Sabaydee Laos!

Il piacere del “viaggiarlento” in un’area del sud-est asiatico in buona parte ancora immune dal turismo di massa

Pochi altri Paesi al mondo si prestano quanto il Laos allo "slow-travel", una filosofia di viaggio spesso decantata ma di rado messa in pratica, immersi come siamo in un mondo sempre più improntato all'efficientismo ad ogni costo e all'ineluttabile parametro "sono-obbligato-a-quindici-giorni-di-ferie-ad-agosto".
Si aggiungano gli effetti contraddittori prodotti dall'affermarsi di Internet: da un parte la Rete ha ampliato all'infinito le possibilità di contatto in tempo reale con ogni angolo - anche il più remoto - del mondo, consentendoci una pianificazione veloce e capillare dei nostri viaggi: si parte ormai con voli, spostamenti interni, alloggi, ingressi ai siti importanti già fissati giorno per giorno, con l'aggiunta delle testimonianze di chi ci ha preceduto riferite nei tanti forum di discussione. Di contro, questa superorganizzazione ci sta privando via via del piacere della scoperta e spesso partiamo già conoscendo, grazie a un'infinità di informazioni e immagini, i luoghi che andiamo a visitare; trovo esemplare, al proposito, un proverbio orientale che suona più o meno "gli occhi del viaggiatore vedono solo ciò che si aspettano di vedere".
Sarebbe un peccato partire per il Laos con questo approccio. Per quanto apertosi progressivamente al turismo nell'ultimo decennio, è rimasto uno dei pochi Paesi capace di riservare scoperte vere. Ma soprattutto, un luogo in cui riappropriarsi di ritmi pacati e di azioni di altri tempi: non ha prezzo il lasciarsi scivolare il tempo addosso, fra una passeggiata lungo il Me Kong, una sosta a un tavolino per un frullato di frutta, un giro in tuk-tuk, una chiacchierata con un giovane monaco nella pace di un tempio, una pigra traversata in barca lungo il Grande Fiume, una contrattazione in uno dei tanti mercati. Il tutto, condito da sorrisi, una merce sempre più rara nella nostra quotidianità occidentale.LUANG PRABANG E DINTORNI (6 giorni)
Reduci dalle bellissime giornate del Capodanno Cinese di Ha Noi (vedi diario "Il Tet a Ha Noi: ha inizio l'Anno del Cane!"), eccoci il 31 gennaio 2006 in volo per il Laos. L'operativo prevede uno scalo nella capitale Vientiane, dove - espletate in breve le pratiche doganali - con una passeggiata di pochi minuti si passa dal moderno aeroporto internazionale a quello dei voli domestici, un capannone molto alla buona dove si comincia a respirare l'aria del Paese che ci sta accogliendo.
Il volo su Luang Prabang dura poco meno di un'ora e la quota non molto elevata ci consente di ammirare gli splendidi paesaggi tipici del sud-est asiatico.
In aeroporto è in funzione un banchetto che distribuisce una credenziale numerata per il servizio di tuc-tuc che fanno la spola verso il centro distante un paio di chilometri; giunto il nostro turno, ci facciamo condurre alla guest-house Sayo, che abbiamo individuato sia sulla Lonely Planet che sulla Rough Guide per il fascino della dimora coloniale unito all'ottimo rapporto qualità-prezzo. Non deve quindi stupire che sia esaurita, ma a poche decine di metri di distanza troviamo posto alla Choumkhong, una piacevole casa a due piani completamente in legno: le camere con servizi, semplici ma pulite, ci costano 12 dollari ciascuna. Ci troviamo proprio davanti al tempio di Wat Xiang Mouane, da dove giungono le preghiere dei giovanissimi monaci e di tanto in tanto il suono dei tamburi: un'atmosfera fuori dal tempo.
Un'altra possibilità di alloggio che avevamo preso in considerazione è la bellissima Guesthouse della Bakery sulla via principale consigliata da Bea, ma risulta piena: ci consoliamo cenandovi, decisamente con soddisfazione.

