Un panettone all'Asmara

Un memorabile viaggio alla scoperta dell’Eritrea, un Paese ai margini delle rotte turistiche ma prodigo di scoperte e di infinite sorprese

 

 

Non ho mai avuto un interesse particolare per la storia coloniale italiana e quindi una conoscenza di essa, esclusa una infarinatura generale ricordo di scuola o acquisita dalla televisione. Il termine stesso “colonialismo” mi è simpatico come una visita dal proctologo. Mi sono accostato a questo viaggio senza un particolare interesse sull’argomento, senza letture o preparazione, solo con una minima curiosità di fondo, pensando che fosse un aspetto marginale, secondario rispetto alle “mitiche” Dahlak, ai mercati di Cheren o al fascino dell’Africa in generale.
Mi sbagliavo.
L’italianità in Eritrea è una presenza netta, palpabile, decisa e sorprendente. Impossibile da ignorare, ti circonda, in modo tangibile e netto e piano piano ti appassiona, rendendo alla fine imprescindibile, nel viaggio in questa parte del corno d’Africa, il rapporto con la nostra propria italica storia.
Sembra un po’ di viaggiare nel tempo, oltre che nello spazio e rivedere un’Italia passata, della quale io, classe 63, qualcosa ricordo (purtroppo), ad esempio le scranne del barbiere, simili a quelle dove sedevo ragazzino quando la mamma mi obbligava al taglio dei capelli che, porca paletta, avevo! Le automobili Fiat datate, le locandine, gli accessori anni 50/60/70 presenti un po’ ovunque. Per fortuna i treni a vapore sono un’anticaglia anche per me, così come le scritte e gli edifici coloniali modello ventennio, ma l’edificio del Cinema Impero è assolutamente somigliante come struttura ed architettura al Cinema Italia del mio paese d’origine.

Itinerario

Esco dall’Hotel ad Asmara per una piccola passeggiata prima della partenza per le Dahlak ed in un attimo sono in Via Bologna, davanti ad un piccolo emporio con in vetrina una bella pila di panettoni, marca “Asmara” in bella vista. Passo vicino alla ferramenta, alla farmacia, al barbiere. Insegne in italiano attigue ad incomprensibili diciture in tigrino, scritte nell’elegante alfabeto ge’ez.
Sono leggermente straniato.
L’Italia esce prepotente parlando con le persone, in italiano, spesso anche ottimo. Gente cordiale, espansiva, che ti ferma per strada, nelle pasticcerie, nei caffé, contenta di scambiare quattro chiacchiere con degli stranieri, meglio se italiani. Non solo anziani, memori di tempi lontani, mitico il ferroviere della stazione d’Asmara, ma anche giovani, figli o nipoti di chi c’era al tempo dei coloni. I giovanissimi invece sono più propensi all’inglese, almeno quelli che studiano.
E si parla di quando c’erano gli aranceti, si lavorava nella fabbrica di questo o di quest’altro, si producevano i tali prodotti. Citano esempi, nomi di persone la cui provenienza era Milano, Napoli, Roma, Trieste.
Raccontano con orgoglio, volevo scrivere quasi ma sarebbe errato, di tutto ciò che c’era e si faceva, quando c’erano gli “italiani”. Ma ora? Gli occhi s’abbassano leggermente, i visi si adombrano. Ora gli aranceti non ci sono più, i negozi sono chiusi, le fabbriche pressoché tutte ferme. Gli “italiani” quasi tutti via. A bassa voce esce il vocabolo: “Nazionalizzazione”. Traspare una fortissima nostalgia. Tutto ciò stride con la consapevolezza e la conoscenza dei crimini compiuti dai nostri compatrioti di allora nella vicina Abissinia. Stride con le leggi razziali, non solo quelle verso gli ebrei in patria, ma proprio quelle segregazioniste promulgate negli anni del fascismo per gli abitanti di colore delle colonie. Ho scoperto al ritorno, ricercando sia fra libri che sul web che sono state copiate ed usate come spunto per il modello legislativo dell’aparthaid nella repubblica Sudafricana.
In seguito, approfondendo i discorsi, dopo questo sentimento “nostalgico”, emerge uno scoraggiamento diffuso per il presente, una mancanza quasi totale anche di speranza per il futuro, un adeguamento passivo ad uno stato in essere che lascia parecchio perplessi.
Per comprendere questa “atmosfera” serve anche un breve cenno di storia, perdonatemi o passate direttamente oltre, senza problemi.
Dopo la seconda guerra mondiale l’Eritrea ha vissuto in successione: il mandato inglese, in realtà un vero e proprio saccheggio, la federazione con l’Etiopia e la relativa annessione che ha portato a ben 30 anni di guerra; l’indipendenza, seguita da altri 5 anni di terribile conflitto armato sempre con gli etiopi, per ritrovarsi ai giorni nostri con un dittatore sottoposto a mandato di cattura internazionale dell’Onu per crimini contro l’umanità, abituale frequentatore di villa Certosa almeno fino a quando s’arrischiava ad uscire dal Paese.
Ovviamente, oltre ai danni sociali, umani ed economici portati dai conflitti, c’è stata la fuga dei capitali, degli investimenti e delle risorse straniere, con il risultato complessivo di un Paese al collasso. A questo si aggiunge la chiusura totale del regime finalizzata al controllo ed al mantenimento del potere a qualsiasi costo ed a qualsiasi mezzo: detenzione in veri e propri lager, tortura, sparizioni ed assassinio. Potere che viene mantenuto anche grazie all’appoggio ed ai soldi occidentali, fra i quali finanziamenti direttamente italiani. La storia è tonda. In definitiva l’Eritrea si trova in una specie di limbo dove l’unica certezza è l’incertezza e scusate il gioco di parole. Paradossalmente il nostro appoggio torna indietro a boomerang. Il fenomeno migratorio da questo paese è uno di quelli cresciuti maggiormente ed il dramma dei profughi, pur non arrivando alle cifre del Darfur, in rapporto anche all’esiguità della popolazione, uno dei più drammatici.
Per saperne di più: http://www.asper-eritrea.com/
Ce n’è abbastanza per comprendere lo sconforto degli eritrei, africani atipici per intraprendenza, abilità ed organizzazione, chiusi, in senso reale, non metaforico, in un Paese disastrato, con enormi possibilità, ma nessuna prospettiva.

