Per prima cosa ringrazio il contributo sia pubblico che privato di Paolo Ragni: oltre ad aver letto la sua relazione, gli ho anche chiesto ulteriori informazioni via e-mail. In particolare è stato prezioso il suggerimento di acquistare la guida in Inglese edita della Bradt, che sono riuscito ad ottenere tramite ordinazione qui a Roma. Un libro esauriente e completo, anche se pubblicato nel 2004, molto diffuso tra i viaggiatori che ho incontrato sul posto.
Come esperienze precedenti “atlantiche” con la mia famiglia avevo la Scozia (2005), Nordkapp (2006), Islanda (2007) e Galles (2007). In tutti questi viaggi abbiamo volato, quando possibile, con compagnie Low Cost ed abbiamo sempre dormito negli Ostelli della Gioventù della Federazione Internazionali nei quali è richiesta la tessera FAMILY, alloggiando quasi sempre in camere famiglia.
La scelta di andare alle Faer Oer nacque lo scorso anno quando le intravidi dall’aereo nel viaggio verso l’Islanda. Altre informazioni le ottenni da un articolo su Venerdì di Repubblica realizzato in occasione della partita di calcio disputata dall’Italia nel giugno 2007, tra le quali che la compagnia aerea specializzata era la Atlantic Airways.
La decisione di partire era stata presa in febbraio, in quanto avevo notato che partendo da London Stansted il 4 luglio e tornando l’11 vi era una tariffa ridotta, non proprio low cost, comunque trovavo anche i voli complementari da Roma a Stansted con la Ryanair. Vi era anche l’alternativa per me non conveniente di partire da Pisa, raggiungere Billund in Danimarca, quindi proseguire per le Faer Oer.
Poiché mia moglie non poteva prendere le ferie in quel periodo, decidevamo che sarebbe stato meglio che fossi andato io da solo in avanscoperta, rimandando un’eventuale visita tutti insieme in occasione di un viaggio alle Shetland. È risultata una decisione giusta, non perché le Faer Oer non siano adatte ai bambini, ma perché una settimana intera potrebbe essere un po’ troppo impegnativa. Poi si capirà il perché.
Nella progettazione avevo deciso di noleggiare una macchina benché fossi da solo. Se è vero che vi è una buona rete di trasporti pubblici nell’arcipelago e che la tessera settimanale è a buon mercato, è purtroppo altrettanto vero che non avrei potuto vedere che una piccola parte delle piccole località che ho visitato, dal momento che per molte di
loro una sosta di una mezz’ora era più che sufficiente, se le avessi raggiunte con il bus tra una corsa e l’altra intercorrevano tra le due e le tre ore.
Sono stato fortunato con il tempo, durante il mio soggiorno non è mai piovuto, solo una mattina sembrava, ma altro non era che nebbia fitta. Il favore atmosferico mi ha permesso di apprezzare gli splendidi colori non solo del cielo e del mare, ma anche delle variopinte casette. Aggiungo che la temperatura oscillava tra i 12 ed i 18 gradi centigradi, quindi al sole stavo spesso in maniche corte. Trovandosi le Faer Oer al 62° parallelo, ed avendole visitate poco dopo il solstizio d’estate, la notte il cielo non si scuriva mai del tutto, restava una sorta di crepuscolo.
La principale ragione che spinge a visitare le Faer Oer è il contatto con la natura, una settimana trascorsa senza problemi di traffico (a parte la carenza di indicazioni), di parcheggio e di inquinamento sia atmosferico che acustico. Chi vi cerca la vita movimentata con discoteche, continui a starne alla larga! Il contatto con la natura è anche e soprattutto nei paesaggi, nei panorami, nel facilissimo birdwatching, nell’ascolto dei suoni del mare, del vento e nei versi degli animali.
