Spero di essere riuscito, nella prima e seconda parte di questo viaggio nell’Ovest degli Stati Uniti, a rendere l’idea della notevole differenza tra l’ambiente attraversato nella prima settimana e gli scenari dei Parchi di Yellowstone e Grand Teton dominati dai fenomeni geotermici, dal verde, dagli animali in libertà, dalle acque e da grandi montagne: due realtà separate da circa mille chilometri e quasi 7 gradi di latitudine.
Ora si cambia di nuovo: questa terza parte del viaggio prevede il ritorno per alcuni giorni in quelli che abbiamo definito i “Parchi Rossi” per la dominante di colore delle rocce.Sabato 1 giugno 2002
EVANSTON – SALT LAKE CITY – TORREY (km. 565 / 5070)
Ma prima ci aspettano quasi seicento chilometri di guida, tappa lunga che spezzeremo con una sosta di qualche ora a Salt Lake City: la visita della città non rientrava nel programma originario, ma nei tempi presumibili avevamo ipotizzato qualche giornata “jolly” ed eccoci quindi diretti alla capitale dello Utah e al vicino Great Salt Lake.
Partiamo da Evanston per innestarci dopo pochi minuti sulla I-80 west: una decina di km. e lasciamo, questa volta definitivamente, il Wyoming per rientrare in Utah, Stato nel quale (con puntate anche in Arizona) ci soffermeremo per i prossimi cinque-sei giorni. Seguiamo l’Interstate in direzione sud-ovest fino a giungere in vista del grosso agglomerato urbano di Salt Lake City, che all’andata evitiamo tenendoci su una circonvallazione esterna e puntando verso il Grande Lago Salato. Ci fermiamo a Lake Point, dove posteggiamo l’auto su un piazzale antistante un gigantesco edificio che annoveriamo immediatamente nella categoria delle “americanate”: si tratta di un misto tra hotel, teatro, salone da feste, ristorante, terrazza panoramica sormontato da cupole orientaleggianti, ancora più stonato per la condizione di spopolamento in cui versa (o sarà per via della bassa stagione?). Dalla riva del lago, la cui salinità tocca il valore record del 27%, si scorgono i profili di due delle sue dieci isole; il circondario è particolarissimo ma desolante, sensazione accresciuta dalla giornata piovigginosa, da un vento tagliente, dall’odore pestilenziale delle acque bassissime e dal fatto che, a parte noi, non c’è in giro anima viva.
Tutt’altre sensazioni ci trasmette Salt Lake City, che raggiungiamo in una mezz’ora: la capitale dello Utah è una città molto accogliente, pulita e ordinata, ancora di più dopo il “remake” in occasione delle ultime Olimpiadi Invernali (più precisamente nel comprensorio sciistico di Park City, 40 km. a est).
Cuore della città, che è strutturata secondo la consueta pianta a reticolato, è Temple Square, sulla quale si affacciano il Mormon Temple e il Tabernacle; presso il Visitor Center è offerta ai turisti la possibilità di visitare gratuitamente il complesso e, vista la presenza di un gran numero di adepti provenienti da tutto il mondo, bastano pochi minuti per essere indirizzati a uno che parli la propria lingua, qualunque essa sia. Nel nostro caso si tratta di una ragazza siciliana trasferitasi qui per convertirsi alla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi dell’Ultimo Giorno.
Nel corso della visita ci spiega la storia dei Mormoni, a partire dalla comunità di Brigham Young che nel 1849 si insediò in questo territorio all’epoca inospitale (vicenda narrata nel 1950 da John Ford in “Wagonmaster”, in italiano “La carovana dei Mormoni”) e una sintesi dei fondamenti delle loro dottrine.
Qualunque fede, se sostenuta con convinzione e sincerità, è degna di rispetto. Ma, con altrettanta sincerità e buona fede, credo di non offendere nessuno affermando che quanto ci viene esposto, ad esempio la scoperta grazie all’angelo Moroni del “Libro di Mormon” (ritenuto il vero testo biblico) insieme con occhiali miracolosi che ne consentivano la traduzione dall’egizio in cui era scritto, la poligamia (anche se “ufficialmente” non più praticata), il battesimo dei morti, il ritorno del Cristo in terra proprio negli Stati Uniti, la residenza di Dio sul fantomatico pianeta Kolob, il “numero chiuso” degli eletti che si salveranno nel giorno del giudizio, desta parecchie perplessità sia in chi è credente sia in chi non lo è. Incameriamo il tutto a puro titolo informativo, sottolineando doverosamente la cortesia, disponibilità, educazione e l’eterno sorriso con cui “fratelli” e “sorelle” accolgono i visitatori nel loro luogo di culto.
Da un breve giro a piedi per le vie del centro, Salt Lake City si conferma città piacevole, nella quale si percepisce una qualità di vita elevata. Dopo una passeggiata fino a Capitol Hill, il punto più elevato sul quale sorge l’edificio neoclassico del Parlamento, ci rechiamo in una grossa galleria commerciale, dove un’intero piano è occupato da una food court che offre una larga scelta di cucine etniche: è proprio il momento giusto e ci orientiamo su un’abbondante porzione di riso alla cantonese. È presente anche un chiosco della “Starbuck”, caffetteria di una catena che avevo già conosciuto in Canada: l’espresso che ci concediamo è degno di lode, anche se è servito in bicchiere di carta e la sua quotazione raggiunge i $ 3,25.
Sempre in tema di prezzi e di informazioni pratiche per i futuri visitatori, al tredicesimo giorno in America mi imbatto per la prima volta in un negozio che vende pellicole per diapositive, anche se il prezzo è oltre il doppio di quello praticato in Italia: per fortuna ne ho portato un’abbondante scorta! Stiano in guardia gli amici fotografi: il mercato, al di fuori delle metropoli, offre quasi esclusivamente rullini per stampe in prevalenza da 24 pose, raramente da 36: si stenta a crederlo nella patria della Kodak!
