Tierra Maya - Parte seconda

Continua il nostro viaggio in Guatemala e Honduras!

L’articolo si ricollega alla Prima Parte di questo resoconto, edito su questo stesso sito con il medesimo titolo.DIARIO DI VIAGGIO

Lunedì 30 giugno 2003
PANAJACHEL – ANTIGUA
È stata una notte un po’ agitata, durante la quale ho dormito pochetto.
Mi alzo verso le 6.30 e vedo che c’è un sole splendente e che il cielo non ha nuvole. Penso subito al lago Atitlan e all’immagine dei vulcani senza nubi né foschia che ho goduto per una breve frazione ieri dal pulmino per Chichicastenango. L’idea mi esalta.
Consumiamo in fretta la colazione a base di muffin (6 Q l’uno) acquistati ieri sera presso la panetteria ladrona della via principale, e di succhi di frutta.
Poi andiamo sulla riva del lago dove le mie speranze si concretizzano nell’immagine maestosa dei tre vulcani eretti fieramente sulla riva opposta del lago. Ci sono poche persone e nessuna barca. Vado sull’orlo di un molo e comincio a scattare qualche fotografia. Decido poi di aspettare una mezz’ora (sono le 7.30) per riprovare nuovi scatti con un sole più alto, sì che dia colore anche alla riva opposta del lago. La giornata è assolutamente limpida e si distingue chiaramente San Pedro, sull’altra sponda.
Ci spostiamo più il là, verso la foce del fiume.
Intorno alle 7.45 cominciano ad arrivare, l’una dopo l’altra, in rapida sequenza, le barche e le motonavi dei vari tours del lago. Mi appollaio sul bordo di uno degli ultimi moli, dalla parte opposta rispetto al nostro Hospitaje. Claudia cerca sassi e conchiglie, mentre io attendo il momento per qualche fotografia, ossia il momento in cui non ci siano né barche all’orizzonte, né scie di motori che solchino la superficie ondulata dell’acqua.
È un continuo attraccare di natanti mentre altri appaiono in lontananza.
Trovo l’attimo e faccio alcune foto. Mi accuccio per un’ultima foto, ma al mio molo attracca una barchetta. “Uno minuto” bofonchio, e il barcaiolo mi tranquillizza.
Finisco dunque la mia opera e ci riavviciniamo mestamente verso l’albergo per chiudere le borse.
Giungiamo al “nostro posto”, quello in cui siamo andati sempre, tutte le sere, a guardare il lago. Ci sediamo un’ultima volta per qualche minuto. Sul bagnasciuga sottostante pascola un cane randagio, di non so quale razza o incrocio, comunque taglia media, pelo corto e marroncino. Si stende proprio sotto di noi e volge il muso verso l’acqua. È un bel cane, mi piace! Dopo qualche minuto arriva un signore distinto, in abito sportivo, dall’aspetto decisamente agiato, con due bei cani ben curati al seguito. Sembrano cocker, ma non lo sono; sono troppo grossi per esserlo. I cani cominciano a correre e saltare. Poi il loro padrone lancia un bastone in acqua e loro si fiondano a prenderlo. L’altro animale, quello randagio, guarda la scena da una certa distanza, con un velo di tristezza negli occhi. Forse, pensiamo, desidererebbe tanto avere un padrone che gli lanci un bastone !
Salutiamo il lago, torniamo alla camera, dove non c’è né luce né acqua, facciamo i bagagli e, borse in spalla, ci avviamo faticosamente a prendere il bus.
Dopo varie vicissitudini e richieste di informazioni più o meno soddisfatte, scopriamo che la fermata si trova presso il distributore Texaco, lungo la via alta. Saliamo sul bus “Robuli” delle 11, che però parte alle 10.30, stracarico; fortunatamente eravamo già lì alle 10.
Sul bus ci sono anche i Turchi di ieri, che però sono Israeliani, parecchi Guatemaltechi, e un’Americana che parla Italiano e che mi attacca un po’ di bottone.
Ho fame e, prima di partire, mi compro un dolcetto tondo e piatto al cacao, con frutta secca varia. È buonissimo ! Purtroppo, essendo croccante, addentandolo ne lascio un pezzo in terra. Claudia si compera le patatine.
Mentre cerco di scattare fotografie ai bus, l’autista chiude la porta ed accenna a partire, al che io corro e mi faccio aprire.
Il viaggio, questa volta, dura due ore ed un quarto e costa 25 Q a testa. Evidentemente all’andata il buon autista si è preso il suo!
Il tragitto è tranquillo ed io sono di ottimo umore. Il veicolo è strapieno e alcuni passeggeri ritardatari sono seduti nel corridoio su dei secchi di plastica rovesciati che il bigliettaio ha fornito loro; qualcuno è anche in piedi.
Arriviamo alla stazione degli autobus di Antigua, a fianco al mercato, e ci fiondiamo all’hotel che abbiamo prenotato tre giorni fa, mentre il bus prosegue per Guatemala.
L’albergo è il “Hotel Santa Lucia n. 4” davanti al mercato dove, per 100 Q ci è data una bella camera doppia con bagno ed acqua calda. Si tratta veramente di un bell’edificio ed è quasi un rammarico non esserci stati nei primi due giorni. Dovessi tornare ad Antigua dormirei qui.
Ci rinfreschiamo ed usciamo. Andiamo al mercato a comprare il “bussino” per la vetrinetta di casa. Qui sono più belli di quelli in vendita a Chichicastenango e costano la stessa cifra (35 Q).
Poi ci rechiamo a visitare la chiesa della Merced, che abbiamo tralasciato nei giorni scorsi.
C’è la messa e la cosa ci stupisce perché sono le 15.30. La chiesa è gremita, sebbene sia ampia e spaziosa. Scatto qualche foto al suo interno, cercando di passare inosservato. Poi mi piazzo al centro della navata, davanti alla porta di ingresso, gambe divaricate e salde sul terreno, respirazione sospesa per acquistare stabilità. Mi accingo a prendere la mira per una foto dell’interno della chiesa, quando mi rendo conto che il prete, che mi è esattamente di fronte, sta santificando il pane ed il vino. Mi defilo subito, simulando un atteggiamento commosso, e ripeto l’operazione qualche minuto dopo durante la Comunione.
Usciamo per immortalare l’esterno dell’edificio, quando, finita la messa, i fedeli escono. Solo ora ci accorgiamo che è un funerale, poiché una bara è trasportata fuori sulle spalle. Deve trattarsi di un ragazzo giovane, perché sulla cassa è adagiata la maglietta di una squadra di calcio; potrebbe essere quella del Manchester, ma non ne sono affatto sicuro.
Entro, per 3 Q, nell’adiacente convento, che non merita particolare attenzione, se non per la bella fontana al centro del chiostro.
Esco e vedo che sta per iniziare un altro funerale.
Ce ne andiamo verso il Parque Central per rilassarci e riposare un po’. Minaccia di piovere, ma non succederà nulla.
Troviamo una panchina libera proprio nell’anello centrale della piazza, davanti alla fontana e in prossimità del telo di una venditrice nativa. Inizio a scrivere il diario, mentre Claudia guarda le persone e di tanto in tanto attira la mia attenzione per mostrarmi qualcosa di particolare. Alla mia sinistra, sull’altra mezza panchina, siede una coppia di giovani ragazzi guatemaltechi. Mi vergogno un po’ perché durante la giornata ho sudato molto…
Scrivo ed ad un certo punto Claudia mi fa notare una bambina molto piccola, di non più di quattro anni, nativa, con la sua blusa a fiori, con in testa un cesto enorme che porta con grazia e portamento impeccabili. Stiamo a guardarla un po’; Claudia tenta di fotografarla, ma lei si è ormai allontanata e persa nella folla. Poco dopo, di nuovo un’altra piccola, questa volta con gli occhiali, è la seconda che incontriamo, vediamo che gironzola con un enorme cesto in testa.
Claudia le scatta un paio di foto, anche se da distanza e di profilo. Poi la bambina ritorna verso di noi e Claudia non fa nemmeno in tempo a fare il gesto di estrarre la macchina fotografica dallo zainetto che la piccola iena ci si fionda contro e bofonchia qualcosa in spagnolo tipo “per la foto comprami qualcosa”, porgendoci delle palle colorate che probabilmente servono a puntare gli spilli. Non capiamo se si è accorta o no che l’abbiamo già fotografata, comunque dimostra una personalità da leone. Continua ad insistere. Chiediamo al fratello di 9 anni come si chiami: è Kelly ed ha 5 anni! Alla fine riusciamo a farla desistere, ma, allontanandosi, si volta e ci lancia uno sguardo di traverso, oltre i bordi delle lenti, che ci raggela. Restiamo a guardarla ancora per un po’ a distanza, divertiti per come meni il fratello e lo sgridi perché lui non l’aiuta a sollevare il grosso cestone con gli oggetti in vendita, che lei non riesce a maneggiare da sola. L’intero episodio è stato un vero spasso.
Poco dopo, mentre sono assorto nella scrittura, mi si siede a fianco un tipo incredibile: si tratta di un ragazzo a piedi scalzi, con le dita delle mani dipinte di smalto rosso, i capelli ricci e neri ed una espressione fortemente effeminata. La coppia guatemalteca si dilegua e io resto con questo vicino. Faccio finta di nulla e lui poco dopo se ne va.
Passa in questo modo, ossia nel completo relax, circa un’oretta e mezza.
Verso le 18 torniamo in albergo e, lavatici, usciamo di nuovo per la cena. Ci rechiamo dal panettiere davanti alla fermata del bus per del pane e poi andiamo al supermercato di fronte per acquistare qualcosa per domani a Copan. Quindi raggiungiamo il McDonald’s dove, con i consueti 50 Q, consumiamo due menù e navighiamo una mezz’ora.
Infine passeggiamo tranquillamente verso l’hotel; la serata è molto piacevole e le strade animate di gente. Ad un certo punto, lungo il tragitto, vediamo che dei locali hanno installato delle cucine di fortuna sul lato della strada e servono cibo su delle lunghe panche, affollate di persone che mangiano allegramente.
Giungiamo infine all’albergo dove, salite le tre rampe di scale fino alla nostra camera, mi appollaio per un pochino sulla bella panca in legno di fronte al nostro uscio per scrivere qualche riga del diario. Noto che c’è davvero un gran via vai di turisti giovani.
Si fa tardi e decido mestamente di coricarmi, vista la giornata intensa che ci attende domani.

