Navigando sullo Tsangpo

Un bel resoconto di un movimentato viaggio in Tibet, una terra sempre dibattuta fra tradizione e rinnovamento

Ancora un reportage di Franco Pizzi dai Paesi himalayani. Leggere i suoi viaggi avventurosi è sempre un piacere e viene davvero voglia di partire!Nuovo viaggio in Tibet, nuovo viaggio sulle gowa.
Quest’anno eravamo in sei, un gruppetto simpatico già dal primo momento: dopo l'incontro all'aeroporto di Kathmandu, ci avviamo verso il pulmino fra la solita folla di ragazzetti che tentano di prendere le valigie o che s'inventano qualche stratagemma per racimolare un po' di soldini; quando arriviamo al nostro mezzo di trasporto, il rappresentante dell’agenzia locale offre la tradizionale collana di fiori ai clienti. Uno di essi, seccato, lo respinge con un: “Non voglio nulla!”. Immaginate il viso rabbuiato ed offeso dell’agente che mi guarda e mi dice: “Ma non vuole i fiori?”. Immaginate il viso del cliente quando gli spiego che non cercava di vendere fiori ma che si tratta di una cortesia tradizionale. Insomma, dopo i vari “sorry, sorry” ci avviamo verso l’albergo, in una Kathmandu tranquilla e priva di posti di blocco militari onnipresenti fino a poco tempo addietro .

L’aereo parte in orario e stranamente il personale di bordo, nei viaggi precedenti silenzioso come una tomba, ora ci comunica che stiamo passando vicino all’Everest!
Si atterra a Gonkar airport. Quali cambiamenti! Oramai sembra di essere in un aeroporto occidentale: professionalità, velocità e soprattutto pochi controlli, una grande gioia perchè questo ci permette di importare la nostra "merce proibita": salumi, formaggi, prosciutto, spaghetti ed altre leccornie che ci serviranno durante il viaggio.

Il cambiamento principale a Lhasa riguarda la visita al Potala. A causa dell’enorme afflusso di turisti, -inesi e occidentali, il governo locale ha limitato il numero di biglietti d’ingresso per giorno. Bisogna salire la “santa scalinata” a piedi e appena entrati si dispone di “esattamente” un’ora per la visita, pena una sgridata e probabili altre sanzioni per la guida locale. Quindi affannati ci precipitiamo per le sale del Potala; molte sono chiuse (forse per sveltire il percorso), in altre non si può più entrare, si può guardare soltanto dalla porta. Ovviamente così non si riescono ad ammirare i magnifici mandala in oro in tutti i loro particolari. Arriviamo all’uscita giusto in tempo; manca un minuto - siamo salvi!

Il giorno dopo inizia la parte più particolare del viaggio, tre giorni di navigazione sullo Tsangpo sulle barchette di pelle di yak. Prima di partire andiamo a vedere la stazione ferroviaria di Lhasa. La guida tergiversa, ci avverte che non possiamo fare foto etc. Ma noi andiamo lo stesso. Edificio futuristico, pulizia incredibile, vetrate, tabellone in lingua inglese, cinese e tibetana che annuncia gli orari dei treni, i costi e il tipo di treno. Facciamo pure qualche foto dall'esterno; d'altronde le stanno facendo anche i tibetani, nonostante ci sia la polizia a due passi che non mostra il minimo interesse in ciò che stiamo fotografando.
Il pullman, con la stessa cassetta di musica per due ore, si dirige ora verso Simpori. Il campeggio viene posto sotto gli alberi, sulla riva sinistra del fiume, dove due enormi maiali razzolano non molto lontano dalle tende. Lo staff li allontana con un mirato lancio di pietre e noi siamo tranquilli. Ma è presto e minaccia pioggia.
L’autista ci invita a casa sua; tenta di offrirci del the tibetano, ma questo viene gentilmente rifiutato da tutti, e si scivola su un the "normale". La casa è grande, anche se ne vediamo soltanto una stanza, e gli ospiti sono gentili come possono esserlo soltanto i tibetani in Tibet. Ci riceve una signora con il viso rugoso, senza denti, che abbraccia una bella bambina dallo sguardo dolce. Le chiedo l’età; 59 anni. Una visita ai monasteri vicini e poi via verso il campeggio, sotto una preoccupante pioggerellina.

