nonché la piccola raccolta di materiale che descrive la storia della città.
Dopo aver passeggiato per il prato del parco fino ad ammirare le abitazioni dal caratteristico tetto di legno del primo insediamento (Munroe’s house), ci rechiamo al museo dedicato al mare; accanto a collezioni di conchiglie provenienti da tutto il mondo (fra cui una che riporta una disegno a forma di violetta che è stata poi eletta a simbolo di Plettensberg Bay dove siamo stati ieri) e ad alcun resti ossei di balene e squali, visitiamo un piccola zona dove viene ricreato l’habitat marino locale. E anche qui scopriamo, con sorpresa, che è possibile toccare gli animali! Dopo ghepardi ed ippopotami oggi è allora la volta di coloratissimi anemoni, stelle marine di ogni forma e dimensione, spugne e crostacei: l’adrenalina è certamente minore, ma lo stupore di sentire ruvido e duro al tatto un animale come la stella marina che abbiamo sempre pensato essere “molliccio”, non può, ora, non strapparci un sorriso!
Lasciamo la zona del museo e ci dirigiamo, in auto, verso la vicina spiaggia per pranzare in compagnia di qualche gabbiano in tutta tranquillità e poi ci rimettiamo in macchina fermandoci, tornando verso Knysna, alla spiaggia dello Wilderness National Park, parco che non visitiamo ma che dall’interno si estende fino all’oceano. Parcheggiata la macchina ai margini della N2, scendiamo l’alta duna di sabbia coperta da cespugli che separa la spiaggia dal traffico e vi troviamo, davvero come d’incanto, in un altro mondo! Non si sentono rumori se non l’oceano che si infrange sul bagnasciuga, il vento solleva le creste delle onde creando una leggera foschia che vela l’orizzonte, non c’è nessuno tranne noi e qualche piccolo uccello in cerca di molluschi. Passeggiamo, ci fermiamo a riempirci i polmoni con il profumo del mare, giochiamo a ritrarre in mille fotografie la luce che disegna curve ombre sul ramo di un albero trasportato e levigato dal mare, raccogliamo sassi arrotondati dalla forza delle onde… restiamo affascinati dalla semplice bellezza di questa natura e dalla sua forza, tanto da non accorgerci che ormai il sole sta calando ed è ora di tornare in hotel; questa sera ci aspetta una cena tipica… italiana: pizza!
15 giugno
Oggi ci aspetta il trasferimento più lungo dell’intero viaggio: questa sera dormiremo a Swellendam, a oltre tre ore di strada da dove siamo, ma la meta principale della giornata (non l’anticipiamo per dare un po’ suspance!) è un’oretta oltre la cittadina; ci alziamo presto, colazione abbondante in hotel come sempre ed imbocchiamo nuovamente la N2. Ci fermiamo subito fuori da Knysna però: ieri abbiamo visto al bordo della strada un gruppo di improvvisati negozietti di artigianato locale realizzati con lamiere, tende e legname vario; curiosiamo fra statuette di animali, piatti, insalatiere e formaggi nostrani ma “l’attrazione” principale è Eisha, una bimba di non più di 5-6 mesi che con la mamma attende che qualche turista si fermi, faccia due chiacchiere con lei, le regali un sorriso e magari compri qualcosa.
Lei ci lascia il ricordo del suo sorriso, noi in cambio diamo alla madre qualche rand, pochi per il regalo che la piccola ci ha fatto.
Ci rimettiamo in marcia, fermandoci solo per fare benzina ai rari distributori che troviamo per la strada e sonnecchiando (Vicky, non io che guido!) fra un “guarda guarda guarda!!” e l’altro; la strada per arrivare a Swellendam sembra non finire mai, formata solo da rettilinei connessi da poche curve, ma una volta arrivati lì, l’oretta che ci separa dalla meta sembra essere poca cosa. Una strada che, come accade spesso qui, è un continuo, lungo, incessabile sali-scendi fra verdissime colline spazzate dal vento (forte al punto da farmi stare attento al voltante per non perdere il controllo della macchina!) ci porta fino al mare o, meglio, agli oceani. Siamo a Cape Agulhas, il punto più a sud del continente africano, il luogo dove l’oceano Atlantico incontra l’Indiano e le loro acque si mescolano!