Martedì 1 luglio
ANTIGUA – COPÀN – PUERTO BARRIOS
La sveglia suona alle 3.15: dobbiamo scendere per le 4 ed abbiamo giusto il tempo per una piacevole doccia calda e per chiudere le borse.
Siamo capitati davvero in una bella stanza.
Riusciamo a mangiare anche i biscotti con il succo di frutta acquistati prudentemente ieri sera al supermercato.
Verso le 3.30 il solerte custode viene a bussarci alla porta, sebbene ieri sera gli avessimo chiaramente spiegato che ci saremmo svegliati per conto nostro: probabilmente spera in una mancia che, comunque, non riceve.
Sgambettiamo giù per le scale con le nostre borsone e gli zaini e la macchina fotografica a tracolla.
Salutiamo nuovamente il custode e usciamo dalla bella palazzina sulla strada antistante il mercato; è ancora buio pesto e non c’è quasi anima viva; l’illuminazione stradale è comunque buona e di tanto in tanto compare qualche shuttle turistico illudendoci brevemente che la nostra attesa sia terminata.
Finalmente, puntuale, arriva il nostro veicolo: saliti, ripartiamo immediatamente e, dopo una breve ulteriore sosta per caricare altri turisti, partiamo alla volta di Guatemala City e poi Copan.
È l’ultima occasione per apprezzare e salutare Antigua in tutta la sua bellezza e peculiarità: le colorate viuzze disposte geometricamente acquistano un fascino particolare nelle ombre delle luci artificiali; passiamo anche per il Parque Central, illuminato e deserto, ma sempre speciale.
Il bussino è sostanzialmente carico: ci sono due coppie di giovani Spagnoli particolarmente distinti e due Inglesi che non sembrano conoscersi; in particolare lui è abbastanza curioso, nella sua aria da secchione.
Ho sonno, però la curiosità prende il sopravvento: non mi va proprio di dormire mentre sono in Guatemala, con tutto da guardare e scoprire!
Cominciamo a vedere i primi bagliori dell’alba: la strada è in discesa. Oggi lasciamo gli altipiani guatemaltechi per planare verso il mare di Livingston.
Evitiamo Guatemala City e imbocchiamo la carretera che unisce le due coste del paese, in direzione Puerto Barrios.
Il viaggio procede senza intoppi, attraverso un paese che diviene sempre più verde e collinoso.
L’autista guida spedito ed ascolta alla radio un programma che credo parli di calcio.
Verso le 7 ci fermiamo presso un albergo/ristorante lungo la strada, evidentemente “convenzionato” con il nostro accompagnatore, per la colazione. Abbiamo già mangiato, ma scendiamo egualmente. Entriamo nell’ampio locale dove dei tavoli preparati ci attendono. Ci sediamo a coppie su tavoli diversi. Ci sono anche altri avventori, tutti locali, dall’aria di essere camionisti. La televisione accesa appesa alla parete trasmette un notiziario e poi dei goals di chissà quali partite. Non sappiamo cosa prendere e ci guardiamo attorno spaesati, quasi a cercare qualche ispirazione sugli altri tavoli. Però non abbiamo fame. Infine giunge anche il nostro turno e la camiera ci avvicina interrogativa: sfoglio l’inutile menù in cerca di uno spunto. Finalmente optiamo entrambi per un succo di Papaya ed un plumcake in due. La ragazza scrive e si allontana. Dopo breve tempo ritorna e ci chiede, rigorosamente in spagnolo, se lo vogliamo allungato con acqua o con latte: “No! noi lo vogliamo puro” cerchiamo di farle capire. “Senza niente?” sembra interrogarci con uno stupore che ci stupisce. “Boh!” replico io, mentre lei se ne va. Claudia ed io ci gurdiamo come dire “Oddio, adesso cosa ci arriva?” o “Che cosa avrà capito?”. Attendiamo ancora fin tanto che arriva il plumcake, ma dei succhi nessuna traccia. Dopo una lunga attesa, a dolce ormai già digerito, finalmente ci appoggia davanti due grosse coppe di pura spremuta di papaya al 100 % non allungata e densa: è spaziale! veramente gustosa!
Così soddisfatti, pagati i 24 Q totali, riguadagniamo lo shuttle e ripartiamo alla volta di Copan.
Giunti a Rio Hondo, la strada si biforca: mentre la via principale procede verso i Caraibi, noi imbocchiamo la diramazione verso sud, verso l’Honduras.
Lungo la strada circondata da collinette ricoperte dalla consueta flora verdeggiante, oltrepassata Chiquimula, dove abbiamo in animo di trascorrere questa notte, giungiamo al confine.
L’impressione che lascia questa posto è di una certa desolazione: si tratta di un piccolo edificio che funge da posto di controllo e di una sbarra, a delimitare il confini vero e proprio. Ci sono diversi automezzi fermi in coda. I “doganieri”, in tutto una ventina di persone, vestono in abiti civili e solo qualcuno di loro è armato. In generale, non dà l’idea di essere qualcosa di serio.
L’autista scende, con i nostri passaporti e 3 USD a testa a titolo di tassa per l’ingresso in Honduras, e si dirige verso il fabbricato. Il ragazzo inglese secchione non ha dollari, ma soltanto Quetzales, che in Honduras non hanno alcun valore e non sono nemmeno accettati né cambiati; se li fa prestare dall’altra inglese. Anch’io smonto dalla macchina e faccio quattro passi lì attorno per poi sostare un po’ nei pressi dell’area di controllo a godermi quei personaggi alla “sergente Garcia”.
Le operazioni di confine durano in tutto circa una ventina di minuti. Espletatele, risaliamo sul pulmino e ripartiamo alla volta del sito di Copan, che dista solamente una ventina di chilometri.
Imbocchiamo una bella strada, larga ed asfaltata di recente; penso che sia una delle strade più belle del paese, anche perché probabilmente è la più battuta dal traffico turistico.
Giungiamo finalmente a destinazione: l’autista ci scarica proprio davanti all’ingresso della palazzina di accoglienza, al cui interno, attorno ad un bel plastico che ricostruisce il sito, troviamo la biglietteria, un piccolo gift shop, i bagni ed un ufficio per i ricercatori che operano nell’area. Sono le 10 e abbiamo tempo fino alle 14, quando il nostro accompagnatore ci verrà a riprendere per il ritorno. Lasciamo le borse sullo shuttle.
Il biglietto di ingresso è veramente caro: 15 USD per la visita, 7 USD per l’accesso ai tunnel sotterranei e altri 7 USD per il museo, naturalmente cadauno. Rinunciamo al museo, che la guida indica abbastanza scarno, e ce la caviamo, si fa per dire, con 44 USD in due.