Da vedere di artistico non vi è molto. Vi troverete lo scheletro di una cattedrale medievale rimasta incompiuta, un paio di siti con resti vichinghi, alcune fattorie dei secoli scorsi, ma soprattutto tre serie di chiese, vale a dire quelle piccole in legno, quasi tutte dell’800, quelle un poco più grandi un muratura. Infine alcune costruzioni molto moderne
particolarmente slanciate. Purtroppo gli orari di apertura sia dei pochi musei che di molte chiese sono molto limitati, al massimo due-tre ore al giorno.
Itinerario
Il primo giorno sono partito da Roma Ciampino con il volo delle 6 e 40, sia perché era il più economico, sia perché arrivando a Stansted verso le 8, mi ha consentito di effettuare un giretto di due ore abbondanti per Londra, essendo il decollo per Vagar, l’isola dove si trova l’aeroporto, previsto per le 14.45. Piccola sorpresa: alle 13 non era ancora annunciato il desk, il volo in arrivo dalle Faer Oer era stimato con oltre cinque ore di ritardo. Mi fosse accaduto al ritorno avrei perso la coincidenza per Roma. Non essendo questa una circostanza rara, avevo programmato al ritorno di trascorrere una notte nella capitale inglese.
Il desk finalmente assegnato al nostro volo era nell’ultimo corridoio, lontano dai clamori del salone, anche i passeggeri erano così diversi da quei “caciaroni” che andavano invece alla scoperta di Piccadilly & c.
Riuscivamo comunque a contenere il ritardo in un solo quarto d’ora, per cui atterrati nel piccolissimo aeroporto dell’’arcipelago, ricevevamo subito i bagagli, attentamente annusati sul nastro da un pastore tedesco.
In pochi minuti prendevo la macchina e mi dirigevo al vicino ostello dove il gestore dava subito dimostrazione di mancanza di professionalità. Sebbene avessi riservato cinque mesi prima una stanza a due letti, venivo assegnato in una quadrupla, fortunatamente a prezzo ridotto. Gli ostelli alle Faer Oer hanno uno standard qualitativo nettamente inferiore a quello degli altri Paesi del Nord Europa, e si incontrano spesso problemi organizzativi, peccato, l’unico neo, ma essendo io un cinquantenne con lo spirito da ventenne, non ho avuto difficoltà ad adattarmi, ben diverso sarebbe stato con tutta la famiglia!
Prese alcune cibarie in un vicino supermercato, me le cucinavo all’ostello. Sfruttando la luminosità, iniziavo la visita dei dintorni, dando un’occhiata ai villaggi di Gasaladur e Bøur. Al primo venne dedicato un film-documentario qualche anno fa, quando vennero interrotti a soli cento metri dall’ultima breccia i lavori del tunnel che lo avrebbe collegato con una strada asfaltata, mentre a Bøur, un graziosissimo gruppo di casette, avevo il primo positivo contatto sia con i tetti in erba, sia con le cascate che con le chiesette in legno edificate nell’800, periodo in cui vennero sviluppate delle adeguate tecniche di scelta dei materiali.
Eccomi al secondo giorno, sabato. Dopo un bel nescafè (il meglio che si può pretendere lassù), visto il bel tempo nonostante vi fosse un po’ di nebbia, decidevo di recarmi col il battello a Mykines (pronuncia Micines): solo quattro giorni prima il natante aveva avuto seri problemi con il mare mosso, e l’autore della guida ha riportato di una sua sosta forzata di una settimana a causa delle avverse condizioni atmosferiche che ne avevano bloccato sia il collegamento marittimo che quello con l’elicottero.
Il battello partiva alle ore 10 e 20, raggiungeva l’approdo a Mykines in poco meno di un’ora. Come la nebbia si diradava, tutti a cercare di fotografare l’isola.
A Mikynes ci si va soprattutto per percorrere il sentiero che in un paio d’ore porta al faro, lungo il quale si gode della vista ravvicinata di pulcinelle di mare (puffins), gabbiani e urie. Splendidi i panorami sul mare, in particolare in prossimità del ponte pedonale che congiunge le due parti in cui è spezzata l’isola. Non volendomi perdere (in alcuni punti la nebbia era davvero fitta) mi univo ad un gruppo di Danesi. Vorrei far notare che sebbene fossi partito da solo, grazie alla conoscenza di Inglese e Tedesco ed al mio carattere, ho parlato e scambiato opinioni con molta gente, anche perché la maggior parte di chi sceglie questo tipo di destinazioni ha molti interessi in comune, non va certo in cerca di discoteche...