Luang Prabang, l'antica capitale imperiale, è di sicuro la località più attraente del Laos. Pur essendo poco più che un "paesotto" di 70.000 abitanti, il cui centro storico si concentra in una fascia di un chilometro per trecento metri che si protende sull'ansa formata dalla confluenza del Nam Khan nel Me Kong, càpita facilmente che i viaggiatori prolunghino un previsto soggiorno di due o tre giorni fino a una settimana o più. Colpa di un fascino sottile al quale pochi riescono a sottrarsi.
La principale eminenza architettonica della città consiste (come in tutte quelle laotiane) nei templi (Wat), in media risalenti come nucleo originario ai secoli XVII-XIX e oggi rimasti in numero di una quarantina. Ogni complesso è composto da più edifici preposti a varie funzioni sparsi in uno spazio spesso abbellito da alberi e fiori, nel quale si affaccendano i monaci in tonaca arancione nelle occupazioni quotidiane.
La struttura più importante e "cuore" del luogo culto è il Sim, l'edificio in cui è custodita l'effigie principale del Buddha e al quale sono dedicate le continue cure degli artigiani decoratori e restauratori: secondo una credenza diffusa, è un modo per acquisire meriti religiosi.
I materiali più utilizzati sono il legno intagliato, lo stucco modellato e pitturato, talvolta mosaici con tessere a specchietto. Il porticato e le pareti interne sono ricoperti di dipinti che possono raffigurare divinità indù, motivi naturalistici e floreali, scene della vita del Buddha spesso svolte come una sequenza di storie che riempiono riquadri successivi.
I monaci sono in massima parte giovani; tutti i bambini hanno una sorta di obbligo di trascorrere tre mesi di noviziato in un tempio e molti finiscono per rimanerci, trovandovi sicurezze - di sostentamento ma anche di acculturamento - che un Paese povero come il Laos non sempre può garantire.
Visto che alla lunga i templi - per quanto affascinanti - finiscono per essere un po' tutti simili e cala l'interesse per il lato storico-artistico, l'aspetto prevalente diventa proprio il contatto con la quotidianità che vi si svolge. Non passano infatti che pochi istanti dall'ingresso in un tempio per essere accolti dai sorridenti monaci che colgono l'occasione per allenare il proprio approssimativo inglese avviando una conversazione in cui c'è posto per ogni argomento: le attività nel tempio, le impressioni sul Laos, la provenienza e l'occupazione dell'ospite, la storia personale e familiare del monaco, il tutto pervaso da reciproca curiosità.
Chiaramente, non indulgerò a una descrizione dei vari templi visitati che risulterebbe stucchevole, per i quali trovo più adeguata l'abbondante documentazione fotografica che ho inserito: non posso però non sottolineare la serenità che questi luoghi trasmettono e la spiritualità che vi si avverte, indipendentemente dall'essere credente o meno di questa o quella religione.

Come detto, il centro storico di Luang Prabang si sviluppa in senso ovest-est lungo un promontorio percorso da quattro vie parallele, da sud a nord la Latsavong che diventa poi Kingkitsalat costeggiando il Nam Khan, la Xiang Thong che è l'arteria in cui si concentra la più parte delle attività commerciali, la sterrata senza nome che è individuata come "la via del Wat Xiang Mouane" e la Manthatoulat lungo la riva del Me Kong: queste sono intersecate da diverse trasversali, a formare un reticolato che è l'area nella quale si finisce per gravitare in prevalenza.
Punto focale ne è il vasto complesso del Palazzo Reale, ma soprattutto la prospiciente Xiang Thong che ospita i due rituali da non perdere per ogni visitatore. Poco dopo l'alba vi si snoda il lungo corteo dei monaci intenti alla questua, mentre dopo il tramonto la via è chiusa al traffico veicolare e la sede stradale è occupata dal coloratissimo mercato serale sul quale si riversano dalle campagne circostanti i sorridenti Hmong (in prevalenza donne) che vendono le più svariate mercanzie: abiti, tessuti, copricapi, lampade in carta di riso, borse, statuine, scacchiere, astucci, ombrellini, monili… Il luogo finisce per diventare un appuntamento fisso del dopo cena e vi si respira una bella atmosfera nella quale, sera dopo sera, si crea fra venditori e possibili clienti una forma di familiarità che prescinde dal rapporto commerciale.