Il capo, che prende il nome dall’ago della bussala dei primi esploratori che arrivarono in questo luogo, è una delle mete più turistiche del Sud Africa, ma nonostante questo, ha saputo mantenere intatta la sua naturale bellezza; attraversato il piccolo paese che si allunga lungo la strada principale, arriviamo al faro, bianco e rosso, che segna alle imbarcazioni in transito il passaggio da un mare all’altro.
Compriamo il biglietto per l’ingresso all’edificio, comprensivo di accesso alla torre del faro stesso. Come lo scorso anno è successo in Olanda per la visita ai mulini a vento, anche questa volta ci tocca scalare una ripidissima e stretta scala in legno che ci porta, di pianerottolo in pianerottolo, fino in cima; qui, impegnandoci davvero per vincere la forza del vento che ci ostacola nell’apertura della piccola porta di metallo, usciamo sulla ringhiera superiore del faro, proprio dove c’è la luce (ora ovviamente spenta) e da dove si può godere di uno spettacolo senza uguali. Non riusciamo a scorgere, o almeno non così nettamente come avevamo letto, l’incontro fra i due oceani dal momento che il mare è molto agitato e le onde modificano i colori delle acque, in ogni caso, però, quest’immagine così forte di una natura che mostra i muscoli (ed oggi è una bella giornata!) ci rimane dentro!
Ammiriamo il panorama ancora per un po’, poi, vinti dal freddo, scendiamo a visitare prima il piccolo museo sul faro e sui fari del Sud Africa, poi la spiaggia rocciosa dove si infrangono i due oceani; qui troviamo, fra le pietre ed i piccoli sassi levigati dalle onde, anche un paio di conchiglie fossili perfettamente conservate che, ovviamente protette vista la loro fragilità, mettiamo nello zaino.
È ora di pranzo, ed cercando un ristorante in cui fermarci, troviamo un piccolo supermercato dove facciamo provvista di pane, formaggi, succhi di frutta, cioccolata: abbiamo deciso di non staccarci da questo panorama e così guidiamo fino il più vicino possibile al mare e pranziamo, seduti in macchina per proteggerci dal vento e con le portiere aperte, ammirando ancora le onde che si infrangono sugli scogli.
Riposati e rifocillati riprendiamo il nostro viaggio ma, prima di lasciare il paesino, lasciamo libero sfogo alla nostra curiosità ed abbandoniamo la strada principale per andare a vedere come vive davvero la gente del posto; giriamo allora in una delle vie che portano ai quartieri più poveri della cittadina e guidiamo lentamente fra gli sguardi di bambini che giocano per la strada, i panni stesi ad asciugare, i fuochi accesi nei cortili per cucinare. Non siamo in una baraccopoli, le case sono, seppur poco decorose, in muratura, ma nonostante questo la povertà si tocca con mano.
Usciamo, ammetto con un po’ di sollievo da parte mia, dal quartiere tornando sulla strada principale e cominciando a macinare i chilometri che ci separano dalla nostra prossima meta: Arniston, un piccolo paesino di pescatori, arroccato sull’alta scogliera e meta turistica per via delle sue abitazioni con il tetto di paglia; in realtà scopriamo che il paese nel suo insieme è molto bello: ogni casa, comprese quelle di recente costruzione, rispecchia lo stile tradizionale del luogo e ci troviamo quindi ad attraversare quartieri di cottage bianchi, con un piccolo giardino davanti e porte e finestre colorate.
Sinceramente non mi sento molto sicuro a scendere dalla macchina ed avventurarmi a piedi nel cuore storico di Arniston, ma convinto da Vicky mi faccio coraggio; camminiamo su viottoli lastricate di pietra o semplicemente in terra battuta fra case il cui valore storico è certamente rilevante, ma che, sinceramente non ci sembrano così belle se non per il bianco delle pareti che contrasta con il blu intenso del mare sullo sfondo ed il nero delle migliaia di piccole canne che, raccolte a fascio, compongono i tetti; il resto è, invece piuttosto degradante e poco invitante…
Non è tutto qui, però: Arniston ha ancora qualcosa da mostrarci! Seguiamo le indicazioni per le grotte, dall’altra parte del paesino rispetto al centro storico dove siamo, non tanto per il desiderio di visitarle (entrambi non amiamo molto lo stare in luoghi troppo chiusi), quanto perché, chiedendo ad un pescatore della zona, siamo venuti a sapere che poco prima la roccia ed il classico finbos, la vegetazione tipica di questi luoghi, lasciano il posto a gigantesche dune si sabbia e… non ci vuole molto per trovarle: sono davvero imponenti!