Durante il ritorno, quando il gruppo decideva di far sosta per mangiare, mi veniva chiesto persino se avessi del cibo con me o se volessi mi fosse offerto… capito che gente?
Rientrato al villaggio, dove la nebbia si era del tutto diradata, scattavo un po’ di foto alle coloratissime case e mi bevevo un caffè nell’unico esercizio pubblico, dove scoprivo che i prezzi non erano per fortuna ai livelli islandesi.
Il battello lasciava Mikynes con dieci minuti di anticipo, il viaggio di ritorno regalava grazie al cielo terso regalava colori e panorami davvero emozionanti.
Dopo l’approdo, salivo in macchina e puntavo deciso verso la Capitale Tòrshavn: pur appartenendo l’arcipelago alla Danimarca, gode di grande autonomia, avendo una propria targa automobilistica (FO), inno, squadra di calcio, governo, parlamento e bandiera soprattutto marittima, per cui invece di capoluogo si parla di Capitale.
Dal 2002 per passare dall’isola di Vágar a quella di Eysturoy (dove si trova Tòrshavn) non ci si deve più imbarcare sul traghetto, ma si utilizza un tunnel sottomarino a pedaggio, che si paga solo in una direzione in una qualsiasi stazione di servizio, indicando targa del veicolo, data del transito e tunnel (ve n’è’anche un altro): ogni auto che transita viene fotografata, non potete fare i furbi!
Alloggiavo presso l’ostello Bladypi, centralissimo, cinque minuti scarsi a piedi per il centro, anche qui la prenotazione effettuata in febbraio era stata diciamo pasticciata. In compenso, la colazione, compresa nel prezzo, era molto buona ed il personale molto gentile.
Ho dedicato due serate alla visita di Tòrshavn, passeggiando per la penisoletta di Tinganes, la cui promenade ricorda molto la zona di Nyavn a Copenaghen. La parte interna è caratterizzata da case lignee color rosso intenso dove ha sede il Governo. Da vedere vi è il vicino Forte Skansin, roccaforte difensiva dalla storia molto travagliata, ed il piccolo centro pedonale, ai bordi del quale vi è l’ufficio informazioni turistiche, uno dei pochissimi posti dove trovare souvenirs, di cui il Paese è piuttosto carente! Restando in argomento, le migliori cartoline le ho trovate all’aeroporto.
Il terzo giorno lo dedicavo alla visita dell’isola di Streymoy, una delle due maggiori, unita alla vicina Eysturoy da un ponte.
Non è stato facile lasciare la città ed indovinare la strada per una notevole carenza di indicazioni stradali, Ho cominciato la visita dal sud, in particolare dalla località di Kirkjubøur, dove si ammirano le imponenti mura di una cattedrale medievale rimasta incompiuta, l’ottocentesca chiesa bianca e si visita l’antica fattoria. Con questo termine si intende un tipo di edificio diffuso anche in Islanda che nei secoli scorsi era il fulcro di molti piccoli villaggi. Kirkjubøur ha goduto di due fortune. In un Paese dove gli alberi non crescono, il legno è un materiale prezioso, e lungo le sue coste si fermava del legname di scarto proveniente dal mare. Oltre a questo, vi cresceva un tipo di alga utilizzato come fertilizzante.
Risalendo lungo la costa orientale, meritava una deviazione il villaggio di Kaldback, in bella posizione sul fiordo con la chiesa lignea con tetto in erba con un interno particolarmente curato. Ho avuto anche la fortuna di ascoltare il pastore che suonava l’organo.
