Africa, quella "vera"!

Nel Parco Kruger alla scoperta delle bellezze di una natura selvaggia ed incontaminata!

18 giugno
Sveglia, colazione abbondante come ogni mattina e, tanto per non perdere l’abitudine, ci rimettiamo al volante rimandando ad oggi pomeriggio la prima esplorazione della città; la nostra meta per oggi è la Wine Route, la Strada del vino, un’area poco distante da Città del Capo, dove viene prodotta la maggior parte dei vini del SudAfrica e che, stando alle guide e alle informazioni avute ieri sera durante la cena dal proprietario del locale, è una zona che offre panorami decisamente suggestivi.
Non siamo più in Africa. La sensazione è proprio questa: la strada passa fra piccoli paesi e cittadine che ricordano molto da vicino l’Europa e se non fosse per qualche zebra o antilope avvistate in qualche prato (non allo stato brado comunque) sarebbe difficile convincere chiunque di essere ancora in SudAfrica!
Fra vigneti e cantine vinicole, percorrendo suggestive strade costeggiate da meravigliosi e maestosi alberi, raggiungiamo Franschhoek, paese che nella sua semplicità racchiude il prototipo della cittadina coloniale sudafricana.
Lasciamo la macchina lungo la strada principale e ci incamminiamo lungo la main road curiosando nei tanti negozietti che vendono opere d’arte locale intagliate nel legno o scolpite nella pietra, stoffe colorate e souvenir tipici ed ovviamente l’immancabile vino; l’atmosfera è tranquilla, rilassata, passeggiamo fra case in legno e balconi liberty dai colori spesso vivaci, cercando di cogliere la semplice quotidianità di chi va a fare la spesa, di chi lavora, di chi taglia l’erba nel verdissimo giardino davanti alla chiesa, di architettura olandese, simbolo del paese.
Non c’è tanto da fare o da vedere o, meglio, non cerchiamo di fare o vedere nulla di più: la cittadina ci piace per quel senso di armonia che ci trasmette e questo ci basta per cominciare al meglio la nostra giornata!
Anche la meta successiva non si allontana troppo dalle sensazioni appena avute, ma sarà un po’ la stanchezza accumulata in questi giorni di viaggio, un po’ il fatto che le dimensioni del centro sono ben diverse, un po’ il fatto che il navigatore ci porta dove vuole lui oggi, sta di fatto che di Stellenbosch non abbiamo un grande ricordo. E pensare che è stata una delle tappe da non perdere fin dalla prima pianificazione del nostro viaggio!
Stellenbosch è un po’ il centro nevralgico di tutta la Regione dei Vini: città universitaria quindi dinamica e allo stesso tempo molto verde e giovane, città turistica grazie ai numerosi edifici storici che custodisce, ma anche città piuttosto movimentata; anche se ci mettiamo un po’ più del dovuto per raggiungerlo (il GPS, come dicevamo, fa quello che vuole oggi!), è Oom Samie se Winkel la prima nostra meta. Dietro questo strano nome afrikaans, traducibile in qualcosa come “Il negozio dello zio Sam”, si nasconde un vero e proprio “museo in vendita”; dal baccalà essiccato agli strumenti medici di cent’anni fa, dalla testa di un bufalo impagliata ai vestiti coloniali, dalle lattina di Coca Cola ai sacchi di spezie, dai giocattoli “made in China” a quelli semplici e poveri in legno. Fra gli scaffali stipati all’inverosimile con gli oggetti più disparati si può davvero trovare un pezzo d’Africa che sopravvive alla tradizione europea che domina nella città, e gli odori, pungenti e a volte anche fin troppo forti, di certi angoli del negozio riportano ad un mondo che nel vecchio continente non è mai nemmeno arrivato.
Lasciamo “Samie” e passeggiamo per le vie del centro cittadino, fra bianchissime chiese e verdi parchi, ma non ci sentiamo in armonia con questa cittadina e decidiamo di vedere quanto non possiamo proprio perdere, ma di tornare presto a Cape Town. Superati i rossi edifici che ospitano parte delle strutture universitarie locali, ammiriamo la Moederkerk, la bianchissima chiesa della città, e ci dirigiamo poi, in un’atmosfera autunnale per via delle foglie cadute dagli alberi e che colorano i bordi delle strade, verso il Village Museum, un gruppo di quattro abitazioni restaurate con cura che ospitano una riproduzione della vita domestica di trecento anni fa; mobili e suppellettili originali fanno rivivere l’epoca coloniale, anche se non è difficile vederla altrove in tutta la Wineland!