Chiusa la, troppo, lunga introduzione passiamo al viaggio.
Non era in previsione, deciso quasi all’ultimo per l’impossibilità di partire per la meta scelta ci affidiamo, e due, sto invecchiando, a dei professionisti. Tre giorni sul sambuco a navigare con un po’ di compagnia non sono nemmeno tanto male, che Dio gliela mandi buona, conoscendomi, e per il problema, serio, dei permessi. Qui senza permesso non ci si sposta, qualcuno ci scherza pure e dice che serve anche per andare in bagno.
Da tempo volevamo vedere le Dahlak, da quando uno sconosciuto ce ne parlò in un remoto aeroporto dimenticato da Dio e dagli uomini descrivendo una specie di Godland e di conseguenza mettendomi il tarlo in testa. Saltata la meta prefissa prendiamo l’occasione: andiamo a vedere queste isole mitiche. Ci affidiamo al corrispondente della principale agenzia eritrea con una partenza sicura.
Volo via Cairo senza intoppi ed arrivo notturno all’Asmara dove scopriamo l’affettuosa accoglienza della burocrazia Eritrea a cui dedicherò un cenno a parte in seguito. Passate quelle tre orette in aeroporto ci trasferiamo all’Hotel Embasoira ormai all’alba, il quale sarà la nostra base fissa in città. Poche ore di sonno, due passi tanto per farci il naso alla città e siamo già sul pulmino con il resto della compagnia e la guida in direzione mare.
LA STRADA ASMARA-MASSAWA detta anche strada degli italiani (ma va?) è famosa per precipitare dai 2500 metri dell’altopiano al livello del mare in circa 105 km. Dei quali i primi 48 fino a Ghinda si snodano fra tornanti, dirupi e discese scoscese, ma quanto sono aulico, in un paesaggio giallo ocra punteggiato da piante d’euforbia e piccole acacie. Si incontrano villaggi dove spiccano chiese ortodosse e campanili rendendo più acuto quel senso di Africa particolare già percepito a l’Asmara.
Nel primo tratto si costeggia l’altrettanto famosa ferrovia, capolavoro d’ingegneria, definita ottava meraviglia del mondo dai giornali dell’epoca, costruita fra il 1887 e il 1932, con i suoi 64 ponti e 30 gallerie, la quale sarà meta di una gita in treno a vapore nei prossimi giorni. Ora passiamo di corsa.
La prima sosta è a GHINDA, per una fugace visita al mercato, primo contatto con il variopinto mondo degli eritrei. A differenza della capitale qui è più forte l’influenza e la presenza islamica e si manifesta tutta la multiculturalità di questa terra. E’ interessante vedere in mezzo ai normali prodotti da mercato, fra uomini in turbante e donne coloratissime, degli alberi di Natale e delle confezioni di palle colorate.
Segue una sosta alla stazione abbandonata di MAJ ATAL, edificio che avrà certamente memorie storiche italiane ma è ridotto assai male, così come i convogli abbandonati sulle rotaie, i quali portano anche evidenti segni dei combattimenti tenutisi in zona.
Visita al Sacrario e cimitero della località di DOGALI dove il 26 gennaio 1887 si svolse l’omonima battaglia fra abissini ed italiani, conclusasi con l’eccidio della colonna del tenente De Cristoforis, circa 500 caduti.
Passaggio per l’altrettanto famoso ponte a tre arcate sul torrente Desset con inciso il motto della Brigata Aosta.
MASSAWA: la città fantasma. Arriviamo ormai a sera e purtroppo non ci sarà tempo per una seconda visita più approfondita. La città è fatiscente, le saline ferme, il famoso porto non esiste più, l’altrettanto famoso lungomare distrutto. Ovunque costruzioni abbandonate o cadenti. Eppure guardando le facciate, i portoni, le colonne c’è da restare ancora affascinati dal connubio di architetture dei suoi edifici. Arabi, italiani, ottomani, portoghesi, hanno lasciato la loro impronta in questa città da sempre crocevia culturale e commerciale.
L’unico edificio ristrutturato a nuovo è la moschea, grazie ai fondi degli arabi del golfo.
La via principale con i suoi caffé, i portici, l’Hotel Torino, le facciate storiche è una chicca. Si incontra pochissima gente e nelle strade c’è una incredibile atmosfera rarefatta. Ceniamo nella città vecchia con i tavoli per strada alla luce delle torce presso un molto spartano ristorantino locale a birra e pesce fritto. Pernottiamo nella megastruttura nuova dell’Hotel Dahlak, proprietà ed investimento italiani. Edificio che fa a pugni con la realtà circostante, due estremi in 50 metri. L’hotel è ottimo, non c’è che dire.
Adeguatamente ristrutturata questa città sarebbe una meraviglia, nonché una miniera d’oro, turisticamente parlando. Ora è l’esempio più eclatante fra il ciò che fu e la realtà odierna.

Quando la mattina dopo ho visto il sambuco confesso d’aver avuto qualche perplessità, praticamente è un guscio di noce, si spera, galleggiante, ma simpatico. L’equipaggio è un gruppo di affabili selvatici Dancali.
Preso possesso del ponte con una quantità smodata di masserizie si parte, per fermarsi subito al faro piazzato all’entrata della baia dove un solerte funzionario, alloggiato in una scassata casupola, vidima i permessi per le isole. La scena mi ricorda il soldato a guardia del bidone di benzina delle Sturmtruppen.
Tempo di prendere il mare aperto e siamo già fermi, surriscaldamento motore e problemi alla pompa dell’acqua, scattano frenetici lavori in modalità africana, quindi dopo un’oretta di sosta, non si sa come e perchè ma si riparte a velocità ridotta, se capisco bene da 8 a 5 nodi, roba che farebbe invidia ad Alonso. Comunque le varie soste raffreddamento ci faranno fare dei splendidi bagni al largo. Lungo la navigazione spesso ci accompagnano dei piccoli velocissimi delfini e vediamo anche una tartaruga.