NOTA: recenti visitatori mi hanno riferito che il mercato serale si è recentemente trasferito sulla parallela via del Wat Xiang Mouane.
Un altro luogo dove fare acquisti interessanti è la Setthathilat: ai due angoli con la Xiang Thong e con la Latsavong si trovano rispettivamente il mercato tribale e il mercato Dala, dove si trova di tutto, dagli abiti e tessuti ricamati ai gioielli in oro e argento ai souvenir dell'antica monarchia.

Altro luogo di ritrovo fisso è la collina sacra di Phou Sy. La via più diretta per salirvi è una scalinata che parte proprio di fronte ai cancelli del Palazzo Reale, ma di sicuro più interessante è l'accesso dal lato opposto, vale a dire dalla Latsavong, la via che costeggia la riva del Nam Khan. Si percorre una mulattiera a tornanti i cui muretti laterali sono costituiti da interminabili naga (il serpente della mitologia induista, simbolo di fertilità), toccando in successione diversi tempietti, statue variopinte di divinità, grotte con Buddha dorati e pareti affrescate con scene della sua vita, un vecchio cannone antiaereo arrugginito e infine lo stupa That Chomsi sulla sommità della collina, in verità più malandato di quanto sembri nella veduta dalla base. Qui si raduna "tutto il mondo" per ammirare il tramonto sul Me Kong.
Un tramonto molto meno inflazionato (ci sono altissime probabilità di essere da soli) lo si può apprezzare sul lato opposto del Grande Fiume: basta recarsi al molo sul retro del Palazzo Reale, dove i barcaioli attendono la clientela per ogni tipo di servizio e contrattare la traversata per poche migliaia di kip (ricordo che un euro corrisponde a circa 13.000 kip). Una volta sbarcati, si ha la sensazione di un salto indietro nel tempo: sulla spiaggia uomini e donne lavano e si lavano, i bimbi giocano, i pescatori rammendano le reti, i barcaioli curano le imbarcazioni; si risale la scarpata che fiancheggia il fiume raggiungendo il villaggetto di Xiang Men passando fra le case e la gente nelle occupazioni quotidiane, tutti ti sorridono, i bambini di 5/6 anni ti vengono incontro prendendoti per mano senza chiedere nulla, nemmeno il bonbon o le penne o il famigerato "one dollar". Mi trovo a giocare a pallone e non mi lasciano andare via!
Passato l'abitato, si incontrano in successione tre templi, modesti in relazione ad alcuni splendidi in città ma di grande fascino proprio per l'isolamento che li rende preziosi. Ben pochi si prendono la briga di questa semplice escursione, tutti si ammassano per il rito del tramonto sul Phou Sy, mentre io posso godere da solo, nei pressi di un gruppo di stupa del 1560, un tramonto da lacrime agli occhi.

I pasti possono essere risolti in più modi: o in uno dei tanti ristorantini, che spesso risentono dell'impronta francese e di parecchie concessioni alla cucina internazionale, spendendo per un pasto completo fra i 5 e i 10 dollari; oppure al mercato Hmong sull'angolo fra la Xiang Thong e la Setthathilat, dove ci si serve da una miriade di bancarelle con i piatti più vari e ci siede su tavoloni lunghi decine di metri dove si mescolano con grande convivialità locali e viaggiatori. Mettendoci una birra Beerlao da 640 cc. (buonissima, specie la dark!) si possono pagare BEN 3-4 dollari!
Sono comunque presenti un po' dovunque chioschetti che ad ogni ora servono piattoni di noodles o riso variamente guarniti che costano una sciocchezza.
Quale che sia la scelta, si può dire che a Luang Prabang si mangia decisamente bene e l'orgoglio dell'antica capitale per la propria tradizione culinaria si rivela pienamente giustificata.