Lasciamo Salt Lake City intorno alle 15 intenzionati a limitare le soste al minimo per pernottare in prossimità dell’ingresso ovest del Capitol Reef National Park, che dista da qui 350 km. Non appena fuori città un repentino cambiamento di tempo ci immerge in pochi minuti in un fenomeno del tutto inaspettato, anche se inizialmente pensiamo di assistere all’ennesimo “dust devil” (gli “spiriti della polvere”, mulinelli alti pochi metri, dovuti alla temperatura elevata, che spesso si formano nelle aree desertiche), magari un po’ più grande: da ovest giunge prima un’immensa nuvola di polvere con un vento talmente forte da far sbandare la macchina, seguita da un temporale di rara potenza con pioggia, grandine e lampi (evidentemente aveva “sospinto” la tempesta di sabbia) che induce tutte le auto a fermarsi bloccando totalmente il traffico. Passata una mezz’ora in queste condizioni precarie, torna uno splendido sole e la situazione torna alla normalità.
I primi 203 km. si svolgono lungo la I-15 south fino a Scipio, ormai nel cuore della vasta Fishlake National Forest; da qui la Hwy 50, che diventa poi la statale 24 dopo Sigurd, è in buona parte scenic route lungo paesaggi di media montagna fino a sfumare nella parte finale verso l’ormai nota dominante rossiccia che caratterizza i parchi di Utah e Arizona. Gli ultimi 147 km. da Scipio ci portano a Torrey, a breve distanza dal Visitor Center del Capitol Reef National Park; siamo a 2085 metri di quota.
Il paese, che è in pratica una sfilata di case lungo la statale sullo splendido sfondo di formazioni rocciose che anticipano quelle del Parco, annovera una decina di strutture ricettive. Visto che c’è pochissimo movimento turistico, andiamo a colpo sicuro, ancora su indicazione della guida Routard, e prendiamo due camere al prezzo di $ 47,96 cadauna nel Capitol Reef Inn & Cafè. Non ce ne pentiamo: il complesso, in prevalenza strutturato in legno, comprende un’unità separata con gli alloggi e un accogliente ristorante che affianca un negozietto con un assortimento non banale di artigianato, souvenirs, bei libri e oggetti ricavati dalla pietra locale.
L’ottima cena ci costa una quindicina di dollari a testa.
Domenica 2 giugno 2002
TORREY - CAPITOL REEF N.P. - BRYCE CANYON (km. 340 / 5410)
Capitol Reef, anche se non tra i più noti e a torto ritenuto poco rilevante, è considerato il parco americano in cui la varietà dei colori della roccia è più ampia; ce ne facciamo già un’idea dalle casse di pietre pronte alla lavorazione sotto la veranda del motel.
La strada panoramica che attraversa il Parco coincide in pratica con la statale 24. L’interesse di Capitol Reef consiste, come ho detto, nella grande varietà di forme e di colori delle rocce, risultato di una frattura di 160 km. risalente a 65 milioni di anni fa, in un paesaggio aspro come pochi: ne consegue che è uno dei parchi più scomodi da visitare con un’auto normale. A riprova, alla sommità di un belvedere sui meandri del sottostante Sulphur Creek ci imbattiamo in una coppia di italiani che, dopo avere fatto l’anno scorso un viaggio analogo al nostro, sono ritornati espressamente per visitare le aree accessibili solo con veicoli a quattro ruote motrici: smisto il consiglio tale e quale a chi abbia molto tempo e ami le esplorazioni delle zone meno battute dal grosso turismo.
Da parte nostra arriviamo alla spettacolare formazione dell’Egyptian Temple, dove inizia la strada a fondo naturale che penetra nel settore meridionale: proviamo a percorrerne un tratto di qualche chilometro, dopodiché, ammirato dal basso il Golden Throne, ci arrendiamo per l’evidente inadeguatezza della nostra berlina su piste dissestate che in caso di forti piogge (anche se questa non è la stagione) diventano budelli pericolosissimi. Peccato, vorrà dire che anche il settore nord, con meraviglie quali il South Desert, la Cathedral Valley, le Walls of Gerico e i Temples of the Sun and the Moon, potremo vederlo solo in cartolina.
La nostra visita si limita quindi alla scenic drive (31+31 km. da Torrey), che ci riserva peraltro una sequenza di bastionate rocciose modellate bizzarramente dall’erosione che costituiscono un trattato di geologia “sul campo”, a partire da The Castle che incombe con la sua mole a scanalature verticali sul Visitor Center; sui fianchi delle vere e proprie muraglie che sfilano ai lati della strada sono ben distinguibili le stratificazioni che rivelano le successive epoche, in una varietà di colori che fanno ben capire la denominazione “terra dell’arcobaleno che dorme” attribuita dai Navajo a questa regione. Il percorso si snoda nei pressi del Fremont River in un contrasto tra il rosso della roccia e il rigoglio di terreni che i Mormoni, con infinita perseveranza, convertirono a frutteti; non lontano dal loro insediamento di Fruita ci si può fare un’idea della durezza della loro vita osservando la Behunin Cabin, una casetta in pietra di una sola stanza, costruita nel 1888, che ospitava una famiglia di una decina di persone (i numerosi figli dormivano però su un carro all’esterno e in una vicina grotta).
La visita di Capitol Reef è conclusa degnamente con l’escursione a piedi di 3,2 km. A/R che, in ambiente grandioso, porta sotto l’Hickman Natural Bridge, l’arco più grande del Parco.