Forse un po’ stanchi per il lungo viaggio, forse non molto impressionati da paesaggi che ricordano molto la campagna a cui siamo abituati, ci rimettiamo in marcia tornando verso Cape Town; è giunta l’ora di esplorare la città… e lo facciamo con un certo scetticismo! Ormai assuefatti alle cittadine ed ai piccoli paesini, l’impatto con la grande e moderna metropoli, con i turisti e le attrazioni “finte” è piuttosto forte e ci accostiamo a Città del Capo come se fosse un dovere guardare le sue strade ed i suoi monumenti. In realtà scopriamo ben presto che avevamo completamente torto e la città, per lo meno nel centro, si rivela essere colorata ed allegra e mostra un certo fascino!
Parcheggiamo la macchina in un parcheggio multipiano nei pressi della stazione; l’atmosfera non è delle migliori, non sappiamo bene il perché e molto probabilmente è solo questione di preconcetto, ma non ci sentiamo sicuri; ci facciamo coraggio, mettiamo negli zaini le cose di valore, facciamo in modo di essere discreti nell’utilizzare macchine fotografiche e nel maneggiare soldi, e ci avventuriamo in mezzo ad un fiume di persone che cammina lungo i marciapiedi della città.
Risaliamo Adderley Street, una delle più importanti arterie del traffico cittadino e alla fine della via, oltrepassati negozi colmi di prodotti e persone, ambulanti che vendono cibi di ogni genere o cover per cellulari “Made in China”, raggiungiamo il Museo della Cultura, una costruzione che ricorda vagamente le “missioni messicane” che si vedono nei film western, e che nei secoli scorsi è stata il centro della tratta degli schiavi nel paese; il museo raccoglie reperti e documenti dell’epoca e attraverso anche esperienze video ed audio, cerca di ripercorrere decenni di storia fino a giungere alla lotta contro lo sfruttamento del lavoro schiavile riprendendo anche celebri discorsi ed immagini di Martin Luther King e di altri attivisti per i diritti della popolazione di colore in tutto il mondo. La visita, seppur breve, è decisamente interessante anche solo per il fatto di riuscire a colpire la sensibilità di ognuno e a far comprendere meglio un fenomeno che, essendo per noi lontano (cronologicamente e geograficamente), spesso non assume l’importanza che merita.
Appena oltre il Museo comincia una delle zone più belle e rilassanti della città: i Gardens, ovvero una lunga via alberata che attraversa una vasta area verde che raccoglie piante provenienti da tutto il pianeta! L’intera area è pedonale e oltre a piante e fiori permette di osservare gli imponenti e magnifici edifici governativi nonché di giocare un po’ con i numerosi scoiattoli che hanno fatto dei rami di questi alberi la loro casa; ci rilassiamo passeggiando per il viale e le piccole vie che da questo si diramano, osservando i bambini giocare con i genitori, gli anziani chiacchierare sulle panchine o dare briciole di pane agli uccelli, e nel frattempo osserviamo ammirati la bellezza di piante secolare, dal fusto gigantesco, dalle forme strane o dai fiori colorati e profumati. Il percorso che seguiamo ci riporta, in fine, al punto di ingresso dove ammiriamo la Cattedrale di St George's, costruzione goticheggiante che ricorda molto una St. Patrick Cathedral di New York in scala ridotta e da dove riprendiamo il nostro cammino nel centro della città; passiamo velocemente attraverso il mercato e, altrettanto rapidamente, osserviamo qualche negozio interessante: ormai sta facendo buio e questa rapida visita è solo per orientarsi un po’ meglio e prepararne una più approfondita domani mattina!