DINTORNI DI LUANG PRABANG
La gita classica di una giornata in partenza dall'antica capitale è quella che porta alle cascate di Kouang Si, situate circa 35 km a sud-ovest della città. Ci si può recare sul luogo noleggiando una moto, prendendo accordi con un tuk-tuk o arrivarvi in barca lungo il Me Kong. Privilegiamo però la soluzione proposta da Lao Travel Service, uno dei tanti piccoli operatori sulla Xiang Thong: per 20 dollari a testa è compreso il pullmino con autista, l'ingresso al sito delle cascate e la sosta in un villaggio per la cavalcata sull'elefante.
La strada si sviluppa nelle vicinanze del fiume in un bellissimo scenario collinare costellato di villaggi popolati di varie etnie. Posteggiato il pullmino, con una passeggiata di una mezz'ora lungo un sentiero che si fa strada in una folta boscaglia si raggiunge la base della cascata: in questa stagione purtroppo con scarsa portata d'acqua, ha un fronte molto ampio con diversi salti che si fanno strada in mezzo agli alberi e a scarpate ammantate di muschio per gettarsi in una serie di laghetti dalle acque smeraldine.
Sulla via del ritorno, facciamo tappa nei pressi di Ban Tha Pene, dove esiste una piccola riserva di elefanti: saliti in groppa ai pachidermi, facciamo un giro di circa un'ora attraverso un paesaggio di vegetazione rigogliosa e campi terrazzati.
Gironzoliamo anche un po' nel simpatico villaggetto, curiosando anche in un capanno che funge da aula scolastica, con lavagna, abbeccedari e quaderni; su una parete spicca un poster con una serie di disegni che illustrano le precauzioni da osservare sui terreni minati, il che fa comprendere quanto grande sia ancora quell'emergenza in questo Paese martoriato dalle guerre. Non molti lo sanno, il Laos è statisticamente il Paese al mondo in cui durante la storia recente (cioè quella delle armi da fuoco) è stato scaricato il maggiore quantitativo di bombe. Addirittura, durante la guerra del Viet Nam, i B52 statunitensi vi scaricavano gli "avanzi" delle munizioni, trasformando in tragica pattumiera questa terra dalla bellezza struggente.

PHONSAVAN, LA PIANA DELLE GIARE E DINTORNI (3 giorni)
Situata nella provincia di Xiang Khouang, l'enigmatica Piana delle Giare è uno dei più importanti siti archeologici dell'intero sud-est asiatico e uno degli ultimi misteri pressoché insoluti dell'archeologia mondiale. La denominazione risale al tempo delle guerre d'Indocina del secolo scorso, quando i francesi battezzarono Plaine des Jars (in codice PDJ per i piloti americani), in riferimento appunto ai reperti che vi sono disseminati, la pianura nel nord-est del Laos circondata all'intorno da montagne via via sempre più alte. Oltre a queste centinaia di "giare", cioè rudimentali contenitori di granito o conglomerato di arenaria costruiti per scopi ignoti da una altrettanto ignota civiltà fra 2 e 4 millenni fa, alti fino a due metri, pesanti da 1 a 6 tonnellate ciascuna, la zona è una testimonianza della durezza delle guerre di cui per decenni queste regioni furono teatro.
La base per la visita ai siti delle giare è Phonsavan, che può essere raggiunta via terra o in volo. Trovandoci noi a Luang Prabang, optiamo per la seconda soluzione, dato anche che attualmente esistono voli diretti solamente da Vientiane. E poi ci teniamo a mantenere l'impronta "slow travel" data a questo viaggio: il trasferimento lungo la statale impegna non meno di 9-10 ore (più altrettanto il ritorno) per coprire 260 chilometri di strada tortuosa fatta a continui saliscendi, ma ne vale la pena per gli scenari mozzafiato di montagna e gli impagabili incontri con le minoranze Loum e Hmong. Concordiamo quindi con la già sperimentata Lao Travel Service un servizio di tre giorni che comprende pullmino con autista, pensione completa, visita guidata in inglese ai tre siti delle giare e a Muang Khoun, oltre l'accordo di fare sosta ogni volta che vorremo nei villaggi lungo il percorso.