Facciamo una doverosa sosta nei gabinetti e poi entriamo. Si tratta di un parco nazionale, quindi l’area delle rovine è circondata da zone verdi e punti di sosta. Tutto il complesso è gestito e mantenuto in maniera ottimale, con prati verdi “all’inglese”, con piccoli alberi piantati di recente, e brevi tratti di foresta con sentieri ampi ed ordinati.
Percorriamo la via che porta alle rovine quando scorgiamo dei bellissimi pappagalli multicolori che camminano sul terreno o sono aggrappati ad una rete: ci coglie la solita frenesia della bestia urbana che incontra animali vivi. In realtà, avvicinandoci, ci rendiamo conto che si tratta di alcuni esemplari allevati dai guardiani e che la rete altro non è che il posto del controllo biglietti. Comunque ci piacciono egualmente e li fotografiamo.
Procediamo verso le rovine, da soli, con il solo ausilio della mappa della guida e di alcune fotocopie che ho portato dall’Italia. La boscaglia, per brevi tratti, è abbastanza fitta, con alberi e liane.
Ci dirigiamo verso il retro del tempio 16, dove giace una copia (l’originale dovrebbe essere al museo) del bello e famoso altare Q. Poi ci arrampichiamo verso il cortile ovest, ammirando l’intensità dell’architettura e soprattutto dei bassorilievi maya, qui veramente in ottimo stato di conservazione.
Dal cortile ovest si accede ai tunnels, quello della Rosalila, davvero interessante, che conduce all’interno del tempio 16 dove è racchiuso, intatto, il tempietto più antico (mi viene in mente la Porziuncola di San Francesco ad Assisi), e quello dei Giaguari, più esteso, ma probabilmente meno suggestivo, che sbocca di nuovo verso l’area dell’altare Q e ci costringe a risalire per poi scendere nuovamente al cortile ovest.
Percorriamo dunque il perimetro del cortile per giungere alla Piazza grande, dove si affaccia il grande tempio 11 e la maestosa scalinata dei geroglifici del tempio 26, tra i reperti più significativi del Centro America.
Scatto molte fotografie. La ricchezza, la varietà e le ottime condizioni dei particolari mi esalta.
Intorno alla scalinata, non accessibile, sono affacendati degli studiosi, che sembra che stiano facendo dei rilievi ai vari livelli. La cosa mi irrita, perché devo aspettare che si allontanino per poter fotografare l’insieme ed i dettagli del monumento. Attendo con pazienza, mentre Claudia si appolaia su una panchetta accanto alla stele M e legge la guida.
Quindi percorriamo in lungo e in largo lo spiazzo delle steli, dove mi sbizzarisco nel fotografare praticamente tutto.
Ci accorgiamo che mezzogiorno è passato e decidiamo di pranzare: abbiamo del pane e dello youghurt, oltre all’acqua che in quest’area torrida è assolutamente indispensabile. Ci accovacciamo su due panche in pietra sotto un misero alberello che fa un po’ d’ombra.
Mangio di gusto, ammirando quel posto davvero bello e tranquillo. C’è pochissima gente, tutto è in ordine, la vegetazione rigogliosa e curata, e non odo rumori molesti. Ci sono alcuni grossi alberi con fiori rossi alle estremità dei rami che disegnano quasi un’aureola colorata.
Il sito è archeologicamente di sicuro interesse, anche se non offre né la maestosità, né la vastità, né il fascino che incontreremo a Tikal. Però credo proprio che sia valsa la pena di arrivare sino a qui.
Sono quasi le 14 e l’ora dell’appuntamento si avvicina. Ho giusto il tempo per scattare una fotografia alla “Piazza grande”: mi stendo per terra e attendo pazientemente che i due maledetti locali seduti sulla struttura centrale dello spiazzo erboso si spostino. Finalmente sembrano muoversi; metto a fuoco; no, cambiano idea, restano; anzi no adesso se ne vanno; prendo la mira; accidenti, ora si stendono; disgraziati! Resto in queste condizioni per dieci minuti buoni, finché, finalmente, si dileguano. Però ora ci sono altri tre turisti che vagano tra le stele. Colgo l’attimo in cui sono dietro una di esse e finalmente scatto. OK, ora possiamo andare.
Percorriamo il largo sentiero tra gli alberi che porta al centro di accoglienza. Siamo una decina di minuti in anticipo e ne approfittiamo per acquistare dell’acqua, che qui non è mai troppa, e dare un’occhiata veloce al gift shop, che è abbastanza misero.
Infine ci avviamo verso il ristorante oltre il parcheggio che l’autista ci aveva consigliato e dove immaginiamo che gli altri turisti siano andati a pranzare. Infatti vi troviamo gli Spagnoli e la guida, seduti su uno scalino, intenti in una specie di siesta.
Degli Inglesi non vi è traccia. Evidentemente restano a dormire da queste parti.
Ci muoviamo e salendo sullo shuttle ricordo all’autista che noi, come pattuito, dovremmo scendere a Chiquimula. Cade dalle nuvole e si inalbera. Lui, ci dice, deve tornare ad Antigua e non può perdere tempo: al limite ci può lasciare sulla strada che da Copan porta a Rio Hondo, a circa 5 km dal paese. Accidenti, come ci arriviamo alla stazione dei bus, presso la quale vorremmo prendere la corriera di domani mattina per Puerto Barrios? A piedi e con le borse? Gli manifesto queste perplessità, oltre al fatto che avevamo preso accordi ben precisi con Monarcas, mentre lui, tra l’irritato e l’ironico, ci dà dei fessi, perché potrebbe tranquillamente lasciarci a Rio Hondo dove potremmo prendere oggi stesso il bus locale per i Caraibi.
Claudia ed io ci guardiamo incerti: non sembra una brutta idea, però da Rio Hondo a Puerto Barrios ci possono volere anche 4 ore ed arriveremmo con il buio; insomma abbiamo un po’ di paura, viste le precauzioni che guide e siti internet suggeriscono per questo paese. L’autista ci assicura che non c’è di che preoccuparsi e che, sebbene sia assurdo, possiamo comunque dormire a Rio Hondo, dove lui conosce un hotel davanti alla stazione dei bus.
Ci convinciamo: andiamo a Rio Hondo e facciamoci scaricare lì. Poi troveremo una sistemazione. La guida indica anche soluzioni per dormire. Partiamo.
Usciti dall’area del sito, ci dirigiamo inspiegabilmente verso il centro del villaggio di Copan Ruinas, bruttino e molto polveroso. Raggiungiamo la sede locale della Monarcas, dove ci fermiamo per caricare una valanga di persone, evidentemente dirette ad Antigua. Siamo stipati e le borse sono tutte ammassate sul tetto del veicolo, legate con degli elastici. Credo che i nuovi venuti siano tutti Americani; sono molto giovani. Inoltre c’è pure una ragazzina locale che evidentemente “scrocca” un passaggio.
Partiamo nuovamente.
