Ci siamo: da anni si parla di questo famoso G8 e ormai mancano pochi giorni al grande evento planetario. Detto che penso tutto il male possibile dell'avvenimento, dello spiegamento di forze che gravita all'intorno e delle limitazioni alla libertà dei Genovesi che ne deriveranno (ma è solo un'opinione mia ampiamente confutabile), chiudo immediatamente l'argomento.
Mi sorge invece spontaneo fare una stravagante considerazione (molti mi avranno già classificato come persona stravagante, quindi un altro punto a favore): per alcuni giorni le scarpe di capi di governo, segretari, portavoce, tirapiedi, giornalisti, guardie del corpo, diplomatici, calcheranno il suolo della mia città, posandosi su secoli di storia della quale non sanno assolutamente nulla. Ve l'immaginate, prendere sottobraccio Giorgio Doppiavù Bush e dirgli che là c'era il vecchio tracciato della Via Giulia, che lì una volta c'era il Ponte Reale, abbattuto per i lavori della Sopraelevata, che quello è il Palazzo della Commenda, dove si radunavano i Crociati in partenza per la Terrasanta, che sotto la splendida Chiesa di Santo Stefano sorgeva in epoca romana un tempio pagano?
A Giorgio Doppiavù Bush non farebbe né caldo né freddo. A me invece rode, per esempio, che non esista più Via Madre di Dio. A metà degli anni Settanta i progetti dell'amministrazione comunale e il fervore dei cantieri sulle sue macerie contemplavano un polo commerciale e direzionale efficiente, soluzioni urbanistiche all'avanguardia, la città proiettata nel futuro, ecc. ecc. Oggi dove c'era il vecchio quartiere gli illuminati propositi sono concretizzati in tetri grattacieli marroni: intorno a uno spazio eloquentemente ribattezzato "I giardini di plastica" quegli alveari squadrati delimitano ora una terra di nessuno che dopo la chiusura di uffici e negozi la gente perbene si guarda dal frequentare.
Eppure, se c'era in città una comunità di brava gente era proprio quella che gravitava attorno a Via Madre di Dio, rimasta fuori dai traffici della piccola malavita che poco alla volta si era installata nei vicoli del centro storico.
Mi aggiro con rammarico in spazi moderni, nel frattempo anch'essi invecchiati, che non ho mai sentito miei. Più o meno sotto quel self-service intuisco che dovessero esserci i lavatoi e provo il desiderio struggente di sentire ancora lo schiocco dei panni sbattuti con vigore dalle massaie sulle piastre di ardesia; altri schiocchi, quelli delle trottole che i "battusi" (i monelli dei rioni popolari) tiravano con maestria le une contro le altre, potrei sentirli se dieci metri sotto questa agenzia di viaggi ci fosse ancora la piazzetta dove un giorno si misero in posa per essere immortalati sullo sfondo delle lenzuola stese in una cartolina virata in seppia.
Ora respirerei perfino con piacere, in barba alle mie allergie, la polvere sollevata dai materassai che lavoravano all'aperto e che la gente credeva ricchi per una manciata di lana sottratta a ciascun materasso. E come vorrei, invece che nel negozio dove ho comprato i miei scarponi da montagna supertecnici (e supercari!), poter entrare ancora nella bottega fuligginosa del calzolaio che ci vendeva per poche lire un paio di anfibi militari rimessi a nuovo che spellavano i piedi in dieci minuti!
Non esiste più nemmeno il casino di Vico della Lepre (potrà fregarne qualcosa a Putin?). In realtà nessun casino esiste più, lo so, ma quello è particolarmente rimpianto perché si dice fosse uno dei più rinomati. L'iscrizione sopra il portone "Quodcumque boni egeris, ad Deum referto" (Quanto avrai fatto di buono riferiscilo a Dio), mi suscita ogni volta un sorriso per l'accostamento involontario tra quel monito e un luogo di piacere. Il vecchio proposito di tracciare un itinerario che vorrei intitolare "Genova a tre metri da terra" dovrò prima o poi tirarlo fuori dal cassetto delle cose da fare e sfidando le cacche dei cani alzo gli occhi per passare in rassegna bassorilievi di San Giorgio che combatte il drago e dell'adorazione dei magi, iscrizioni a ricordo di avvenimenti storici, edicole di ingenui soggetti religiosi, curiosi decreti ottocenteschi o lapidi con motti latini.