Lasciato in custodia il grosso del bagaglio alla Choumkhong guest-house dove torneremo per altri due pernottamenti, carichiamo una sacca con l'essenziale sul pullmino che viene a prelevarci di buon'ora. Lasciata Luang Prabang, siamo ben presto in aperta campagna immersi nel tipico paesaggio del sud-est asiatico: campi terrazzati, risaie, bufali al pascolo, gruppi di capanne sparsi lungo i corsi d'acqua, gente intenta al lavoro con ritmi e strumenti primordiali che osserva curiosa il nostro passaggio.
La sosta pranzo avviene a Kioukacham, uno di quei luoghi in cui mai si sarebbe pensato di trascorrere un'ora della propria vita: un incrocio di strade, qualche chioschetto di ristoro, bancarelle di frutta, verdura, carni e pesce, un piccolo emporio in cui non mancano CD e DVD (rigorosamente taroccati) dei divi locali, un distributore di benzina consistente in un capanno con due bidoni di carburante dai quali fuoriesce un tubo di gomma.
E' quasi l'ora di cena quando entriamo in Phonsavan, una polverosa cittadina ricostruita una ventina d'anni fa dopo le devastazioni dei conflitti, il cui abitato si sviluppa lungo la statale 7 e poche trasversali prive di nome: un mercato ortofrutticolo all'aperto, uno coperto a più piani di alimentari e merci varie, l'autostazione, l'ufficio postale, una decina di alberghi (più qualcuno in costruzione) tutti recenti e sorti sull'onda della crescente notorietà dei siti delle giare. Phonsavan è tutta qui, con l'aggiunta di un'unica macabra curiosità: non si percorre un passo senza vedere case, botteghe, alberghi, giardini che non espongano residuati bellici - dalle granate alle bombe a mano, dalle mine antiuomo alle grosse bombe alte due metri a schegge grandi e piccole - ormai diventati parte integrante dell'arredo urbano, quasi ad esorcizzare un passato drammatico.
Noi siamo ospitati alla Banna House, una piacevole casa bianca su tre piani in stile coloniale che ci fornirà alloggio, cena e colazione. Domani sarà il titolare stesso a condurci ai siti delle giare.
I siti delle giare nell'area di Phonsavan sono circa una decina, di cui solo tre accessibili alla visita grazie a un'attenta opera di bonifica dell'enormità di ordigni bellici che infestano la regione. MAG (Mines Advisory Group) e UXO (Unexploded Ordinance Program) sono due acronimi presenti nei cartelli di avviso e destinati a diventare immediatamente familiari. Il Mines Advisory Group è l'organizzazione che - grazie anche ai provvidenziali contributi internazionali - ha provveduto allo sminamento, consentendo la visita seguendo scrupolosamente sentieri delimitati da cippi infissi nel terreno sui quali è riportata la sigla MAG e dipinti per metà in bianco e metà in rosso: significa che sul lato bianco (cioè verso il sentiero) si sono estratti gli ordigni inesplosi scavando in profondità, mentre da quello rosso ciò è avvenuto solo "a vista", rendendo sconsigliato l'accesso alle aree al di fuori del tracciato.
I siti, numerati da 1 a 3, sono ubicati fra i due e i 20 chilometri da Phonsavan e vi sono sparse circa 400 "giare", alcune isolate, altre a gruppi, grandi o piccole, in piedi o distese, intere o spaccate, poche con coperchio, qualcuna avviluppata nell'abbraccio di alberi secolari, talune con incise rozze figure umane ormai erose dagli agenti atmosferici. Secondo gli studiosi, di cui la più autorevole è l'archeologa francese Madeleine Colani che iniziò gli scavi negli anni Trenta, i contenitori sarebbero urne funerarie che contenevano le ceneri delle persone - probabilmente solo quelle importanti - cremate.