Le DAHLAK in realtà sono lembi di deserto affioranti dal mare, per lo più tavolati d’origine corallina, quindi se qualcuno pensa di trovare palme o qualcosa similare ai Caraibi ha sbagliato di grosso.
Ricoperte di acacie ed arbusti, brulle e bruciate dal sole, prive d’acqua dolce, offrono un paesaggio in tutto simile a quello tipico dell’Eritrea inframmezzato però da spiagge e calette di sabbia corallina. Arcipelago formato da 126 (wikipedia) a 360 isole a seconda di chi abbia fornito il dato, delle quali solo quattro abitate, di cui una sola, Dahlak Kebir o Gran Dahlak con una popolazione vagamente cospicua, in totale 2500 anime. Inutile dire che l’attrattiva principale, oltre alla quasi nulla antropizzazione, la possibilità di un esperienza alla Robinson Crusue, la sensazione d’isolamento, è il mare. Un mare di un verde e blu intenso, incontaminato, ricco di flora e fauna, barriere coralline, fondali da sogno, seppure non particolarmente limpido, anzi a volte torbido, essendo ricchissimo di plancton e con una salinità del 38 x 1000, motivo per cui è carico di vita sia vegetale che animale. Questa abbondanza di nutrimento è dovuta ad un’altra eccezionale caratteristica a me molto cara: la temperatura dell’acqua, dai 26 ai 32 gradi secondo stagione, una pacchia per chi come me apprezza l’acqua fredda come una statua di Scilipoti nudo.
In realtà, con il sambuco e 3 o 4 giorni a disposizione di isole se ne vedono 2/3 al massimo e le più vicine, questo va detto, ma l’esperienza merita lo stesso calcolando che si passa la quasi totalità del tempo a bagno o sulla barca.
Infatti, dopo la lunga navigazione, passiamo la prima giornata a mollo a fare snorkellig in prossimità di dell’isola di Dissei.
La prima cosa che balza agli occhi è la qualità della barriera. L’isolamento di cui ha goduto quest’area negli anni, il rispetto della popolazione locale, e cosa incredibile, la tutela ambientale con l’istituzione del parco, oltre al fatto che grazie a Dio non è stato trovato il petrolio, hanno lasciato un reef pressoché intatto, enormi alberi di corallo, ramificazioni, sculture immacolate, perfettamente integre, come non se ne possono vedere molte in barriere più grandi e rinomate.
Qui apro una parentesi, scusate la grafomania, sul perché io sia, con il passare degli anni, sempre più misantropo e non ami molto questo tipo di viaggi preferendo quelli in solitaria.
I fondali delle Dahlak sono bassi o meglio, a volte le costruzioni coralline sono talmente alte che arrivano a pelo dell’acqua, si nuota in anfratti, canyon, fra rocce, propaggini, rami, fioriture, ecc, non conosco la terminologia tecnica per descrivere quelle meraviglie ma so per certo che sono molto fragili, indifese e necessitano di tempi biblici per crescere.
Una: “Guarda guarda (saltellando... fuori dall’acqua dalla vita in su) sono in piedi sui coralli....
Applauso.
Due: maschio stessa famiglia.
Ti vedo una cosa strana sott’acqua. Chiamo Anna per mostragliela ma ti arriva esso, il quale eccitatissimo mi spiega dottamente cos’è ed a sua volta si mette a chiamare gli altri mulinando scompostamente con le pinne, le quali sbattendo contro i coralli rompono rami a tutto andare. Glielo faccio notare: “Guarda che stai distruggendo i coralli con le pinne, fai piano”. Questo mi guarda con l’interesse che può suscitare un programma dipartimento scuola educazione su rai 3 alle 03 e 18 e risponde: “E vabbé!” accompagnando con un gesto che, semiotica o cinesica che sia, è facilmente interpretabile con un chissenefrega! Giusto, chissenefrega, tanto le Dahlak sono “fatte”. Conoscendomi mi liofilizzo ed allontano veloce. Riporto e non commento, non essendo probabilmente senza peccato nemmeno io, però nuoto senza pinne che è un ottimo modo per non toccare i coralli, come facilmente intuibile a piedi nudi si impara subito ad evitarli. Grazie ad Annina che mi ha insegnato.
Chiusa parentesi. Raggiungiamo in seguito l’isola di Disset, la quale è una delle poche o l’unica che presenti delle elevazioni causate, forse, da antiche eruzioni vulcaniche. Sull’isola è presente un piccolo villaggio turistico, unico, speriamo per sempre, delle isole. Noi ci accampiamo in una baia di granella corallina, fra mare blu e collinette ricoperte d’acacie.
A Disset di notte vediamo quel fenomeno da me conosciuto come “mare in amore”. Agitando l’acqua alla luce radente della luna e delle torce essa si illumina e diviene fosforescente, con un effetto visivo coinvolgente ed affascinante.
Il secondo giorno ci portiamo sull’altro lato dell’isola e ci fermiamo al villaggio Dancalo. Non c’è molto da vedere, solo poche capanne sparse in una piana secca, poche masserizie, poca gente. Gli uomini sono presumibilmente a pesca per mare, unico mezzo di sostentamento locale. Qui non cresce praticamente nulla, pochissime anche le capre. Esclusi i pochi turisti, quasi inesistenti i contatti con il mondo. I rifornimenti d’acqua dolce arrivano dal continente ed a volte si dice che “vengano dimenticati”. Come possano vivere qui è un mistero e sopratutto come possano continuare a voler vivere qui anche a dispetto di un governo che li vorrebbe fuori dalle scatole.
Sarà il carattere duro e poco incline alla socializzazione degli Afar, orgogliosi ed indomabili, se ne vanno dritti per la loro, arida strada a dispetto di tutto e di tutti.
Sulla spiaggia ci aspettano le donne del villaggio fasciate nelle tipiche vesti colorate con una quantità di monili e coralli a vendere. Nessun bambino, solo qualche anziano. O non ce ne sono o gli importa poco dell’uomo bianco già da piccoli.
Acquistare qualcosa qui mi sembra doveroso e devo dire, in questo, il gruppo fa la sua parte. Compriamo anche una borsa di vongole che il nostro cuoco cucinerà con un piatto di spaghetti suscitando la nostra riconoscenza eterna.
Lasciato il villaggio ci dedichiamo ulteriormente al mare, motivo principale per un viaggio da queste parti, restando sempre più affascinati dal giardino di corallo sommerso. Leggo che il sistema madreporico delle Dalhak è, oltre che uno dei più incontaminati del mondo, uno dei più variegati e belli, confermo tutto.
Pernottiamo nello stesso posto della sera prima.

La tappa successiva è MADOTE che raggiungiamo in qualche ora di lenta navigazione.
L’isola è un affioramento di sabbia corallina, di circonferenza pari a mezz’ora di camminata a piedi, battuto dal vento, circondato da limpide acque verdi ed azzurre, coralli e pesci colorati. Un vecchio faro svetta al centro, presentandosi come un traliccio di ferro arrugginito. Un luogo che dire ameno è poco.
Passiamo un po’ di tempo sotto un sole a piombo fra bagno o correndo dietro agli uccelli, i quali vanno a posarsi sopra una lingua di sabbia che si perde in mare, per navigare dopo verso altri coralli e ritornare a pomeriggio inoltrato con un vento che rinforza di parecchio.
Infatti ceniamo sulla barca attendendo l’evoluzione eolica con l’ipotetica possibilità di rientrare verso un luogo, quale e quando, è tematica del tutto africana, più riparato. Naturalmente si sbarca al tramonto, il carburante costa.
La sensazione di isolamento sull’isola, fantastico gioco di parole, è notevole, come detto fa molto Robinson. Il vento pur forte non è eccessivamente fastidioso essendo piuttosto caldo. L’isola è abitata da migliaia di uccelli che di notte si alzano in volo in stormi immensi regalando uno spettacolo meraviglioso.
La mattina scrocco il thé ad un gruppo di pescatori approdati perché a secco di carburante. Tranquilli si sono accampati ed aspettano con africana calma, che qualcuno scambia con rassegnazione, quel qualcosa che in questi luoghi non è dato ipotizzare.
Ovviamente altro mare, rincorsa a rapaci e pellicani, fancazzismo estremo.
A Madote manca solo una palma per il resto è l’isola delle vignette.
Lento rientro a Massawa con salutari soste raffreddamento motore corollate da ulteriori bagni al largo. Purtroppo non c’è tempo per fermarsi a Massawa, con molto dispiacere.