Doccia, qualche minuto di relax guardando un po’ di TV in hotel e poi cena su Waterfront; questa sera cediamo alla tentazione: si mangia italiano, in un locale che di italiano non ha molto se non i nomi dei piatti e gli ingredienti utilizzati, ma che, almeno con la qualità (ed i costi!) tiene fede al nostro paese!

19 giugno
Oggi è l’ultimo giorno di permanenza a Cape Town, domani ci aspetta il trasferimento per Johannesburg e, da lì, un successivo volo per il parco Kruger dove faremo il nostro incontro con l’Africa vera, quella di leoni ed elefanti; non possiamo certo restare con le mani in mano e partiamo presto per vivere al meglio quella città che ieri abbiamo scoperto essere una piacevole sorpresa!

La prima meta della giornata è il simbolo della città, quello “strano” monte che la protegge e la sovrasta: la Table Mountain. Se non avete mai visto fotografie di Cape Town, immaginare la montagna è facile, basta pensare ad un monte dai pendii piuttosto scoscesi e privi di vegetazione e… tagliarlo, con un coltello gigante, a metà come se fosse fatto di pan di spagna; il risultato è un altopiano completamente piatto, dal quale si gode una vista mozzafiato e sul quale è possibile ammirare Cape Town in tutta la sua bellezza!
Per godere a pieno delle bellezze della città, e per cercare, cosa non da poco, di evitare inutili e lunghe code all’ingresso, è meglio arrivare alla funivia che collega la base alla vetta agevolando la salita (altrimenti possibile solo a piedi e con un sentiero lungo e faticoso!) nelle prime ore del mattino; in questo modo, anche se magari la sveglia va fatta squillare presto, si riesce a gustare il sole appena sorto e con la gialla luce del mattino, la leggera nebbia che sale dalla baia, l’atmosfera è davvero magica!
Sul “tetto” della montagna, poi, oltre ai punti panoramici creati ad hoc, sono segnati e percorribili diverse sentieri di lunghezze diverse che consento di ammirare anche i Twelve Apostoles, le dodici cime che formano l’ossatura della Penisola del Capo e, se il cielo è limpido come lo è per noi, anche Cape Point ed il Capo di Buona Speranza; dall’altra parte, a fianco della città vera e propria, è invece possibile ammirare Camps Bay, il quartiere residenziale attraversato nell’arrivare in città qualche giorno fa e Lion’s Head, la verde collina che non ricorda minimamente la “testa di un leone” come il nome fa pensare e che sembra indicare Robben Island, la piccola isola-prigione-museo che ha recluso fra gli altri Mandela negli ultimi anni di prigionia.

Scesi alla montagna-monumento, riprendiamo da dove abbiamo lasciato ieri pomeriggio, parcheggiando questa volta in un parcheggio sempre multipiano ma molto più rassicurante del precedente (in una via quasi di fronte alla St George's Cathedral) e cominciando la nostra esplorazione del centro della città.
Visitiamo il mercato che si rivela essere praticamente solo per turisti: si vendono dipinti su tela dai colori sgargianti, statue in legno, sculture, stoffe, CD e musicassette (!!) con musica tradizionale (ed internazionale) e delle meravigliose riproduzioni di auto (principalmente il vecchio Maggiolone della VW) ed aeroplanini fatte a mano, con estrema cura nonostante la semplicità ed utilizzando solo l’alluminio delle normali lattine; il risultato è davvero strabiliante così come (stranamente visti i costi di ogni altra cosa qui) il prezzo: quasi 15 euro l’uno!
Scendiamo lungo la strada pedonale parallela ad Adderley Street, un po’ il cuore di Cape Town, fermandoci di tanto in tanto ad osservare le vetrine che mescolano prodotti “europei” con altri di gusto locale e restiamo incantati per quasi un’ora ad ammirare… una bambina!
Sono quasi le dieci, gli uffici e le attività lavorative hanno già ormai aperto e sono in piena attività, così come il centro che si popola di persone che per lavoro si muovono a piedi per la città; è il momento in cui cominciano a farsi vedere i gruppetti di ragazzi o di adulti che cantano o suonano pubblicamente in cambio di qualche moneta. Siamo attratti da una donna, seduta contro la colonna di un grande magazzino, che dopo aver vestito una decina di bambini con i “panni di scena” (uno strano mix di moderno e tradizionale: t-shirt bianca, fascia leopardata in testa e piedi scalzi), intona un canto tribale accompagnata dalla percussione del tamburo che ha in grembo e dalle voci dei bambini; davanti a loro ballano al ritmo dei compagni, due ragazzi, maschio e femmina, e questa bambina non più grande di tre anni. È difficile da spiegare a parole, e nemmeno le fotografie o il video girato durante la lunghissima esibizione riescono a rende l’idea della semplicità e della potenza di questa piccola ballerina. Come è giusto alla sua età, prende ogni cosa come un gioco, non come un impegno, ma fra distrazioni e divagazione ad osservare i passanti e quello che succede dietro alle vetrine dei negozi alle sue spalle, semplicemente balla, fa suonare i piccoli sognagli ricavati da lattine e legati alla caviglia, ripete a tempo gli stessi movimenti che i più grandi si impegnano per eseguire… restiamo incantati, con il sorriso sulle labbra, estasiati da tanta naturale e spensierata bravura!

Cape Town è, crediamo, l’unico posto al mondo dove Bart Simpson, proprio lui, quello dei cartoni animati, quello giallo e pestifero, ha un suo monumento! È una statua scura, di un uomo solo abbozzato, dalla quale però escono tante teste gialle che riproducono proprio quella vista in TV; non abbiamo scoperto il significato dell’opera, ma una fotografia, comunque, se l’è meritata.

Mangiamo hot-dog e patatine camminando verso il Good Hope Castle, fortezza circondata dalle acque di un largo fossato e simbolo dell’importanza strategica che la “colonia sudafricana” aveva secoli fa; qui, passeggiando all’interno delle mura, ci fermiamo ad osservare la pittoresca (e buffa per certi versi!) quotidiana parata militare e che si conclude, esattamente a mezzogiorno, con lo sparo a salve di un colpo di cannone o… di qualcosa di simile: in realtà a fare fuoco è una riproduzione in miniatura di un cannone vero. Lo sparo c’è, fumo e rumore anche, ma le dimensioni non possono non strappare un sorriso!