Lungo la strada vedo diversi turisti dirigersi a piedi verso il confine; uno di questi ci ferma e chiede un passaggio: lo scaltro autista lo fredda con un “10 dollari” che lo fa desistere.
Sono agitato per via del non preventivato cambiamento di programma.
Quasi alla sommità della salita che porta al Guatemala, improvvisamente, ci arrestiamo ed invertiamo la marcia: sembra che ci sia un problema meccanico e si debba tornare a Copan per recuperare non so quale pezzo.
Sostiamo, dunque, brevemente presso la Monarcas e poi aspettiamo che l’autista acquisti in una botteghetta un elastico per fissare meglio i bagagli.
Partiamo ancora e questa volta arriviamo abbastanza indenni al posto di confine. Lungo il tragitto, di tanto in tanto, mi volto e controllo che non siano caduti i bagagli, soprattutto lungo la salita.
Questa volta l’attesa alla dogana è un po’ più lunga e non riusciamo a cavercela in meno di venti o trenta minuti. In compenso non ci viene chiesta alcuna tassa, né d’uscita né di ingresso.
Sfrecciamo dunque alla volta di Rio Hondo, dove giungiamo verso le 16. Il buon autista ci scarica, davanti alle facce attonite dei nostri compagni di viaggio, come promesso, alla “stazione dei bus” ossia all’incrocio tra la strada da Copan e quella da Puerto Barrios, accanto ad un paio di baracchini che vendono frutta e cibo vario, davanti ad un distributore di benzina, proprio in prossimità del guard rail al bivio delle due strade. Scarica frettolosamente le nostre borse, ci indica un hotel, ci saluta alla buona e parte come una scheggia.
Ci guardiamo in giro un po’ sperduti in quello che sembra essere un posto caotico.
Borse in groppa, decidiamo di andare a vedere l’albergo indicatoci e di dormire qui. Attaversiamo a piedi l’area di servizio e entriamo nell’hotel Rio. Da fuori non si presenta molto male. All’interno ci accoglie una ragazza che ci conferma la disponibilità di stanze da 50 Q o 60 Q, con bagno, e ci manda all’edificio attinguo dove un ciccione ci mostra la stanza. È decisamente bruttina, buia, spoglia e sporchetta, con un bagno abbastanza fatiscente e non pulito. È rivolta verso un campo incolto che aumenta il senso di tristezza e desolazione che proviamo. Il tutto per 50 Q.
Siamo stanchi e preoccupati poiché comincia ad essere tardi e l’oscurità incombe: Claudia vorrebbe andare a Puerto Barrios, ma io insisto per restare. Accettiamo e paghiamo. Poggiamo i bagagli. Claudia va in bagno mentre io mi guardo in giro e vedo una gatta pelosa vicino al letto. Non lo dico ad Claudia. Sono veramente demoralizzato.
Usciamo per ambientarci. Claudia insiste per andare via, così torniamo alla stazione dei bus per vedere che aria tira. C’è un torpedone fermo proprio al bivio delle due strade, che sembra diretto proprio a Puerto Barrios. Ci avviciniamo al posto del guidatore dove un autista ciccione e dall’aspetto gioviale sta divorando famelicamente della frutta da un sacchetto di plastica. Gli domandiamo dove sia diretto e quando parta: è lapidario: “Puerto Barrios” e “ahora”. Ci guardiamo e ci intendiamo subito, lo imploriamo che ci aspetti per 5 minuti perché dovevamo recuperare i bagagli. Annuisce gentilmente confermando che ci avrebbe aspettato quanto volevamo. Sembra contento di averci a bordo.
Voliamo all’albergo, ci fiondiamo in camera, ci carichiamo in spalla le borse e corriamo fuori. Incontro il ciccione e gli chiedo se, andando via, poteva restituirci qualcosa: “nada” risponde brutalmente deciso. Si fotta, penso, e corriamo al bus dove depositiamo i bagagli nel cassone e, trafelati, saliamo a bordo.
Il bus parte verso le 16.30, mentre noi ci accomodiamo verso il fondo, sul lato destro per controllare meglio il bagagliaio alle varie fermate.
Si tratta di un veicolo abbastanza malconcio, ma simpatico: i sedili sfondati e i vetri quasi opachi lo rendono sicuramente caratteristico; probabilmente è un veccho bus statunitense riciclato.
Il bigliettaio ci chiede 25 Q a testa, che ci paiono un cifra un po’ eccessiva, anche perché mi sembra che gli altri passeggeri paghino addirittura con le monete.
Non siamo riusciti a capire esattamente la durata del tragitto, ma dovrebbe essere tra le tre e le cinque ore.
Di tanto in tanto si ferma per far salire qualche locale, mentre noi tiriamo il collo per controllare i bagagli. Il tragitto è scorrevole, ma io sono preoccupato poiché si sta facendo buio.
Gli altri passeggeri sono tutti locali, che salgono o scendono alle varie fermate.
Superata Morales, cominciamo a percepire un’atmosfera caraibica con una vegetazione più marittima. Ormai è praticamente buio. Siamo prossimi a Puerto Barrios. Sulla guida sono indicati diversi alberghi a buon prezzo; decidiamo di farci portare a colpo sicuro direttamente a quello che ci sembra il migliore, ossia l’Hotel Europa II. Ci alziamo e chiediamo all’autista dove possiamo trovare un taxi, una volta giunti a destinazione. Ci rinfranca assicurandoci che ce ne sono molti proprio alla stazione dei bus.
Raccogliamo le nostre cose e, una volta arrivati a Puerto Barrios, scendiamo e recuperiamo le nostre borse. Quindi l’autista ci indica i taxi, che effettivamente sono ad una ventina di metri da noi, all’angolo della strada. Senza indugio sgambettiamo verso il primo: il taxista, per 10 Q, ci porta all’albergo, che anche lui considera il migliore tra quelli a buon prezzo.
Sono le 20.30 ed ormai è buio pesto.
Di Puerto Barrios vediamo ben poco, se non che ci sono diverse aree che paiono dismesse e zone completamente buie. A piedi non avremmo fatto molta strada e, soprattutto, non avremmo mai trovato l’hotel, che è più lontano di quanto sembrasse dalla guida.
Giunti a destinazione, all’interno di un cortile, scendiamo dalla vettura e contrattiamo subito una stanza per 100 Q: è evidente che il ragazzo che ci ha accolto ha sparato una cifra alta, vista l’ora, ma accettiamo senza indugio.
La camera è più che dignitosa, con un ventilatore funzionante e silenzioso. Ci facciamo una doccia tonificante, dopo la levataccia, le corse e le sudate della giornata. Compro dall’acqua alla reception, ossai il patio dell’abitazione dei proprietari. Gioco un pochino anche con la piccola scimmetta al guinzaglio legata all’ingresso. Ceniamo con un po’ di nachos avanzati da chissà quando e, spenta la luce, ci addormentiamo esausti, ma soddisfatti della giornata.