Terza città del Paese ed importante centro agricolo, situata sopra un altopiano semidesertico e piuttosto desolato, con i monti Sahel a fare da quinta, CHEREN è una località decisamente vivace, crocevia di traffici e commerci, che ha nei suoi mercati, frequentati dagli autoctoni Bilen e da un po’ tutte le etnie presenti in zona, l’attrattiva più affascinante. Un tempo abitata da un nutrito gruppo di italiani e meta di vacanze dei cittadini d’Asmara per il suo clima secco e salubre.
Ci arriviamo dopo un paio d’ore di pulmino e ci infiliamo subito nel polveroso mercato dei cammelli dove, in un’atmosfera decisamente sahariana, uomini barbuti dall’aria selvatica e fiera decantano lodi e grazie dei loro gobbuti animali in fervide contrattazioni.
E’ tutto molto caratteristico e pittoresco; il cammello per quanto buffo, brutto, rumoroso e vagamente puzzolente ha sempre il suo fascino per il turista occidentale.
Attiguo è l’incasinatissimo mercato dei bovini ed ovini, dove vengo bonariamente incornato alle terga da un torello enorme. I capi sono tutti ammassati ed è piuttosto difficile muoversi, bisogna farsi strada fra le mandrie con buona pace dei vestiti ma vale la pena per assistere alle negoziazioni in uno spaccato di vita decisamente lontano dai nostri canoni.
Nell’immediata periferia si visita il santuario della MARIAM DEARIT o Madonna del Baobab. Al centro di un bel prato verde all’inglese a cui si accede attraverso un fresco viale alberato piuttosto inconsueto vista l’aridità circostante, un maestoso baobab custodisce nel proprio concavo interno, come in una grotta, una statua lignea della Madonna Nera. Sulle pareti dello stesso ancora si possono vedere le scritte, lasciate per gratitudine dai tre soldati rifugiatisi nell’anfratto durante un bombardamento, scampati ad un ordigno infilatosi direttamente nell’albero e rimasto miracolosamente inesploso. Luogo sacro sia, come ovvio, per i cristiani, ma rispettato e venerato da tutta la comunità, mussulmani ed animisti compresi.
Procediamo poi per il mercato classico all’aperto lasciandoci inglobare dalla massa umana e non che si accalca fra mercanzie e masserizie, quello coperto con la frutta, la verdura ed infine per le botteghe ed i portici, fra sarti e mastri argentieri.
E’ un mercato nel complesso veramente suggestivo, assolutamente meritevole di una visita, molto frequentato, la cui attrattiva maggiore è data dalla gente stessa che lo vive. Si vedono fianco a fianco signore con una specie di burqua scuro che lascia liberi solo gli occhi ad altre vestite con il caratteristico abito bianco degli ortodossi, a matrone avvolte in coloratissime tuniche.
Una apoteosi di colori, odori, trambusto, polvere, nel quale è bello perdersi, tanto che rinunciamo al pranzo preferendo gli eccezionali frutti in vendita per pochi soldi, con menzione alle straordinarie banane prodotte in zona, smarrendoci fra vimini, stoffe, cianfrusaglie, pentole, tostacaffé, cereali, spezie e berberé che acquistiamo in formato famiglia oltre che i tipici scialli. Si trovano persino dei souvenir.
Del resto della città posso dire poco, mezza giornata abbondante, con i miei tempi, non è sufficiente nemmeno per il mercato, ma non mi è sembrato avesse attrazioni degne di una particolare nota. Il Tigu, castello egiziano domina la città dall’alto, ma non è visitabile al momento. Del palazzo imperiale non resta quasi nulla, distrutto durante i combattimenti del 77. Di passaggio vediamo l’imponente cattedrale cattolica e la moschea. Del retaggio coloniale visitiamo solo l’ex stazione ferroviaria ora terminal dei bus, o meglio quello che ne resta, dal grande valore storico ma decisamente deteriorata.
E’ comunque una città ariosa, come detto vivace, sicuramente piacevole. Il consiglio per chi andasse è di fermarsi a pernottare. Il mercato nel complesso da solo vale il viaggio.
Sulla via del ritorno, ovviamente per portarmi via hanno dovuto sedarmi, ci fermiamo ai Sacrari italiano ed internazionale dove riposano i resti dei soldati che combatterono la storica battaglia di Keren, la quale sancì di fatto la fine dell’impero coloniale italiano.
“In confronto alle battaglie della Seconda Guerra Mondiale, quella di Cheren, dal punto di vista fisico, fu un vero inferno. Nei nove mesi trascorsi in Europa occidentale, quale Comandante di Compagnia, posso assicurare di non aver mai trascorso giorni più duri di quelli di Cheren” (Maggiore inglese P. Searight). http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/41/africao.htm

Ci fermiamo per un’altra visita presso un villaggio tribale tradizionale formato da cinque o sei tucul), dove i ragazzi non brillano per ospitalità e simpatia, mentre le fanciulle sono, oltre che molto carine, anche decisamente più socievoli.
Riflessione cimiteriale. In questa apoteosi di visite ai cimiteri che, a priori devo ammettere ha una sua ragione storica, non posso esimermi dal lasciare una nota, chiedo venia, sfrutto questa possibilità d’espressione.
Confesso ed ammetto di non avere personalmente una grande affinità con i camposanti, men che meno con quelli militari e non nego che le ripetute visite non mi abbiano troppo entusiasmato.
Ciò che in particolare ha attirato la mia attenzione sono le note lasciate dai visitatori nel libro degli ospiti, presente in ogni Sacrario, trovandole piuttosto significative. E’ evidente che questi luoghi siano meta di un turismo commemorativo, oltre che storico militare e magari anche nostalgico dell’impero e quindi gli scritti siano improntati di conseguenza. Ho il massimo rispetto verso il cameratismo che può aver stretto fra loro uomini uniti dalla condivisione di esperienze così drammatiche e siano ancora legati a distanza di anni dallo spirito di corpo. Ma quando mi imbatto nella retorica più becera, quella che fa un uso spropositato ed a sproposito di tronfi vocaboli quali: dovere, gloria, onore, sacrificio, caduti, allacciati in tutte le combinazioni possibili con la parola patria, passo dal disagio, dato dall’essere prossimo a tante tombe all’irritazione pura, al disappunto e per finire allo sconforto. Nel vedere una teoria di lapidi che riportano tutte la dicitura di anni 24, la metà della mia età attuale, sinceramente di onore e gloria ne vedo pochi ma di idiozia molta e mi sconvolge constatare quanto poco si sia capito della storia ed ancor meno si sia tratto insegnamento da essa, motivo per cui si ripete all’infinito con gli stessi errori, le stesse perdite, le stesse commemorazioni, le stesse vuote parole inutili e futili ovviamente in maiuscolo.

Dopo una mattinata passata ad Asmara partiamo per MENDEFERA, circa 100 km a sud. L’escursione non prevista e a lungo discussa da una parte del gruppo è gentilmente offerta dall’organizzazione.
Si percorre la carrozzabile di montagna nel solito secco paesaggio punteggiato da acacie e polinfosfori, meno spettacolare rispetto a quello verso Nefasit, fino a circa 30 km dal capoluogo dove la strada inizia a scendere verso la pianura direzione Etiopia. Qui vive una colonia di scimmie ed una volta individuate è sufficiente fermarsi perchè loro si avvicinino anche di molto, consapevoli del fatto che faranno man bassa di biscotti, frutta, banane, e di tutto quello che un turista non dovrebbe dare ad un animale selvatico. Infatti le vediamo in alto sul pendio nei pressi di un tornante, ci fermiamo nel primo spazio possibile e loro arrivano di gran carriera. Non so che razza particolare siano ma sono decisamente belline, sopratutto mamme e piccoli e, nonostante si muovano a scatti in continuazione, regalano possibilità di servizi fotografici completi. La località dovrebbe chiamarsi Monguda.
Proseguiamo oltre imbucando la pianura decisamente arida ed arriviamo nella sonnolenta cittadina di Mendefera che però superiamo di gran carriera, fermandoci poco dopo presso una specie di pub, bar, caffé di una qualche pretesa. Qui ci rilassiamo, sorseggiamo una bevanda fresca, facciamo quattro chiacchiere, socializziamo, visitiamo un paio di pseudostanze pseudotradizionali, tutto piacevole per carità e ripartiamo.
Se si vuole vedere una macchina da gelato di una volta, quelle che facevano il cono a ricciolo, è il posto giusto, per il resto è una emerita perdita di tempo. Se qualcuno ve la proponesse, anche gratis come a noi, evitate, al massimo arrivate fino alle scimmie o fatevi pagare voi.