Qualche altro chilometro ed ero nel paesino di Kollafjørður, anche questo con la sua bella chiesetta in legno con soffitto in erba: qui il pastore, al termine della celebrazione domenicale, era sorpreso del fatto che la volessi visitare!
Decisamente diversa Air, un centro per lo studio delle balene abbandonato, che la guida definiva uno scenario da set hollywoodiano.
Molto più suggestivo il centro di Hvalvík, con una piazzetta ricca di colorati edifici con tetto in erba, tra cui l’immancabile chiesetta, la più antica dell’arcipelago, che osservavo molto discretamente essendo al momento celebrata la messa.
Iniziava il percorso verso quella che sarebbe stata l’attrazione principale della giornata, vale a dire Saksun. Si percorreva una stradina che costeggiava un fiumiciattolo lungo il quale si fermavano alcuni pescatori. Si raggiungeva poi un laghetto al termine del quale vi era un bivio. Andando a destra si saliva su un promontorio dove oltre a godere il miglior panorama sul fiordo, si trovava una fattoria adibita a museo e si poteva raggiungere l’immancabile graziosissima chiesetta con tetto in erba, questa però era in muratura bianca.
Tornando indietro e prendendo al bivio la strada sulla sinistra, si lasciava la macchina al parcheggio, proseguendo a piedi verso il basso, sino a raggiungere il livello del mare. La passeggiata lungo la lingua di sabbia nel fiordo era davvero spettacolare, tra le alte pareti rocciose popolate da nidi di uccelli. Dopo una camminata di poco piú di mezz’ora, si raggiungeva un’ampia spiaggia sabbiosa: la temperatura esterna invitava al bagno solare, quella del mare scoraggiava però la nuotata. Un paesaggio veramente bello, baciato dal sole.
La caratteristica del successivo borgo di Haldarsvik era la presenza dell’unica chiesa di pianta ottagonale delle Faer Oer, al cui interno si trovava un discutibile quadro dell’Ultima Cena. Qui terminano anche le piú lunghe cascate dell’arcipelago, non certo le più belle, però!
La località più settentrionale dell’isola è Tjørnuvík, adagiata in fondo ad una baia con spiaggia sabbiosa, in bella vista sui faraglioni Risin e Kellingin della vicina Eysturoy. Un paio di bambini correvano lungo la riva incuranti del forte vento, mentre io mi bevevo un bel caffè nel Litla Cafè. Questo villaggio aveva tutta l’aria di essere molto frequentato in caso di bel tempo… stranamente mentre il resto dell’isola era soleggiato, in questa estrema parte settentrionale il tempo era fresco e perturbato. Avrei avuto simile esperienze due giorni dopo. La visita dell’isola l’avrei completata per motivi logistici durante il quinto giorno.
A quel punto rientravo a Tòrshavn, gironzolando un poco per la zona del porto. Certamente è una cittadina molto più graziosa di Reykjavîk!
Nel quarto giorno ho girovagato per la dirimpettaia Eysturoy. Lasciata Tòrshavn senza troppa difficoltà grazie all’esperienza del giorno precedente, attraversavo il ponte all’altezza di Oyrarbakki, dove si trovavano sia una delle poche stazioni di servizio dell’arcipelago sia un ufficio postale. Sereno al sud, nuvoloso e ventoso al nord, soprattutto quando raggiungevo Eiði. Era proprio il vento, unito alla carenza di indicazioni, a farmi desistere dall’escursione al belvedere sui faraglioni di Risin e Kellingin. Si trattava di una delle scogliere più alte d’Europa, ma con la nebbia il panorama sarebbe stato scarso, con il vento la passeggiata pericolosa: avrei trovato un modo più interessante di impiegare le 7-8 ore richieste per l’escursione. Eiði è comunque una graziosa località, con una bella chiesa bianca con tetto verde. In un giardinetto vi è una statua in metallo di una donna con due bambini che aspettano il padre che non torna dal mare. Intorno, delle piccole lapidi che ricordano chi è perito navigando. Nella parte alta si trovano l’albergo e la grande scuola che, al pari del piccolo supermercato, serve un’intera zona.