Mercoledì 2 luglio
PUERTO BARRIOS – LIVINGSTON
Dormo bene, con il ventilatore in moto, anche se poi lo spengo. Ho in carica sia la batteria della videocamere, sia quelle della fotocamera, quindi fatico a prendere sonno, perché aspetto che siano cariche per staccarle.
Mi sveglio presto la mattina, per via degli ormai consueti galli, onnipresenti in Guatemala; questa volta, però, ho veramente sonno, ogni movimento mi pesa e me ne starei volentieri a letto, ma Claudia mi sprona.
Facciamo colazione in camera con i biscotti ed i succhi acquistati ancora ad Antigua.
Ci carichiamo le borse in spalla ed andiamo lentamente a piedi al molo per prendere una lancia diretta a Livingston.
Di Puerto Barrios non abbiamo visto molto, se non il breve tragitto in taxi, col buio, e la camminata di qualche centinaio di metri adesso. La guido la dipinge come una città veramente pessima e malfamata; non posso aggiungere null’altro.
La barca pubblica per Livingston salpa alle 10 e costa 10 Q a testa: ci sembra troppo tardi, quindi ci mettiamo in lista per una privata in partenza alle 7.30 per 25 Q ciascuno.
Manca una mezz’ora.
Ci sediamo vicino al molo e aspettiamo. Siamo gli unici turisti, anzi, direi che siamo gli unici non-Guatemaltechi. Qualcuno comincia già ad accomodarsi sui sedili dell’imbarcazione, la Veronica 2. Chissà che fine ha fatto la 1? Speriamo che non sia colata a picco!
Decidiamo di fare la stessa cosa anche noi. Sistemo alla buona le borse nella prua del piccolo natante, sperando che non imbarchi acqua, e saliamo. In breve la barca si riempie e le quattro panche trasversali accomodano ognuna quattro persone. Ci sono due tecnici con machete, barre di misura e altro materiale, ma scendono per far salire altre due persone, inspiegabilmete. Alla mia sinistra siede Claudia, e oltre un tizio giovane, ben vestito, con valigetta e cellulare.
Partiamo puntuali. La traversata è molto piacevole, la barca veloce, ed il vento fresco ci tonifica a dovere. Il mare è molto tranquillo e la barca va spedita. Fortunatamente non entra acqua.
Subito al largo del porticciolo è ormeggiata una grossa nave da carico rossa, di Monrovia, che noi sfioriamo. Noto che è circondata da un perimetro galleggiante, oltre il quale, immagino, non è possibile avventurarsi.
Navighiamo a breve distanza dalla costa, cosa che tranquillizza un po’ Claudia.
Faccio delle riprese, ma siedo sul lato opposto dell’imbarcazione rispetto alla costa. La riva è letteralmente invasa dalle mangrovie le cui radici si estendono sino in acqua. Di tanto in tanto si intravedono delle abitazioni, delle capanne o delle vere e proprie ville.
La giornata è molto bella, con un cielo azzurro intensissimo, che contrasta con il verde vivo della vegetazione. Qui i colori sono veramente accesi. Alcuni alberi hanno dei fiori rossi che creano quasi un’aureola sul verde delle foglie.
Le ritmiche oscillazioni della barca mi cullano ed il vento mi accarezza e mi agita i capelli. Alcuni grossi uccelli con il becco lungo svolazzano nel cielo e ogni tanto rasentano il pelo dell’acqua. Vedo anche un grosso pesce che spunta dal mare e poi ci si rituffa.
Il tragitto richiede circa mezz’ora di navigazione. Alle 8 arriviamo finalmente a Livingston. Cerchiamo subito una sistemazione: visitiamo l’Hotel Rios Tropicales, sulla via principale e la Casa Rosada, ma scegliamo il primo perché costa meno (130 Q) ed è veramente bello. Una ragazza un po’ storditina o semplicemente molto scazzata ci dà la stanza numero 4 al piano terra, rivolta verso un patio interno.
Ci rifocilliamo un attimo e poi andiamo all’agenzia di viaggi, che è anche bar e ristorante. Prenotiamo la risalita del fiume Rio Dulce, fino all’omonimo paese, per domani (70 Q a testa). Ci propongono anche un’escursione giornaliera ai Sette Altari per oggi, che accettiamo (50 Q a testa); parte alle 9.30.
Corriamo in camera a prepararci e a nascondere sotto al materasso, ossia nel primo posto in cui chiunque guarderebbe, soldi e passaporti. Indossiamo anche i costumi da bagno, usciamo, acquistiamo un pane di cannella, visto che ho fame, e ci facciamo trovare puntuali all’appuntamento.
Insieme a noi ci sono due Neozelandesi, oltre naturalmente alla guida, Cholo, un Garifuna tutto muscoli.
Ci avviamo a piedi verso la prima tappa del giro, la chiesa di Livingston, che raggiungiamo dopo pochi isolati. Entriamo. Cholo ci dice che risale al secolo XIV, ma a me non sembra. Alle pareti sono appese delle statue bruttine ed un po’ angoscianti di santi e quant’altro: sono a grandezza naturale.
Ricomincia il cammino. Attraversiamo il cimitero. È un luogo non recintato, abbastanza incolto con erba alta ed un sentiero che percorriamo. Le sepolture ci circondano distribuite caoticamente e senza una apparente logica: si tratta di blocchi parallelepipedi di cemento di circa 2 x 1 x 1 metri, colorati di tinte vive: rosso, azzurro, verde. Non ne sono certo, ma credo che ogni famiglia abbia un colore peculiare. Su tutte le tombe, delle croci. I nomi, invece, sono molto rari. Il Garifuna ci spiega che per loro deve essere un posto molto allegro e che una volta all’anno si ritrovano tutti qui a festeggiare con cibo, musica e danze. Per loro, mi dice, prima del denaro viene l’allegria.
Continuiamo il nostro cammino lungo un sentiero tra l’erba e la vegetazione che porta verso la cima di un piccolo colle che funge da punto panoramico. Lungo la leggera salita vedo una pianta di ananas: non l’avevo mai vista!
Sostiamo brevemente. Si vede il mare e all’orizzonte, da un lato, è appena distinguibile il Belize, dall’altro l’Honduras. Alle nostre spalle giacciono le montagne dell’entroterra coperte dalla verdissima e lussureggiante vegetazione di queste parti. Il Garifuna ci fa osservare che ci sono abitazioni in muratura e altre, più tradizionali, in legno. Aggiunge che fino a cinque anni fa c’erano solo le capanne, poi molti sono andati negli USA a lavorare, perché qui si lavora per i Quetzales, mentre lì si lavora per i dollari. Anche lui vorrebbe i dollari di Bush, “el presidiente loco” lo definisce, ma in America fa troppo freddo. Inoltre, conclude, le case in muratura sono molto più calde ed afose delle capanne in paglia e legno.
Ripartiamo. Presso il punto panoramico c’è una casa con appeso sulla facciata un manifesto del FRG, con la foto di Portillo (l’attuale presidente), Rios Montt, il famigerato dittatore degli anni ottanta, ed un candidato locale.