Per godersi appieno la VALLE DEI SICOMORI è fondamentale partire ad un orario che non saprei definire se notte fonda o mattino presto. Infatti partiamo con il buio e, per ovvi motivi, non sono in grado di descrivere il tragitto. Siamo a circa 100km a sud est di Asmara.
Mi sveglio appena dopo l’alba in tempo per ammirare uno dei paesaggi più belli visti in Eritrea, quello della piana di Deghera alla mattina presto. L’altopiano eritreo grazie alla sua posizione geografica a due passi dall’Oceano Indiano, permette spesso, per non dire sempre, almeno nella stagione invernale il fenomeno della bruma. La grande umidità prodotta dall’evaporazione si condensa nel fresco della notte sui pendii delle montagne producendo nebbie e foschie, le quali, man mano che si alza il sole ed aumenta la temperatura si diradano fino a scomparire.
Con le montagne a fare da sfondo, la piana, punteggiata dai bellissimi alberi di Sicomoro e da macchie di euforbie, è di per se paesaggisticamente bella, con la nebbia che, ora qua ora là, lascia spuntare vette e campanili, chiome o alberi spinosi ovattando tutto dietro il suo velo, assume un atmosfera rarefatta e spettacolare, decisamente magica.
Citato nel Vangelo di Luca, il peccatore Zaccheo si arrampica, non casualmente, sul Sicomoro per vedere Gesù (Lc 19, 1-10), considerato portatore d’immortalità e consacrato alla dea Hator nell’antico Egitto. Il Ficus Sycomorus è un albero che, oltre ad avere un alone metafisico, è molto bello a vedersi con le grandi fronde, benedizione sotto il sole tropicale ed i grandi tronchi un po’ contorti. In questa valle se ne ammirano esemplari vecchi di oltre 300 anni sotto le cui frasche ancora trovano ospitalità le comunità dei villaggi circostanti per riunirsi a dibattere, festeggiare o compiere riti.
Lasciati Sicomori raggiungiamo ADI KEYH, vivace cittadina di circa 13000 abitanti che ha vissuto momenti duri durante la guerra d’indipendenza ed ancora ne porta i segni, nei dintorni tuttora si trovano zone densamente minate.
Attorno alla moschea un altro caotico mercatino, più che altro gente che va e che viene affaccendata. Se pensate che a Keren ne abbia in qualche modo avuto abbastanza vi sbagliate di grosso, nel poco tempo in cui mi lasciano la briglia sciolta mi getto nel putiferio ed una volta di più resto sorpreso di quanto la vitalità africana sia contagiosa pur nella modestia dei mezzi.
Ancora più a sud lungo una stretta strada che diventa mulattiera raggiungiamo la diga di SAPHIRA, la quale si presenta come un terrapieno a trattenere uno specchio d’acqua limacciosa. L’importanza del sito è data dall’età, più di 1000 anni, forse oltre, a rifornire i pastori Saho di prezioso liquido.
Un ulteriore strappo e raggiungiamo KOHAITO, dove si trovano le misteriose rovine Axumite del V, VI secolo AC. Non metto in dubbio l’importanza archeologica del sito ma allo stato attuale delle cose da vedere c’è poco. E’ praticamente tutto da scavare e pare non esserci un grande interesse in tal senso al momento. Anche questa potrebbe essere una grande potenzialità turistica di questo Paese se sfruttata.
Di visitabile c’è la Meqabir Ghibtsi, ovvero una tomba egiziana entro la quale si può accedere attraverso uno stretto passaggio che conduce ad una piccola camera interna. Scendendo si vedono delle incisioni e si finisce in un buco. Il bello è risalire.
A circa un km si trova il tempio di Mariam Wakiro, un ammasso di pietre e pilastri dei quali solo quattro sono ancora in piedi, di cui uno ha sulla sommità un enigmatico “cappello”. La cosa più interessante che ho trovato è il contrasto con la moschea nuova di zecca costruita a poca distanza.
Le rovine sono collocate nei pressi di uno spettacolare belvedere, dal quale si possono ammirare le montagne circostanti, fra cui il monte Ambasoira e la valle sottostante con coltivazioni a terrazza e villaggi di capanne. Purtroppo all’orario in cui arriviamo la foschia è al massimo e non si riesce ad apprezzare appieno il paesaggio.
Con un breve, simpatico trek di una mezz’ora scendiamo in una gola molto suggestiva. Non ne sono certo ma dovrebbe essere Adi Alauti. Il sentiero si snoda sul bordo del dirupo fino a raggiungere in sequenza degli anfratti ove sono presenti delle pitture rupestri risalenti a circa 4/5000 anni fa. Non sono i Tassili, ma sono interessanti e la passeggiata è decisamente piacevole.
Sulla via del ritorno ci fermiamo ad una scuola, mi sembra cattolica, non ricordo bene, dove, oltre che ad insegnare ai piccoli alunni, c’è un laboratorio di filati ed, ovviamente, annesso spaccio. Questo mi permette, mentre quintali di scialli vengono riversati, tastati, commentati, radiografati, palpeggiati, assaggiati, contrattati sul bancone, di scattare qualche foto e fare un po’ il clown in classe. Entrare in una scuola africana è sempre un’esperienza e per me un piacere che, se possibile, cerco. E’ affascinante vedere i volti sorridenti, contenti, così distanti dalle facce, spesso cupe ed annoiate degli studenti europei. Scoprire che l’istruzione, la quale da noi scende dal cielo per Carità Divina quanto l’acqua dal rubinetto, può essere considerata una opportunità, una fortuna, per la quale vale la pena sacrificarsi camminando tutti i giorni km senza porsi il problema se lo zainetto sia pesante, semmai avercelo lo zainetto.
Un’ultima sosta sulla via del ritorno per scattare una foto al cippo posto a ricordo delle truppe coloniali del Comandante Martini che aprirono la rotabile.