Proseguivo per Gjogv (pronuncia Gev…), vedendo da dietro i faraglioni Risin e Kellingin nonché un bel laghetto. La nebbia si infittiva per poi diradarsi nella discesa per il paesino anch’esso adagiato in una baia molto battuta dal mare. Qui avevo prenotato una stanza nell’ex-ostello, una bella costruzione a tetto spiovente convertita in albergo. Avendo non solo prenotato ma anche pagato on-line in febbraio, almeno qui non ho avuto sgradite sorprese. Prima di poter accedere alla stanza, avevo un paio d’ore di tempo. Dopo aver dato un’occhiata alla chiesa con annesso, come sempre, un piccolo cimitero, mi appariva di fronte l’isola di Kalsoy, separata da un mare in burrasca. Non sembravano per nulla intimorite dai marosi delle famiglie di papere. Da una scogliera vedevo che si poteva raggiungere una collinetta panoramica, da dove si comprendeva il nome della località: Gjogv significa spaccatura, un fiordo di dimensioni ridotte formato proprio da una mancanza di terreno, come se qualcuno con una grandissima paletta l’avesse tagliata a mo’ di fetta di torta rettangolare. Da questa collinetta notavo delle persone che salivano su un sentiero lungo una scogliera: ecco l’attrattiva del giorno, una scalata con bellissime viste sul mare, sul paese, ma soprattutto sia su tanti uccelli, in maggioranza gabbiani, fulmari e pulcinelle di mare, sia sui loro nidi. Nonostante non avessi che una compatta digitale (diversi possedevano reflex con imponenti teleobiettivi), sono riuscito lo stesso a scattare dei bei primi piani.
Il giro dell’isola continuava con una breve tappa al villaggio di Funningur, la cui tradizionale chiesetta in legno stava catturando l’interesse di una coppia di fotografi un po’ imbranati. Più bella era comunque, sul fronte opposto del fiordo Elduvík, un borgo che la guida definiva a ragione tra i più idilliaci. Scendendo verso sud il tempo migliorava, e qui si notavano i contrasti tra il sole che illuminava il paesaggio ed il cielo che verso nord era plumbeo.
Un sole brillante illuminava la cittadina di Fuglafjørður, anch’essa adagiata in fondo ad una baia. Arte moderna presente sia nell’architettura della chiesa sia in alcune “sculture” sul molo del porticciolo.
Rimanevano ancora alcune ore che dedicavo alla parte meridionale dell’isola, sicuramente la meno interessante del viaggio. Da segnalare giusto la moderna chiesa di Toftir, i mulini per la produzione di energia eolica a Nes e l’estremo villaggio di Æduvîk, raggiunto comunque dal servizio di autobus.
Chiudeva il giro di Eysturoy Lerivîk, sino al 2006 porto di imbarco dei traghetti delle isole del nord-est, lasciato disoccupato con la realizzazione di un tunnel sottomarino. Sulle banchine è stata allestita una pista di go kart. Lerivík si segnala soprattutto per la presenza dei resti vichinghi di Toftanes, proprio vicino al porticciolo. Un esempio di
come si può valorizzare una zona archeologica di meno di cento metri quadrati.
Per il quinto giorno avevo programmato di andare a vedere alcune isole del nord est, vale a dire Borðoy, Viðoy e Kunoy collegate tra loro da due terrapieni, con un pensierino al traghetto per le remote Fugloy e Svínoy.