Tornati obbligatoriamente a Torrey intorno alle 14, facciamo sosta per uno spuntino in un fast-food della catena “Subway”: nell’offerta americana della ristorazione rapida, questo si differenzia per l’ampia scelta di ingredienti e tipi di pane che permettono di personalizzare a piacere appetitosi panini. E così anche oggi riusciamo a evitare i “frittivendoli”!
Il tratto che ci attende adesso, per un totale di 160 km. in direzione sud-sud-ovest, è la Hwy n. 12, che è classificata per intero scenic route: mantenendosi su una quota tra i 1500 e i 2600 metri, la strada offre una successione di tornanti, salite e discese penetrando scenari grandiosi che sono un po’ la sintesi del paesaggio dello Utah dominato dalle arenarie. Siamo in effetti nell’area del parco americano di più recente istituzione (1996), il Grand Staircase - Escalante National Monument, anzi sulle mappe stradali l’area, estesissima, è definita in development: i suoi confini non sono finora ben fissati, tant’è vero che non esiste ancora un Visitor Center e, a parte poche piste praticabili solo con veicoli idonei, ci si deve accontentare di sostare su alcuni slarghi lungo la strada ancora privi di balaustre (attenzione a non rotolare giù!) e di pannelli esplicativi.
Il luogo probabile di sosta per il pernottamento è già stato individuato in Tropic, una quindicina di km. prima del Visitor Center di Bryce Canyon, visto che Henrieville e Cannonville, che si incontrano poco prima, offrono ben poco. Ma i cartelli che dovunque preannunciano già a distanza le strutture ricettive ci spingono ancora oltre: infatti, lasciata la n. 12 e imboccata la n. 63 che in 7 km. porta all’ingresso del Parco, ci viene incontro una sfilata di edifici in legno sui due lati della strada che sembrano presi pari pari dalla scenografia di un film western e offrono una buona scelta di alloggio e ristorazione.
Scegliamo il Doug’s Country Inn Motel, una struttura che comprende due blocchi abitativi e un grande General Store che già sappiamo rappresenterà il solito diversivo del dopo cena: nonostante la vicinanza di uno dei Parchi più attraenti, ce la caviamo spendendo $ 49,95 per ciascuna camera.
Si è intanto fatta l’ora migliore per godere lo spettacolo dell’anfiteatro di Bryce Canyon: ne abbiamo giusto il tempo prima di cena, così percorriamo in pochi minuti i 10 km. che, dopo aver varcato il Visitor Center, portano al belvedere di Sunset Point. Bisogna dire che questo Parco, piccolo ma clamoroso, non è propriamente costituito da un canyon ma piuttosto da ampie scarpate a forma di conca disseminate da una quantità incredibile di pinnacoli appoggiati sulle ghiaie depositate dalla loro stessa erosione. Gli agenti atmosferici, che nella Monument Valley produssero mesas e torrioni e nell’Arches N.P. gli archi naturali, qui hanno dato luogo, grazie anche all’azione delle precipitazioni, della neve e del ghiaccio su un’arenaria particolarmente tenera, a un dedalo di “hoodoos” che sembrano l’opera di un abile ricamatore di merletti.
Dal parcheggio una leggera rampa nasconde fino all’ultimo lo spettacolo sottostante che, un po’ come al Grand Canyon, ci “aggredisce” all’improvviso. Anche se nessuno di noi quattro apre bocca, i nostri sguardi significano qualcosa come: “Questa è la cosa più bella che abbiamo visto!”. Ma non prendetela per oro colato: è almeno la decima volta che lo pensiamo in questo viaggio e non sarà l’ultima. Ad aumentare l’incanto contribuisce la luce radente del sole al tramonto che evidenzia ancora di più la varietà di colori dei pinnacoli, che svaria dal rosa al giallo dorato al bianco all’arancione al rosso vivo: la giornata di domani, alla quale dedicheremo l’approfondimento del Parco, si prospetta memorabile!
Per la cena, ci indirizziamo al ristorante adiacente il nostro motel, il “Hungry coyote” (coyote affamato) che, come tutte le strutture circostanti, presenta un esterno di legno in perfetto stile saloon: è quindi in piena sintonia che la cena sia costituita dai “bistecconi con una montagna di patatine” di texwilleriana memoria.
Lunedì 3 giugno 2002
BRYCE CANYON – PAGE(km. 370 / 5780)
Per la colazione torniamo nuovamente al “Hungry coyote”, dove ci rimpinziamo alla grande, tanto da metterci da parte i waffles che non siamo riusciti a terminare; non l’ho ancora detto, ma in America è del tutto normale portarsi via gli avanzi, anzi ci si può rivolgere al cameriere stesso per farsi dare un apposito sacchetto.