Secondo una versione leggendaria, gli enormi vasi furono costruiti per farvi fermentare il vino di riso con il quale festeggiare la vittoria dell'eroe della mitologia tai-lao Cheaum, che aveva liberato i popoli della piana da un feroce tiranno. Proprio con il nome di Hai Cheaum (hai significa giara) è stata battezzata la più grossa di tutte (alta oltre due metri e pesante dieci tonnellate) che si incontra poco oltre l'ingresso del sito 1.
Di sicuro le "giare" furono saccheggiate nel corso dei secoli, anche se non mancano i ritrovamenti al loro interno di utensili in bronzo e ferro ma pure braccialetti e vari tipi di monili.
Nel complesso, la Piana delle Giare può deludere qualcuno per la ripetitività dei reperti, ma lo splendido paesaggio circostante, l'alone di mistero che pervade il luogo e il senso di trovarsi "in capo al mondo" che vi si prova rendono irrinunciabile questa escursione. Per non parlare (so che mi ripeto, ma è così) del valore aggiunto dei contatti con le popolazioni locali: anzi, è proprio uno dei casi in cui il viaggio stesso - con le soste nella quotidianità dei villaggi dalla quale ci si stacca a malincuore - vale almeno quanto la meta da raggiungere.
Esauriti i siti della giare, vale la pena spingersi una trentina di chilometri ad est di Phonsavan fino a Muang Khoun. Ormai c'è rimasto poco da vedere, ma la località fu nel XVI secolo capitale del piccolo ma ricchissimo regno di Xiang Khouang, celebrato per i suoi 62 splendidi stupa, i cui interni si favoleggiava fossero tempestati di tesori. Nel corso dei secoli XIX e XX, prima le scorrerie di predoni dalla Thailandia e dalla Cina, poi le sanguinose guerre d'Indocina rasero al suolo la zona cancellando secoli di storia.
Oggi bastano pochi minuti per la visita: attraversato un mercato di basse capanne, un sentiero sale a una collina dominata dall'altissimo stupa in mattoni That Dam, in parte fagocitato dalle erbacce e brutalmente perforato alla base per essere depredato. Poco più in là si giunge alle rovine del cinquecentesco Wat Phia Wat, di cui ha resistito un basamento delimitato da colonne su cui è posato un colossale Buddha seduto. Null'altro, a far rimpiangere gli antichi splendori di un posto straordinario.

VIENTIANE E DINTORNI (4 giorni)
E' con vero rammarico che lasciamo Luang Prabang, una delle città che nel corso di tanti viaggi in giro per il mondo mi ha maggiormente trasmesso il senso di "casa".
Per lo spostamento nella capitale - che dista 320 chilometri - abbiamo scelto di mantenere la linea "slow" rinunciando all'aereo, con la sola concessione di permetterci per una decina di dollari l'autobus VIP (!), che poi in sostanza si differenzia ben poco da quelli normali: forse, giusto per il posto prenotato. Costante invece la presenza a bordo di un poliziotto con mitraglietta, ma niente paura: è una norma a tutela dei viaggiatori.
Ieri sera, tramite la figlia del nostro padrone di casa, abbiamo fissato telefonicamente due camere in una guest-house di Vientiane, città per la quale partiamo alle 8,30.
Il paesaggio che attraversiamo offre panorami naturali tra i più belli del sud-est asiatico e ha come fiore all'occhiello - più o meno a metà tragitto - la zona di Vang Viang, caratterizzata da alture carsiche dal profilo seghettato che si stagliano sul fiume Nam Xong: è uno scenario che ricorda per certi versi la baia di Ha Long in Viet Nam o il fiume Li in Cina.
Arriviamo a Vientiane (Viang Chan in lingua Lao) intorno alle 16,30 dopo un viaggio di 8 ore. La stazione delle autocorriere è ubicata circa quattro chilometri a nord-ovest del centro e prendiamo subito posto su uno dei tuk-tuk collettivi - più precisamente definito sawngthaew - che fanno la spola da qui alla piazza Nam Phou smistando i clienti alle varie strutture ricettive: la capienza "sarebbe" di 12 posti, ma credo che nessun agente del traffico si scomponga nel contare 15 persone con relativi bagagli stipati in ogni millimetro cubo disponibile…
Mentre attraversiamo un'urbanizzazione periferica tanto anonima quanto caotica, ci scambiamo sguardi perplessi che significano "ma che cosa ci facciamo in questo posto per quattro giorni?" oppure "avremmo avuto tutto il tempo di fare sosta a Vang Viang".