Una genovesissima tramontana ce la mette tutta per farmi desistere, ma mi conficco sempre di più nel colletto rialzato e proseguo nel mio inventario. Bisogna fare presto: chissà, la prossima volta che passerò qui qualche decreto bislacco potrebbe avere coperto le tracce di quegli artisti oscuri.
In un vicolo prospettano porticine socchiuse allineate l'una all'altra: nei piccoli vani tutti uguali le prostitute stanno rannicchiate su poltrone di vimini mentre una radiolina gracchiante diffonde la voce dell'ultimo rapper mescolata a deodorante dozzinale. Taciturne, non azzardano con i rari passanti che svogliati tentativi di adescamento; ma che bagasce sono, mi chiedo, queste sembrano rassegnate all'estinzione come il falco pellegrino e l'orso marsicano.
Beato il tempo in cui sulla soglia di una di queste porte incombeva quel monumentale puttanone ossigenato con due tette di dimensioni così smisurate da potercene agevolmente ricavare sei normali; almeno aveva per tutti, clienti e passanti, una battuta che ti conciliava con la vita, e rimpiango di non avere passato una mezz'ora della mia adolescenza sprofondato nelle dune di quella polpa candida, imparando una lezione che nessun testo di liceo può dare.
Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli
in quell'aria spessa, carica di sale, gonfia di odori,
lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano,
quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano.
Così canticchio imitando indegnamente il grande Fabrizio, costretto a lasciarci per sempre senza avere avuto il tempo di godere albe e tramonti meravigliosi su quei moli a lui tanto cari, affacciato alle finestre della casa che aveva fortemente voluto per passare il resto della vita nella riconvertita area delle vecchie darsene. Cosa dite, a Tony Blair ne importerà qualcosa?
Ma coraggio, non disperate: non ci sono solo i grattacieli marroni e i giardini di plastica. A pochi minuti da quegli obbrobri il passante attento può ancora godere una Genova che sa rivelare, sia pure a prezzo di capillari esplorazioni del centro storico, insospettate meraviglie.
Questo per quanto concerne il turista, viaggiatore o visitatore che dir si voglia. Per noi, non più giovanissimi, che conosciamo la città e le delegazioni in cui siamo cresciuti spesso significa anche individuare un luogo non solo per un'attrattiva architettonica o paesaggistica ma per la collocazione di uno dei tanti personaggi "non eminenti" che con la somma delle loro storie hanno fatto quella Storia che, pur non essendo quella dei libri, ne è di gran lunga più pregnante.
Se esistesse la macchina del tempo, mi piacerebbe trasferirmi nel 1451. Anno reso famoso dalla nascita di Colombo, è però anche quello che vide il grande fervore artistico che produsse la sontuosa decorazione della Loggia dell'Annunciazione di Santa Maria di Castello, straordinario complesso religioso che ho scoperto da poco e al quale dedico frequenti visite, ripagate da continue rivelazioni. Lì Justus von Ravensburg, noto in Italia come Giusto d'Alemagna, aveva ormai portato a termine le parti salienti dell'affresco dell'Annunciazione.
"Garzoni, finitelo voi" aveva poi incaricato, secondo la consuetudine del tempo, gli allievi della bottega. Però quelle parti del dipinto in cui non c'è la mano del Maestro, singolare sintesi di commerciante nordico e artista, sono chiaramente distinguibili per il minor respiro del tratto pittorico: le grandi superfici quali la campagna di sfondo, le ali dell'angelo, il manto della Vergine rivelano all'osservatore un po' attento una tecnica sbrigativa, l'azione di chi deve e non di chi vuole. Ma la minuzia del trompe-l'oeil architettonico, i particolari di alcuni arredi della camera di Maria e il misto di soavità, mistero e malizia che sembra pervadere il suo viso, opera del pennello di Justus, hanno tutti i crismi di una scuola fiamminga di prim'ordine.
Sarebbe trascorso oltre mezzo millennio prima della scoperta da parte mia del corpo architettonico che corona la collina di Castello, area del più antico insediamento in città.
Furono tutt'altro che afflati artistici (ero anche riuscito a farmi rimandare in Storia dell'Arte, figurarsi!) a condurmi per la prima volta nella zona, quando all'uscita delle lezioni pomeridiane venivamo a mettere in atto le prime trasgressioni adolescenziali: per quelli delle classi superiori del liceo si trattava già di andare a donne ("Sono un amico di Beppe delle poste" era la formula che schiudeva quel paradiso trasudante di lisoformio e talco da drogheria), per noi timidi studentelli del ginnasio era già motivo di vanto l'acquisto di un pacchetto di sigarette di contrabbando da dividere (lire 270, trattabili, anziché le 420 del monopolio).