Ci divertiamo un po’ a scalarne alcune, giocando con il vento che alza i granelli e ridisegna ogni attimo la morfologia delle dune e non perdiamo l’occasione di scattare fotografie a questo paesaggio mozzafiato; non abbiamo fretta di andarcene, vogliamo gustare fino in fondo la “bellezza africana” di questo deserto in miniatura, di questa sabbia gialla oro, di questo cielo azzurro intenso come mai ne abbiamo visti.
E lo spettacolo della natura si mostra in tutta la sua bellezza anche sulla via del ritorno quando la luce del tardo pomeriggio accende i prati e le colline, i campi e gli alberi di colori caldi a tal punto che non possiamo non fermarci ad ogni curva e ad ogni spiazzo per scattare fotografie!
Arriviamo a Swellendam mentre il sole ormai sta tramontando e l’impatto è… strano: se non fossimo sicuri di essere in Sud Africa, togliendo i monti che poco lontano la racchiudono e proteggono, potremmo tranquillamente pensare di essere in Olanda! La chiesa con l’alto e appuntito campanile, il municipio ma anche le abitazioni con le particolari cassette delle lettere ed quartieri stessi ricordano paesaggi visti nella “terra dei tulipani”, segno evidente dell’influenza coloniale dei secoli scorsi; ed il ristorante in cui ceneremo questa sera non fa che ribadire il concetto a partire già dal nome di netta derivazione olandese: “de Vagebond”, il vagabondo.
Prima della pappa, però, ci rilassiamo un po’ nell’hotel che questa sera ci ospita; in realtà non si tratta di un hotel vero e proprio ma di una estate, un gruppo di stanze dislocate in un ampio parco verde con tanto di jacuzzi all’aperto sotto un gazebo, laghetto con ninfee e pesci e piscina! Ad accoglierci all’ingresso arriva il proprietario, scortato da due cagnoni fulvi che cominciano a farci le feste, e ci conduce alla nostra stanza: un open space con un’intera parete costituita da un’enorme vetrata, ed un muro a dividere il letto matrimoniale posto al centro della camera dal bagno; il tutto è arredato con semplicità e classe utilizzando legno ed acciaio, pietra e vetro mentre le pareti sono dipinte di un rosso intenso (verremo poi a sapere dal proprietario che la nostra è la “room fire” da cui il colore).
16 giugno
Siamo rimasti affascinanti dalla moderna-bellezza del Bloom Estate e a malincuore, dopo la colazione cucinata direttamente dal proprietario aiutato da due cuoche, lasciamo Swellendam per la meta di oggi: Hermanus, cittadina a pochi chilometri ormai da Cape Town e ormai conosciuta come la capitale mondiale del whale-watching, l’avvistamento delle balene!
Per tutta la giornata il nostro motto sarà “where is the whale?”, dov’è la balena?, in quanto abbiamo intenzione di cercare di vederne almeno una! E pensiamo di esserci riusciti già al primo tentativo, a Gaansbay, un piccolo paese di pescatori ancora lontano dalla nostra meta; qui, dall’alto di un punto di osservazione con tanto di cartellone che spiega come riconoscere il tipo di balena in base allo spruzzo, alle pinne o al comportamento, vediamo all’orizzonte una sagoma scura che appare e scompare aritmicamente. Eccitati per l’avvistamento saliamo di corsa in macchina ed attraversiamo il paesino per raggiungere un punto di osservazione migliore, montiamo il teleobiettivo sulla macchina fotografica, ci precipitiamo fuori dall’abitacolo e… e ci accorgiamo che la nostra balena in realtà è un gommone che sobbalza fra le onde!
Siamo delusi, ma non scoraggiati: è ancora presto e abbiamo tutto il giorno per trovare la nostra “Moby Dick”!
