Botswana, il sogno africano

Trionfo della natura in un Paese ancora tutto da scoprire!

Diario di viaggio ironico a parte, cos’è veramente il Botswana?
Chi mi conosce anche solo un poco sa quanto sia importante per me il viaggio e quanto siano indispensabili per la mia psiche tutte le emozioni collegate ad esso. Ho sempre viaggiato per vedere paesi nuovi, per godere di panorami mozzafiato e natura incantevole, per gettare uno sguardo su popolazioni ed usanze. Ho arricchito il mio spirito e nutrito la mia anima grazie a ciò ma, prima d’allora, benché io mi sia sempre considerata una grande amante degli animali in genere, non avevo mai fatto un viaggio che fosse sostanzialmente e quasi esclusivamente dedicato a loro. Ma come sempre arriva il momento per tutte le cose e per me quel momento non poteva essere che Botswana.
Ma perché Botswana e non magari Tanzania o Kenia dove i parchi, le riserve che accolgono le più svariate specie di animali sono più universalmente noti e famosi? Ecco, esattamente per questo. Forse il Serengeti, l’Amboseli od il Masai Mara sono più belli e ricchi ma purtroppo sono anche ormai preda di un turismo crescente, asfissiante. Il Botswana no, essendo meta ancora lontana dai grandi circuiti europei e dalle masse in cerca più di esotica eleganza che di emozioni vere. Qui la natura è ancora selvaggia ed i lodge, seppur presenti in quantità notevole, sono abbastanza discreti e non hanno ancora fagocitato il territorio circostante.
Il mio desiderio era anche, oltre che osservare gli animali selvatici nel loro ambiente naturale, quello di vivere in stretto contatto con la natura, lontano dall’eleganza forzata ma molto più vicino alla vera realtà di un territorio comunque ostico ma sorprendentemente ricco ed interessante. E quindi tenda, cucina da campo, disagi derivati dal buio e dalla totale mancanza di comfort ma per contro uno straordinario amalgama con quella terra e con quelle atmosfere tanto estranee al nostro modus vivendi quanto tanto vicine ai nostri sopiti istinti.
La prima sorpresa, giunta in Botswana, è stata nel constatare come questo sia un paese per niente terzomondista; villaggi (non esistono vere e proprie città come le intendiamo noi) sostanzialmente puliti e sicuri, gente dignitosa ed assolutamente non questuante, economia stabile che si manifesta anche nelle incredibili varietà ed abbondanza dei generi alimentari nei grandi supermarket (di stile più americano che europeo), bilinguismo ufficiale che permette alla popolazione di esprimersi in un inglese molto superiore a quella che è per esempio la media italiana.
Certo, a fianco di tutto ciò ci sono anche cose piuttosto “strane” per i nostri punti di vista. Come ad esempio veder transitare per le strade dei centri urbani intere famigliole di facoceri che indisturbate si aggirano fra negozi e banche; oppure vedere pascolare capre e mucche da un lato della strada e impala ed elefanti dall’altra. Certo, ovviamente anche qui esistono sacche di povertà come ovunque in Africa e nel mondo e purtroppo l’AIDS è dilagante anche se non è affatto così evidente come si potrebbe pensare anche perché paradossalmente, il Botswana che ha il maggior tasso di contagio al mondo da HIV, ha anche contemporaneamente il più alto PIL pro capite del continente africano.
Ma al di là di questo il Botswana è soprattutto la bellezza e l’ordine delle sue innumerevoli riserve naturali, una delle quali, il “Central Kalahari Game Reserve” è la più estesa area protetta dell’Africa tutta. E poi i parchi Chobe, Moremi, Savuti e naturalmente il fiume Okawango, il cui delta che non sfocia in alcun mare costituisce la più fitta rete di canali e lagune interne del mondo. In questo territorio costituito da saline, ambienti sabbiosi e pseudo desertici, paludi acquitrinose, infinite distese di acacie e piccoli arbusti (qui non si chiama savana ma bush), si aggirano foltissime schiere di animali, dall’immenso elefante al piccolo scarabeo.