La nostra venditrice prediletta era uno di quei personaggi che si rimpiangono per tutta la vita: di mezza età (forse anche due terzi), seduta sui gradini di un portone, aveva come caratteristica di rilievo (di molto rilievo!) un seno strabocchevole, concorrenziale solo a quello del puttanone ossigenato. Teneva evidentemente sotto la larga veste una serie di tasconi interni adibiti a magazzino nei quali la mano pescava sicura (sopra la mammella sinistra Marlboro, sul davanti Peter Stuyvesant, sotto la poppa destra Muratti, attorno alla vita Pall Mall, non sbagliava un colpo), ma penso ci piacesse credere che estraesse i pacchetti dagli anfratti di quelle carni porgendoceli pregni di tabacco e dell'afrore della sua intimità. Sotto sotto speravamo magari che un giorno per sbaglio ci vendesse una tetta.
La cattedrale di San Lorenzo è invece il ricordo più remoto della mia presenza genovese. Sarebbe più esatto dire il ricordo dell'oggetto, in evidenza all'interno, che meno ha a che fare con un luogo sacro, vale a dire la granata tedesca che durante la guerra sfondò il tetto e piombò sul pavimento rimanendo inesplosa. Sì, perché San Lorenzo per me, ignaro di absidi, transetti, sesti acuti, capriate, lesene, matronei e presbiteri, "era" quell'ordigno.
La visita era sempre collegata a un rituale di mio padre: sull'angolo della piazza, di giorno e di sera, d'estate e d'inverno, con il sole e con la pioggia, stazionava un figuro baffuto dalla voce gutturale che vendeva pietrine per accendini, e ho ancora vive le contrattazioni paterne per risparmiare forse dieci lire sul prezzo delle tabaccherie.
Soddisfatto per l'affare, papà mi portava poi in chiesa dove osservavo quella bomba in un misto di stupore per il fatto miracoloso di cui era riprova tangibile, sufficiente per la mia fede da catechismo coatto, e di timore per gli effetti di un possibile innesco con le pietre focaie (non mi era ben chiaro come, ma ero certo potesse succedere).
Solo dopo anni avrei appreso che il contrabbandiere era in realtà un poliziotto in borghese che piantonava la zona; dopo altri anni perse la vita, pensate un po', durante il disinnesco di un ordigno esplosivo.
Poche decine di metri più in là, ultima sosta obbligata sotto i portici di Piazza De Ferrari, all'epoca occupati dalla Italia Navigazione, dove sbavavo in contemplazione dei modelli dei grandi piroscafi che solcavano le rotte delle Americhe. Particolarmente cara a papà era la riproduzione del "Conte Grande" a bordo del quale aveva fatto il viaggio di ritorno dall'Argentina. Sfoglio tuttora con tenerezza le foto in bianco e nero della festa del passaggio dell'Equatore che lo ritraggono in costume da Nettuno, irriconoscibile sotto un soffocante mantello, con in mano un forcone di cartone dorato e la testa grondante di finte alghe in stoppa, intento a dispensare penitenze alle viaggiatrici più avvenenti.
Ma credo che bastino le dita delle mani per contare le mie presenze in città in compagnia di mio padre, che a quel tempo per noi di periferia erano già un piccolo avvenimento: si trattava in realtà di brevi sue presenze a casa tra l'una e l'altra delle lunghe trasferte di lavoro, a rendere preziose quelle passeggiate nel centro storico e imprimere indelebilmente nella mia memoria la cattedrale, la bomba, l'uomo coi baffi, le pietrine e i modellini dei transatlantici.
Più frequenti invece le puntate a Genova con mia madre, che significarono per un lungo periodo Galleria Mazzini, uno studio dentistico, un bombolone con la panna, un mendicante cieco, due bustine di figurine e la chiesa dei SS. Cosma e Damiano. Un percorso rituale quanto quello paterno.
Una sosta incantata davanti ai giocattoli in mostra alla "Fata dei Bimbi" precedeva la salita delle scale, che già nella loro fioca angustia sembravano introdurre gli orrori degli strumenti odontoiatrici allineati sul canovaccio sterile, impazienti di scavi minuziosi e spietati nel profondo delle mie carie. Unica consolazione, nella pasticceria sottostante, il premio del bombolone che mi aspettava per dar luogo a un mirabile cocktail con l'acido fenico dell'otturazione.