Eccoci quindi in perfetta forma per intraprendere un’escursione a piedi nel cuore di Bryce Canyon. Tra quelle di media durata, la più esauriente è la combinazione tra il Queen’s Garden Trail e il Navajo Loop Trail, 5 km. totali di saliscendi per una durata di circa tre ore: dai 2442 metri di Sunrise Point ci si abbassa di circa 200 lungo un sentiero un po’ ripido ma ben tracciato, che può anche essere percorso con gite a cavallo guidate dai rangers. Le meraviglie del labirinto nel quale ci immergiamo sono difficili da illustrare agli assenti: formazioni alle quali sono stati attribuiti nomi fantasiosi quali Martello di Thor, Castello delle fate, Sentinella o i Tre Saggi; “finestre” tra pinnacoli collegati da fragili crestine (non dureranno molto…); una vegetazione sorprendente che comprende a seconda delle quote pioppi, querce, pini e abeti douglas; la solita miriade di scoiattoli, qui del tipo tamia striata. Uno dei punti più suggestivi, ormai lungo la salita che riporta a Sunset Point, è un canyon sempre in ombra lungo una cinquantina di metri talmente stretto da poter toccare contemporaneamente le due pareti verticali con le braccia allargate. In questo groviglio si può ben comprendere l’imprecazione di Ebenezer Bryce, il primo mormone insediatosi qui che nel 1875 scappò dopo avere resistito con la moglie e i dieci figli per cinque anni nella zona che poi ne prese il nome: “Un posto d’inferno dove perdere una mucca!”. Gli aspetti estetici suggeriti dal turismo erano erano ancora di là da venire…
Ritornati all’auto parcheggiata a Sunrise Point, possiamo ora percorrere con tutta calma la scenic drive che si sviluppa in senso nord-sud. Lungo l’itinerario sono situati numerosi overlooks, uno più spettacolare dell’altro, che non sto a elencare uno per uno, visto che tutti meritano comunque una sosta. Raccomando solo una curiosità, il Natural Bridge, un ampio arco naturale subito sotto l’orlo del belvedere, destinato fatalmente a crollare per dare luogo a due hoodoos separati. La strada ha termine a Rainbow Point, che con i suoi 2778 metri è anche il punto più alto di Bryce Canyon: qui il panorama sulla sfilata di pinnacoli è arricchito anche dal verde della sottostante Dixie National Forest e dalla lontana catena delle Navajo Mountains.
Non rimane che ripercorrere a ritroso i 27 km. da qui al Visitor Center, nei pressi del quale approfittiamo di una piazzola attrezzata per lo spuntino di metà giornata. Facciamo giusto in tempo: già da una mezzora neri nuvoloni si stavano concentrando sulla zona e comincia una fitta pioggia proprio nel momento in cui, intorno alle 14, Enzo mette in moto l’auto.
Da Page, città presso il Lake Powell nella quale abbiamo in programma di pernottare, ci separano circa 250 km., di cui 7 sulla statale n. 63 e i successivi 23 sulla n. 12; il resto del percorso si sviluppa lungo la già nota Hwy 89 south su un tratto che nelle mappe è classificato per intero scenic route attraverso un territorio che, anche se non è parco nazionale, non cessa mai di regalarci scenari stupendi di rocce multiformi.
Più o meno a metà tragitto, mentre ormai ha smesso di piovere, tocchiamo Kanab, importante nodo stradale dopo il quale la Hwy punta decisamente verso est; la cittadina offre una buona scelta di motels, quindi potremo andare sul sicuro per il pernottamento di dopodomani al ritorno dal lato nord del Grand Canyon e prima di dirigerci allo Zion National Park.
La giornata si è fatta ormai perfettamente limpida quando, poco prima delle cinque, arriviamo in vista di Lake Powell, per la precisione all’altezza della deviazione per il porto turistico di Wahweap, poche centinaia di metri dopo essere rientrati in Arizona. Lo scenario dall’alto sul lago è magnifico, ma preferiamo affrettarci per gli ultimi 15 km. da qui a Page e tornare dopo avere fissato l’albergo: abbiamo solo l’imbarazzo della scelta, che cade sul Budget Host Inn, camere dall’ottimo rapporto qualità/prezzo a $ 43,71 l’una.
Eccoci a Page dunque, vale a dire una città che fino al 1957 non esisteva; la zona, in pieno territorio navajo, cominciò a popolarsi con gli insediamenti delle maestranze addette ai lavori di costruzione della diga (Glen Canyon Dam) a sbarramento del Colorado River, completata nel 1981. Il risultato di una realizzazione così imponente fu il Lake Powell, in un contrasto meraviglioso tra l’azzurro intenso dell’acqua e le tonalità rossicce delle rocce che ne emergono: una volta tanto l’uomo riuscì a compiere un’opera che ha niente da invidiare a quella della natura. In un’ambiente così piacevole è quindi ovvio che la località, che conta circa 8000 abitanti, sia oggi un centro di soggiorno di prim’ordine con una grande offerta di alberghi, ristoranti, operatori turistici, strutture per la pratica di ogni sport acquatico.
Sia prima che dopo la profonda modificazione del territorio seguita al riempimento del bacino artificiale, anche questa zona non ha mancato di ispirare l’industria del cinema. Tra i molti film che annoverano riprese girate nei dintorni, ricordiamo ad esempio “Il pianeta delle scimmie”, Superman”, “Indiana Jones e il tempio maledetto”, “I Flintstones”.
Noi siamo venuti qua prevedendo due pernottamenti e la visita di due attrazioni imperdibili: proprio per definire i termini della prima, torniamo subito a Wahweap Marina, sul cui porto turistico si affaccia il Wahweap Lodge. Oltre che affittare alloggi di lusso, la reception vende le escursioni in battello sul lago, che consistono in cinque ore di navigazione tra andata e ritorno con sosta di mezz’ora al Rainbow Bridge: il tutto costa la sciocchezza di $ 85 a testa, prendere o lasciare visto che il Lodge detiene il monopolio. Del resto si viene a Page proprio per questo, quindi sborsiamo il malloppo e prenotiamo la partenza delle 10 di domattina.
La seconda attrattiva è costituita dall’Antelope Canyon, una strettissima gola a una decina di km. a sud-est della città. Ma facciamo una cosa per volta: per organizzare questa gita avremo tutto il tempo domani al ritorno dalla crociera. Per il momento ci rechiamo nei pressi della diga, dove parcheggiamo l’auto e ci portiamo alla piazzola panoramica proprio al momento giusto per apprezzare il colpo d’occhio sul lago nella luce bassa del tramonto.
Per la cena decidiamo di provare il KFC Kentucky Fried Chicken (una volta nella vita bisogna pur farlo…), ma solo perché, oltre al pollo fritto (che viene impanato a pezzi lasciando la pelle, sommando quindi grasso a grasso) è disponibile un ben assortito buffet di insalate.