Procediamo in mezzo alla boscaglia e attraversiamo un villaggio di Garifuna costituito da alcune semplici capanne, tutte con frigorifero, radio e TV, e da alcuni spiazzi comuni in cui pascolano animali domestici, soprattutto polli, tacchini e maiali. Naturalmente ci sono anche donne e parecchi bambini, che ci salutano.
Passiamo oltre, incontrando di tanto in tanto qualche capanna isolata.
D’un tratto sbuchiamo su una strada sterrata che iniziamo a percorrere. Si tratta di una pista molto larga, circondata da qualche abitazione, percorsa da pedoni e da qualche raro ciclista, di tanto in tanto. Non vediamo turisti.
Dopo circa un chilometro lasciamo la strada per inoltrarci nuovamente nella foresta, lungo un sentiero artificiale, acciottolato, della larghezza di circa un metro, in mezzo alla vegetazione selvatica. Oltrepassiamo anche ruscelli torbidi, pullulanti di girini, su ponticelli di fortuna o semplici tronchi d’albero adagiati alla meglio tra una riva e l’altra. Questo sentiero termina repentinamente su un pontile, dove ci attende una canoa in legno.
Saliamo, eccitatissimi, insieme ad un altro gruppo, per un totale di circa 8 o 10 persone. È veramente emozionante. La canoa si stacca ondeggiando dall’ormeggio ed inizia a procedere lentamente. È molto profonda e noi siamo accovacciati in un’unica fila indiana al suo interno, tanto che lo sguardo è quasi allo stesso livello dell’acqua. Viviamo una scena da film, con l’acqua verdastra e la vegetazione fitta e rigogliosa immediatamente a ridosso delle due rive. Il tratto di fiume pare largo una decina di metri circa. Percorriamo in questo modo un altro chilometro fino ad attraccare presso la foce, sulla spiaggia.
Cominciamo quindi a camminare lungo la riva del mare, fino ad un locale dove sostiamo una mezz’ora e consumiamo il semplice pranzo. Il panino della schiscetta dataci dall’agenzia per il tour è praticamente immangiabile e lo lascio quasi tutto a Claudia. Finisco, invece, l’ananas ed il limone dolce.
Ci sono dei moli. Raggiungo la fine di uno di essi per effettuare delle riprese. Il mare è calmo ed un po’ torbido; probabilmente il fondale è sabbioso. La spiaggia è disseminata di mangrovie, palme e vegetazione varia. Non vedo una nuvola nel cielo, ma il caldo è piacevolmente sopportabile.
Ci sono anche molti cani che gironzolano intorno, attirati dall’odore del cibo; comunque sono mansueti. Scorgo anche un tacchino che, inferocito, insegue un pollo.
Riprendiamo la scarpinata lungo la spiaggia, fin tanto che incontriamo un’anatra accompagnata dai suoi tredici anatroccoli. Sono veramente un bello spettacolo: non sembrano impauriti e si lasciano anche avvicinare, ma non toccare. Se la trotterellano allegramente sul bagnasciuga.
Li salutiamo e procediamo finché la spiaggia si chiude nella vegetazione e un sentiero che si inerpica verso l’interno ci consente di proseguire. Dopo un centinaio di metri ed una discesa ripidissima, giungiamo ai Siete Altares, dove una piscina d’acqua naturale è alimentata da un ruscelletto che scivola sulle pietre. È profonda circa 8 metri; ci sono dei pesci che vi nuotano dentro. Resto in costume e mi mmergo nelle acque fresche e tonificanti, mentre Claudia si appollaia su un sasso.
Stiamo ammollo una mezz’ora, per poi riprendere il tragitto di ritorno, questa volta interamente lungo la spiaggia.
Presso los Siete Altares incontriamo anche un Rasta dal Costarica che parla italiano, insieme ad una ragazza veramente molto bella.
Lungo la via del ritorno, ormai nei pressi di Livingston, un ciccione locale che ci sente parlare, mi guarda e mi dice: “Turista fai da te ? No Alpitour ? Ahi ahi ahi !”. Chissà come fa a saperlo !
Scambiamo quattro chiacchiere con i Neozelandesi: vengono dal Giappone, dove lui ha lavorato per un anno, sono scesi a Los Angeles e sono arrivati in Guatemala in bus, attraverso il Messico, dopo tre giorni di viaggio. Lui mi riferisce, inoltre, che lungo il lago Atitlan, mentre andavano a piedi da Panajachel ad un paesino vicino, sono stati oggetto di un tentativo di rapina, sventato dall’improvviso arrivo di un bus. Sono già stati a Tikal e ci chiedono notizie di Copan, loro prossima meta.
Torniamo infine a Livingston verso le 16, stanchi morti, ma soddisfatti della bellissima esperienza vissuta.
In camera dormiamo un po’, per poi lavarci ed uscire a cena verso le 19.
Facciamo due passi per Livingston per comprare uno spray anti-zanzare.
Livingston è una cittadina che mette veramente allegria: i ritmi sono blandi, musica caraibica da ogni abitazione ed una generale atmosfera di relax. I nativi Garifuna sono lenti ed allegri. È davvero piacevole passeggiare placidamente lungo la strada principale e le sue traverse. Andiamo a cenare al “Tilingo Lingo”, un ristorante in una capanna veramente delizioso; la cuoca parla italiano, è Messicana di Veracruz, è stata sposata per due anni a Calcutta e poi si è stabilita qui a Livingston. Per 60 Q a testa ci porta del pesce ai ferri, ottimo, dell’insalata in mezzo guscio di noce di cocco, del pane con olio e aglio, tipo bruschetta e del riso all’Indiana, con curry, molto croccante; una birra e due limonate messicane completano il quadro. In attesa del cibo, vediamo un ragazzo uscire per andare a comprare il pesce!
Dalla finestra vicino al tavolo, che dà sulla strada, vedo un animale che si muove lungo il marciapiedi, sull’altro lato della strada. Andiamo a vedere: si tratta di un grosso rospo che, spaventato, fugge saltellando.
Finita la cena, ottima, torniamo in albergo. Lungo la strada riusciamo a vedere e ad avvicinare un grosso granchio che si nasconde dietro ad un cancello.
C’è poca gente per la strada, ma, in compenso, ci sono alcuni cani randagi che si sono radunati nei pressi del ristorante dove abbiamo cenato, probabilmente attirati dall’odore del cibo. In Guatemala ci sono molti cani randagi, segno che, comunque, non li mangiano. Sono tutti estremamente tristi ed innocui, forse perché abituati a prendere legnate dagli umani. Vagano in cerca di cibo e, credo, anche di compagnia. Soprattutto gli occhi sono tristi e i loro sguardi trasmettono una mestizia che non credevo di poter trovare nell’espressione di un animale. Questo fatto mi ha proprio colpito.

