L’Abbazia di Santa Maria della Croce, nota anche come “Badia” di Tiglieto, recentemente rastaurata e straordinariamente intatta, è uno dei monumenti più suggestivi e più antichi di una Liguria che non c’è più. Ma che resiste, anche. Qui vennero a insediarsi i monaci cistercensi circa novecento anni fa. La Badia è il più antico insediamento cistercense in Italia.
A 50 km. da Genova, a 140 da Torino, a 130 da Milano, la Badia si presta a essere meta di una (consigliatissima!) escursione domenicale.È una giornata primaverile, ma di brutto tempo. Arrivo a Tiglieto, lungo la statale che, dall’uscita autostradale di Masone, porta a Campo Ligure e poi a Rossiglione. Tiglieto, 600 abitanti, sorge sulle pendici dell’alta valle dell’Orba, a circa 500 mt. sul livello del mare. Per raggiungerlo percorro 8-10 chilometri di strada in salita, tra boschi di pini. A Tiglieto chiedo quale sia la strada per la Badia di Santa Maria della Croce. Mi dicono di scendere verso l’Orba e di superarlo. Poi vedrò le indicazioni. Così faccio: prendo la strada che porta a Urbe e vedo il ponte romanico, poco più in basso rispetto al punto in cui, su un ponte moderno, passo sull’altra sponda del fiume.
Le indicazioni per la Badia di Tiglieto sono poco oltre e, appena superato il bivio, vedo spuntare la torre campanaria e la sua cuspide aguzza, nel mezzo della piana.
C’è un comodo parcheggio, poche centinaia di metri più avanti, e lì si lascia l’auto, per proseguire a piedi. Un cartello avverte che la Badia di Tiglieto, restaurata nel 2004 grazie all’intervento della Provincia di Genova e della Fondazione Carige, è proprietà privata della famiglia Salvago Raggi. Raggiungo l’abbazia (“badia” non è che una corruzione del nome originario di “abbazia”) dopo appena cento-centocinquanta metri, su un ottimo sentiero. Vedo orti e campi dove il fieno è stato recentemente tagliato. Ma, intanto, ormai abbastanza vicino da poterla apprezzare con un solo sguardo, ammiro il fianco dell’abbazia, priva di abside, e la sua fitta tessitura in mattoni rossi.
È qui da novecento anni. Quando fu fondata, il 18 ottobre 1120, prima in Italia, l’ordine cistercense era nato da appena 22 anni e aveva conosciuto la sua prima espansione in Francia, in Borgogna, nei pressi di Digione. Santa Maria della Croce di Tiglieto fu costruita e abitata da monaci che provenivano dall’abbazia borgognona di La Ferté.
Cistercensi da Cistercium, il nome della località in cui, nel 1098, ventuno monaci, usciti dal cenobio di Molesmes, posero la propria dimora, sotto la guida di Roberto, che aveva ricevuto dal vescovo di quella diocesi il mandato e il bastone pastorale. Dopo Roberto venne Alberico e, dopo questi, Stefano.
I “cistercensi” avevano scelto una vita rigorosa, sdegnavano i beni terreni per impegnarsi nel lavoro manuale e nella preghiera. Erano un piccolissimo gruppo, finché alla loro porta - così narra l’Exordium Cistercii - bussò un gruppo di trenta giovani. Uno di loro si distingueva per la personalità carismatica e il fervore religioso: era Bernardo di Chiaravalle. La regola che Bernardo professò e volle che i monaci di cui giunse ad essere guida professassero è stringente e gioiosa. "Il nostro ordine - avrebbe scritto Bernardo - è mortificazione, è umiltà, è povertà volontaria, è obbedienza, è pace, è gioia nello Spirito Santo… progredire di giorno in giorno nelle opere buone e perseverare in esse fino all’ultimo giorno". Nel 1153 l’ordine era composto da 10mila monaci. Le abbazie in cui essi vivevano erano diventate 345.
Anche oggi la Badia di Tiglieto è officiata e abitata. Sono le 13 e temo che potrò ammirarla soltanto da fuori. Invece sono fortunato: c’è un piccolo gruppo di persone, a cui un monaco sta spiegando la storia dell’abbazia. Mi avvicino, saluto, dico che, se non ha nulla in contrario, sarei felice di aggiungermi. Vengo accolto con grande gentilezza. E così anche io, attraverso una porta laterale che dà sul chiostro, entro nell’abbazia. L’interno è spoglio, quasi nudo. Non vi sono quadri, non immagini sacre, non pale d’altare, non affreschi. La volta è bianca, i pilastri sono di mattoni, come gli archi, e soltanto qualche capitello si distingue per la fattura più elaborata. Sull’altare una colomba d’argento è il simbolo dello Spirito Santo, mentre sui pilastri, anch’essi spogli, il nostro accompagnatore ci illustra alcune iscrizioni. Uno stemma - un leone rampante coronato su fondo azzurro, tagliato da una banda diagonale - sormontato dal cappello cardinalizio ricorda l’investitura del cardinale Lorenzo Raggi ad abate commendatario (1635). Il cardinale si impegnò attivamente nell’apportare migliorie al complesso di Santa Maria di Tiglieto e, nel 1648, ottenne il permesso di cedere l’abbazia in enfiteusi perpetua alla propria famiglia, che ne è tuttora proprietaria.