Martedì 4 giugno 2002
PAGE (km. 60 / 5840)
Arriviamo al Wahweap Lodge con un buon anticipo per evitare la coda al check-in della crociera. Ci avanza quindi il tempo per mescolarci con la variegata folla degli ospiti e visitare un’esposizione permanente nell’atrio dell’albergo: si tratta di una selezione di straordinarie immagini scattate dal fotografo Michael Fatali durante anni trascorsi girando l’Ovest con la sua fotocamera a banco ottico, che non hanno niente da invidiare ad opere d’arte. I portfolio delle stampe con relativo negativo possono anche essere acquistati: il solo ostacolo è che si debba sborsare l’equivalente di un altro viaggio in America. Come alternativa più accessibile, ci si può fare un’idea dello splendore delle foto di Fatali visitando il sito citato nei Links.
La crociera su Lake Powell, effettuata a cavallo del confine tra Utah e Arizona su un battello a due piani di cui quello inferiore coperto, regala scenari davvero unici: si provi a immaginare un altro Grand Canyon riempito d’acqua fino a lasciare emergere solo le rocce più elevate, in una successione di coste frastagliate che alternano spiaggette sabbiose, fiordi, isolotti e pareti rocciose a picco; il tutto ancora più valorizzato da una giornata di splendido sole. Uno spettacolo aggiuntivo è quello delle numerose moto d’acqua che affiancano la scia della nave incrociandola di tanto in tanto con brusche sterzate per evoluzioni da applauso.
Il momento saliente dell’itinerario è la deviazione per Rainbow Bridge, circa 80 km. di navigazione dalla partenza: il battello si insinua in una spettacolare strettoia nella quale procede lentamente fino ad ancorarsi all’inizio di una passerella di qualche centinaio di metri che collega alla terraferma, poi in una decina di minuti a piedi si giunge al cospetto di una delle più celebrate “cartoline” del West. Il Rainbow Bridge rappresenta l’ennesimo fenomeno di erosione propostoci da questo indimenticabile viaggio: è un ponte naturale, la cui luce è alta 87 metri e larga 83, prodotto dall’opera continua del fiume che, dopo avere percorso per milioni di anni un meandro, finì per sfondare la roccia scavandosi una “scorciatoia” nell’attuale alveo. Non c’è da stupirsi che per la sua forma di “arcobaleno di pietra” (nonnezoshi) il luogo abbia colpito profondamente la spiritualità dei nativi, che lo elessero a luogo magico; ancora oggi sul tavolato roccioso dove ha termine l’escursione un cartello invita a non passare sotto l’arco violando questo sito sacro ai Navajo. Peccato che a causa dell’attuale regime basso delle acque l’estremità del fiordo sia asciutta, privandoci dell’effetto specchio esaltato nelle cartoline e nelle foto dei libri.
Il ritorno verso Wahweap Marina ricalca il percorso dell’andata, ma non ci si annoia, dato che il variare della luce regala scenari che sembrano sempre nuovi.
Sbarcati dal battello alle 15,30, torniamo all’auto e ci dirigiamo verso l’Antelope Canyon. Abbiamo già accertato ieri che parecchi operatori offrono pacchetti dai differenti prezzi in proporzione al servizio: si può ad esempio scegliere un tour da $ 30 partendo dalla città con monumentali gipponi, soluzione coreografica e “molto americana” che può essere indicata a chi non disponga di auto propria. Noi seguiamo il consiglio della guida Routard e di amici che vennero qui l’anno scorso e ci rechiamo sul posto, un piazzale sterrato dove in un chiosco si possono prendere accordi direttamente con le guide navajos: oltre a costarci solo 12 dollari a testa, ci sembra la scelta da privilegiare, visto che ci troviamo in territorio indiano e che, nonostante la conclamata integrazione, le condizioni di vita di questa gente non sono delle migliori. Ci troveremo qui domattina alle 9,30.
Di ritorno verso Page (siamo sulla n. 98 che porta in 160 km. a Kayenta, dove passammo undici giorni fa dirigendoci verso la Monument Valley), ci allunghiamo su una deviazione verso Antelope Point, un istmo che digrada verso una spiaggia sabbiosa con una bellissima panoramica sul lago; rientriamo infine in città attraversando un suo quartiere in cui sono concentrate chiese di non meno di una quindicina di religioni differenti, alcune a dir poco fantasiose. Anche l’infinita varietà di culti perfino nei piccoli centri è una delle caratteristiche che colpiscono viaggiando in America.
Per la cena abbiamo voglia di trattarci un po’ meglio di ieri sera, visto che Page ne offre la possibilità: non ci facciamo tentare, nonostante le discrete referenze della Routard, da “Stromboli’s” e da “Bella Napoli” e preferiamo la “Glen Canyon Steakhouse”, simpatico locale dall’atmosfera western dove, per la solita ventina di dollari, mangiamo le altrettanto solite bistecche che per fortuna sono altrettanto solitamente squisite.
Mercoledì 5 giugno 2002
PAGE – GRAND CANYON NORTH RIM – KANAB (km. 372 / 6212)
Dopo avere reintegrato la scorta d’acqua e viveri nell’immancabile supermercato, lasciamo Page e raggiungiamo in una decina di minuti il parcheggio dal quale partono i gipponi dei Navajos diretti ad Antelope Canyon; occupiamo gli ultimi quattro posti di un veicolo sul quale è già sistemata una comitiva di sei tedeschi. Una pista sabbiosa di cinque chilometri porta all’imbocco della fenditura, dove l’automezzo tornerà a prelevarci dopo circa un’ora.