THE STEAM RAILWAY
Mea culpa, mea culpa! Ebbene sì, ho peccato e mi cospargo il capo di cenere. Memore di trenini folcloristici alla gardaland, ad esempio quello di Alausì, pensavo fosse una tavanata per turisti anche questo e, con molto sussiego e puzza sotto il naso, faccio outing, ero quasi intenzionato a saltare la gita e dedicarmi ai mercati d’Asmara, ricchi d’attrattive. Mi sbagliavo di grosso, la gita è veramente bella.
Il treno storico, restaurato nei vagoni e trainato da una vera, originale, locomotiva a vapore Ansaldo, rimessa in movimento e funzionante con tutti gli annessi e connessi di un convoglio d’inizio novecento, polvere di carbone, fumo, vapore, rumore, ferrovieri sudati che spalano materiale nella caldaia fiammeggiante, ha veramente un sapore d’altri tempi, un vero fascino. La rotabile, con 64 ponti e 30 gallerie, curve strette, tutta filo strapiombo da sola meriterebbe il viaggio, se non altro per il valore storico che possiede. Per chi non fosse interessato alla storia, dal treno si ammira un paesaggio impossibile a vedersi dalla carrozzabile, molto più drammatico e spettacolare essendo il punto d’osservazione praticamente all’interno della gola stessa, proprio sulla scarpata come in un belvedere. E può anche capitare che il treno rallenti o si fermi perchè qualche pastore usa la ferrovia per spostarsi con tutto il gregge. La lentezza con cui si procede permette di fotografare e godersi la vista con tutta calma.
Una partecipazione, una visita sono il minimo che il turista può fare per ripagare gli sforzi costati per rimettere in sesto locomotori e strada ferrata, bisogna vedere dove passa per capirne la difficoltà e per non aver lasciato scomparire questa eredità storica. Di questo bisogna darne atto al presidente Eritreo. http://www.ferroviaeritrea.it/i_miracoli.htm
Il viaggio inizia dalla stazione d’Asmara e nel primo tratto la locomotiva spinge il convoglio, con fatica ma senza mai mollare, in salita fino al culmine offrendo, come nella valle dei Sicomori, scenografici banchi di nebbia in controluce con uno spettacolo di notevole bellezza. Nelle discese scopro che non ci schiantiamo grazie al freno azionato manualmente da un simpatico e concentrato frenatore, il treno non sbuffa, si scende a forza d’inerzia.
Oltre alle montagne sullo sfondo si scorgono chiese e villaggi, a volte in posizioni ardite. Si incontrano persone che vanno e vengono usando la ferrovia come strada, il contesto è animato e vivo.
Mentre viaggiamo una timida fanciulla prepara il caffé tradizionale con procedimento completo (2 ore), dalla tostatura dei chicchi, macinazione, bollitura e svasamento finale nelle tazze. Non mi dilungo, il caffé eritreo è eccezionale, gustoso e forte.
Al capolinea di NEFASIT viene girata la locomotiva a tirare il convoglio invece che spingere e lo spettacolo diventa ancora più suggestivo con il vapore che spesso e volentieri invade tutto sopratutto in galleria.
Con questa configurazione, dal predellino del vagone arrampicandosi sul parapetto ed appoggiandosi al bordo in ferro della locomotiva si riesce, a rischio della vita, a sbirciare l’attività dei macchinista e scattare foto a caso, meglio se in smodata quantità, dato che fra salti, fumo e scossoni è già molto non perdere di mano la fotocamera o se stessi, ma quello che esce è decisamente interessante.
Durante il ritorno ci si ferma a riempire la caldaia di acqua, purtroppo non ricordo il nome della località ma è una delle vecchie fermate, in una scena molto far west, se non fosse che siamo in Africa, a visitare la cisterna dell’acqua di notevole valore storico, una vecchia stazione, la quale come edificio è piuttosto insignificante ma ha all’interno un telefono fantastico oltre che naturalmente a qualche comunità ed ai problemi di rifornimento idrico. Sono molto carine le signore in gruppo tutte con un bidoncino giallo in mano.
Il viaggio finisce al vecchio deposito ed officina di Asmara, dove, purtroppo, abbandonati e fatiscenti giacciono venerandi locomotori Breda, stupende macchine utensili d’epoca, ricambi e pezzi di oscura provenienza. Si possono incontrare anziani ferrovieri felici di raccontare e raccontarsi dell’epopea del treno a vapore, del loro mitico tempo, degli “italiani”, di quella terra di sfide, opportunità ed avventurieri che era l’Eritrea degli anni 20 e 30 del novecento.

ASMARA
Visitiamo la capitale in ritagli di tempo più una giornata finale, spesa però per metà in un tour parzialmente inutile.
Che dire di Asmara? E’ quasi come essere a casa, mi chiedo se un tedesco a Swakopmund trovandosi davanti un mandingo di due metri che cortesemente gli chiede: Vollen Sie eine Bier? ha le stesse sensazioni di un italiano che si sente domandare in lingua madre: Corretto l’espresso?
La prima impressione è che l’illuminazione pubblica è un po’ carente, la seconda è di tranquillità. Appare una città molto sicura ed è una città molto sicura e tranquilla, di questo i suoi cittadini ne vanno molto fieri. Per correttezza, di tutto ciò scritto all’inizio riguardo la situazione politica qui si intuisce poco se non nulla. Non c’è nemmeno una grossa presenza di polizia o militari, per lo meno non visibile. Ci giunge una sera la notizia che qualcuno ha visto un cellulare della polizia fermarsi in centro e caricare a forza dei giovani apparentemente tranquilli per i fatti loro. Chiedo se fosse successo qualcosa e mi rispondono che è normale, succede spesso. E lo dicono con lo stesso trasporto con cui si parla del tempo, pioverà?
Rispetto agli standard africani è una città decisamente pulita ed ordinata, non soffocata dal traffico, minima la presenza di mendicanti, bassa anche la presenza di venditori o procacciatori. I più sono simpatici vecchietti, sopratutto uno onnipresente, i quali vendono pubblicazioni in italiano più o meno storico coloniali. Dà l’impressione di un buon tenore di vita, con bar e caffè pieni di gente, sopratutto giovani ad affollare le ottime pasticcerie del centro. Ed i quartieri più poveri in periferia sono molto distanti dagli slum di Nairobi. Una città ariosa, piacevole, con degli abitanti cordiali, espansivi, sempre disponibili a chiacchierare con i visitatori, se italiani meglio.
Siamo alloggiati all’hotel Ambasoira, di buon livello, con un atrio animatissimo da uomini d’affari e simpatiche donzelle dalle acconciature elaborate, fuseaux fucsia, top leopardati e tacchi 12 oro o argento. La cosa mi ha dato un po’ da pensare, visto un tizio che ogni sera saliva e scendeva dall’ascensore con una diversa; chissà cosa ci racconta, forse è la macchina che c’ha che conta! L’hotel è in ottima posizione vicino al centro, nella zona delle ambasciate, quartiere sciccoso, tutte in vecchie ville italiane ristrutturate.

Il MADEBAR
E’ il luogo che in assoluto mi ha conquistato di più. Situato in un vecchio caravanserraglio a due passi dalla prigione e dal mercato, questo laboratorio/mercato a cielo aperto è una delle cose più straordinarie di cui abbia avuto la ventura d’imbattermi in giro per il mondo. Facciamo una prima scappata veloce in gruppo e ci torno nell’ultimo giorno libero, purtroppo a scapito di una visita più accurata della città, ma è un luogo decisamente affascinante come solo in Africa se ne possono trovare.
Qui vengono ammassati, lavorati e riciclati tutti i residui ed i rottami metallici possibili, in particolare fusti, i quali, liberati dai residui d’idrocarburo, vernici, materiali tossici ed ogni sorta di schifezze, vengono tagliati, piegati, sminuzzati, lavorati, saldati e plasmati manualmente fino a diventare lucidi come nuovi sotto forma di stufe, tostacaffè, posate, pettini ed utensili vari. Si gira praticamente tra botteghe ed un unico laboratorio sparso all’aperto fra: effluvi venefici, scintille di saldatura, fiamme libere, solventi, ferri sporgenti, lamiere taglienti, carichi in equilibrio precario, apecar stracarichi che contendono il misero spazio a carretti trainati da asini, ammirando l’abilità, l’ingegno, la fatica ed il sacrificio di uomini, spesso poco più che bambini, che compiono dei veri e propri miracoli con ciò che per noi è puro pattume.
Lascio ad altri la retorica e le considerazioni morali sulla differenza di valore delle cose esistente fra continenti diversi, nell’accezione più materiale del termine.
Dentro baracche, ormai inglobate in ammassi metallici, sono ammassati particolari meccanici smontati da chissà quanti mezzi fino ad altezze di 2 o3 metri. In una di queste, fantastica, ormai piena, si entra in una specie di cunicolo-camminamento fra pareti fatte da alternatori, pulegge, ingranaggi totalmente arrugginiti, nel buio totale. L’accumulo, l’ammasso, permettetemi il termine “impilamento”, acquisisce qui una dignità ed una elevazione che oserei definire artistica.
All’interno del caravanserraglio è presente anche un laboratorio di macina del peperocino che, come non bastasse, sparge le sue polveri sottilissime nell’aria. Il perimetro esterno è invece occupato da piccole botteghe di riparazione, dalle tv anni 60/70 ai lavori di sartoria.
Disclaimer: Lo scrivente è notoriamente instabile mentalmente e non è quindi responsabile di ciò che scrive. Potreste arrivare con molte aspettative e non essere soddisfatti. Si è visto qualcuno parecchio a disagio camminare in tal luogo.