Scopriamo che Gaansbay è il punto di partenza di “safari marini” dedicati allo squalo bianco: battelli muniti di gabbia metallica consentono di immergersi nelle acque dell’oceano e fare la conoscenza da vicino con questi animali; non siamo così avventurosi da provare, anche se l’esperienza ci incuriosisce molto…
Ci rimettiamo al volante e, una volta attraversati Stanford (bel paesino, ma nulla di particolare da vedere) ed Hermanus (visto che ci torneremo nel pomeriggio), arriviamo a Betty’s Bay; facciamo tappa qui solo perché abbiamo letto che ci sono spiagge bellissime ed in questo periodo frequentate da surfisti e siamo molto curiosi di vedere dal vivo praticare questo sport.
Raggiungiamo la spiaggia seguendo stradine non asfaltate e scavate fra le dune di sabbia e qui, mentre pranziamo con un paio di panini, restiamo affascinanti nell’osservare i tanti ragazzi (e ragazze!) che, armati di muta e tavola, sfidano le onde dell’Atlantico fra evoluzioni spettacoli ed altrettanto pregevoli cadute! Non sembra nemmeno più di stare in Sud Africa, anzi, non ci vuole nemmeno molta immaginazione per pensare di essere su una spiaggia californiana vista in qualche film; nel tornare alla macchina, tanto per rimarcare la sensazione appena descritta, incrociamo anche un vecchio pulmino Volkswagen, di quelli anni ‘70, completamente dipinto con fantasie a colori sgargianti e stracolmo di tavole!
Ripercorriamo al contrario la strada che in mattinata ci ha portati qui e raggiungiamo la meta principale della nostra giornata: Hermanus; sbrigate le formalità di check-in nella bellissima guest house che ci ospiterà per la notte, cominciamo a cercare informazioni sull’attività principale della cittadina: il whale watching! La ragazza della reception ci dice che siamo fortunati dal momento che nella baia sono state avvistate ben 30 (!) balene e che non dovrebbe essere difficile vederle; ci informa inoltre che dal porto vecchio partono ogni ora battelli dedicati alla ricerca e all’osservazione di questi giganti del mare con un costo, però, non proprio indifferente (70€ a persona)!
Non siamo molto convinti sul da farsi; un po’ per via dei costi decisamente elevati per un’ora di “safari”, un po’ per il timore di trovarsi in mare faccia a faccia con animali di così grandi dimensioni, fatto sta che decidiamo pensare un attimo al da farsi, passeggiando nel frattempo lungo il sentiero che costeggia il mare, sulla scogliera rocciosa e, una volta trovato un buon punto di osservazione, fermarsi a scrutare l’orizzonte in cerca di un segno di vita marina.
Sembra facile vedere una balena, in fin dei conti le dimensioni aiutano di certo, ma in realtà, vederne una in mare quando non si hanno punti di riferimento, è un’impresa! Ogni ondina sembra una coda o uno spruzzo, ogni macchia scura, magari per la profondità, o un gruppo di alghe o ancora un riflesso della luce, un cetaceo; passiamo le ore del pomeriggio seduti sugli scogli, con le forti onde che si infrangono a qualche decina di metri da noi, a guardare verso il mare aperto, della baia cercando qualcosa, ma, in realtà, senza la soddisfazione di vedere nulla.
Siamo delusi, pensavamo che una su trenta si facesse vedere, invece sono già le cinque del pomeriggio, fra un po’ il sole tramonterà, e non abbiamo visto nemmeno l’ombra di una balena!
Ci tiriamo un po’ su il morale con un the caldo ed una fetta di torta mentre scorgiamo, a pochi metri da noi, un gruppo di dassies che cerca da mangiare; sono delle specie di marmotte, sia come forma che come dimensione, che liberi vanno in giro per la città spesso in circa di cibo nei cestini per la raccolta dei rifiuti. Sono innocui, e se non si dà troppo peso al metodo che usano per nutrirsi, sembrano anche simpatici; in mancanza delle balene ci accontentiamo di guardare loro arrampicarsi sui rami dei bassi alberi che costeggiano la strada ma il trucco non funziona: siamo qui per vedere le balene e dal momento che non se ne sono viste, il morale non è dei migliori.