Quello che si apre davanti a noi è uno slot canyon, vale a dire una gola chiusa, lunga duecento metri e larga tra uno e due. La visita è preclusa in caso di maltempo, vista la strettezza del passaggio che può diventare una trappola mortale (nel 1997 la piena seguita a un improvviso temporale causò diverse vittime in un gruppo di turisti). Non è il caso di oggi: la passeggiata tra le pareti ondulate illuminate dalla luce solare che filtra dall’alto ci regala una varietà di colori ed effetti che hanno qualcosa di magico. La sensazione è quella di avere intorno a noi, anziché roccia, delle onde o dei tessuti smossi dal vento, in una gamma di chiaroscuri che vanno dall’ocra chiaro al rosso carico.
Anche se per ottenere i risultati di Michael Fatali sono necessari attrezzature professionali e giorni e giorni di appostamenti alla ricerca della luce migliore, si possono comunque fare delle buone foto: consiglio di evitare il flash e preferire pose lunghe usando un cavalletto o, in mancanza di questo, appoggiando la fotocamera alle pareti.
Lasciamo a malincuore questo luogo incantato intorno alle 11 e facciamo il punto, atlante stradale alla mano, sul programma della giornata. Dato che abbiamo intenzione di dormire a Kanab, località già toccata l’altro ieri, preferiamo non ripetere a ritroso lo stesso tratto della Hwy 89, ma scegliamo la Alternate 89, che corre più o meno ad essa parallela una cinquantina di km. più a sud: la imbocchiamo al bivio di Bitter Springs, 40 km. da Page.
Di lì a poco la strada prevede lo scavalcamento del Colorado River grazie allo spettacolare Navajo Bridge in ferro ed è il pretesto per accantonare l’auto e godere di un altro scenario magnifico: un centinaio di metri sotto di noi il fiume, che ha ormai lasciato il Lake Powell, scorre tra due pareti rocciose verticali con le sue acque di uno splendido azzurro sulle quali scivolano, seguendo la corrente, coloratissimi gommoni. L’ennesima proposta per chi abbia molto tempo a disposizione: la discesa in più giorni dal lago al fondo del Grand Canyon e magari fino a Lake Mead nei pressi di Las Vegas.
Proseguiamo per una sessantina di km. lungo la Alt. 89 tra i paesaggi sempre piacevoli delle Vermilion Cliffs e del Paria Plateau fino a deviare in direzione sud, all’altezza di Jacob Lake, sulla statale 67 diretta al Grand Canyon North Rim, che dovremo percorrere necessariamente anche al ritorno: ma non sarà un sacrificio, visto che questo è definito da molte guide uno tra i più begli itinerari d’America. La strada, in leggera ma costante salita, taglia l’altopiano del Kaibab Plateau fino a raggiungere dopo 70 km. il Visitor Center.
L’orlo nord del Grand Canyon è di gran lunga meno frequentato rispetto a quello sud: si pensi che solo un visitatore su dieci si spinge su questo lato, e ciò soprattutto per i collegamenti più lunghi e più scomodi. Los Angeles e San Francisco, principali scali ai quali fanno capo i turisti stranieri, si trovano infatti a non più di una giornata d’auto dal South Rim; si aggiunga la maggiore offerta di ogni tipo di servizio e ci si spiega che sia quella la meta di più facile accesso per tutti i viaggi organizzati, che disertano invece la sponda opposta.
In verità il paesaggio del lato settentrionale non ha nulla da invidiare a quello del suo dirimpettaio: anzi qui l’ambiente è più selvaggio, anche perché la quota è di circa 400 metri superiore e il minore affollamento regala una dimensione più rilassata, estranea ai ritmi frenetici del turismo di massa. Inoltre il territorio è caratterizzato da una grande varietà di vegetazione, in contrasto con l’aridità del versante sud, e infine le uniche strutture ricettive consistono in casette di legno nel bosco, un’ambientazione davvero incantevole.
Da parte nostra è inevitabile che, dopo due settimane passate nei Parchi più belli d’America, gli scenari che si estendono al di là delle piazzole panoramiche risultino meno sensazionali di quanto nella realtà siano. Ciò non sminuisce il fascino del North Rim e percorriamo la scenic drive indugiando con piacere agli overlooks di Cape Royal e soprattutto di Imperial Point, con i suoi 2683 metri il punto più alto di tutto il Grand Canyon: da qui un quadro di orientamento ci consente di individuare il Tempio di Thor, Trono di Wotan, Santuario di Krishna, Castello di Freya, Tempio di Vishnu, elevazioni di cui ammirammo il lato opposto quindici giorni fa. Sembra ieri!
Rientrati al Visitor Center, acquistiamo nell’adiacente emporio un po’ di provviste da consumare nell’area picnic, dove fraternizziamo con un gruppo di simpatici motociclisti in sella alle loro luccicanti Harley Davidson: un altro grande mito americano e un modo tra i più esaltanti di attraversare i grandi spazi degli States.
Terminata anche la seconda parte della visita del Grand Canyon, si avvia a conclusione anche la serie dei “Parchi rossi”: manca alla nostra “collezione” solo lo Zion N.P. al quale dedicheremo parte della giornata di domani.
Tornati quindi al bivio di Jacob Lake, rientriamo sulla Alt. 89 per gli ultimi 60 km. che ci portano a Kanab, crocevia con la Hwy 89, nel tardo pomeriggio; da cinque km. siamo di nuovo passati dall’Arizona allo Utah. Tra i molti allineati sulla strada principale, scegliamo il Brandon Motel, circondato da un bel prato alberato: sia per prezzo ($ 42,10 la camera) che per conforto si pone sulla media degli ultimi giorni, il che lo rende decisamente raccomandabile.