Dopo aver raggiunto l’isola di Borðoy passando sotto al mare con il tunnel a pedaggio non senza aver sbagliato due volte strada per la cronica assenza di indicazioni (alla fine avevo capito che serviva solo intuito), puntavo deciso a Viðoy per vedere se era possibile prendere il battello per Fugloy e Svínoy. Per arrivare al porticciolo di Hvannasund si dovevano attraversare due tunnel privi di illuminazione a senso unico alternato. Vi è una direzione che ha sempre la precedenza, chi va nell’altra, al vedere un veicolo deve fermarsi in una della numerose piazzole. Giunto al porticciolo, scoprivo che il battello “Masin” partiva alle 14.45, giá, ma quando tornava? La nebbia era fitta, mi dirigevo al nord sino a Viðareiði, all’estremo nord dell’isola. Ho apprezzato questo villaggio meno di altri a causa del grigio del cielo. Caratteristica del borgo è di avere un lato marino rivolto ad ovest ed un altro ad est: in questa seconda parte il mare era
decisamente agitato, contrastando la calma piatta del lato occidentale.
In attesa di imbarcarmi, tornavo all’isola di Borðoy (si trattava di percorrere cento metri di un terrapieno…) e di andare a vedere il minuscolo villaggio semi- abbandonato di Múli, tre sole case abitate, dove si ascoltavano solo il rumore di una cascata ed i versi di uccelli e ovini. Era uno dei momenti di maggior tranquillitá di tutto il viaggio, dava una serenitá davvero rinfrancante.
C’era ancora un po’ di tempo prima della partenza del battello, per cui decidevo di riattraversare i due tunnel a senso unico alternato ed andare alla vicina isoletta di Kunoy: grande sorpresa, bastavano dieci minuti per passare dal cielo nuvoloso al sole splendente di Kunoy! Lì incontravo solo una coppia di Tedeschi intenti a pescare, il mare era di una trasparenza incredibile, il tempo era splendido, caldo ma… troppo fredda l’acqua per fare un bagno. Mi godevo al sole il panorama in prossimità della chiesa osservando la meticolosità con cui un signore sistemava la vela della sua barca nel cortile di casa.
Il tempo di riattraversare le buie gallerie e di rivedere le nuvole. Mi informavo con una coppia danese che mi spiegavano che il battello avrebbe impiegato circa tre ore (al costo di tre euro…) per fare il giro delle isole. Dapprima avrebbe approdato a Svínoy, quindi si sarebbe diretto a Fugloy e poi sarebbe tornato ad Hvannasund. La guida spiegava che la parte piú interessante era proprio il viaggio sull’ex battello postale Masin. Le due isolette erano particolarmente selvagge, chissà con due settimane si potrebbe anche considerare una eventuale sosta. Sembrava di essere su una giostra, solo che era la realtà, soprattutto nel tratto che andava da Svínoy a Fugloy il battello beccheggiava in maniera davvero da metter paura. Questo viaggio marino era decisamente l’avventura del giorno, un’emozione davvero particolare, sconsigliata a chi soffre il mal di mare o si impressiona facilmente.
Tornando alla base (Gjogv), passavo per Klaksvík nell’isola di Borðoy considerata il capoluogo della parte orientale dell’arcipelago. Abituato alle atmosfere di Múli, un paese di poco più di cinquemila abitanti sembrava una trafficata metropoli! Mi soffermavo un poco al porticciolo, davanti alla fabbrica della birra locale (per la cronaca, anche la birra di bassa gradazione non si trova ai supermercati, ma solo agli spacci per alcolici) e soprattutto davanti alla bella, moderna chiesa.
Sulla strada del ritorno mi fermavo per fare benzina in una stazione di servizio con annessa “cafeteria”, erano le otto di sera, il sole ancora alto, l’azzurro del cielo ed il blu del mare da cartolina: mi fermavo per sfamarmi con un fish & chips!