Tutti i successivi bomboloni della mia vita avrebbero mantenuto una punta di quel sentore di ambulatorio, amalgama di poltroncine pregne di annose secrezioni e acri medicazioni. E solo il regalo delle figurine rendeva sopportabile la visita alla chiesa dei SS. Cosma e Damiano, minuscolo tempio nei vicoli prediletto, non seppi mai perché, da mia madre. Povera mamma, sempre alla ricerca di nuove fedi: non me la sentivo di dirle che quell'edificio mi dava i brividi. Adesso che amo la storia dell'arte si ha un bel dire che è un mirabile esempio di romanico genovese, ma per il bambino che ero quella penombra rappresentava il prolungamento delle atmosfere alle quali ero sfuggito scendendo rapido le scale del dentista.
Anche quando andavo a San Lorenzo con mio padre non mi sfuggiva il bassorilievo sopra il portale con la scena truculenta dell'arrostimento del santo, rassegnato sopra la graticola circondata da alacri aguzzini intenti a fomentare il rogo con nuove fascine. Però, sarà stata la luminosità della piazza o l'estatica indifferenza trasfusa dallo scalpellino nell'espressione del martire, la scena del sacrificio non mi trasmetteva particolari fremiti.
All'ingresso della chiesa dei SS.Cosma e Damiano mi divertiva la lettura della lapide "Sepolcro dei chirurghi e dei barbitonsori". Ma il raccapriccio di quella teca in fondo alla navata sinistra! Saranno state reliquie sacre - mi dicevo - ma alla vista erano pur sempre cruenti moncherini di dita, orbite cave, chiostre cariate, sbiadite mandibole, omeri tarlati, cisposi ciuffi di capelli. Per fortuna l'occhio distolto poteva scivolare sulle preziose figurine. Sacro e profano: Sivori, Fangio e Van Looy in competizione con i santi.
Incurante delle condizioni atmosferiche quanto l'uomo delle pietrine, in piedi nel poco spazio tra due bancarelle di libri usati di Via Banchi, il cieco con la fisarmonica era l'ultima tappa dell'itinerario, pochi minuti prima di raggiungere Piazza Caricamento e il tram che ci avrebbe riportato a casa.
Mi rendo conto solo oggi che l'evoluzione del cartellino con la scritta "cieco" appeso al collo, all'epoca di legno, in seguito di metallo e infine in plastica (beh, il progresso!) scandì lungo un arco di oltre vent'anni per i passanti lo scorrere del tempo, per me dalla fanciullezza all'adolescenza fino all'età adulta.
Immutato invece lui, già vecchio quando avevo dieci anni e sempre uguale quando avevo superato i trenta. Doveva avere elaborato un adattamento perfetto al microclima di quell'unico metro quadrato nel quale viveva, suonava, cantava e ringraziava a ogni tintinnio di moneta. Immutato il gavettino in alluminio (corredo della guerra dove forse aveva perduto la vista) adibito a raccogliere gli oboli, appeso all'altrettanto immutata fisarmonica compagna delle immutate canzoni, immutato infine l'eterno impermeabile grigio di plastica con berretto pendant che coprivano il corpo imponente d'inverno e d'estate, con le nuvole e con il sole. Sempre piantato lì, come un pilone della loggia di Banchi, ad attraversare generazioni di elemosinieri e di ragazzini che inscenavano le mimiche più impietose per scoprire se il poveruomo fosse davvero cieco o facesse finta. Da bambini si è capaci di essere crudeli quanto un serial killer da film americano.
"Serviva per proteggersi dalle cacche degli uccelli, non lo avevi capito?" questa è la spiegazione che Lilly avanza sulla funzione dell'eterno impermeabile grigio-topo.
"Vuoi dire?".
"E certo! Hai presente quanti piccioni svolazzano sui cornicioni di quei palazzi?"
È successo che l'amica ci ha invitato a uno dei suoi luculliani pranzi a base di pesce ai quali non mancherei per nessun motivo e questa volta ce ne siamo inventata una delle nostre per riempire i tempi tra una portata e l'altra, che non sono poche. Ciascuno dei commensali ha il compito di raccontare di una persona del passato rimastagli impressa per qualche sua peculiarità. Una sorta di Museo delle Cere dell'Umanità Minore, ben vive nelle nostre memorie, giusto per incrementare le personali collezioni di nostalgie rinnovando sotto un'angolazione gastronomica gli schemi narrativi delle Mille e una Notte, del Decamerone o dei Racconti di Canterbury.