La notte passa tranquilla e al mattino saliamo sulle barchette. Il mio rematore si chiama Tsering [vita lunga]; benchè non sia molto alto è solido come una roccia, e ha gli occhi come due fessure; ride sempre, anche quando ci troviamo su uno Tsangpo molto arrabbiato. Dietro, verso ovest, scorgiamo nuvole nere e basse; davanti, verso est, una tempesta di sabbia. Pochi minuti dopo ci troviamo proprio nel bel mezzo alla tempesta. Lo Tsangpo riceve il vento contro corrente; i rematori, legate le gowa tipo trenino, ridono e sembrano instancabili nonostante la fatica del remare contro vento e lo sballottamento delle barche.
E finalmente arriviamo a Dorje Drak, monastero costruito sulla riva del fiume. Mi accorgo subito di una nuova strada che, mi dicono, unisce Lhasa a Samye su questa riva. I Cinesi sono incredibili con le loro fisse per le strade, vanno dovunque! Per fortuna non è asfaltata, si confonde con le dune di sabbia e in fondo rende la vita più facile per gli abitanti di questi villaggi che fino a due anni fa non avevano nessun collegamento stradale. Il pullman di linea per Lhasa è pronto davanti al gompa!
Siamo ospitati in uno stanzone con sei letti, pulito, con coperte e lenzuola; e un’altra notte passa tranquilla, dopo 8 lunghe ore di navigazione. La sveglia è pigra... oggi ci aspettano soltanto quattro ore di navigazione per arrivare a Ngadrak, eìli ci fermeremo due notti. Il tempo è migliore. Come punto di riferimento per l’arrivo alla meta ci orientiamo su un'enorme roccia nel fiume. Ma la roccia non arriva mai, e quando la raggiungiamo non la superiamo mai, le secche ci bloccano e i barcaioli devono fare lunghi giri. Alla fine approdiamo.
Saliamo su un trattore il cui cassone, coperto e con delle panche semi imbottite, è stato trasformato in "vano passeggeri", e cominciamo a traballare per circa due ore. Passiamo attraverso villaggi ancora “naturali”, yak al pascolo, campi ben coltivati, poca presenza cinese. Ad un certo punto il trattore-pulmino si ferma e qualcuno lancia sul vano sopra la cabina una pecora con il ventre aperto, poi lo stomaco e le interiora.
Il viaggio continua, e dopo un bel po' si ferma per scaricare la pecora e quello che le apparteneva. Arriviamo nel gompa di Zade che è tardi, e ci sistemiamo nelle nostre camerette. Da anni conosco alcune monache di questo monastero femminile, la cui badessa è sposata; con loro chiacchiero e mi faccio portare al negozietto per comperare delle birre. La cena è pronta, e vengono divorate anche le nostre scorte, trafugate in faccia della dogana!
Siamo a 4400 metri. Il mattino dopo saliamo molto molto molto adagio per un sentiero ripidissimo, verso le grotte che nel VI sec. hanno ospitato Guru Rimpoche con Yeshe Tsoghiel, la consorte "regalata" al maestro indiano dall’imperatore Trisong Detsen. Passeggiata meravigliosa, che raggiunge i 4900 metri.

L'indomani, ultima giornata sulle gowa: con 3-4 ore di navigazione raggiungiamo Samye, uno dei più importanti monasteri tibetani, dove il buddhismo fu dichiarato religione di stato. Arrivo, saluti, abbracci e addii ai rematori, e via verso il monastero su un pick-up, in mezzo a dune di sabbia e polvere. Nemmeno stasera abbiamo la possibilità di lavarci; ma che importa, ci fa assomigliare alla gente locale! Tant'è che quando arriviamo in un albergo molto bello a Tsedang, per un attimo ci sentiamo a disagio...

Mi trovo sbilanciato quando andiamo a visitare lo Yumbu Lhakhang: vedo file di cinesi affrontare i pochi minuti di salita a cavallo o a cammello, suppongo, dato il pelo lungo e folto, si tratti di cammelli del Gobi. Ne vedo uno accovacciato, mentre una signora tenta in tutti i modi di salirci sopra; scivola, ritenta e alla fine con l’aiuto del cammelliere sale soddisfatta!