Eccoci comunque alla nostra guest-house, la Soukchaleun che è ubicata al n. 121 della Setthathilat (via che esiste dovunque, essendo l'eroe nazionale), a pochi passi dalla piazza Nam Phou, cuore della città: è una casa tranquilla, le cui camere pulite e confortevoli ci costano 13 dollari ciascuna.
Si è messo un discreto caldo e, dopo una buona doccia, rimandiamo al fresco della sera il primo contatto con la città. Dalla via dell'hotel, che è parallela al corso del fiume, bastano due o tre minuti per raggiungere il Me Kong (ma 'sto fiume è dappertutto!), lungo il quale una serie di bancarelle danno l'opportunità di personalizzarsi la cena con carni e pesci alla brace: aggiungendo un'insalata e la solita Beerlao, l'investimento può ammontare a 30/40.000 kip (tre euro)! E' anche un modo per familiarizzare con i locali, visto che ci si siede dove c'è posto sulle lunghe file di tavoli sistemati alla buona.
Di lì a poco, risulta - ahimè - evidente la sola nota stonata di questo viaggio: faccio un giro nei dintorni e sui 300 metri dalla piazza Nam Phou all'albergo almeno in dieci mi chiedono "mister, tuk-tuk?" e alla mia risposta "my hotel is here" ognuno ha pronta l'alternativa "you like girl, fine lady?". A conferma, diverse giovini bellezze locali mi indirizzano con larghi sorrisi le loro attenzioni, e dubito che dipenda dalla mia istintiva simpatia di uomo occidentale. D'altra parte, al di là del Me Kong si vedono le luci della Thailandia (Nong Khai), alla quale il Laos è unito dal Ponte dell'Amicizia costruito nel 1994 e ben presto eloquentemente ribattezzato Ponte dell'AIDS.
Ma eccoci alla scoperta di Vientiane: di sicuro non possiede il fascino intrigante di Luang Prabang, ma non si può nemmeno dire che sia una città dalla quale scappare subito. Gli influssi francesi e l'atmosfera coloniale sono ben presenti negli ampi viali alberati (anche se non guasterebbe un po' di manutenzione ai marciapiedi), per non parlare della cucina raffinata offerta da alcuni ristoranti di tradizione, come esempio "Le Provençal" e soprattutto "La Terrasse": per dare un'idea dico solo che nel secondo per una raffinatissima cena comprendente una terrina di gamberi, un trancio di salmone in crosta e una mousse di cioccolato con due bicchieri di Chardonnay ho speso l'equivalente di euro 8,90.
La maggiore eminenza architettonica della città è senza dubbio il Wat Sisaket, in assoluto una delle cose più belle viste in Laos. Solo che le migliaia di Buddha, di ogni materiale e dimensione, lungo i quattro lati del chiostro in legno intagliato, danno suggestioni che da sole valgono il viaggio: possono volare ore e ore ad ammirare le infinite differenti espressioni delle statue, da quelle minuscole all'interno delle innumerevoli nicchie sulle pareti a quelle a grandezza naturale. Questo tempio fu l'unico che i siamesi non distrussero quando nel 1828 misero a ferro e fuoco la città.
Proprio di fronte, in un bel parco sorge l'imponente Palazzo Presidenziale con accanto lo Haw Pha Kaew, un tempo tempio buddista e oggi museo che custodisce magnifiche opere d'arte: di grande fascino sono in particolare gli stupendi Buddha di bronzo allineati sulla terrazza coperta che circonda l'edificio. Il tempio prende il nome dal Buddha di Smeraldo (Pha Kaew), una delle immagini più sacre esistenti in Laos trafugata dai siamesi nel 1779 e a tutt'oggi - con amarezza dei buddhisti laotiani - ancora a Bangkok.