Giovedì 3 luglio
LIVINGSTON – RIO DULCE – FLORES
La notte trascorre tranquilla, in un sonno pesante, interrotto, come ormai d’abitudine, verso le 4 – 4.30 dai soliti rumori ormai molesti come il canto dei galli o i fischi incessanti degli uccelli sugli alberi.
Io ho sonno, ma Claudia ha voglia di uscire e di fare un’ultima passeggiata per le graziose stradine di Livingston. Vabbeh, tanto vale alzarsi, anche perché gli animali vari che ci circondano non mi sembra che abbiano la benché minima intenzione di ammutolirsi. Mi ricorda che ieri sera ho consumato la biro, quindi mi metto addosso qualcosa, esco dall’hotel e mi ritrovo sulla via pricipale.
Sono da poco passate le 6 e la maggior parte delle botteghe è ancora serrata. Entro nell’unica che trovo aperta e, per 1.50 Q compro la penna con la quale sto scrivendo ora. Poi ne approfitto per chiamare i nonni. Stanno bene. Mi credono negli Emirati Arabi Uniti!
Rientro in camera e ci prepariamo per l’ultima passeggiata a Livingston.
Usciamo nuovamente, questa volta assieme, e facciamo una “vasca” per la via principale, ora abbastanza animata. Compriamo del pane di cocco e di cannella nella panetteria della via principale, gestita da una grossa Garifuna. Il pane fa schifo! Lo porteremo appresso per un po’, durante il nostro viaggio, ribattezzandolo affettuosamente “pan di merda”.
Lungo la strada mi avvicina un Garifuna ubriaco, con due conchiglie del golfo Persico, così dice, in una mano. Mi parla in inglese e poi in spagnolo, ma non capisco quello che mi dice, ma riesco a cogliere solo alcune frasi: mi urla che il problema del mondo è il razzismo e che Saddam Hussein è caduto perché era razzista e che il terrorismo… e Bin Laden… Non ricordo altro. E se avesse ragione? Mi allontano infastidito, fino a confinarmi in hotel. Usciamo di nuovo per altri giri, evitando l’ubriaco, poi ancora in hotel fino alle 8.40, quando, dopo aver caricato parzialmente la batteria della videocamera, chiuso e caricato in spalla le borse, lasciamo l’hotel e ci dirigiamo un po’ barcollanti verso l’agenzia.
Lì, leggendo un giornale in spagnolo e di ieri, scopro che in Guatemala verranno tenute le elezioni politiche tra meno di 6 mesi, di qui i numerosi manifesti elettorali e le scritte così diffuse negli altipiani, ma anche un po’ da queste parti; leggo anche che i sondaggi indicano tale Berger del MR come futuro presidente, mentre il candidato del FRG, l’ormai famoso Rios Montt è staccato in terza posizione. Mi ripropongo di seguire la cosa dall’Italia.
Andiamo al porto verso le 9.10, accompagnati dal solito Cholo, e poi, dopo una breve sosta alla casa Rosada, finalmente partiamo per Rio Dulce, lungo l’omonimo fiume.
A bordo, oltre a noi, ritroviamo anche il costaricano rasta con la bella fidanzata, una coppia di Americani e una ragazza da sola, un po’ cicciotta.
È una splendida giornata anche oggi, senza una nuvola nel cielo azzurro intenso. Trovo che sia anche decisamente più caldo di ieri. Vediamo dei piccoli pellicani e siamo colti dal solito entusiasmo di tutti gli uomini urbanizzati che vedono un animale del quale sanno tutto, tranne che esiste veramente, in carne ed ossa. Il tragitto è decisamente bello e merita la fatica e la stanchezza accumulate per giungere sin qui. Il primo tratto del fiume, ossia l’ultimo secondo il suo flusso, è largo appena una cinquantina di metri. L’acqua verdastra è circondata da due rive fittamente ricoperte da una vegetazione verdissima, della quale le mangrovie fanno la parte delle protagoniste. La lancia è molto veloce e la brezza fresca, siamo seduti davanti, ci tonifica e allevia il tormento del caldo.
Dopo una mezz’ora o forse meno facciamo una prima tappa: l’imbarcazione lascia il corso principale del fiume per inoltrarsi in un ramo secondario. Qui, a bassa velocità, vediamo parecchie capanne di locali affacciate sul fiume, con l’ormai consueto contorno di bambini, donne che anche qui, come sul lago Atitlan, lavano e si lavano nelle acque del fiume. Talvolta, vicine alle capanne sono ormeggiate delle imbarcazioni, ossia semplici canoe. Immagino siano case di pescatori, o forse di uomini che magari lavorano a Livingston o Puerto Barrios, mentre le donne portano avanti la famiglia. Credo, comunque, che la loro occupazione principale sia la soddisfazione dei bisogni primari.
Giunti ad un certo punto il nostro timoniere fa “dietro front” e riprende a sfrecciare come una scheggia sulla superficie verdastra dell’acqua, per ricongiungersi al ramo principale del Rio Dulce.
Dopo breve tempo, un’altra sosta: lungo la sponda sinistra del fiume, in una piccola conca circondata da mangrovie, sfocia una sorgente di acque sulfuree, che fa sì che lì la temperatura sia molto alta e nell’aria ci sia un’atmosfera da “fialetta puzzolente” carnascialesca. C’è anche un’altra lancia ormeggiata con un paio di persone immerse nell’acqua. Affondo la mano nel fiume e quasi mi scotto: è veramente calda ! Gli altri nostri compagni di viaggio si immergono ma noi restiamo sulla barca. Dopo una ventina di minuti ripartiamo.
Lungo il percorso, sempre mangrovie da entrambe le parti e qualche abitazione isolata. Vediamo anche quella che i locali chiamano “Isla de flores”, ossia una distesa di ninfee su un lato del fiume. Non ho mai visto cose simili, dal vivo per lo meno.
Il fiume poi si allarga fino a sembrare quasi un lago.
Vediamo parecchi pescatori, sulle loro piccole canoe di legno. Mi colpisce, in particolare, la destrezza con la quale uno di essi getta la sua rete nell’acqua: rotea completamente su sé stesso per trovare lo slancio e poi allunga le braccia lasciando la rete; il tutto su una minuscola canoa oscillante: “se lo facessi io, mi troverei imprigionato nella rete ed in acqua” penso.
Uno di questi abili pescatori chiama con un gesto il nostro barcaiolo, il quale, fatta la manovra, si avvicina all’uomo, nel centro del fiume: questi ha una cesta di plastica piena di granchi vivi, anche grossi, che vuole vendere e che ci mostra; solita eccitazione ed abuso di macchine fotografiche da parte di noi animali urbani. La trattativa è rapida e va a buon fine: con 2 Q a granchio, il nostro timoniere si porta a casa l’intera cassa.
Ripartiamo divertiti.
Ora siamo prossimi a Rio Dulce e cominciamo a vedere belle ville sulle rive, con veri e propri yacht ancorati. Sono le seconde case di ricchi uomini di Guatemala City.
Accostiamo presso una pompa di benzina Texaco sulla riva sinistra, per imbarcazioni. Facciamo il pieno e ripartiamo.