E così, dopo una subitanea, fortissima e sfolgorante emozione alla vista del primo elefante o della prima giraffa, l’eccitazione non si placa affatto, anzi s’accresce nel desiderio violento ed incontrollabile di vederli questi straordinari animali selvaggi, vederli da vicino senza disturbarli e nella piena consapevolezza che qui i veri padroni sono loro. Ecco allora il leggiadro impala, vittima di quasi tutti i grandi predatori; l’incredibile zebra, le cui righe sono talmente precise da parere dipinte; la slanciata giraffa, che quando cammina pare lo faccia al ralenty ed i cui gusti alimentari (le acacie, dalle spine lunghe anche una decina di centimetri e spesse come stuzzicadenti) fanno rabbrividire; l’irascibile elefante, il cui profondo barrito spaventa come un tuono; il goffo ippopotamo, sgraziato in terra quanto agile in acqua; la dispettosa scimmietta, tanto furba quanto insopportabile; il simpatico sciacallo, che a dispetto della fama appare come un buffo cagnetto e la cui fedeltà “coniugale” è teneramente evidente (sono sempre in coppia); il bufalo, imponente quanto maestoso; l’elegantissimo leopardo, tanto timido quanto sinuoso; l’ineffabile ghepardo, straordinario scattista dall’inconfondibile profilo.
Ma su tutti lui, il re leone. Non c’è assolutamente storia, vedere lui è senza ombra di dubbio l’emozione più forte, è l’appagamento dei disagi di ore sotto il sole cocente sballottati su uno scomodo mezzo 4x4. Ma lui - selvaggio, fiero, imponente, la cui bellezza non è tanto in una perfezione fisica che tale non è ma nella rappresentazione stessa di un simbolo di potenza - con la superiorità di chi re evidentemente si sente veramente non degna in genere della minima considerazione quegli umani che l’osservano. Uno sbadiglio, una zampa che si tende in aria e poi il più delle volte con assoluta indifferenza uno stiracchiamento seguito da un pigro rotolarsi nell’erba per poi rimanere a zampe in aria come un innocuo gattone. Il leone affascina, ipnotizza e non ci si stanca veramente mai di osservarlo, specie quando lo si può fare da posizione assolutamente privilegiata, cioè dentro a quei 4x4 (privi di finestrini o vetri) a non più di tre o quattro metri dall’animale.
Il mio viaggio in questo così poco conosciuto Botswana è stato quindi all’insegna della totale immersione nella natura, in tutte le sue forme. Alzarsi poco prima dell’alba per sorprendere gli animali al loro risveglio e nello stesso tempo bearsi dei colori del giorno che nasce. Percorrere chilometri e chilometri su piste sterrate per stanarli, mentre un sole cocente brucia e colora la pelle. Tornare al campo, qualche volta per smontare le tende e ripartire, qualche volta per un piccolo riposo. Un panino consumato in piedi e poi via per nuove avventure. E poi la sera nuovamente montare il campo. Qualche volta in aree attrezzate con acqua e bagni, altre volte, come nel Kalahari, in totale assenza di questi, supplendo a questa mancanza con le scorte di acqua da noi portata e potabilizzata. Cene spartane cotte sul fuoco a legna (da noi raccolta) a base di pasta spesso condita anche con vari insettini che impunemente andavano a finire nelle pentole e nelle gavette. Risate, gioia, pensieri deliranti rivolti a docce profumate o birre fresche sorseggiando acqua tiepida potabilizzata sì ma di un inquietante color giallino. Stringersi poi intorno al fuoco a scherzare un poco, sapendo di non poter andare a dormire troppo tardi; la sveglia, come sempre, alle 5.30. Ritirarsi poi nelle tende, timorosi ed inquieti, ben consci che le visite notturne da parte di iene, sciacalli ed altri animali sono all’ordine del giorno. E poi addormentarsi, sul duro terreno a malapena ingentilito da materassini o sacchi a pelo, con un accompagnamento sonoro che non ha eguali: mai nella mia vita mi è capitato di sentire tali e tante voci. Uccelli ma soprattutto rane. Rane toro dall’imponente gracidare, rane iperolidi che producono un suono simile ad un tintinnio ed altre varietà ancora di detti anfibi che si esibiscono in un incredibile repertorio di rumori simili alle palline clic-clac, a risate, a versi ripetitivi ed a volte angoscianti. E lontano, spesso, il barrito di qualche elefante od il grugnire dell’ippopotamo.
E lassù, su tutto, un firmamento luccicante di stelle che vigila, attento e splendente, su questa meravigliosa terra d’Africa che si chiama Botswana.
Itinerario
Chissà perché quando entro in un aeroporto, qualsiasi stagione sia, comincio a patire un caldo innaturale. Anche quella volta, alla Malpensa, non erano passati neanche dieci minuti e già mi ero ritrovata in t-shirt. Eppure era il 20 dicembre.