Passeggiamo per i giardini, molto ben curati, lungo la scogliera e, ormai all’imbrunire, ci sediamo ad ascoltare un gruppo di ragazzi suonare musica afro con i loro strumenti tradizionali e… ed ecco una coda!
Sono sicuro, l’ho vista, proprio vicino a riva, una sagoma scura e una coda che usciva dall’acqua!
Prendiamo dallo zaino la videocamera e la macchina fotografica con il teleobiettivo e cerchiamo di inquadrare il punto in cui ho visto qualcosa; con lo zoom avviciniamo l’immagine e… è davvero una balena… anzi, almeno due! Ce l’abbiamo fatta, l’abbiamo trovata, proprio quando stavamo pensando di tornare in hotel a rilassarci un po’ prima della cena, siamo riusciti a scorgere la “nostra whale”! L’emozione è davvero grande, sia perché l’incontro è giunto così inaspettato, sia perché i due esemplari che osserviamo, benché siano distanti, sono davvero imponenti; fin che la luce ce lo permette restiamo ad ammirare stupiti questa enorme (in tutti i sensi!) sorpresa della natura, a scattare fotografie alla coda che sbatte fuori dall’acqua, a riprendere con la videocamera questi due animali che nuotano tranquilli, poi, finalmente soddisfatti, ci concediamo una doccia ed un po’ di relax prima della cena. Questa sera ci addormenteremo con negli occhi quella macchia scura sotto il pelo dell’acqua, quella minuscola (nonostante il teleobiettivo) coda e la soddisfazione di avercela fatta, di aver trovato Moby Dick!
17 giugno
Oggi è domenica e dedichiamo la mattinata alla Messa; aiutati dalle indicazioni della ragazza alla reception, raggiungiamo la piccola chiesta cattolica della città, completamente in legno, dove partecipiamo, in un’atmosfera davvero raccolta, alla funzione; facciamo anche amicizia con il Padre che ha celebrato la messa che ci racconta di essere stato in Italia un paio di volte per visitare Roma, la costiera amalfitana e, ovviamente, il Vaticano.
Riprendiamo il nostro viaggio in auto attraversando paesini costieri che ricordano molto le nostre cittadine turistiche balneari con tanto di spiagge attrezzate, ristoranti sul lungomare e traffico congestionato, fino ad arrivare a Simon’s Town dove parcheggiamo per fare l’incontro con… i pinguini!
La cittadina, infatti, ospita una numerosa colonia stabile di questi uccelli ed ovviamente ha trasformato questa caratteristica in business; il biglietto d’ingresso al parco consente di percorrere le passatoie di legno che portano sulle spiagge dove questi buffi animali nidificano così da poterli vedere da vicino senza disturbare o rovinare il loro habitat.
La colonia è molto numerosa e, anche se al primo sguardo non sembra, ci accorgiamo che ogni cespuglio, ogni scoglio e ogni anfratto nasconde uno o più uccelli, intenti a covare o semplicemente a riposare; quelli più attivi, invece, trotterellano per la spiaggia con la classica buffa andatura fino ad arrivare in mare dove, invece, nuotano con una grazia ed eleganza incredibili.
Percorrendo il lungo sentiero che attraversa la colonia ci accorgiamo che i nidi sono numerosissimi anche molto lontano dal mare; immaginiamo che fatica devono aver fatto a spostarsi per così tanti metri, per di più in salita, sulla terra ferma e non possiamo che sorridere al pensiero delle mille cadute che certamente avranno fatto!
Giunti alla fine del percorso, dopo esser riusciti a vedere anche un paio di cuccioli con le piume ancora grigie ed arruffate nutriti dai genitori, torniamo sui nostri passi e ci rimettiamo al volante per raggiungere uno dei luoghi più noti e turistici dell’intera nazione: il Capo di Buona Speranza.
A torto spesso considerato il punto estremo del continente africano, il Cape of Good Hope è un parco il cui accesso è concesso solo dietro il pagamento di un biglietto di ingresso; qui il vento spira fortissimo per tutto il giorno ed il tempo cambia da un momento all’altro (ce ne accorgeremo anche poi!): sta cominciando a piovere ed è forse anche per questo che la fila d’auto che attende all’ingresso non è molto lunga.