Abbiamo il tempo per quattro passi in questa cittadina, piacevole anche per i soliti tocchi di vecchio West negli edifici, in particolare una vecchia stazione di posta restaurata davanti alla quale spiccano due colorate diligenze, inevitabile sfondo per l’ennesima foto di gruppo. Concludiamo la giornata con un’apprezzabile cena da “Houstons Trails End”, locale intonato all’atmosfera del paese, cui contribuiscono le cameriere che assomigliano a tante Calamity Jane complete di cinturone e pistola.
Giovedì 6 giugno 2002
KANAB – ZION N.P. – LAS VEGAS (km. 348 / 6560)
Una trentina di km. lungo la Hwy 89 north portano da Kanab a Mount Carmel Junction, da cui si dirama la statale n. 9 che taglia in senso est-ovest lo Zion National Park.
Questo parco, a cui i mormoni diedero a metà Ottocento il nome biblico di Sion (poi storpiato in Zion) nel senso di “luogo del riposo celeste”, nonostante la superficie piuttosto contenuta è uno di quelli che presentano i paesaggi più grandiosi: se i colori dominanti sono quelli consueti del grande territorio definito Colorado Plateau, del quale fanno parte tutte le aree protette di Colorado, Utah e Arizona che abbiamo visitato, qui l’ambiente è particolarmente isolato e severo, con formazioni massicce, tavolati, torrioni, pareti verticali alte centinaia di metri. Il settore che abitualmente si visita costituisce non più del 10% dell’estensione di Zion: la parte nord-occidentale del Kolob Canyon è infatti scomoda da raggiungere anche se può attrarre proprio per la scarsissima frequentazione (prendano ancora nota i fortunati che abbiano tre mesi a disposizione).
Una ventina di km. oltre Mount Carmel Junction si trova, a una quota di 1737 metri, la East Entrance, a breve distanza dalla quale incombe una delle formazioni più spettacolari, la Checkerboard Mesa: il nome di “scacchiera” è indovinato, viste le scanalature in senso verticale e orizzontale del pendio roccioso che sembrano prodotte dal rastrello di un titano.
Poco prima dell’imbocco di un tunnel stradale, posteggiamo l’auto per effettuare una bella escursione a piedi, il Canyon Overlook Trail, meno di due km. A/R per la durata di circa un’ora. Uno stretto sentierino con alcuni saliscendi, in certi punti agevolato da gradinature, ringhiere e passerelle, conduce a una lastronata che offre un panorama vertiginoso sul Lower Zion Canyon sormontato dal West Temple e dalle Towers of the Virgin, facilmente individuabili grazie al solito preciso pannello d’orientamento. Il punto in cui ci troviamo è esattamente la sommità del Great Arch, che non si può vedere di qui ma scorgeremo tra poco percorrendo la strada a tornanti che scende verso il fondo del Virgin River; già se ne distingue lo sviluppo e la particolarità del bitume rossiccio con il quale è stata asfaltata per integrarla al meglio con l’ambiente.
Tornati alla macchina, ci mettiamo in coda per l’attraversamento del tunnel di 2700 metri, in cui è previsto il senso unico alternato; ce la caviamo con pochi minuti di attesa, contro le ore che possono toccare a chi venga qui in luglio o agosto. All’uscita della galleria la strada perde quota con diversi tornanti, lungo i quali si può apprezzare la grandiosità del canyon. Da uno slargo si ammira ora verso l’alto il Great Arch, un larghissimo arco cieco scavato nella parete che culmina nel belvedere sul quale ci trovavamo mezz’ora fa: bisognerà pazientare ancora qualche milione di anni, ma un giorno l’erosione finirà per trapassare la roccia da parte a parte.
Una decina di chilometri portano all’entrata sud, che coincide con il Visitor Center, uno dei più belli tra quelli dei parchi che abbiamo visitato, con numerose tettoie di sosta immerse nel verde e vaste aree alberate adibite a parcheggio che circondano l’area.
La scenic drive si sviluppa in direzione nord per 11 km. parallelamente al North Fork del Virgin River in una sfilata di pareti rocciose alte tra 600 e 900 metri, talmente maestose da farne un luogo considerato stregato dagli Indiani Paiute, che se ne tenevano lontani dopo il tramonto. L’itinerario è precluso alle auto private ed è percorso da navette gratuite che prevedono otto fermate in corrispondenza dei punti più rappresentativi: da raccomandare una sosta al belvedere sulle tre formazioni denominate Court of Patriarchs, mentre il Weeping Rock Trail è una passeggiata di un km. A/R nel folto della vegetazione che porta a un’ampia cavità naturale in posizione panoramica caratterizzata da una sottilissima pioggia che cade in continuazione sui visitatori.
La strada finisce ai piedi dell’elevazione detta Temple of Sinawava. Dal piazzale si costeggia il fiume per un paio di km. lungo il Riverside Walk, un ampio sentiero popolato dagli scoiattoli e affiancato da cespugli nei quali si scorgono daini che brucano il fogliame. Al termine ha inizio l’escursione più scenografica di Zion, i cosiddetti Narrows (strettoie): si tratta di risalire del tutto o in parte 25 km. del Virgin River lungo il tratto più stretto del canyon, tragitto che coincide quasi sempre con le acque stesse del fiume. Per compiere l’intero percorso è necessario il permesso del Park Service, ma noi, come la grande maggioranza dei turisti, ci limitiamo ad alcune centinaia di metri: l’acqua è fredda e il fondo talvolta scivoloso, quindi conviene tenere le scarpe e usare uno dei tanti bastoni a disposizione in un contenitore all’inizio della passeggiata (ricordarsi di restituirlo!).