Via coi ricordi.
Da Milano a Johannesburg sono 9 ore di volo e le poltrone classe turistica mal si addicono al riposo, anche viaggiando di notte. Da Johannesburg a Victoria Falls un altro paio ma qui ormai la voglia di arrivare riesce ad adombrare ogni altra emozione.
L’aeroporto di Vic Falls non è certo grande e dopo l’atterraggio non esiste alcun bus navetta che conduca agli uffici doganali, scendi e vai a piedi. L’impatto è notevole: si lascia l’inverno italiano con i suoi 4/6 gradi e ci si ritrova improvvisamente catapultati nel pieno dell’estate, 35 gradi buoni e con quell’aria e quell’odore di caldo che rinfrancano lo spirito. E’ una sensazione strana perché abitualmente non ci si fa caso, essendo il passaggio stagionale tutto sommato progressivo e quell’odore difficilmente percepibile. Ma sentirlo improvvisamente così sulla pelle è incredibilmente piacevole, anche per una come me che il caldo in fondo lo patisce molto.
Espletate le pratiche doganali il primo pensiero ovviamente è rivolto ai bagagli. Una certa apprensione è sempre presente fino al momento in cui non se ne rientra in possesso. Dove saranno i tapis-roulant? Tapis-roulant? Macchè... le nostre valigie, zaini e compagnia bella sono ammucchiati in un angolo di quello stesso stanzone. Ma l’importante è che siano arrivati tutti, compresa la “cassa cucina”, prezioso contenitore di pentole e affini.
Fuori troviamo ad attenderci un “pulmino” (le virgolette sono d’obbligo, è un ben strano tipo di pulmino) che sarà il nostro mezzo di trasporto fino all’indomani, quando raggiungeremo il confine con il Botswana. Evviva, siamo in Zimbabwe!
Il tragitto fino alla cittadina, dove passeremo una delle due uniche notti in un letto, in uno spartano lodge, è di circa 60 chilometri. Come sempre mi metto dalla parte del finestrino. Ma non c’è il finestrino! Tutto aperto... pare di essere in motocicletta e per un’oretta buona mi ritrovo a subire, mio malgrado, un ottimo lifting. E già, non solo i capelli sono ormai come quelli di Maga Magò ma la pelle del viso tirata all’inverosimile all’indietro... speriamo non sia sempre così, neanche riesco a respirare!
Il giorno scorre tra una pigra e rilassante “crociera” sullo Zambesi ed una prima, caotica (13 persone in fibrillazione) visita ad un supermercato locale per fare i doverosi acquisti alimentari almeno per l’indomani. Per fortuna la prima sera ci concediamo una mangiata in un ristorante e questa si rivela un’ottima scelta. Filetti e t-bone steak di ottima qualità innaffiati con fiumi di birra. Il tutto per la modica cifra di circa 7 euro a testa! Certo, per pagare ci vuole un po’ di tempo per contare tutti quei soldi.... circa 135.000 dollari di Zimbabwe fanno più o meno 280 banconote...
L’indomani mattina è subito viaggio verso il confine. Dall’altra parte troveremo i mezzi che ci accompagneranno per tutta la durata della nostra permanenza in Botswana. Il posto di frontiera credo non lo dimenticherà nessuno di noi, e non solo perché QUEL nome lo troveremo stampigliato a chiare lettere sui nostri passaporti: KAZUNGULA.
Prima tappa Kasane. Le prime emozioni ce le regala la navigazione sul fiume Chobe: una quantità imponente di ippopotami ed elefanti che nuotano pigramente, giocano, sembra inscenino quasi una rappresentazione per noi ammutoliti spettatori. Certo, tutti noi abbiamo visto almeno una volta qualche elefante al circo o allo zoo, ma vederli nel loro ambiente è veramente tutta un’altra cosa.
Ma arriva il momento di montare le tende e preparare la cena: all’unanimità optiamo per gli spaghetti al pomodoro. Già, ma dove sono le scatole di pelati acquistate il giorno prima? Alla fine ci arrendiamo all’evidenza: nella confusione abbiamo sicuramente lasciato lo scatolone nel carrello... e così tristemente ci consoliamo con spaghetti aglio, olio e peperoncino. La notte scorre tranquilla, anche se in quel camp il grugnito di mamma facocera e facocerini al seguito è l’accompagnamento sonoro che ci culla nel sonno; ma sono quasi domestici, nessuno di noi ci fa caso più di tanto.