Decidiamo di visitare, prima del resto, Cape Point, il faro posto sull’alto promontorio che domina la Penisola del Capo; per raggiungerlo paghiamo il biglietto di utilizzo della cremagliera che in pochi minuti ci porta ai piedi della costruzione. Il vento qui la fa da padrone e solo stare in equilibrio in piedi, fermi, è un’impresa! Saliamo con una certa fatica i numerosi scalini che portano alla balconata del faro e qui restiamo affascinati dal panorama che si può ammirare: le nuvole cariche di pioggia corrono a velocità altissime spinte dal vento, le onde si infrangono rumorosamente sulla costa e sugli scogli sommersi poco al largo, la sabbia si alza dalla piccola spiaggia dietro al Capo di Buona Speranza e la luce del sole disegna ombre e riflessi continuamente diversi. La natura qui ha una forza che non abbiamo mai visto ed è impossibile non rimanere a bocca aperta davanti ad uno spettacolo del genere!
Dopo le fotografie di rito scendiamo, visitiamo i negozietti di souvenir e decidiamo di mangiare qualche cosa di caldo al ristorante e ne restiamo stupiti: non solo i piatti sono buoni e gustosi, ma spendiamo poco più di un caffè in Piazza San Marco a Venezia…
Quando usciamo piove ma non rinunciamo di certo a visitare il Cape of Good Hope; ci arriviamo in macchina in qualche minuto; non ci aspettavamo nulla di particolare, il bello non è “quello che c’è” quanto “l’esserci”, ed è proprio quello che troviamo: un cartello in legno con, in caratteri cubitali gialli, il nome e le coordinate del posto, in pratica un invito alla classica foto ricordo!
Una sorpresa, invece, sono gli abitanti del Capo: non appena apriamo la portiera ci accorgiamo che il suolo è disseminato da una miriade di piccoli animaletti grigio chiari. In un primo momento Vicky ne è preoccupata pensando che siano pulci, ma guardando meglio si accorge che sono gamberetti: piccolissimi, di un grigio piuttosto chiaro, lontani dal mare per almeno una ventina di metri, ma senza dubbio gamberetti!
Non possiamo restare per molto, la pioggia è diventata davvero battente e non ci consente di passeggiare per i tanti sentieri del Capo come vorremmo; se non possiamo farlo a piedi, però, perché non farlo in auto? Ovviamente non possiamo seguire in macchina i viottoli del parco, ma, una volta usciti, decidiamo di seguire la strada più panoramica, anche se non la più veloce, per raggiungere la meta conclusiva della prima parte del viaggio: Cape Town!
La scelta è decisamente azzeccata dal momento che, nonostante la pioggia e le nuvole, la strada che scegliamo è davvero mozzafiato: si arrampica sul Chapman’s Peak, passando fra la roccia scoscesa del monte e lo strapiombo su un mare scuro e rombante, fra gallerie e passaggi dove due macchine affiancate fanno molta fatica a transitare; gli scorci che si riescono ad ammirare fra le curve e le rocce sono fantastici, e, fermi ad una piazzola per goderci il panorama, scorgiamo a qualche metro da noi un’aquila che, curiosa, ci osserva a lungo prima di volare via! Abbiamo dovuto pagare un pedaggio per utilizzare questo tratto di strada, il primo da quando siamo in Sud Africa, ma ne è valsa proprio la pena!
Città del Capo si presenta a noi come una cittadina della Costa Azzurra: la raggiungiamo seguendo la costa e la strada è da un lato lambita dalle alte onde del mare, protetta solo da una massicciata in cemento, dall’altro coperta di case che si arrampicano sui pendii dei monti retrostanti; il paragone è forse un po’ azzardato, lo sappiamo, ma l’impressione che ci dà questo quartiere della città è davvero quella di “un qualsiasi posto fra Liguria e Francia”.
Il navigatore ci porta verso l’hotel in cui alloggeremo questa notte e benché attraversiamo quasi l’intera città, non riusciamo a capire bene come in realtà sia… e non riusciremo a capirlo se non dopo un paio di giorni: l’anima vera di Cape Town si scopre poco a poco e l’impressione iniziale è spesso fuorviante!
