Il romanesco

Non si può andare a Roma e non sapere la … lingua!

La realtà contemporanea, il ricordo del passato, il costume e le tradizioni di sempre, si riflettono nel romano anche attraverso il modo di parlare.
Si, perché a Roma, malgrado i timori e gli allarmi si continua a parlare in dialetto, una "lingua trasversale" che viene correntemente parlata, a volte "esibita" in tutti gli strati sociali.
Un testo ormai classico risulta essere una incompiuta "Cronica", composta da un ignoto nel Trecento, in una lingua volgare con forti inflessioni dialettali romane, nella quale risulta pure inserita una parte fondamentale della vita di Cola di Rienzo.
Un altro illustre esempio potrebbe essere "la striscia" di un autentico fumetto affrescato su una parete della basilica inferiore di S.Clemente (XI-XII sec.), accompagnata da poche battute: quattro uomini si affaccendano intorno al trasporto di una colonna e si lanciano tra loro delle frasi, alcune delle quali abbastanza ardite, dalle quali risultano ben chiare le inflessioni "romanesche".
Sul volgare romano avevano già espresso giudizi negativi Dante Alighieri e Cecco Angiolieri. Le infiltrazioni di altre tradizioni linguistiche hanno fatto il resto e le condizioni politiche non hanno permesso, a loro volta, che la "Cronica" venisse a costituire il luminoso punto di partenza per un costante sviluppo del vernacolo romano.
Più tardi, nel teatro e negli spettacoli il romano avrebbe tuttavia fatto egualmente la sua timida comparsa, sottolineando un lungo itinerario scenico che in un certo modo avrebbe visto al termine opposto la voce ed il gesto di Ettore Petrolini..mentre veniva formandosi il giudaico-romanesco, che nel chiuso del Ghetto sarebbe riuscito a tramandare quasi dal vivo anche l'arcaica parlata romana.
Tra Sei e Settecento si ha la decisiva mossa evolutiva: cadono alcuni vocaboli che il dialetto si trascinava dietro da un remoto passato e se ne adottano ed assimilano degli altri, ossia, nascono i francesismi (gli "stranierismi").
Nasce in dialetto il poema eroi-comico di Giuseppe Berberi, intitolato "Il Meo Patacca" del 1695, preceduto da "Il Maggio romanesco" di Giovanni Camillo Peresio, definito il poema epico-giocoso nel linguaggio del volgo di Roma (1688). Alcuni decenni più tardi, Benedetto Micheli potrà già piegare quel vernacolo al rigore del sonetto, portandolo spesso in aure romantiche.
Infine, l'apparizione del Belli: con Giuseppe Gioacchino Belli il romanesco si fa strumento espressivo che sta alla pari con qualsiasi altra lingua e letteratura. Una grande esaltazione ed applicazione, la sua, che lo porterà alla creazione di ben 2279 sonetti in dialetto, senza contare le molte altre poesie in lingua. Poi verrà Cesare Pascarella e successivamente anche Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Palustri). Fra loro e con loro, altri romaneschi minori, compreso Augusto Sindici, autore tra l'altro di alcune "Leggende della Campagna romana", che ebbero l'onore di avere una prefazione dannunziana.
Non possiamo certo dimenticare Crescenzo Del Monte, autore di vari "Sonetti giudaico-romaneschi", poiché riferiti a una parlata, sempre del Ghetto, da lui fatta risalire ai tempi del Bellori. Aggiungiamo anche Mario Dell'Arco, la cui opera seguirà maggiormente le vicende della nostra letteratura in lingua, pur continuando a poetare in un personale, raffinato romanesco.
Con la poesia viene fuori pure lo "stornello" romanesco, ossia la canzone romanesca, che a fine Ottocento ebbe la sua palestra durante la festa di S. Giovanni. Quei versi apparivano pure su speciali fogli dialettali, prima fra tutti il "Rugantino", fondato nel 1887 da Gigi Zanazzo e ancor oggi sulla breccia.
Un tempo anche i quotidiani accoglievano le poesie dei romaneschi, mentre da qualche anno quell'ospitalità è purtroppo venuta meno.
Ci vorrebbero, dunque, nuove palestre e nuovi spazi disponibili sulla stampa periodica per questa lingua immediata, viva e sempre piacevole e convincente,anche perché il romanesco è un po' la lingua della città. Gran parte della gente lo parla, soprattutto i giovani.
Esso è sempre naturale e spontaneo: con tutte le sue qualità, i suoi difetti e la frequente irruenza.
Un dialetto capace ancora di straordinari richiami, come è avvenuto fino a qualche anno fa nel cinema, nella letteratura e nello spettacolo in genere.
Di seguito riportiamo due sonetti di Giuseppe Gioachino Belli e due composizioni di Trilussa ... buona traduzione!!!

"ER GIORNO DER GIUDDIZZIO" (Belli)

Quattro angioloni cole tromme in bocca
se metteranno uno pe cantone
a sonà: poi co tanto de vocione
cominceranno a dí: " Fora a chi tocca".

Allora vierà su una filastrocca
de schertri da la terra a pecorone,
pe ripijà figura de perzone,
come purcini attorno de la biocca.

E sta biocca saà Dio benedetto,
che ne farà du' parte, bianca e nera:
una pe annà in cantina, una sur tetto.

All'urtimo uscirà 'na sonajera
d'angioli, e, come si s'annassi a letto
smorzeranno li lumi, e bona sera.

"LE DONNE DE QUI" (Belli)

Nun ce so donne de gnisun paese
che pòzzino stà appetto a le romane
ner confessare tante vorte ar mese
e in ner potesse dí bone cristiane.

Averanno er su' schizzo de puttane,
spianteranno er marito co le spese;
ma a divozione poi, corpo d'un cane,
le vedrai 'gnisempre pe le chiese.

Ar monno che je danno? la carnaccia
ch'è un saccaccio de vermini; ma er core
tutto alla Chiesa, e je dico in faccia.

E pe la santa Casa der Signore
è tanta la passione e la smaniaccia,
che ce vanno pe fà sino a l'amore.

ROMANITA'(Trilussa)

Un giorno una Signora forastiera,
passanno còr marito
sotto l' arco de Tito,
vidde una Gatta nera
spaparacchiata fra l' antichità.

-Micia che fai?- je chiese: e je buttò;
un pezzettino de biscotto ingrese;
ma la Gatta, scocciata, nu' lo prese:
e manco l' odorò.
Anzi la guardò male
e disse con un' aria strafottente:
Grazzie, madama, nun me serve gnente:
io nun magno che trippa nazzionale!

L'INGIUSTIZZIE DER MONNO (Trilussa)

Quanno che senti di' "cleptomania"
è segno ch'è un signore ch'ha rubbato:
er ladro ricco è sempre un ammalato
e er furto che commette è una pazzia.

Ma se domani è un povero affamato
che rubba una pagnotta e scappa via
pe' lui nun c'è nessuna malatia
che j'impedisca d'esse condannato!

Così va er monno! L'antra settimana
che Teta se n'agnede cor sartore
tutta la gente disse: - E' una puttana. -
Ma la duchessa, che scappò in America
cor cammeriere de l'ambasciatore,
-Povera donna! - dissero - E' un'isterica!...

FELICITA'

C'è un'ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va... Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa.

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