NOTA DELLO STAFF
Dopo il precedente diario di viaggio già pubblicato su Ci Sono Stato, presentiamo con piacere un'altra testimonianza di Flavio, un uomo che ha operato la scelta drastica di rinunciare agli agi dell'Occidente per eleggere come propria casa e famiglia uno dei Paesi africani meno conosciuti.
Da non perdere
Finalmente a casa, dopo un’odissea di viaggio lungo un giorno, finalmente dal freddo glaciale del nostro inverno grigio europeo, nella notte profonda siamo giunti alfine al caldo umido e afoso di Ouidah: la città che più mi ha rubato il cuore di tutto il continente africano.
Magia di Chatwin e del suo “vicerè”? non so, ma fin dalla prima volta che ho visitato questa città, ho desiderato viverci e costruirci la mia casa dove un giorno fare riposare le mie membra.
Qui nella spiritualità di questi riti voodoo, dove anche il cristianesimo è costretto ad essere nella sua migliore versione per poter evangelizzare i pagani che pagani non sono, ma che in realtà sono immersi nella religiosità fin dalla tenera età. Saranno i riti misteriosi, l’accoglienza della gente, la tranquillità della vita che scorre lenta, la spiaggia con le sue palme e noci di cocco, saranno i suoi templi voodoo sparsi un po’ dovunque, sarà la magia del tam tam e di riti ancestrali… non lo chiamo mal d’Africa, in quanto ho ormai forse più parenti qui che in Italia, quindi ragionando razionalmente, l’unica cosa in cui posso credere è forse in una mia vita precedentemente vissuta qui (forse come schiavista e come negriero, chissà), altrimenti come spiegare il fatto che solo qui trovo il mio nido, il mio heimat, my home?
Mai avrei pensato una storia d’amore in un continente tanto lontano dalla mia indole: da giovane ero in realtà più attratto dal nord: Canada, Irlanda sono stati infatti i primi viaggi in zaino e sacco a pelo, poi il volontariato e la voglia di “scoprire”, quello stato d’animo che la gente possedeva quando ritornava dal Continente nero.
L’incontro con la ragazza che sarebbe poi divenuta mia moglie, la nascita di mia figlia, il vivere in simbiosi tra Ouidah e Faenza, il Benin e l’Italia, l’Africa e l’Europa; ecco dunque la nascita della Casa-famiglia, le prime donne accolte, i primi bimbi che tornano a sorridere; bambini che finalmente giocano e studiano.
La voglia di condividere le immagini, il proprio percorso, i primi viaggi di turismo responsabile, la presunzione di poter trasmettere qualche istantanea, qualche esperienza, qualche ricordo, un’amicizia…
Qui ha inizio dunque il diario del viaggio di questo gennaio 2008.
Ouidah: il percorso che consiglio sempre io è il seguente: visita della foresta sacra, dove si ha un primo approccio con la religione voodoo, quindi visita del Tempio del Pitone, animale adorato e venerato in questa città; poi visita al Forte Portoghese e inizio della “strada degli schiavi”: qui per vivere l’atmosfera di questa cittadina non è male leggere “il vicerè di Ouidah” di Chatwin ed. Adelphi sostituendo il vero nome De Souza, e la fine di questo meticcio porto-brasiliano arricchitosi con la tratta negriera, che non è finito pazzo ma è morto nel rango che era, ovvero vicerè e patriarca di una discendenza con centinaia di figli.
Dopo, il quartiere brasiliano, chiamato così dai primi schiavi liberati in Brasile e ritornati in Africa da uomini liberi, si sosta un’attimo dove domina ancora la casa del Vicerè, nella piazza Cha-cha dove gli schiavi venivano acquistati e marchiati con il ferro ardente. Qui, in catene, facevano nove volte il giro attorno all’albero dell’oblio per dimenticare tutte le loro origini, i loro ricordi, le loro radici. Venivano condotti poi alla Casa Oscura nel quartiere Zomai, dove venivano tenuti per settimane intere, nel buio e in catene, in attesa dell’arrivo delle navi negriere. Questo aveva il duplice scopo, da una parte abituarli al buio della stiva della nave, dall’altra di creare un disorientamento fisico e psicologico nell’animo dei poveretti in catene.
Quando le navi ormeggiavano al largo, nelle sere di bassa marea il carico veniva effettuato, gli schiavi costretti ad uscire, quelli che non potevano sopportare il viaggio lungo un paio di mesi venivano uccisi, oppure gettati nella fossa comune e lasciati morire di fame, poco distante abbiamo infatti un monumento che ricorda questa vergogna. Altri nove giri attorno all’albero del “non ritorno”, in modo che l’anima potesse rimanere qui, in terra africana con i propri antenati ed è ormai il momento di arrivare alla spiaggia: nulla è cambiato da allora, se escludiamo qualche monumento: la Porta del Non ritorno, un tempio voodoo, un monumento per celebrare l’arrivo dei missionari.
In realtà, l’unico vero pericolo a questa atmosfera e ai piccoli villaggi di pescatori, sembra venire da un cartello pubblicitario che reclamizza la crazione di sei nuovi hotel turistici, una maniera forse per intercettare quel turismo frettoloso che attraversa e non si ferma a Ouidah; dall’altra forse incosciamente la fine di una epopea e la nascita del business sulla tratta negriera. Il mio consiglio è di fare presto, di venire a visitare i siti storici e religiosi, prima che il folklore e il turismo di massa coprano e nascondano la vera essenza di Ouidah.
All’arrivo in spiaggia è consigliabile dissetarsi con una buona noce di cocco, opportunatamente tagliata e servita con il machete.
Non è da scartare l’idea di un giro in piroga con un pescatore.