A cena siamo sul Waterfront, il centro turistico e commerciale della città, susseguirsi di negozi e locali all’interno di una bella struttura di vetro sul porto vecchio di Città del Capo; leggiamo i menu ed i prezzi affissi fuori da ogni ristorante per decidere dove fermarci, ma alla fine decide qualcun altro per noi: il proprietario del locale di cui stiamo osservando il menù ci sente discutere ed esce a chiamarci! È italiano, romano dall’accento, ex console stabilitosi poi qui permanentemente ed ora gestisce la steak house in cui ceniamo.
Torniamo in hotel con la strana sensazione che oggi sia finita la prima parte del nostro viaggio, quella avventurosa, quella veramente da soli, quella forse un po’ più libera e meno “solita”: erano giorni che non sentivamo una parola in italiano, che a sera ci capitava di parlare in inglese anche fra di noi, qui, invece, in hotel ci sono quasi solo coppie italiane, in giro per la strada si sente parlare italiano, addirittura il proprietario del ristorante è “di casa”… e forse è questo sentirci un po’ troppo a casa quando si vorrebbe essere lontani, soli, gli unici…
Per fortuna, a terminare oggi, è solo la PRIMA parte del nostro viaggio!Ok, lo ammettiamo, con la qualità degli hotel ci siamo un po’ coccolati durante la nostra permanenza in Sud Africa… ma se non lo si fa in viaggio di nozze quando?!
Abbiamo lasciato la scelta delle sistemazioni all’agenzia, fidandoci del buon gusto del Tour Operator al quale si appoggiano per il Sud Africa e ne siamo stati entusiasti fin dalla brochure! Al posto dei “soliti” hotel ci hanno proposto (e noi abbiamo di buon grado accettato!) permanenze in piccoli hotel molto più curati o in caratteristiche guest house, in moderne e raffinate “estate” o in game lodge esclusivi.
Il risultato è stato un susseguirsi di camere sempre diverse l’una dall’altra ma tutte con quel tocco di eleganza e familiarità che difficilmente si trova sempre e che non ti lascia certamente indifferente!
Unica nota negativa (fra l’altro confermata da una coppia di amici conosciuta poi che ha pernottato nella stessa struttura) un hotel, l’Airport Grand, scelto solo come appoggio per una notte in transito a Johannesburg fra un volo e l’altro, che oltre a non essere all’altezza di tutti gli altri, ha offerto un servizio di pulizia decisamente scarso.Non siamo dei buongustai, quindi chi cerca informazioni dettagliate sulla cucina sudafricana non sarà molto soddisfatto della nostra esperienza, anzi, ammettiamo che un paio di volte, vinti dalla nostalgia di pasta e pizza, siamo caduti nella tentazione del ristorante italiano…
Andiamo con ordine, però, partendo dalla colazione che, altro retaggio storico, rispecchia la trazione anglosassone: uova, pancetta, succhi, the e caffè, marmellate, toast, formaggi e salumi, fagioli e funghi si sono spesso sostituiti al cappuccio e brioches, un po’ per curiosità, un po’ perché davvero buoni, un po’ anche perché in questo modo non avevamo il problema di cercare un locale per il pranzo dal momento che il pasto frugale del mattino ci lasciava sazi fino al pomeriggio!
Molto spesso, quindi, per il pranzo c’è bastato un panino o poco altro, a volte addirittura riciclato dal meal-box fornito su uno dei molti voli interni di spostamento oppure farcito da noi acquistando il necessario in un negozio di alimentari per la strada.
Per quanto possibile, per cena, abbiamo provato piatti locali a volte andando anche tentare qualcosa di tipico, senza mai avere il coraggio di assaggiare tutto, restando sempre sulle cose più o meno note, ma non volendo per forza trovare i nostri casalinghi sapori.
A farla da padrone durante il viaggio è stato senza dubbio il pesce: oltre a essere buonissimo, è anche molto più economico che da noi!
Anche la carne, però, non sfigura. Le steak house sono molto numerose ed offrono bistecche dalle dimensioni anche ragguardevoli a prezzi piuttosto ridotti; se sul pesce, però, “si va sul sicuro”, l’avventura per la carne è un po’ maggiore! Non fraintendeteci, non si rischia nulla in quanto ad igiene o salute, semplicemente bisogna essere un po’ più disposti a provare sapori nuovi e per noi inusuali; accanto a manzo e struzzo (che da noi comincia ad essere apprezzato), infatti, si possono trovare bistecche di springbok (la piccola gazzella simbolo del Sud Africa), kudù, antilope ed impala o gnù: carni gustose e saporite ma certamente insolite per i nostri palati!