La mattina del sesto giorno di vacanza atlantica intraprendevo il viaggio di ritorno, completando la visita dell’isola di Streymoy, ripassando a Tòrshavn per comprare dei ricordini per la famiglia nonché per chiedere alcune piccole informazioni. Da lí mi dirigevo a Kvívîk, anche questa adagiata in una luminosa baia, da ricordare per un monumento alla pesca, con tanto di Piazza del Tonno proprio vicino ad alcuni resti vichinghi molto simili a quelli già ammirati a Leirvik. A proposito di pesce, nonostante una notevole serie di stabilimenti per l’acquacultura, è difficile trovarlo, in quanto viene quasi totalmente esportato. Localmente è acquistato in grosse quantità, come dai ristoranti. Non si trova al dettaglio. Molto vicina è Vestmanna, porto di partenza per delle scogliere ricche di strette ed alte insenature dove nidificano molte specie di uccelli. Al negozietto di una delle due compagnie che gestiscono i battelli, mi compravo un preziosissimo libretto illustrato con i nomi e le foto degli uccelli maggiormente diffusi (ne erano elencati oltre 50) alle Faer Oer. Era questa la gita più interessante della giornata che concludevo con il rientro all’ostello di Vagar, dove i pasticcioni mi offrivano per quella sera una singola invece della doppia (con adeguamento del prezzo, ovviamente), mentre la sera dopo sarei stato dirottato in una vicina dependance, di fatto il piano
superiore della casa del padre! In effetti ci guadagnavo, ma che disorganizzazione!
Dedicavo il settimo giorno alla visita di Vágar, soprattutto alla bellissima passeggiata lungo le rive del maggior invaso dell’arcipelago, il Lago Sørvagstan, che terminava nel mare con le famigerate cascate di Bøsdalafossur.
Lasciavo la macchina all’inizio del sentiero, incontrando dapprima una mandria di mucche, quindi la zona di competenza di capre e pecore. Sulla mia sinistra la collina saliva dolcemente, mentre sulla destra incontravo diverse spiaggette sabbiose. Ero il primo nel silenzio del mattino, avrei incontrato solo una coppia di belgi e al ritorno un gruppo di bambini in groppa a dei pony.
Camminando tranquillamente, attraverso una serie di aeree ognuna delle quali occupate da gruppi di uccelli: il mio prezioso libretto mi diceva che oltre a degli aggressivi gabbiani, stavo incontrando beccacce di mare e chiurli, alcuni dei qual particolarmente canterini.
Le cascate si avvicinavano, l’acqua del lago si tuffava nel mare con un paio di gradini principali prima di affrontare la discesa finale. Nel passato i Vichinghi vi gettavano gli schiavi inabili ai lavori pesanti.
Sulla sponda opposta si trovava un gruppo di tende, un campeggio semi organizzato, frequentato da canoisti e pescatori.
Durante il percorso di ritorno mi soffermavo ad ascoltare il canticchiare dei vari uccellini.
Nel pomeriggio completavo la visita dell’isola ai restanti paesini. A Miðvagur davo un’occhiata alla antica costruzione di Kalvalið, a Sandavagur entravo un una delle chiese più grandi (con esclusone di quelle moderne), dal cui soffitto pendevano due modellini di velieri, un tipo di arredo molto frequente in quei Paesi dove il mare può essere sia fonte di ricchezza che di preoccupazioni e di tragedie. Ultima tappa era Oyrargjógv, un paio di case coloniche sulla collina, ma soprattutto il molo e la banchina abbandonati di quello che sino a sei anni prima era l’imbarco per il traghetto da Vágar, l’isola dell’aeroporto, a Vestmanna, sull’isola di Streymoy, quella con la Capitale Tórshavn.
Nel leggere questo racconto avrete notato che quasi in ogni villaggio vi si trovava una chiesetta. Non solo, erano numerosi anche i campi di calcio, popolarissimo, anche perché ho notato più di un ragazzo indossare la maglietta o la tuta dell’Italia.
Ero giunto così all’ultima sera di questo viaggio nelle Faer Oer, da un lato ero triste perché si era al termine, dall’altro molto soddisfatto di come lo avevo realizzato. Ripensavo all’attenzione e soprattutto al tempo che avevo dedicato a tutte le fonti che avevo trovato. Avevo percorso in macchina poco meno di mille chilometri.
Il giorno dopo si ripartiva in orario per Santsted, era sabato, avevo già prenotato un posto in ostelli a Londra, dove trovo sempre qualcosa da vedere… soprattutto ho trovato sempre della casa editrice della Bradt la guida per le Svalbard…