Chiedo di che cosa vivessero i monaci nel Medioevo. "Avevano terre, intorno all’abbazia - mi risponde il monaco gentile - e le coltivavano. L’abbazia dava lavoro anche alla gente che abitava qui, nella zona. Si coltivavano frumento, segale, orzo, lino, legumi. C’erano boschi di castagno, si tagliava la legna, si raccoglievano le castagne e si faceva la farina. I monaci allevavano o facevano allevare pecore e capre e bonificarono aree paludose e malsane. Lo fecero qui, nei dintorni, ma anche un po’ ovunque, dove si insediarono".
Cresciuto di fama e d’importanza, il monastero e l’abbazia di Tiglieto ricevettero nei secoli del XII al XIII donazioni di terre e beni, sia da parte dei potenti, sia da parte di persone comuni. Già a partire dal Due-Trecento, tuttavia, la consistenza della comunità di Tiglieto prese a diminuire. Ciò dipendeva in parte da un cambiamento della società e dalla crescita di importanza delle città sulle campagne, in parte una precisa scelta della Chiesa, che preferì appoggiare ordini attivi in ambito cittadino (come i Mendicanti), piuttosto che i Cistercensi, che operavano in campagna.
A partire dalla metà del XIV secolo divenne sempre più difficile per i monaci di Tiglieto, ridotti in numero e in prestigio, difendere le proprie proprietà. Nel 1442 il papa Eugenio IV converte l’abbazia in commenda e l’affida al cardinale Giorgio Fieschi, che ne diventa abate commendatario. I documenti indicano che, nel frattempo e ancora di più a seguito di questa trasformazione, Tiglieto rimase disabitata.
I restauri del 1999 hanno permesso di meglio comprendere la stratigrafia architettonica della Badia di Tiglieto e di distinguere gli elementi più antichi della costruzione, nell’area dell’abside, crollata nel corso del XVI secolo, da quelli aggiunti nel Seicento dal cardinale Lorenzo Raggi o da altri membri della sua famiglia. Secondo l’uso del tempo, i mattoni vennero preparati e cotti sul posto, mentre i blocchi di pietra verde furono prelevati dal letto del torrente Orba. Si è scoperto anche che la chiesa, in origine, era più “corta” e che, circa trent’anni dopo la sua fondazione, verso il 1150-53, fu prolungata verso ovest. La comunità dei monaci era, evidentemente, cresciuta al punto da rendere necessario questo ampliamento.
Ringrazio il mio accompagnatore ed esco, con lui, nel chiostro. Mi domanda se abbia già visto la sala capitolare e, quando rispondo di no, lui stesso mi accompagna. Due trifore, a colonne binate, in marmo e pietra verde, fanno entrare la luce nella stanza del capitolo. Anche qui è il bianco a prevalere. Le nervature della volta sono rimarcate dall’alternanza di conci rossi, in laterizio, e di elementi bianchi. Sulla parete di fondo, nel Seicento, la famiglia Raggi costruì un piccolo altare. La sala, infatti, fu in quegli anni impiegata come cappella privata.
Ora che i monaci sono tornati nella Badia di Tiglieto qui, come un tempo, si riunisce il capitolo. Qui si legge la regola di San Benedetto e qui si affrontano i problemi della comunità. Il monaco che mi accompagna mi spiega tutto questo e io osservo che l’ambiente, nella purezza delle sue linee, con la luce che vi entra di taglio e con il suo silenzio carico della naturale umidità della terra, è suggestivo e bellissimo. Lui mi sorride e mi saluta: "Se lo goda", mi dice e lì mi lascia. Non come un visitatore, ma come un ospite.
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La Badia di Tiglieto
Novecento anni di storia nella più antica abbazia cistercense d’Italia, da poco restaurata e riaperta alla visita
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Conosco bene la badia perchè un monaco (fra Gabriele) è un carissimo amico e vado a trovarlo ogni tre-quattro mesi.Mi complimento con l'autore del diario di viaggio,che in maniera chiara e sintetica ci parla del passato e del presente,invogliando a recarsi sul posto.