Unica vera digressione sull’etnico è stato il bobotie: un piatto unico piuttosto sostanzioso a base di verdure, carne stufata e macinata grossolanamente, riso speziato e uova, banane e frutta secca; gustoso, dal sapore un po’ intenso e sorprendentemente, nonostante le spezie, piuttosto dolce!
Non abbiamo invece avuto coraggio di assaggiare il biltong, la tipica striscia di carne secca, venduta un po’ ovunque, ma dall’aspetto (per noi) non molto invitante…
Da assaggiare, anche per chi come noi non è molto avvezzo a farlo, il vino: il Sud Africa è uno dei maggiori e più quotati produttori e vanta centinaia di etichette abbracciando ogni tipologia di vino.
Abbiamo avuto modo di assaggiare più di una bottiglia e dobbiamo dire, dal “basso della nostra esperienza enologica” che molte erano davvero buone!Retaggio del periodo coloniale inglese è la guida a sinistra; devo ammettere che la cosa mi preoccupava parecchio prima della partenza. Non avendo mai avuto esperienze di “guida contromano” immaginavo fosse molto complesso abituarsi a fare tutto al contrario di come si è abituati… e invece il tutto è piuttosto spontaneo e semplice. La posizione di guida è a destra mentre il cambio è a sinistra e sono invertite anche le leve per tergicristalli e frecce direzionali, ma una volta capito come funziona il tutto, si va tranquilli; certo, non mancano i dubbi e gli errori dati dalla consuetudine: ci siamo trovati mille volte a far partire i tergicristalli quando in realtà volevamo mettere la freccia o a guidare sul lato destro della strada quando, su vie secondarie e completamente senza traffico, ci si dimentica di dove si è!
Altro discorso invece per la precedenza: per non sbagliare abbiamo sempre fatto passare chiunque, che provenisse da destra o da sinistra!
Il concetto di strada sudafricana ricorda molto quello di tanti cartoni animati: si prende un gigantesco “rotolone di strada”, completa di asfalto, righe e guard rail, e lo si srotola senza curarsi troppo di dove si passa. Il risultato è semplicemente un susseguirsi di lunghissimi rettilinei che seguono i pendii, non sempre con leggere pendenze, di colline e dossi! La strada diventa quindi un continuo sali-scendi che, con auto non certo potenti come quella noleggiata da noi, non sempre sono “passeggiate”!
Soprattutto sulla Garden Route le strade sono ottime, ben tenute, larghe e scorrevoli; i controlli di polizia con autovelox sono frequenti quasi quanto i cantieri per lavori in corso e si deve quindi prestare parecchia attenzione mentre si è al volante, ma non vi sono, in generale, problemi particolari, anzi, in certi tratti la viabilità è migliore che da noi!
Abbiamo effettuato gli spostamenti maggiori da una città all’altra utilizzando l’autostrada N2, completamente gratuita come del resto quasi tutte le strade del paese.
Per quanto riguarda il Parco Kruger, invece, le cose sono molto diverse. Noi siamo stati accompagnati in fuoristrada fino al Game Resort dove eravamo ospitati, ma amici hanno avuto il coraggio di raggiungere il luogo guidando; è davvero una bella impresa!
Qui le strade lasciano il posto a piste di terra battuta in mezzo al nulla, senza assistenza, senza paesi, senza benzinai se si rimane senza benzina o meccanici in caso di problemi e soprattutto senza segnaletica se non qualche cartello scritto a mano su un pezzo di legno o di corteggia ed appoggiato per terra in prossimità degli incroci principali; e se questo non bastasse, si pensi che le stesse polverose stradine in mezzo alla savana sono usate dai ranger durante i safari: non è quindi molto raro avvistare un elefante, una gazzella o un leone!
Bellssimo il racconto e molto suggestive le foto! Solo una domanda...vorrei andare a fare un viaggio simile in Agosto, è ok come periodo?...e poi..ho il terrore dei ragni...ce ne sono? In due, con poco inglese e fattibile? Grazie mille, Mara