Ma la vera avventura comincia però il giorno successivo. La mattina dobbiamo organizzarci per le provviste: per ben cinque giorni ci inoltreremo nelle riserve e non troveremo più alcun punto per rifornirci. Quindi pane, acqua, verdura, frutta e scatolame vario a volontà, nonché gasolio. Per quest’ultimo però provvedono le nostre due guide/autisti locali: Sem e Patrick.
Fino a quel momento non ci eravamo resi conto di quanto fosse selvaggio l’ambiente, però, una volta entrati nel Savuti, il discorso cambia sostanzialmente. Infatti all’ingresso della riserva ci viene consegnato un foglietto ciclostilato, in lingua inglese, il cui contenuto è comunque chiarissimo: pericolosissimo uscire dalle tende di notte, chiudere bene le tende per evitare visite di serpenti e scorpioni, chiudere le stesse durante il giorno con un lucchetto anti-babbuino, montare le tende una vicino all’altra, ricoverare per la notte tutto il cibo dentro i mezzi e per finire l’avvertimento che la nostra sicurezza è affidata alla nostra stessa responsabilità. Alleluia!
Sono veramente giorni d’avventura. La prima notte percepiamo chiaramente la presenza di animali gironzolare intorno alle tende ma le norme sono chiare: non solo non uscire ma non aprire neppure le zip. Ci avevano assicurato che non sono certe le tende e le persone quello che interessano loro, solo il nostro cibo. Nel cuore della notte però veniamo svegliati da un forte rumore; qualcuno di noi urla qualcosa ma restiamo tutti ben chiusi dentro.
Alle primissime luci dell’alba usciamo. Una voce: “è sparita la cassa cucina!” Certo, il grosso delle riserve lo avevamo messo dentro i mezzi ma quella pesantissima cassa (chiusa dentro un grosso borsone) l’avevamo lasciata su un ripiano e conteneva solo pentole, scatolame, pasta, tortellini secchi (portati dall’Italia), pacchetti di patatine (sic!), olio e sale. Nonostante fosse veramente pesante (di solito veniva portata da due persone, una maniglia per uno) QUALCUNO era riuscito a portarla via! Sem e Patrick controllano le impronte: una iena. Una, sola, contro una voluminosissima ed ingombrante borsa! Con una torcia (albeggia sì ma è ancora abbastanza buio) qualche ardimentoso segue le tracce. Viene ritrovata, ad un paio di centinaia di metri; il borsone strappato con i denti e la cassa aperta. Tortellini e patatine sparsi ovunque ma l’impressione è che la iena non abbia gradito poi tanto... recuperiamo il recuperabile e, a parte la fifa di chi si trovava ad avere la tenda più vicino a dove la iena era transitata (e di cui, pare, avessero anche sentito lo sniffare intorno alla loro tenda stessa), i discorsi su questo fatto si sprecano. Diventerà il leit motiv del viaggio ma in ogni caso lo stupore per l’incredibile forza di questo animale sarà spesso argomento di discussione.
I giorni trascorsi a girovagare nel Savuti e nel Moremi hanno più o meno lo stesso andazzo: sveglia intorno alle 5.30, colazione, smontaggio del campo e partenza verso le 7.30 per sorprendere gli animali al loro risveglio. Intorno a mezzogiorno arrivo al campo (molto spartani sempre ma con servizi igienici e acqua), montaggio delle tende, panini. Un po’ di relax fino alle 16 e poi un’altra spedizione fino all’imbrunire sempre finalizzata all’avvistamento degli animali. Poi accensione del fuoco, preparazione della cena e nanna verso le 21,30. Bisogna dire che siamo fortunati, animali ne vediamo veramente tanti, ivi compresi una grande quantità di leoni. Be’, la prima volta l’emozione è realmente forte. In verità non li abbiamo neanche cercati, ce li siamo trovati praticamente sulla strada, dove però 3 o 4 jeep di altri visitatori erano ferme in religiosa osservazione. Sembra incredibile ma stai lì, sull’auto, a pochissimi metri da essi... Ma di leoni ne vedremo ancora tantissimi, praticamente tutti i giorni.