Tornando verso la macchina passiamo di fronte al palazzo che ospita il municipio e qui assistiamo ad una scena che giustifica un po’ la nostra diffidenza dei giorni scorsi; un gruppo di ragazzini, più o meno tutti sui 13 anni, sembra seguirci. Non abbiamo beni di valore in bella vista, gli zaini sono saldamente allacciati sulle spalle, ma che siamo turisti si vede lontano chilometri. Vicky non è tranquilla, comincia a stringersi a me per cercare protezione (… come se realmente in caso succedesse qualcosa potessi dargliene!). Il gruppo ci supera ed in un attimo uno di loro allunga il braccio a strappare la collana d’oro della donna davanti a noi; lei se ne accorge per tempo e scansa con il braccio quello del ragazzo, urla e tutto finisce. Proprio così, finisce tutto: nessuno scappa, la polizia non viene disturbata, tutti fanno finta di niente ed è come se nulla fosse successo. Questo ci dà il senso di quanto siano normali situazioni di questo tipo in città e, anche se non è bello, un po’ ci rincuora: la nostra diffidenza era in qualche modo giustificata e non era solo questione di pregiudizio.

Visto che domani mattina la sveglia suonerà molto presto per permetterci di restituire la macchina e prendere il volo per Johannesburg, decidiamo di non andare in hotel e poi uscire per la cena, ma stare direttamente in città, mangiare più presto del solito, e rimandare la doccia a più tardi.
Abbiamo tutto il pomeriggio davanti a noi e decidiamo di spenderlo all’acquario di Città del Capo, su Waterfront, così da restare poi in zona anche per la cena.
Non credo che una meta come l’acquario possa essere interessante per i più; è forse un’attrazione più da famiglie con bimbi piccoli, o da sudafricani che vogliono svagarsi un po’. A noi, però, piace l’idea di vedere anche questo genere di cose: lo abbiamo fatto in quasi tutti i nostri viaggi, visitando giardini zoologici o parchi botanici, trovando magari più persone del posto che turisti, e l’acquario di Cape Town si rivela un ottimo ed interessante esperienza dal momento che è organizzato in maniera tale da mostrare la fauna ittica tipica del paese ma, allo stesso tempo, da far vedere ai visitatori anche specie più esotiche provenienti da tutto il mondo. Bellissima la teca cilindrica all’interno, colma di centinaia di “Nemo” bianchi ed arancione e l’idea dell’immensa vasca, anche questa di forma cilindrica, dove nuotano insieme decine di specie diverse fra cui tartarughe, razze e squali; la particolarità, oltre alla corrente ricreata artificialmente, sta nel fatto che il percorso da seguire porta a ruotare, scendendo, attorno alla vasca in modo da vederla da ogni punto di vista. È bello fermarsi ai piedi dell’enorme colonna d’acqua ad attendere che uno squalo nuoti pochi metri sopra la testa; non è certamente un’esperienza diretta quale può essere un’immersione, ma nonostante lo spesso vetro, il fascino dell’incontro è innegabile!
Altra zona di grande attrazione è la vasca dei pinguini. A differenza di quelli visti in completa libertà sulla Penisola del Capo, quelli presenti in questa piscina con tanto di rocce, nidi e onde (artificiali ovviamente), sono di una specie diversa e più colorata: il ciuffo sulla testa, giallo e nero, li rende ancora più buffi e, se possibile, dà loro un’aria di “autorità” insolita; assistiamo alla cerimonia giornaliera della distribuzione del cibo: pesci di discrete dimensioni che vengono ingoiati completamente interi e senza ritegno per quanto riguarda il numero: adesso capiamo a pieno il motivo di tanta puzza!

Il pomeriggio finisce nella maniera migliore che potevamo immaginare: passeggiando sul Waterfront fermandosi ad ascoltare le tante “band” che a cappella cantano canzoni in Afrikaans o che improvvisano concertini con strumenti anche improvvisati (magnifica ed affascinante a chitarra elettrica di un anziano jazzista ricavata da una lattina di olio per auto!), ballando per qualche minuto fra un gruppo di ragazzi che si esibiscono in danze etniche, bevendo un thè in uno dei tanti bar e scoprendo (con estrema sorpresa!!) che l’intera area del porto ospita una colonia di foche che, ovviamente, diventa subito soggetto delle nostre fotografie!
Il tramonto questa sera è più affascinante del solito: la Table Mountain si colora di un rosa intenso ed il blu intenso del cielo fa da sfondo ad un Waterfront che accende le proprie luci… è il saluto migliore che la città poteva pensare di darci!

