Le ombre create dagli alberi, lungo il viale che taglia in due la cittadina di Axum, si sono già allungate creando giochi geometrici sulle piastrelle dei larghi marciapiedi che corrono paralleli alla strada. Tra un po’ il sole tramonterà e in questo angolo di mondo a pochi chilometri dal confine eritreo, la vita lentamente andrà a dormire.
Passeggio senza una meta precisa, curiosando tra i dettagli della quotidianità di questa importante città, culla dell’antica civiltà axumita. Osservo le scritte in carattere amharico che sono state dipinte con grande cura sulle facciate dei negozi. I colori utilizzati per attirare l’attenzione di potenziali clienti sono vivaci e contrastanti. Scritte dipinte in rosso campeggiano su fondi verdi o viola, creando un forte impatto visivo.
Durante gli ultimi attimi di luce che il sole mi regala, mi colpisce un cartellone isolato tenuto in piedi da due bastoni di legno. Nulla a che vedere con lo stile quasi kitsch, usato in buona parte della città per richiamare le attenzioni più varie. I colori sono sobri, un azzurro tenue e un bianco ormai ingiallito dai gas di scarico delle poche auto che circolano da queste parti. Deve essere parecchio tempo che nessuno mette mano a questa insegna, la ruggine ha intaccato buona parte della superficie e le poche parole sono quasi illeggibili.
“SOS Enfant Ethiopian”, poi c’è una freccia che ti invita a seguire una strada sterrata e la distanza da percorrere per arrivare a destinazione: 200 metri.
Mi avvio nella direzione indicata dalla freccia quasi per istinto, o forse per la mia innata curiosità.
Dopo una breve camminata, facendomi largo tra qualche ragazzino in cerca di birr e penne biro, mi ritrovo davanti a un cancello in ferro. E’ socchiuso ma, attraverso la fessura, riesco a scorgere un cortile ben ordinato.
All’interno intravedo qualche movimento. Mi faccio notare e mi presento all’unica persona che parla un poco di inglese. E’ la baby sitter di turno, una ragazza sui vent’anni che, da volontaria, si occupa dei bambini orfani più piccoli ospiti della struttura.
Chiedo se è possibile parlare con il responsabile. All’improvviso un ragazzino si allontana e dopo una decina di minuti vedo arrivare di buon passo un anziano signore che si presenta col nome di Tekle Waldelassie. E’ il social worker, o meglio, l’angelo dei bambini orfani di Axum.
Il Signor Tekle, oltre ad aver fondato la sede locale dell’orfanotrofio, che fa riferimento all’associazione per la tutela dei bambini abbandonati “SOS Enfant Ethiopian” di Addis Ababa, si occupa personalmente della cura e dell’approvvigionamento del minimo indispensabile, per rendere la vita dei piccoli ospiti il meno disagiata possibile e per ridare dignità ai più sfortunati.
Tekle è orgoglioso di poter parlare dei propri bambini ad uno straniero. Gesticolando mi racconta come trascorrono le giornate: i giochi nel cortile in compagnia della maestra, le visite di un medico locale per assicurare la salute dei bambini. Poi ci sono i nuovi vestitini che vengono donati e che, grazie all’aiuto di alcune sarte dei villaggi, vengono adattati alle taglie dei bambini.
Mentre l’intervista continua, Tekle mi accompagna nel piccolo dormitorio mostrandomi la culla per i neonati e i lettini dove dormono i più grandicelli. Poi, sempre chiacchierando, mi mostra la sala refettorio che all’occorrenza diventa anche la sala TV dove, grazie a un vecchio videoregistratore, i bambini possono vedere i cartoni animati e Harry Potter. Tekle, mi dice anche che oggi gli ospiti sono solo cinque ma, all’occorrenza, la struttura ne può ospitare fino a otto.
I cinque bambini attualmente ospiti dell’orfanotrofio, Abeba, Letemariam, Girmanesh e i due fratellini Abadit e Samson, stanno ancora giocando nel cortile con una grossa palla gonfiabile. Sono piuttosto silenziosi e fin troppo pacati. Sembrano quasi privati della gioia di essere bambini.
Oggi per loro è l’ultimo giorno qui ad Axum. Domani mattina verranno accompagnati in aeroporto e con un volo aereo della compagnia di bandiera etiope saranno trasferiti nella sede centrale SOS Enfant Ethiopian di Addis Ababa, dove nuovi social worker e alcuni psicologi si occuperanno di loro per un altro mese, in attesa di essere adottati da qualche famiglia francese o americana.
La piacevole chiacchierata con Tekle è quasi finita. La baby sitter mi invita nella sala refettorio dove i bambini, con occhi sgranati, sono intenti a guardare un vecchio cartone animato di Godzilla.
Mi siedo su uno sgabello e osservo il gruppo dei bambini.
L’aria che si respira è molto famigliare, i piccoli sono sereni: un paio stanno mangiando un pezzo di pane, altri sono distratti dalle peripezie del protagonista del cartoon, altri ancora si voltano a guardarmi con la curiosità che caratterizza i bambini.
Non sanno che da domani avranno un nuovo angelo custode, non sanno ancora che la palla colorata con cui hanno giocato fino a pochi minuti fa verrà sgonfiata in attesa di altri bambini sfortunati.
Quando mi alzo per andarmene, i bambini mi salutano muovendo le manine, mostrandomi i loro palmi bianchi e accendendo i loro sorrisi. Tekle invece, mi stringe la mano con energia e mi prega, per quanto possibile, di parlare dei suoi piccoli angeli.
Ababa, Abadit, Samson, Latemariam e Girmanesh domani inizieranno una nuova vita. Forse non vedranno mai più il loro piccolo villaggio, forse nessuno mai racconterà a loro che un giorno, in una piccola città del nord dell’Etiopia, c’era un “angelo nero” di nome Tekle che accoglieva i bambini abbandonati e si occupava di loro vestendoli, dandogli da mangiare e facendoli giocare.
Prima di rientrare in albergo mi fermo a rileggere il cartellone bianco-azzurro intaccato dalla ruggine: SOS Enfant Ethiopian... “solo” 200 metri.
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I bambini di Tekle
Un piccolo quadro di quotidianità da un angolo dell’Etiopia: da leggere e meditare
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