Ormai siamo a Rio Dulce. Facciamo una picchiata al “Castillo”, un fortino costruito dagli Spagnoli per contrastare i pirati inglesi, in ottimo stato, con dei cannoni disposti ancora in posizione di difesa. Il barcaiolo ci chiede se qualcuno vuole scendere a visitarlo, accentuando il fatto che l’ingresso è a pagamento: silenzio, nessuno vuole scendere; credo che non vi sia da pagare nulla, ma che lui non abbia voglia di perdere tempo e sappia come scoraggiare i turisti randagi come noi.
Quindi ormeggiamo a Rio Dulce dove Claudia ed io scendiamo dalla barca e corriamo a prendere il bus per Flores proprio mentre sta partendo. Degli altri passeggeri del natante non sappiamo più nulla, tranne che, probabilmente ed inspiegabilmente, sono rimasti a bordo.
Sono circa le 11.30. Non so esattamente che bus prendiamo, certo che ha l’aria condizionata e ospita anche altri due turisti, però ci costa la bellezza di 80 Q a cranio. Probabilmente è di I classe. Sicuramente ce ne sono di più economici, però non sappiamo da dove partano né quando. Inoltre ci promettono l’arrivo a Flores entro le 14.
Saliamo e partiamo.
Lungo il tragitto mangiamo dei nachos acquistati ancora ad Antigua, nel supermercato, mentre non ci sogniamo nemmeno di toccare il pessimo “pan di merda” incautamente acquistato a Livingston e che continuiamo testardamente a portarci appresso.
Ci accomodiamo vicino al finestrino, su file diverse, sul lato destro del pullman, per verificare ad ogni apertura del bagliaio che non spariscano le borse. Accanto a noi siedono un ragazzo credo americano, che abbiamo già intravisto nel sito di Copan, e, dietro di lui, una signora australiana, già di una certa età, che gli attacca bottone, anche se non capisco di cosa stiano parlando. Dopo un po’ lui si fa un panino con il burro di arachidi, mentre lei parla a mitraglia con un Guatemalteco che siede dietro di me, che, comunque, non pare infastidito. Claudia comincia a dormicchiare.
A circa metà strada il bus si ferma ad un posto di controllo e una guardia donna sale: cerca la frutta, che sequestra a tutti, anche all’americano, che ha un mango o qualcosa di simile. Sembra che ci sia una mosca che porti malattie alle piante, trasmessa tramite la frutta. Noi non ne abbiamo e, se l’avessimo avuta, a questo punto l’avremmo mangiata!
Il bus ricomincia la sua corsa attraverso una regione, il Peten, che è quasi interamente ricoperta di foreste inospitali; è un’area collinare, in cui ogni colle è avvolto da vegetazione, ovviamente verdissima e rigogliosa.
Effettivamente arriviamo a Flores, o meglio a Sant’Claudia, alle 14.15, ossia presto, in anticipo rispetto a quello che avevamo preventivato.
Scendiamo dal bus. Sant’Claudia è la cittadina sulla terraferma collegata con un ponte a Flores, che giace su un’isola, un po’ come Venezia e Mestre; secondo la guida gli hotel di Sant’Claudia sono meno costosi di quelli di Flores.
Prendiamo un taxi che, per 10 Q, ci porta all’albergo che abbiamo selezionato, il Sac-Nicté. Fa veramente schifo: è squallido, fatiscente e con un gabinetto inguardabile, almeno per quanto riguarda la stanza che ci è mostrata. Il tutto per 80 Q. Rifiutiamo.
Siamo un po’ disorientati: su Internet ho trovato il commento di un italiano che raccomanda un hotel inesistente a Flores: il nome, però, assomiglia vagamente al “Mirador del Lago”. Sarà quello? Vaghiamo un po’, con le borse e sotto il sole, e troviamo l’ufficio informazioni che, però, non ci dice nulla.
Entro in un hotel molto bello e chiedo alla ragazzetta alla reception il costo di una camera: mi guarda e, scuotendo la testa sconsolata sbotta con un 35 USD: sorrido e la saluto.
Ripetiamo ad un taxista il nome fantasma, ma anche lui non ne sa nulla. Per fatalità, passano accanto a noi quattro turisti, che successivamente scoprirò essere israeliani, e decido di fermarli e chiedere loro dove alloggiano. Casualmente sono al “Mirador del Lago” di Flores e ne parlano molto bene. Vinciamo ogni indugio e ci facciamo portare dal taxista, per 15 Q. È una sistemazione veramente buona, per 80 Q; ci piace, anzi direi che è il miglior posto nel quale abbiamo soggiornato sinora in Guatemala; ironia della sorte, è anche il meno costoso.
Paghiamo subito due notti e prenotiamo presso la reception la gita a Tikal di domani, con partenza alle 5, per 40 Q a testa. Siamo proprio soddisfatti.
Usciamo a fare un giro. Flores è una città piccola, posta su un’isola collegata alla terraferma da un ponte. Complessivamente è molto ben tenuta e ci sono abitazioni anche decisamente belle ed eleganti, con grossi fuoristrada parcheggiati di fronte. Altre, invece, sono restaurate di recente e verniciate con simpatici colori vivaci. Ho l’impressione che giri denaro e che il turismo sostenga massicciamente l’economia locale.
Troviamo un supermercato, dove acquistiamo succhi di frutta e biscotti per la colazione di domani, e una panetteria che ci fornisce pane per domani e degli ottimi panini con prosciutto e peperoni per questa sera.
Torniamo in camera e poi usciamo nuovamente.
Ceniamo al sacco, con i panini e anche dello yoghurt, nel Parque Central, guardando dei ragazzini giocare a pallacanestro e due bambini tirarsi il pallone. Uno dei due continua a prendere il palo! Vediamo anche un americano barbuto che gioca a basket: probabilmente l’abbiamo già incontrato dalle parti di Panajachel.
Torniamo in camera, la 14, e cerchiamo di dormire, vista la levataccia di domani mattina; puntiamo la sveglia per le 4.15 circa.

Questo viaggio ci riserverà ancora tante meraviglie: il loro resoconto, nella Terza e ultima parte che seguirà sempre su questo sito!

4 commenti in “Tierra Maya – Parte seconda
  1. Avatar commento
    fabio
    14/02/2006 15:17

    C'ero anchio, viaggio sconvolgente nel 98,il mercato di Cicci è unico al mondo come i bus

  2. Avatar commento
    cagnotto
    14/02/2006 15:12

    Posso dire c'ero anch'io. Un giorno forse ci ritorno. Encantado da quei posti e dalla gente

  3. Avatar commento
    l'autore
    16/03/2004 17:47

    GULP - sì, è una svista... colpa del "sostituisci" di Windows (e anche mia naturalmente)... Si tratta naturalmente di Santa Elena - Sorry

  4. Avatar commento
    Grazia
    09/03/2004 09:47

    Ho visitato il Guatemala qualche anno fa e so che le cose cambiano velocemente ma... anche i nomi dei paesi? Possibile? :-) Vicino a Flores dovrebbero esserci ancora San Benito e Santa Elèna, no? Tu parli di Santa Claudia ma... è stata una svista vero? ;-)

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