20 giugno
Ok, lo ammetto, ho sempre pensato al Safari come ad una cosa “da vecchi inglesi” immaginando i due classici signori di mezza età che con vestito cachi e cappello dalle falde larghe, in groppa ad un elefante, si facevano portare in giro per la foresta da indigeni; una cosa non molto emozionante ed eccitante in somma.
Non potevo sbagliare di più! Non solo perché l’immagine descritta poco si adatta all’ambiente e alla realtà del safari sudafricano (…forse perché si rifà alle colonie inglesi in India e non in Africa??) ben lontano dalla jungla, ma anche perché le emozioni che si possono vivere durante un’avventura del genere sono davvero forti: leoni, leopardi, rinoceronti, elefanti, giraffe, bufali, ippopotami sono i padroni di casa in un ambiente dove l’uomo è ancora spettatore… ma procediamo con ordine…

Lasciamo la macchina all’aeroporto di Cape Town e ci imbarchiamo per Johannesburg; qui abbiamo poi la coincidenza per Hoedspruit, un piccolo aeroporto militare che viene però, dietro il pagamento di una piccola tassa extra, utilizzato giornalmente dalla South Africa Airlines come pista di decollo ed atterraggio per portare i turisti nei pressi del Parco Kruger. Siamo curiosi di capire cosa voglia dire “Africa”, quella di animali allo stato brado e della savana, quella non coloniale e lontana dalle casette inglesi e dai vigneti e non possiamo trattenerci dallo spiare continuamente dal finestrino il paesaggio che sorvoliamo; colline ed altopiani si avvicendano senza sosta in una distesa di giallo e marrone; qui non ci sono città e anche le strade sono pochissime e quasi tutte sembrano in terra battuta e non in asfalto; quasi in fase di atterraggio avvistiamo delle antilopi ed un branco di sei o sette facoceri attraversa la pista poco lontano dal nostro aereo non appena mettiamo le ruote a terra. Ad attenderci in aeroporto c’è Lucky, la persona che ci conduce in jeep fino al Game Lodge dove ci aspettano tre giorni di immersione completa nella natura incontaminata.
La strada è lunga (un’ora e mezza circa) ed attraversa, prima su asfalto poi su una polverosa strada sterrata paesi e piccoli villaggi; la segnaletica “classica” lascia bene presto spazio a semplici cartelli di legno inchiodati ad un palo conficcato nel terreno o semplicemente appoggiati al tronco di qualche pianta e solo grazie alla conoscenza dei luoghi si riesce a capire dove andare: anche il GPS, lo scopriremo poi, si perde spesso e volentieri da queste parti! Siamo in Africa, quella con la “A” maiuscola, quella vera, non quella che fa finta di esserlo o che prova ad essere qualcos’altro. Qui la gente è vera, le baracche e le case fatte di mattoni, legno e lamiera, i banchetti dove si vendono poche arance e qualche verdura, le mucche scarne e le pecore ai margini della strada, i bambini e gli adulti che camminano o fanno l’auto stop, il sole ed i colori, tutto, davvero tutto qui è vero. Qui non pare esistere il superfluo, non sembra trovare spazio quello che nel nostro mondo è indispensabile. Qui la differenza fra una catasta di legname ed un negozio sta solo in quello che ci si appoggia sopra, qui quattro mura bastano per avere una casa (anche se del tetto e della porta non c’è nemmeno l’ombra), qui anche le macchine sono costruite con quello che si trova in giro o che si riesce ad acquistare in qualche sfasciacarrozze.
È un mondo strano, affascinante, contagioso, meraviglioso, semplice e ricco di cose vere, concrete, pratiche e quotidiane.
È quello che per noi è diventato sinonimo di “Africa”.

Il lodge, fin dal primo sguardo, è fantastico, talmente tanto bello e lussuoso che non sembra reale, così completamente fuori dal nostro standard con i suoi passaggi in legno, le sale comuni riccamente arredate in stile coloniale, la piscina, la cantina con etichette di ogni tipo che… stiamo male! O, meglio, io (Manu) sto male! Davvero, non mi ci trovo, non capisco come può esserci un posto così nel bel mezzo di uno dei luoghi più naturali della terra, non comprendo cosa voglia dire bere succo di frutta con il camino acceso in una stanza grande quanto il nostro appartamento in Italia ed avere una famiglia di ippopotami lì davanti, a non più di 20 metri dalla veranda, non mi capacito del luogo in cui siamo, mi sembra di essere io l’animale in cattività, io l’attrazione per antilopi, elefanti, leoni e leopardi, io dentro una gabbia, d’orata, ma pur sempre una gabbia. Sono seduto sul letto, perso in tutto questo e per fortuna Vicky riesce a tranquillizzarmi: non ho mai provato prima una sensazione del genere, sono perso, e davvero spaventato.