ENDA MARIAM
La cattedrale copta: l’Edt la definisce un curioso esempio d’architettura eritreo italiana e pare non godere di particolari pregi artistici. Io ho trovato l’edificio piacevole alla vista, colorato, gradevole da visitare all’interno e decisamente interessante all’esterno, essendo frequentato un po’ a qualsiasi ora del giorno da simpatiche signore vestite nei tipici abiti bianchi copti, in devozione e preghiera. E’ un’ottima occasione per fermarsi ad osservare in perfetta solitudine, turisti pochi per non dire nessuno, generalmente mordi e fuggi, un esempio di vita e religiosità tanto simile quanto differente dalla nostra. Essendo un luogo sacro un po’ di educazione ed un 300 mm sono raccomandati.
Il giorno seguente, la nostra Befana, era il Natale Copto, purtroppo noi partivamo la notte stessa ed il non poter assistere mi è dispiaciuto molto, il consiglio è, se possibile, di includere tale data nel viaggio. Penso che ne valga veramente la pena.

Il MERCATO
Avvicinandosi al mercato, sotto portici che hanno visto tempi più gloriosi, i laboratori di macina di cereali, spezie e berberé meritano sicuramente una visita. Entrare e starnutire a raffica è una cosa sola.
I portici, retaggio tutto italiano, patrimonio del superiore gusto nostrano, sono purtroppo molto deteriorati, ma fanno uno sfondo molto coreografico, singolare in terra d’Africa e, come tutti i portici che si rispettino, pieni di varia umanità.
Sul mercato non aggiungo molto, ormai s’è capito che, fra spezie ed articagli*, mi trovo come un tuorlo nel guscio. Sia la parte coperta degli alimentari, che la parte per strada all’aperto sono molto vive, colorate ed affollate. C’è una parte turistica dove si trovano souvenir vari a prezzi più che accettabili. Molti prodotti provengono dal Madebar e volendo si possono acquistare direttamente là.
*Articaglio*: Manufatto assimilabile alla cianfrusaglia dall’apparenza complicata e di cui è difficile intenderne l’utilizzo, sostanzialmente inutile.
Non avendo la guida, quella cartacea intendo, ci siamo lasciati trasportare dall’estro del momento. Da un lato forse abbiamo perso qualcosa, la sinagoga ad esempio, ci abbiamo girato attorno senza vederla, in compenso abbiamo avuto un senso di libertà nuovo, affrancati da questo dogma turistico della visita a tappeto, ignoranti e quindi sorpresi da tutto abbiamo vagabondato molto rilassati fermandoci spesso per un caffé, the, birra e molti pasticcini. Oltre agli edifici coloniali, littori, razionalisti ecc Asmara offre scorci ed una serie di chicche veramente notevoli. Qualcuna ce la mostra la nostra guida (quella biologica a base carbonio) altre le scopriamo noi.
L’Albergo Italia, costruito nel 1899 e restaurato nel 2004, in Nafka Avenue è un gioiello di architettura italiana, lussuoso ma non pacchiano, ha nella doppia scalinata centrale la parte più interessante. Si può tranquillamente entrare a visitare e domandando si possono vedere anche le suite dai nomi colorati arredate con mobili d’epoca e riproduzioni in stile fatte a mano in Italia.
Non distante si trova la bottega del barbiere, protagonista di un servizio, se non ricordo male, di Bell’Italia. E’ imperdibile, un salto nel passato prossimo con le poltrone bianche e rosse e gli specchi “di una volta”.
A due passi c’è la farmacia centrale, con i banconi e gli scaffali di legno, anche qui si può entrare, cortesemente i gestori lasciano vedere e fotografare tutto. Sono tutti molto fieri dei loro “cimeli”.
Assolutamente da visitare è la posta di Asmara ed in particolare le cassettine delle caselle postali, non mi dilungo sull’amarcord ed i tempi passati, sono da vedere.
Proprio di fronte all’entrata dell’edificio c’è l’omonimo bar, uno dei nostri preferiti, frequentato da gagliardi anziani, è il migliore per sentire storie ed intrattenersi con gli astanti bevendo una birra quando c’è. Il locale è di per se molto carino, l’atmosfera assolutamente da vivere.
Lungo la via principale, Liberation Avenue, si trovano molti dei rimandi colonial/fascisti della città. E’ un’arteria molto viva, soprattutto alla sera al tramonto fra le 18 e le 20, piena di ragazzini che fanno lo struscio, che affollano la pasticceria Asmara e si fermano davanti alle vetrine delle boutique. Qui si trova il tearo dell’Opera con la fontana a conchiglia, interessantissimo l’interno, il cinema Impero, il cinema Roma, anche questo da visitare all’interno o almeno prendere un caffé nella hall, il municipio ex casa del fascio e la cattedrale in stile romanico lombardo.
FIAT TAGLIERO: Sarà anche una curiosità la stazione in stile futurista del 1938 ispirata alla forma di un aeroplano, punto di visita obbligatorio, ma io continuo a trovarla orrenda. Da vedere però!
IL MUSEO: Dedichiamo qualche ora al museo di Asmara. La cosa curiosa è il sequestro preventivo delle attrezzature fotografiche, neanche ci fossero i rotoli di Qumran all’interno. Purtroppo è proprio misero, qualche manufatto da Kohaito e poco altro.
L’ultimo giorno abbiamo fatto una serie di visite al mattino all’interno del teatro e del cinema, interessanti e meritevoli. Abbiamo effettuato anche un giro in pulmino all’esterno della città, lungo la collina, all’ex fiera ed al cimitero centrale: francamente, di cimiteri ne avevo avuto abbastanza ed il resto si può anche evitare. La cosa più interessante è il cimitero dei blindati. Ammassati ed arrugginiti giacciono centinaia se non migliaia di mezzi blindati residui delle guerre passate. Non ci fermiamo, pare che non si possa ma ci metto i miei dubbi.
Il programma prevedeva anche la visita ad un mio compaesano che possiede un’industria di confezioni molto moderna in città. Il personaggio è molto tenuto in considerazione, viene definito l’uomo più ricco d’Eritrea, un pezzo grosso insomma. Personalmente, per la mia professione di impianti del genere ne ho girati molti e, sinceramente, qui lo dico e lo ridico se è il caso, i delocalizzatori poco mi stanno simpatici, soprattutto quelli attirati dalla manodopera a bassissimo costo, ancor di più in un Paese dove per lavorare devi essere, nel migliore dei casi, immanicato con una feroce dittatura. Quindi per me ed Anna niente genuflessione rituale, ci facciamo sbarcare e giriamo in solitaria. Per onor di cronaca i nostri compagni di viaggio hanno apprezzato molto la visita.
Vado via dall’Asmara con una netta sensazione di “mancanza”, di aver perso qualcosa. Asmara si nasconde dietro muretti, nelle facciate vecchie, all’interno dei negozi. E’ una città da scoprire, grattando a poco a poco, nelle piccole cose, nelle reminiscenze, nelle nostalgie. Da girare lentamente e curiosare nei particolari.
Ma noi siamo occidentali ed il tempo per noi è tiranno.