"Ricorderete anche il venditore di arachidi del Campo Sportivo Chiaravagna, quando andavamo alle partite della Sestrese" rievoca Pippo.
"Adesso che sei nelle "Strategie di Comunicazione" - ironizza Gigi - li hai fatti diventare arachidi, ma a quei tempi per noi erano, anche se impropriamente, pistacchi, anzi genovesissimi "pistacci". Ti sarei grato se continuassi a chiamarli così, altrimenti che razza di rievocazione è?".
"Dicevo che il venditore di pistacci (va meglio così?) del Chiaravagna, con il suo cestone coperto da un drappo a quadretti, non sbagliava un colpo. Cinquanta lire una manciata, cento lire due manciate più tre noccioline omaggio, e alla conta erano sempre tante uguali".
"E ti ricordi l'occhio storto?" interroga Gigi.
"Altro che storto, la pupilla era all'estremità dell'orbita! Era per la precisione il sinistro, dal momento che stava con la spalla destra appoggiata all'angolo superiore della gradinata, unico punto riparato dalla tramontana, e l'occhio gli si deve essere spostato sempre più verso l'esterno per tenere sotto controllo i ragazzini che cercavano di avvicinarlo alle spalle per rubargli le noccioline dal cesto.".
"Al Campo Torbella, dove giocava la Rivarolese, invece la vera istituzione era il custode, il famoso Turo" intervengo io.
"Famoso? mai sentito" commenta Lilly.
"Tu non sei di quelle parti e non hai mai bazzicato i campi di calcio, ma a Rivarolo era strafamoso, valeva parte del prezzo del biglietto. Era uno spettacolo vederlo trotterellare con l'innaffiatoio pieno di calce a tracciare sul terreno di gioco certe righe che sembravano tirate con squadra e compasso! La sua particolarità era che aveva il cosiddetto male dell'oca…".
"...cioè non sentiva il freddo" puntualizza Pippo.
"Esatto. Non so se sia una patologia codificata dai manuali di medicina, fatto sta che alle sette del mattino della domenica vedevamo Turo dal palazzo di fronte al campo spazzare le gradinate e tirare le righe in canottiera e calzoncini corti. Erano gli inverni veri, quelli ante-esperimenti nucleari, ante-buco dell'ozono, ante-Niño, delle case ancora senza termosifoni, non so se avete presente, noi gelavamo al solo vederlo da dietro le finestre appannate… Però, quando nel cinquantasei ci fu l'epidemia di asiatica per poco non ci lasciò la pelle e da allora si concesse una camicia".
"Sai chi aveva lo stesso disturbo? - rammenta Gigi - Il famoso Alfio".
"Vuoi dire il calzolaio di Piazza dei Micone a Sestri?".
"Sì, quello con il tariffario alternativo...".
"Cioè?"
"Diciamo che Alfio consentiva alle clienti in ristrettezze economiche di pagare in prestazioni sessuali".
"Senza ricevuta fiscale?".
"Anni cinquanta/sessanta, non esisteva ancora. Le quote erano proporzionate alle lavorazioni, dal paio di tacchi alla ricucitura della tomaia alla risuolatura completa, con incasso immediato nel retrobottega, dopo avere messo sulla porta il cartello "Torno subito".
"E Benelli? - propone Pippo - ve lo ricordate?".
"Era l'ambulante che vendeva lana d'acciaio al mercato - biascica Gigi succhiando una chela di scampo - proprio di fianco al negozio di Alfio".
"Abitava al piano sopra il mio, ho ancora nel naso l'odore del suo toscano quando scendeva le scale mentre io andavo a scuola".
"Faceva affari talmente grami che riusciva a mangiare giusto grazie al buon cuore di Alfio che più d'una volta divideva con lui la gavetta di pastasciutta. Vox populi, si dice anche che gli trasferisse qualche prestazione arretrata".
"Come sarebbe a dire, trasferire una prestazione?"
"Alfio aveva parecchie clienti squattrinate - precisa Gigi - e capitavano giorni in cui venissero a saldare quattro o cinque tutte insieme: non potendo incassare in immediato da tutte, segnava su un libretto. E di tanto in tanto gli dava una mano Benelli".
"Ho capito: più o meno come cambiali di natura sessuale?".
"Ma scusate, qualcuno normale non lo conosce nessuno?" - interviene Lilly sfilettando magistralmente la monumentale cernia appena sfornata.
"Eppure è tutta gente che a modo suo ha lasciato qualcosa. Il fatto stesso che li stiamo rievocando..." affermo io togliendo dal frigo un'altra bottiglia di Vermentino.