Sono le 16, manca poco al primo safari della nostra vita; ci dicono che non appena il sole calerà farà freddo sulle jeep scoperte che ci portano ad ammirare la natura africana, ci invitano a non dimenticare un cappello o un cappuccio e ci danno una coperta pesante che ci ripari durante gli spostamenti; siamo pronti, saliamo sulla nostra Land Rover e partiamo alla scoperta dell’Africa.
Vaghiamo per un po’ su strade sterrate (le stesse che abbiamo utilizzato per raggiungere il lodge), di tanto in tanto il ranger alla guida (ce n’è un altro appollaiato su un seggiolino sul paraurti dell’auto con il compito di fare da navigatore: è lui che, guardando le tracce lasciate dagli animali capisce cosa è passato di lì, quando ed indica al collega al volante la direzione da prendere) discute alla radio con le altre jeep in giro per la savana, e ben presto vediamo i primi animali.
Sono un paio di giraffe, eleganti e maestose nella loro altezza, stanno semplicemente mangiando e solo per un attimo si girano a guardarci per tornare immediatamente alla loro cena; garantiamo che, nonostante non siano feroci felini o maestosi elefanti, l’emozione del primo scatto al primo animale “da safari” è seconda solo a quella dell’avvistamento delle balene qualche giorno fa ad Hermanus!
Qualche fotografia e riprendiamo il nostro girovagare alla ricerca di qualcosa di interessante da porre davanti al nostro obiettivo… e non dobbiamo attendere molto per ammirare il nostro primo vero spettacolo africano, quello da cartolina, quello che ti resta dentro per tanto (tanto davvero!) tempo.
Il sole sta tramontando all’orizzonte, colorando di rosso il cielo e di nero gli alberi che si frappongono fra noi e lui; i colori sono caldi e vivi, sembrano vibrare, esplodere davanti ai nostri occhi!
Il ranger alla guida mette in moto e questa volta sembra guidare senza freni; non capiamo cosa succeda e solo dopo cinque minuti di corse fra arbusti, alberi e buche, dopo aver rischiato almeno dieci volte di finire contro un tronco, comprendiamo il motivo di tanta fretta: un gruppo di elefanti (fra cui un esemplare giovane che, infastidito dalla nostra presenza o desideroso di ricevere gli ultimi scatti della giornata, minaccia, con tanto di barriti ed orecchie distese, di caricare la jeep!) sta cenando mentre la palla rossa del sole alle loro spalle scende a nascondersi dietro le colline! Lo spettacolo è davvero emozionante e se non fosse per la nostra imperizia nell’usare come si deve una macchina fotografica, adesso ci sarebbero anche molte fotografie a testimoniare la bellezza della scena!

Il sole è tramontato da non più di cinque minuti ed ormai tutto è completamente buio e freddo; viaggiamo alla luce di un potente faro nelle mani di uno dei ranger, coperti da tutto quello che abbiamo per ripararci dall’aria che si è fatta improvvisamente pungente, senza la possibilità di vedere altro se non quello che il fascio di luce sul cofano dell’auto illumina. Nonostante questo viaggiamo a velocità sostenuta fra curve e dossi, fiumi in secca ed i soliti immancabili arbusti spinosi, talmente in fretta che non ci accorgiamo nemmeno di passare a pochi metri (davvero pochi!) da un gruppo di elefanti che, tanto per far capire chi comanda, barriscono all’unisono facendoci sussultare sui nostri sedili!
La velocità è motivata dal fatto che dalla radio i ranger hanno appreso della presenza di un leopardo poco distante; lo avvistiamo anche noi, acciambellato come un gattone fra i cespugli a riposare incurante delle luci, dei flash, delle chiacchiere e dei rumori delle auto.

Torniamo al lodge e, dopo esserci sistemati e riposati un attimo, ci troviamo nel boma per la cena; la struttura è molto semplice ma altrettanto suggestiva: una serie di tavoli disposti ad “U” attorno ad un grande falò, tovaglie candide, lanterne e candele accese ad ogni tavolo; tutto intorno un’alta palizzata di legno a proteggere dagli animali e a fare da quinta. Lo chef della serata ci presenta il menù (carne di gnu come piatto forte, ma c’è poi molto altro!), fra risate e chiacchiere un po’ in italiano ed un po’ in inglese, un piatto ed un bicchiere di vino (ovviamente buonissimo!) passa veloce la serata; veniamo scortati ai nostri appartamenti, ci chiudiamo dentro a chiave, doccia veloce, pigiamino e, trovato un varco nell’enorme zanzariera che lo sovrasta, ci mettiamo a letto.
Ma non si chiude occhio!
Ogni rumore “sospetto” è un leone che bussa alla porta o una leopardo che si stiracchia sullo zerbino, ogni scricchiolio un elefante che cerca di forzare la vetrata che ci separa dall’esterno o qualche altro animale che sta cercando di entrare dal tetto completamente di paglia; addirittura Vicky riesce a sentire il classico (nei film!!!) “shhhhhhhhh” di un serpente sul pavimento di casa!
Dormire è impossibile, passiamo gran parte della notte in un agitato dormi-veglia, aspettando che arrivino le cinque e mezza quando verranno a svegliarci per il safari mattutino (ci si sveglia presto nella savana!) e scoprendo che non tutto era frutto della nostra immaginazione: alcuni degli ippopotami che abitano il laghetto del lodge hanno deciso di trascorrere la notte poco più in là della nostra finestra! Ne vediamo le sagome come ombre fra le foglie e le nostre sdraio sulla veranda e soprattutto li sentiamo agitarsi ed emettere i loro caratteristici grugniti ad una distanza davvero minima!