INFO PRATICHE:
* AGENZIA: Specializzati nel corno d’Africa propongono un viaggio abbastanza completo che soddisfi tutti i gusti, senza molti fronzoli, e questo è un merito, ad un costo accettabile. Buono il pulmino, ottima la guida che si esprimeva in un italiano migliore del mio.
Non sono i miei viaggi, anzi non è un viaggio del tutto. Personalmente soffro fisicamente il non poter gestire il tempo e non seguire i miei interessi spesso difformi da quelli normali di un turista. Si è spettatori ma non partecipi. Mi manca l’imponderabile, l’avventura, la scelta. La valutazione è comunque positiva e la consiglio senza problemi. Unico neo, un sambuco più efficiente non sarebbe stato male.
* VOLI: Egypt air via Cairo, nulla da segnalare.
* VISTO: 50 euro, passaporto valido 6 mesi, fotocopia C I o certificato di residenza, modulo da compilare, una foto tessera. Mi dicono che da quest’anno è necessario recarsi di persona in consolato, non posso confermare ma è meglio informarsi prima.
* I PERMESSI. Per recarsi da una città all’altra o per visitare qualsiasi sito necessitano dei fantomatici permessi che vengono rilasciati da un non meglio identificato ufficio competente con tempistiche variabili, diciamo africane, il che significa non immediate. Molti luoghi sono proprio off limits, sono vietati ai cittadini eritrei, figurarsi agli stranieri. Questo limita molto il fai da te sopratutto se si hanno a disposizione tempi di permanenza brevi. Ha avuto difficoltà la nostra agenzia ad ottenerne qualcuno, non saprei dire per un ignavo turista che si rechi a domandare autonomamente.
* VALUTA: All’arrivo viene richiesto di compilare una dichiarazione di valuta che attesta l’ammontare di denaro in possesso. Al ritorno vengono ritirate e controllate con le ricevute di cambio. Questo per contrastare il cambio in nero: cambio ufficiale 1 euro per 20 nafka, in nero ne danno circa 60. A campione viene effettivamente controllata anche la quantità di contante in possesso che, ovviamente, deve concordare con la dichiarazione ed i cedolini del cambio. Non so cosa si rischi ma è meglio non scoprirlo. Se avete del denaro eccedente nascondetelo bene ed è vivamente consigliato non cambiare in nero se non si è assolutamente sicuri della persona con cui si ha a che fare, quindi possibilmente non in strada. In uscita vengono richiesti anche 20 dollari o 20 euro. L’euro è cambiato senza problemi. Le carte di credito sono pressoché inutili.
* ATTREZZATURA: Per le Dalhak portarsi maschera e snorkel, le pinne se potete lasciatele a casa che si nuota bene senza e fa bene. Nel caso cercate di non ballare il tip tap sui coralli (Vedi sopra).
Tenda: Quelle fornite sono a due teli, ne basta ed avanza uno. Se la portate, portatela leggera ma che si picchetti bene, tira vento.
Sacco letto: Se non si fanno pernottamenti sull’altopiano il sacco di cotone è più che sufficiente. Io avevo il sacco a pelo leggero e sono praticamente morto di caldo.
Vestiario: Serve poco. Per le Dalhak infradito, short, canotta, cappello ed un telo per asciugarsi e proteggersi dal sole. Crema solare, picchia e pure di brutto. Per il resto un pile ed un Kway bastano. La sera è fresco ma non freddo. I trek si possono fare tranquillamente con un paio di scarpe da ginnastica o pedule leggere, scarponi inutili.
* CORRENTE: 220 V: Non sempre funziona sul sambuco, portarsi scorta di batterie.
* BUROCRAZIA: A parte i fantomatici permessi dei quali parlo all’inizio, dallo sbarco dall’aeromobile al pulmann ci vogliono circa tre ore, passate fra inverosimili ingorghi di gente che rimbalza fra vari desk con in mano moduli e passaporti. Come negli Usa fanno la lettura ottica che però qui ha conseguenze da film di Mel Brooks. Armatevi di Santa pazienza.
* MALARIA: L’altopiano è malaria free, sulla costa si è più a rischio, ma non sembra essere particolarmente presente. E’ umido ma semidesertico. Noi la profilassi non l’abbiamo fatta ed a priori direi che è stata una scelta giusta. Di zanzare ne abbiamo viste poche, in compenso ci sono delle specie di moscerini bastardissimi.
* CIBO: Ovviamente in molti posti si mangia italiano interpretato, comunque non male. La cucina tradizionale è gustosa e simpatica. Vengono portati grandi piatti dove su un letto di ngera, sottile poroso pane di farina e taf, si trovano contorni, condimenti e carni. Li zighininì, stufato di carne e pomodori, lo shiro, un delizioso purè di legumi, l’onnipresente montone arrostito. La sambussa, involtino di carne trita speziata. Si trova qualcosa di piccante ma è adatto a tutti i palati.
La birra non è male. Il vino importato dall’Italia costoso.
RISTORANTI:
** La casa degli Italiani: Il posto è carino, un po’ osteria anni 50, stanzone con tavolone unico. Il gestore, del tipo faccio tutto io, siete nelle mie mani ecc, ci porta mozzarella e prosciutto locali, buoni e qualcos’altro di cui non ricordo nulla, niente menù. Paghiamo una cifra che non mi sembra consona rispetto alla media dell’Asmara. Per il giorno seguente convince il gruppo ad una cena a base aragosta (all’Asmara 2000 mt slm). Il tipo già mi piaceva poco, ho snasato la sola ed, unici, rifiutiamo facendo bene optando per una romantica cena all’Italia, infatti, il gruppo tornerà piuttosto deluso e qualcuno pure un po’ incacchiato. Assolutamente sconsigliato.
** Albergo Italia Molto bellino, signorile, se la tira un po’ ma non la mette giù troppo dura. Ceniamo in una stanzetta da soli in modo molto romantico. Lasagne alla moda eritrea, non male, nulla a che vedere con le autoctone ed un pesce in salsa agli agrumi. Rapporto, visto il locale, qualità prezzo ottimo. Il gestore molto compagnone. Almeno una volta si deve cenare qui. Molto consigliato.
** Il locale davanti alla statua di Puskin in piazza omonima di cui non ricordo il nome, non lontano dall’hotel Ambasoira. Locale tradizionale piuttosto piccolo con tavolini bassi, musica in sottofondo, molto carino. Cucina tradizionale molto buona. Ci facciamo due cene, una solo io ed Anna con il locale pieno di coppiette e ne usciamo soddisfattissimi, un’altra con tutto il gruppo, locale vuoto, cucina sempre ottima ma due ore per veder arrivare qualcosa di commestibile. Misteri d’Africa. Una nota per la bellissima cameriera che, da sola, vale una cena qui. Molto consigliato ma se ci finite il giorno sbagliato non prendetevela con me.
** Blue Bird: Elegante locale molto frequentato dai benestanti d’Asmara, di buona categoria, ampio, cucina tradizionale ottima. Ottimo rapporto qualità prezzo, vicinissimo al centro. Consigliato.
** Pasticceria Caffé Asmara: Frequentatissima dal pomeriggio in avanti, al centro di Liberation Avenue ha dei pasticcini veramente gustosi, un ambiente carino, cameriere efficientissime. Nostro pit stop preferito, fra ragazzini che si dividono i dolci con sguardi da pesce lesso, ilari gruppi di sciure e distinti rappresentanti dell’Asmara bene. Assolutamente da provare.

Tutte le fotografie: http://s20.photobucket.com/albums/b246/mononeurone/ERITREA/

 

 

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