Tornati all’auto, mettiamo ad asciugare sul cofano calze e scarpe (con questo sole cocente non ci vorrà molto) e facciamo una piacevole sosta alimentare in compagnia di numerosi scoiattoli che si spingono fino sopra il tavolo a contenderci le provviste.
Lasciamo infine Zion verso le 15 con il programma di raggiungere Las Vegas per l’ora di cena: abbiamo davanti 260 km., quindi possiamo prendercela comoda. Imboccata la statale 9 south, tocchiamo Springdale e Rockville per fare poi una breve sosta a Virgin: una simpatica attrattiva della cittadina è un’esposizione all’aperto di Movie sets, edifici in legno utilizzati come scenari di films western tra cui saloon, emporio, carcere, ufficio dello sceriffo, banca.
Entrati di lì a poco sulla I-15, eccoci in breve a St.George, vasto ma anonimo agglomerato urbano di 40.000 abitanti privo di attrattive in senso turistico. Motivo della tappa è invece la presenza di un grosso outlet, vale a dire un centro commerciale che raduna gli empori di grandi firme dell’abbigliamento (tra le altre, Calvin Klein, Boss, Ralph Lauren, Timberland, Esprit) che effettuano la vendita diretta di capi di fine serie ma perfetti; gli sconti praticati possono raggiungere il 50-70%. La nostra resistenza all’acquisto è di solito minima, figuriamoci nelle occasioni in cui c’è l’opportunità di autentici affari: insomma, quando lasciamo St.George la capienza del bagagliaio dell’auto è ridotta ai minimi termini e preferisco non pensare al momento in cui dovremo preparare le valigie per il ritorno… Questo sì è uno degli aspetti dell’America che più mi piacciono!
Dopo 10 km. lasciamo, questa volta definitivamente, lo Utah, lo Stato che forse ci ha offerto le maggiori soddisfazioni; una cinquantina di km. di Arizona ed eccoci varcare in confine con il Nevada, l’ultimo degli otto Stati toccati in questo viaggio. Sta intanto anche cambiando lo scenario: svanita gradualmente la dominante rossa delle arenarie, il paesaggio sta diventando monotono e desertico. Proprio in mezzo al deserto prese però corpo intorno agli Anni Venti quella realizzazione pazzesca che ha nome Las Vegas: proprio la storia e le bizzarrie che stanno sotto questo nome saranno la parte iniziale della quarta e ultima parte di questo resoconto.
Pazientate ancora un po’: di questa e delle realtà americane che ancora ci attendono negli ultimi dieci giorni cercherò di darvi un’idea al prossimo appuntamento, sempre su Ci Sono Stato, of course!
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- 16/11/2002
Stati Uniti: il mito dell'Ovest - Parte III
Il terzo capitolo del viaggio nell’Ovest degli U.S.A.
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11 commenti in “Stati Uniti: il mito dell’Ovest – Parte III”
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Certo che è stata scritta la quarta parte! Basta aprire la voce "Nord America" del menu "Inizia il viaggio!" in alto a sinistra, poi aprire "Stati Uniti d'America" e la trovi!
Non riesco a trovare il link alla quarta parte ammesso che sia stata scritta.. bella guida e grazie|
Ciao Gianpaolo, gli americani (la gente comune intendo...) sono di solito disponibili con i turisti, ma non ti aspettare che ti vengano incontro se non gli parli nella loro lingua. Però è anche vero che in un viaggio le frasi che servono sono sempre quelle poche decine riguardo ad alloggio, ristorazione, trasporti, ecc. quindi in qualche modo ci si capisce. Molto utile carta e penna sempre a portata di mano, per evitare malintesi sulle cifre o eventualmente per informazioni stradali. Ma questo vale in ogni parte del mondo. Buon viaggio!
complimenti leandro,veramente ben descritto,belle anche le fotografie,spero di andarci molto presto anch'io ti chiedo un consiglio,io non mastico troppo l'inglese pensi che avrei qualche problema per un viaggio di questo genere?
Avvincente come un romanzo!! Bellissimo il viaggio ma perfetto anche il diario, si legge tutto d'un fiato.... Le fotografie fanno venire voglia di essere là x vedere quelle meraviglie di persona..... devo proprio convincere mia moglie che si possono fare vacanze stupende anche se non si va al mare!!
Ciao, se hai letto anche la I, II e IV parte del mio viaggio, vedrai che noi siamo stati nell'ovest degli USA 28 giorni, quindi una settimana mi sembra un po' pochina... Comunque, se vuoi delle dritte, scrivimi pure sulla mia mail: basta che in alto, nel prospetto "Navigatore", clicchi su "Leandro Ricci".
Ciao, il racconto è bellissimo e voglio un consiglio. In agosto vado anch'io in questi posti, ma conviene prenotare da qui i motel oppure no, e in una settimana lo faccio bene il giro o è troppo poco?
Non devi fare altro che selezionare "Nord America" dal menu continenti e, quindi, "Stati Uniti"; lì troverai tutti gli articoli riguardanti gli Usa, comprese la 1^, la 2^ e, perchè no, la 4^ parte del viaggio che ti ha interessato. Buona lettura
Mi piacerebbe leggere la 1 e la 2a parte prima di questo racconto. Come posso fare?
Mi fa molto piacere l'apprezzamento, caro Fulvio Angelo, e non posso che raccomandarti di andare là, augurandoti di poter vivere tutte le emozioni che abbiamo provato noi. A proposito, hai letto anche la prima e seconda parte del viaggio? Presto invierò anche la quarta e ultima, così magari gli amici di Cisonostato riescono a metterla in Rete prima delle feste natalizie. Buon viaggio!
Davvero una miniera di notizie, il racconto avvincente di un viaggio attraverso luoghi stupendi, bellissime fotografie. Credo proprio che l'anno prossimo andrò anch'io nel favoloso Far West!