Il sole è ancora lontano dal sorgere e per ora solo un lieve chiarore colora ogni cosa di un marrone cupo; beviamo un thè di fretta e ci mettiamo ai nostri “posti di combattimento” sulle panche della jeep per cominciare un altro safari e le emozioni non tardano ad arrivare: siamo sulla strada principale (quella che ci ha portato nel lodge!) ed una iena decide di venirci incontro. È un animale strano, certamente non il più bello e tanto meno quello più simpatico, però sarà la sorpresa di incontrarne una dal vivo, sarà quell’aria “fumettosa” identica a quella che hanno le sue cugine animate dalla Disney ne “Il re leone”, sta di fatto che la signora iena ci regala una bella emozione già alle prime luci dell’alba!
E l’escursione si rivela ancora più fortunata: questa mattina abbiamo l’onore di vedere tutti i cinque Big Five, il simbolo del SudAfrica naturalistico. Dopo un paio di rinoceronti, sempre nascosti nella vegetazione e non avvicinabili più di tanto, scorgiamo un bufalo, solitario che beve in una pozza, un vecchio ed imponente elefante dalle lunghe zanne e dalla pelle così rugosa da sembrare quasi finta, un gruppo di leoni che, tanto per cambiare, dormicchiano ed un bellissimo leopardo che, invece, pare essere molto attivo. Decidiamo di seguirlo nella sua battuta di caccia e per farlo il ranger non dà troppa importanza alle conseguenze: lasciamo la pista battuta e cerchiamo di emulare con la nostra jeep i balzi e la leggerezza del felino, compensando con la forza bruta la limitata agilità del nostro mezzo; sradicando senza grossi rimorsi gli alberi più esili, scendendo e risalendo su rive scoscese e davvero con pendenze impressionanti, stiamo sulle tracce dell’animale per più di una mezz’ora fino a che, più preoccupati della nostra incolumità sulla jeep (siamo stati in un paio di occasioni non molto lontani dal ribaltarci senza contare le due volte in cui abbiamo rischiato di rimanere bloccati nella sabbia del greto di un fiume in secca con le ruote che giravano a vuoto!) che affascinati dall’animale, desistiamo nel nostro inseguimento e cerchiamo altro da vedere.

A sorprenderci, questa volta, sono i leoni.
Sempre distesi all’ombra a sonnecchiare ci meravigliamo di trovare invece una leonessa che ringhiando minacciosa sta facendo allontanare un iena; intuiamo il motivo solo quando ci accorgiamo della moltitudine di avvoltoi appollaiati sui rami degli alberi vicini.
A terra c’è la carcassa di uno gnu, cacciato dai leoni qualche giorno prima ed ora, dopo le attenzioni del branco, ridotto a poco più di un teschio ed un ammasso di ossa rosicchiate; a quanto pare, però, c’è ancora di cui cibarsi ed i leoni non sono disposti a dividere la colazione con altri!
Questo è forse il momento più intenso di tutti i safari: siamo in un documentario, esattamente come se ne vedono tanti in tv, siamo nel bel mezzo di una scena classica della vita nella savana, ma qui c’è anche quello che dal divano non si può vivere; qui c’è l’odore pungente e nauseabondo del povero pasto, c’è il gracchiare degli avvoltoi, il rumore dei becchi sulle ossa e dei brandelli di legamenti e carne che gli uccelli lacerano, c’è il continuo rumore di sottofondo delle fusa del branco che sazio si riposa all’ombra, c’è un cucciolotto con il bocca il suo piccolo trofeo di caccia, uno zoccolo della preda, c’è qualcosa di irreale e vero nel comprendere che questa è una cosa che si ripete da milioni di anni sopravvivendo ai nostri problemi e alla nostra stupidità.