"Capirai che cosa ci possono avere lasciato Alfio, Benelli, il fisarmonicista cieco, Turo e il pistacciaio strabico!" sogghigna Gigi.
"Beh, c'è un antico proverbio africano che dice: Quando muore un vecchio, è come se bruciasse un'intera biblioteca".
"Stasera della biblioteca non può fregarmene di meno! Quello che conta è che non bruci lo stufato di moscardini!" esclama prosaico Gigi alzandosi per rimescolare il medesimo.
Stando al profumo che emana dalla casseruola, non possiamo che concordare all'unanimità. E… voi che ne dite, a Chirac ne importerà qualcosa?
That's not just the best ansewr. It's the bestest answer!
Più che un resoconto di viaggio, sembra di leggere un romanzo. Ottima la scrittura, scorrevole e avvincente la prosa. Non mi meraviglerei se l'autore fosse uno scrittore professionista. Complimenti!
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Anche a me rode e tanto che non ci sia più Via Madre di Dio poichè in quella strada ci sono nata 57 anni fa ed ho abitato lì fino all'età di 12 anni! Abitavo al civico 30/6 davanti all'Osteria di Scarsi, a 5m c'era vicino una tripperia dove al mattino mio nonno, mio zio e mio padre andavano a fare una sofisticata prima colazione alle 5 del mattino con la trippa in brodo prima di recarsi in porto a lavorare. Accanto all'osteria sfociava Salita Boccafò dove alla notte si aveva paura a passare poichè volavano i ratti pernughi [pipistrelli] e scorrazzavano dei bei toponi. Dalla finestra della cucina si ammirava il panorama dele macerie, ciòè quello che rimaneva di un cinema del quale ora non ricordo il nome e le macerie erano i giardinetti di noi bimbi di Via Madre di Dio. Passiamo ai truogoli, belli, bellissimi. Quando mia mamma mi diceva "andiamo a lavare ai truogoli" io ero felice, anche se lei lavava le lenzuola ed a me toccavano gli odiati fazzoletti! Faceva caldo dentro ai truogoli poichè le lavandaie accendevano dei grossi falò per riscaldare l'acqua ed ogni tanto ci davano un urlo a noi bambine che non facessimo scorrere troppa acqua. Andare a truogoli con mia mamma era un grosso onore, perchè mi sentivo grande. Arrotolava uno straccio per uno da mettere sulla testa per portare il catino, per Lei uno grande e per me uno più piccolo e con una mano sul fianco ed una occupata a tenere il catino ci avviavamo ai truogoli, comei sentivo importante! Vorrei ricordare ancora il circolo di "FAGIOLINO" in fondo alla Marina dove c'erano i vigili del fuoco che il giorno di Santa Barbara davano spettacolo! Tutti i pomeriggi quando il tempo non era clemente si andava da FAGIOLINO, altro che i circhi che ci sono adesso. Ero felice e sono felice perchè essendo nata in quella strada ho potuto vivere in un quartiere dove il tempo si era fermato! E ricordo il "carossezzo" delle besagnine [fruttivendole] che partiva da Via Madre di Dio per andare se non ricordo male alla Guardia). Dimenticavo: andavo alla spiaggia alla CAVA. Altro che tropici! C'era tutta la popolazione della Marina e come costume due paia di mutandine! Quando racconto qualcosa della mia infanzia in quel quartiere i miei figli credono che io parli del secolo corso. Pazienza! Ribadisco e chiudo: "Viva Via Madre di Dio". Luisita
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meraviglia per i miei occhi poter leggere qualcosa su via madre di dio.sono mesi che faccio ricerche!ho 25 anni e non l ho mai vista...tranne che in cartolina... e sentirne parlare e passare da quelli che sono i suoi resti mi porta tanta nostalgia. Chi ha scritto questo viaggio?sarei curiosa di poterlo sentire ancora parlare della vera genova.Mi chiamo viola e la mia mail è violetta_1@fastwebnet.it grazie!!!
A quanto mi sembra di capire, questo racconto è stato scritto prima del G8 di Genova, se non sbaglio 3 anni fa. L'ho trovato solo oggi cercando notizie su Genova 2004, anche se in qualche occasione avevo già visto il sito "cisonostato". E' stata proprio una piacevole lettura, la prossima volta che verremo in riviera (noi siamo della prov. di Bergamo) credo che gireremo per Genova con occhi diversi..... Ciao!!
Spogliata di tutto, cosa resta? :)