I due successivi luoghi di visita sono lungo la Thanon Lane Xang, un lungo viale che parte verso nord perpendicolarmente alla Setthathilat proprio di fronte al Palazzo Presidenziale e sul quale prospettano uffici, ambasciate, negozi e il mercato coperto Talat Sao. Più o meno a metà del viale si apre al centro della sede stradale una rotonda spartitraffico con aiuole sulla quale sorge il Patouxai, il monumento eretto negli anni Cinquanta in onore dei caduti in guerra: niente a che fare con gli archi trionfali delle città europee, ma ha comunque una sua gradevolezza per le decorazioni di divinità indù che abbelliscono il soffitto dell'arcata e il vasto panorama che si ammira dalla terrazza sommitale.
Si giunge infine allo stupa buddhista dorato di That Luang considerato l'edificio di culto più importante di tutto il Laos, edificato nel XVI secolo in onore del solito Setthathilat. A parte il valore sacrale, può ispirare sensazioni contrastanti, con la guglia di 45 metri al centro di una corona di petali di loto stilizzati ironicamente definita di volta in volta un chiodo ferroviario capovolto o un missile sulla sua base: bisogna però dire che presenta un colpo d'occhio molto suggestivo, specie nell'insieme dei trenta stupa più piccoli cui si accede da quattro porte della cinta muraria esterna merlata. Magnifico nella luce del tramonto.
Un po' come a Luang Prabang, c'è poi una miriade di altri Wat (templi) in cui passare piacevoli momenti di quiete e conversare con i monaci, ma ormai a fine viaggio non abbiamo intenzione di farne collezione guida alla mano. Ce n'è comunque uno che raccomando vivamente di non perdere per la particolarità dei riti che vi si svolgono: si tratta del Wat Simuang, ubicato sulla Setthathilat circa un chilometro ad est della piazza Nam Phou. Il Sim del tempio ha il suo "cuore" nel lak meaung, il pilastro sacro abitato secondo la tradizione dallo spirito guardiano della città; davanti ad esso, i fedeli pongono richieste o chiedono grazie tentando al contempo di sollevare sopra la testa una delle due statue in pietra alte quanto un bambino situate davanti all'altare: riuscirci per tre volte è ritenuto di ottimo auspicio. Anche il giardino prospiciente il Sim è molto singolare, con una decina di statue fantasiosamente dipinte di animali, divinità e figure mitologiche, particolarmente gradite dai bimbi per il loro giochi.

DINTORNI DI VIENTIANE
Se il That Luang è un edificio controverso, questo è nulla al confronto di una bizzarria situata una trentina di chilometri a sud est della città. Realizzazione affascinante o capolavoro del kitsch… lascio il giudizio a chi ci va!
Si tratta del Wat Xieng Khuan, altrimenti noto come Parco del Buddha, una serie di una cinquantina di sculture in cemento sparse su un terreno alberato in prossimità del Me Kong erette negli anni Cinquanta su iniziativa di Louang Pu Bunleua Sulilat, un sedicente santone che volle così simboleggiare l'unificazione tra Buddhismo e Induismo.
Subito dopo l'ingresso, il Parco cala subito la sua carta migliore (o peggiore?): una colossale costruzione che sembra la zucca di Cenerentola nella quale si entra attraverso la bocca di un essere mostruoso simbolo del tempo che divora le cose e al cui interno una serie di figure favolose rappresentano i tre piani dell'esistenza, inferno, terra e cielo. Con una scala a chiocciola si raggiunge il tetto, dal quale si ha una veduta d'insieme del parco.
Ci si aggira ora fra i vari gruppi scultorei, nei quali la fantasia dell'autore ha mescolato le divinità della cosmogonia indo-buddhista, creature immaginarie e personalità del passato regime. La statua più scenografica è quella imponente del Buddha sdraiato, diventata tanto nota da essere stata utilizzata dall'autorità turistica del Laos per manifesti e opuscoli di campagne pubblicitarie.

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