“Camminate in fila indiana, in modo da non spaventare i serpenti e mi raccomando, in caso si veda un leone o un leopardo, non mettetevi a correre! Io ho il fucile, ma se qualcuno corre non sparo al leone, sparo a lui: in questo modo sono sicuro di salvare il resto del gruppo”.
Comincia con queste parole del nostro ranger, un po’ teatrali forse ma nemmeno troppo, il nostro safari a piedi, un paio di orette di cammino poco lontano dal lodge alla scoperta di un contatto più diretto con la natura; in realtà di animali ne vediamo pochi: qualche kudù, antilope e gazzella, ma niente di più. È bello però girovagare in questa distesa di erba bruciata dal sole alla scoperta di piante e leggende africane, di modi di fare (tipo “facciamo a chi sputa più lontano gli escrementi di antilope”, gioco che qui a quanto pare va parecchio!) ed usanze legate all’ormai per lo più scomparso animismo delle tribù indigene.
Camminando scopriamo anche che i Big Five non sono i soli “Cinque” del Sud Africa! Accanto a loro ci sono gli Ugly Five, i brutti della savana: babbuino, facocero, ippopotamo (che non è fra i Big!!), iena e avvoltoio e poi gli Small Five che, invece, sono molto più simili ai “fratelli maggiori” condividendone con loro il nome: la formica leone, la tartaruga leopardo, lo scarafaggio rinoceronte, il topo elefante ed il bufalo tessitore (un uccellino tutto nero)! Inoltre veniamo a sapere che è in atto una vera e propria campagna (pubblicitaria e turistica: non altro ovviamente!) per aumentare il numero dei Big includendo anche la balena, in effetti un big fra i big di questa nazione, e, secondo alcuni, anche l’ippopotamo (che quindi starebbe in due “squadre” diverse…)…

Il ritmo della giornata è lo stesso di ieri, le emozioni però sono diverse: accompagnati da altre jeep di altri Game Lodge, seguiamo un leopardo che sta cacciando; il branco di antilopi è ad un centinaio di metri da noi e non si accorge della presenza del predatore; dal canto suo, il felino, sottovento scruta immobile alla ricerca della possibile cena. Entrambe le parti in gioco non sembrano infastidite minimamente dai fari e dalle chiacchiere degli spettatori ed è affascinante vedere nella più completa oscurità (questa sera c’è nuvoloso e nemmeno la luna aiuta!) brillare gli occhi del leopardo in attesa del momento propizio per attaccare! …solo che questo momento non arriva più e dopo quasi un’ora di attesa dobbiamo abbandonare la scena e tornare verso casa dove ci aspetta la cena nel boma, un bagno caldo (nella vasca con vista sulla savana… una cosa imperdibile!) e, questa volta un po’ più di ieri, il meritato riposo.

Purtroppo arriva anche l’ultimo safari della nostra vacanza: partiamo un po’ sottotono, tristi che sia l’ultima occasione che abbiamo (PER ORA!) di vivere a contattato con una natura vera e così sconosciuta per noi; sappiamo che al nostro ritorno al lodge ci sarà la jeep che ci porterà nuovamente ad Hoedspruit per prendere il volo per Johannesburg, e la cosa non può certo rallegrarci.
In compenso ci pensa la natura a tirarci su di morale: siamo partiti da poco quando ci imbattiamo in una coppia di rinoceronti che si stanno abbeverando ad una pozza d’acqua; questa volta non ci sono alberi od ostacoli fra noi e loro e riusciamo a scattare decine di fotografie. È bellissimo stare ad ammirare questi animali così imponenti e tutto sommato sempre simpatici: nella loro “durezza” sembrano giocare con i colorati uccellini che hanno scelto le loro orecchie e le narici come parco giochi o che semplicemente se ne stanno appollaiati a guardare la bellezza di questo mondo sulle loro grigie schiene, come se stessero imitando noi sulle nostre jeep!
Abbiamo anche modo di vedere animali che, sorprendentemente, non abbiamo ancora visto; pensavo che leopardi o rinoceronti fossero i più rari ed invece ne abbiamo avvistati molti, mentre solo ora riusciamo a fotografare un piccolo branco di zebre che ci guardano indecise se essere incuriosite o spaventate, i babbuini, tenuti alla larga dai ranger perché potenzialmente più pericolosi di tanti animali più grandi ed anche un solitario facocero.

Termina così la nostra permanenza al Chitwa Chitwa e, con essa, anche il nostro viaggio alla scoperta del Sud Africa; oggi saremo a Johannesburg e domani si volta alle Seychelles per il meritato riposo dopo tanta avventura.
Come tanti (o forse tutti?!) ce ne andiamo a malincuore, stupiti da una terra dai colori vivaci e dai tratti forti, dalle tante contraddizioni ma dal cuore grande, dalla natura vera e dalla semplice quotidianità; non so se avremo mai occasione di tornare, so sicuramente che cercheremo di procurarcene una!

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