Nei prossimi giorni il nostro viaggio prosegue verso ovest. Saliamo sul Kampala per dare uno sguardo veloce al magnifico lago Yamdrok, fra il vento e il freddo: la strada fino a Nagartse è chiusa perché la devono ri-aggiustare. Provvisoriamente è stata creata una "piazzola panoramica" per una sosta fotografica, dopo di che si riscende per la stessa strada e ci si dirige verso Shigatse.
Per arrivare a Gyantse, lasciata la strada principale, ci inoltramo su una pista fra dune e sabbia; sembra di essere in Africa invece che in Tibet! Fortunatamente finora i Cinesi hanno tralasciato di asfaltarla...
Una pista simile ci aspetta dopo Sakya. Gli autisti sono riluttanti; così pure la guida, che passa il suo tempo a dormire, che sia in macchina oppure sulle barche. Ora che è pronta una meravigliosa strada asfaltata per Shegar, chi gliela fa fare a soffrire in mezzo al nulla, fra dune e deserto? Comunque io insisto e si va. Incontriamo un piccolo villaggio, quattro case, semi sepolto dalla sabbia, con una sorgente d’acqua calda dove le donne lavano; incontriamo vaste aree coperte di una sostanza bianca, io credevo sale, ma gli autisti dicono sapone; incontriamo campi ben coltivati e verdi, da dove prendono l’acqua è un mistero; incontriamo carretti tirati da cavalli, che procedono nel vento e nella sabbia.
Infine arriviamo a Shegar, cittadina squallida e ventosa, punto di partenza per Rombug e il campo base dell’Everest; nevischia.!
Il giorno dopo saliamo verso Rombug sotto un cielo nero. Ci fermiamo sul colle, 5200 metri, da dove si vede buona parte della catena himalayana, con al centro l’Everest, minaccioso e imponente; avvolto dalle nuvole nere, non si degna di mostrarci la sua cima; sembra quasi che ci dica: “Attenti, voi che volete scalarmi!”. Contrariamente a quanto ci è stato riportato recentemente nei giornali su questa strada e su Rombug [la strada è stata asfaltata, con un notevole impatto ambientale; a Rombug ci sono bancarelle che vendono di tutto, e ci sono persino le prostitute; dico a 5000 metri? mah] nulla è vero; l'ho ritrovata come due anni fa, forse spianata un po' meglio, ma nient'altro!
Al campo base fa un freddo incredibile e c’è neve; rimango con le guide in macchina mentre i miei clienti salgono su un piccolo colle per le foto. Al ritorno visitiamo il monasterino che ospita una comunità di monache e monaci; all’interno sentiamo: “cu cu” - su una colonna è appeso un pendolo svizzero!
Qui si vede la polizia. Da quando l'anno scorso qualcuno ha tentato di appendere una bandiera tibetana, ci devono stare anche l’inverno; mi fanno pure pena.
La discesa verso Nyalam si prospetta avventurosa perché a causa di “lavori stradali” è aperta solo dalle 19 in poi, di sera. Facciamo al buio il tratto più brutto e più pericoloso per arrivare a Zhangmu, dove ceniamo in un ristorante tipo pub, peccato che si sono dimenticati di portarci un ordine e Barbara va a letto digiuna!

Un freddo, l’attesa in coda per l’apertura della frontiera al mattino... Il sole è alto e non riesce a raggiungerci fra queste strette gole! Gli ufficiali di frontiera sono molto compiti e seri e fanno il possibile per sveltire le pratiche. Peccato che fra un Toyota e l'altro si infila un gregge di pecore che non sembra abbiano voglia di sveltire nulla. S’infilano sotto le macchine; vanno prima avanti e poi indietro, e incuranti dei calci ricevuti fanno quello che vogliono finchè decidono di lasciare spazio alle auto.
Si ritorna a Kathmandu, si ritorna a casa in India; chissà cosa troverò in Tibet l’anno venturo, l'anno delle Olimpiadi cinesi, ammesso che ci facciano entrare?
Da Lhasa arriva la notizia che la popolazione tibetana brucia incenso in tutta la città per la medaglia d'oro del congresso americano conferita al Dalai Lama; mi dicono che c’è molta polizia che controlla, ma senza intervenire, e che i monaci di Drepung sono confinati nel loro monastero. E il Presidente Hu, intanto, parla di riforme democratiche. Mah!
Un bel viaggio...

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