I nostri due mezzi abitualmente non procedono assieme, di solito prendono diverse direzioni tenendosi però in costante contatto via baracchino. “Sem Sem Sem... can you ear me?” “Pat Pat Pat, ok”. “Pat Pat Pat, can you ear me?” “Sem Sem Sem, ok” (noi non li chiameremo poi più Sam e Pat ma Sem Sem Sem e Pat Pat Pat). Quando sentiamo questi richiami da parte delle nostre due guide (dopo questo preambolo inglese però continuano nella loro incomprensibile lingua) si drizzano le orecchie pure a noi. Vuol dire che c’è un avvistamento “importante” da parte loro (dotati non solo di binocoli ma di un fiuto eccezionale) e l’invito a muoversi nella giusta direzione. Pat e Sem non disdegnano alcun animale ma il richiamo quando ci sono di mezzo i grandi felini è irresistibile. In quel momento l’importante è raggiungere il punto in cui si trovano, costi quel che costi. E così a dispetto della salvaguardia dell’ambiente, i nostri buffi autisti si lanciano a capofitto (anzi, ad autofitto) in mezzo alla vegetazione, travolgendo come caterpillar ogni cosa. Alberelli, cespugli, termitai, nulla viene risparmiato. Saltiamo come fusilli in padella, fustigati in viso e nelle braccia da rami sporgenti, feriti da arbusti spinosi... un delirio. Siamo letteralmente travolti dal loro entusiasmo e dalla loro veemenza, dal loro ardire e dalla loro pazzia. Ed ecco così allora una volta il leopardo, un’altra volta il ghepardo. Sublimi visioni... grazie Sem Sem Sem, grazie Pat Pat Pat.
Ma un giorno... ecco là un altro leone, un giovane maschio. Usciamo dal sentiero principale e ci inoltriamo nel bush. Arriviamo prima noi con il mezzo più grande, nove più Sem. Ci fermiamo ad osservarlo. Arriva anche Pat con gli altri quattro. Siamo vicinissimi a lui. Clik di foto a volontà, riprese filmate. Il leone è nervoso e si muove, forse è meglio andare via. Ma, ma, ma... ma ci siamo infossati in un termitaio! Ogni tentativo di uscirne è vano. Dapprima ne ridiamo... ma poi la situazione si fa critica. Il leone pare infastidito, ci guarda male. Cominciamo ad avere una certa apprensione... ridiamo per non piangere... sicuramente il leone non ha nessuna intenzione di assalirci ma in fondo siamo inermi, nessun vetro di protezione (gulp, io sono proprio da quella parte). Ovviamente scendere e spingere (scendere tra l’altro è proibito, sole le guide possono farlo) è assolutamente impossibile. L’altro mezzo gira allora intorno al leone per allontanarlo. Ma lui sì che si sposta... ma si avvicina ancor più a noi. Alla fine, dopo una decina di minuti che paiono eterni, Pat appoggia il muso del suo mezzo (più piccolo) alla parte posteriore del nostro e spinge... spinge... finalmente ne usciamo ma siamo tutti un po’ provati... rimanere bloccati ad un paio di metri da un leone fa un certo effetto.
Il giorno di Natale siamo nel Moremi e l’unico lusso che ci ritroviamo è il pandolce genovese portato dalla sottoscritta... nonché un improvvisato spettacolino da parte di noi donne in cui prendiamo in giro i maschietti del gruppo.
L’ultimo giorno di permanenza nel Moremi ci riserva una brutta sorpresa: il pane è ammuffito e ci dobbiamo accontentare di un po’ di formaggio e qualche scatoletta. L’acqua confezionata l’abbiamo finita da un pezzo, andiamo avanti con acqua locale potabilizzata ma calda e giallina. Per fortuna per la sera è previsto l’arrivo a Maun; qui ceniamo in un ristorante dell’albergo annesso al nostro camp. Inutile dire che ci rifacciamo, mangiando a volontà e deliziandoci con birra fresca.
Da Maun, il giorno seguente, prediamo dei piccoli aeroplani da tre e cinque posti con i quali sorvolare il delta dell’Okawango. Purtroppo il tempo è pessimo e non è possibile spingerci fino a là. Ne possiamo osservare solo la parte iniziale ma il volo è sicuramente emozionante. Io sono su uno da tre posti, accanto al pilota che si esibisce in voli radenti, virate all’ultimo momento... cosa sono le montagne russe al confronto? Mamma mia... il mio stomaco è sottosopra ma l’esperienza stupenda.
Il viaggio continua. E’ prevista una giornata in un’isola in mezzo al delta del fiume. Al mattino un barcone ci conduce colà, circa tre ore di navigazione, sotto un sole cocente ma con un panorama incantato. Papiri, ninfee ed altre piante acquatiche in un meandro di canali impressionante. Stupendo.
Nell’isola non c’è nulla, ci siamo portati lo stretto indispensabile per una notte ed una cena. Qui ci accoglie un bel teschio di bufalo posizionato strategicamente su alcuni tronchi d’albero abbattuti. Presto questa visione un po’ macabra cambia decisamente aspetto, esattamente quando uno dei corni di detto teschio viene usato come supporto per la carta igienica (ebbene sì, sono stata io... però nel nostro viaggio la carta igienica veniva adoperata non solo per il suo naturale fine ma anche come tovagliolo, fazzoletto, scottex e via discorrendo). Nel pomeriggio ci spostiamo, sempre con il barcone, in un altro canale dal fondale basso e sabbioso dove si può fare il bagno. Improvvisamente... un coccodrillo! Ma questo è anche il punto del bagno... ma come, dobbiamo fare il bagno con il coccodrillo? Va bene che è piccolo... la guida sorride e ci assicura che non c’è pericolo, è già scappato via... ed infatti non sarà quello a spaventarci! Il bagno lo facciamo, eccome, ed è bellissimo.
La notte, sull’isola, piove copiosamente.
Il giorno dopo si riparte, di nuovo rifornimento di viveri ed acqua, ci aspettano i tre giorni più duri: nel Kalahari, in totale assenza di camp, di acqua, di servizi igienici, di strutture di alcun tipo.
Nel Kalahari salutiamo il 2002 in una notte di fine anno che ricorderò sempre come una delle più belle della mia vita. Cenone a base di “tartine” di salmone in scatola (a parer mio disgustoso) con maionese, tortellini al pomodoro, pollo alla griglia e torta. Poi lo spettacolino inscenato dagli uomini (strabiliante, una cosa veramente superlativa), canti e balli intorno al fuoco ed alla mezzanotte brindisi “stappando” lattine di birra calda. Niente petardi, auto strombazzanti... solo le nostre voci, quelle delle rane e la luce delle stelle o quelle degli occhi degli animali selvatici che brillano nell’oscurità.
Lento il ritorno alla civiltà... nuovamente Kasane. Cena al ristorante (a base di carne di kudu e impala) ed altre prelibatezze. Ma i bachi fritti quelli no... non li avrei assaggiati per tutto l’oro del mondo, che schifo! Ma la notte riserva ancora un’emozione. A differenza dell’andata il camping è pieno e non c’è neppure una piazzola libera in cui poter montare tutte le nostre tende. Siamo costretti a sparpagliarci. Io scelgo un posticino fra due alberi, a ridosso del fiume. Abbastanza vicino un’altra delle nostre tende e tutti gli altri più a monte. Nel cuore della notte vengo svegliata di soprassalto da un grugnito gigantesco. Di lì a poco altri versi e poi la netta sensazione della presenza di un animale che sta brucando l’erba vicinissimo alla mia tenda. Sono in apprensione, resto immobile e quasi non respiro. Possibile che il facocero faccia tutto quel rumore? Poi urla concitate e risate sommesse da parte di un folto gruppo di scout nelle vicinanze. Non ho il coraggio di aprire la tenda ma poi, dopo minuti che sembravano eterni, torna il silenzio. Riesco a riprendere sonno. Al mattino mi rendo conto che lo steccato in prossimità del fiume è divelto; i miei compagni di viaggio che avevano passato la notte lì vicino mi chiedono immediatamente: “hai sentito l’ippopotamo stanotte?”. Ecco cos’era... mamma mia, quello si che era pericoloso... con la sua mole bastava una zampata anche involontaria alle tende e poteva schiacciarci! Fortunatamente la mia postazione incastrata fra gli alberi mi riparava ma gli altri se l’erano vista brutta davvero! Era stato necessario, mi dicono, chiamare un ranger per allontanarlo. E loro avevano aperto la zip e l’avevano visto bene... era veramente a due passi.
Ma l’indomani è già frontiera e Vic Falls.

Un commento in “Botswana, il sogno africano
  1. Avatar commento
    cbomusrwp vzidg
    22/08/2007 13:25

    mntple pguraft mejshfqck qxmripyab xhfc rcaqejx lvdyfpnuq

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