14 agosto 2010
Lasciamo Van e partiamo alla volta di Dogubeyazit, distante 180 km. Lasciamo Van con le ultime immagini del lago azzurro negli occhi, che diventa sempre più lontano e lascia spazio ad appezzamenti di terreno gialli e verdi. Ancora città di confine nell'est del kurdistan, sempre vicini all'Iran, siamo ad una trentina di kilometri. Campi di grano tagliati e piccoli ciuffi d'erba a seccare sopra, montagne e militari armati sono le immagini di questi luoghi. Mai nessuna sensazione di pericolo per le assolate strade anatoliche. Questa è la nostra penultima tappa curda. Dogubeyazit non l'ho ancora vista ma il nome mi affascina già, ha un suono bellissimo. Sul web un articolo dice che deriva dall'inglese dog biscuit, biscotto di cane. I curdi però ci insegnano che Dogu vuol dire est e Beyazit deriva dal soprannome del sultano, ritenuto abile come il cane pastore bianco che guida le pecore.
La città si sviluppa ai piedi dell’Ararat, il biblico monte vulcanico che divide i confini tra Turchia, Iran e Armenia. Recentemente archeologi, studiosi cinesi e turchi hanno dichiarato il ritrovamento, a 4.300 metri d’altezza, dell’Arca del diluvio universale, si, proprio l’Arca di Noè. Nell'antico Testamento è scritto che quando le acque del diluvio si ritirarono, scendendo dal Monte Agri (Ararat) Noé e la sua famiglia, giunsero nella valle di Igdir per stabilirsi nel sud ed ovest, lungo i fiumi Dicle (Tigre) Firat (Eufrate) e nacque la seconda generazione umana. Oltre che in un libro di storia, siamo nella leggenda, forse alle nostre origini.
Ci vogliono occhi e anima aperti, da queste parti. Ci vogliono la curiosità e la fiducia di un bambino per guardare un po’ oltre i muri sbiaditi e le strade polverose alla ricerca delle nostre origini, o forse solo per sentire quello che abbiamo dentro. Anche stare qui sul dolmus e vedere il mondo che scorre, i panorami che cambiano e la cortesia che invece è sempre la stessa, è un viaggio, un'esperienza necessaria.
Arriviamo verso mezzogiorno. Siamo gli unici europei del dolmus. Scesi finiamo per seguire un ragazzino che ci indica, credo uno dei pochi hotel della città, Hotel Grand Derya. Sembra un vecchio grand hotel una volta, fastoso doveva anche essere. Bandiere sbiadite sono davanti alla porta, è molto grande ma sembra vuoto. Contrattiamo 30,00 euro a testa. L'atmosfera è di decadenza, tanto da farmi tenerezza. Poltrone e ampie sale ora desolate. Ha l'aria di un posto dove ultimamente non passa molta gente. Faremo solo una notte. La camera è carina, il balcone con vista Ararat al terzo piano è grandiosa. Il letto non c'è, sono due materassi alti l'uno sopra l'altro, ma quasi non me ne accorgo. Il bagno ha i sanitari imbottiti in simil pelle bianca, che brutta sensazione.
Usciamo subito a fare un giro. Siamo qui sicuramente per vedere il palazzo Ishak Pashà e il monte, senza salirci, anche se sarebbe stato interessante. Con i suoi 5.167 metri d'altezza, ghiacciaio e neve perenne, non è da sottovalutare. Per salire ci vorrebbe un permesso speciale del governo, che va chiesto almeno 60 giorni prima. Per i curdi la polizia non è mai salita a controllare e non lo farà, è tra i rilievi dell'Ararat che si nasconde il PKK, braccio armato curdo e non rischierebbero di essere attaccati lì. Permesso o no, ci accontentiamo di ammirare la sua vetta dalle forme morbide e bianche per la neve. Ora una nuvola è lì proprio come una soffice corona sulla sua testa. Questo è uno dei luoghi dove mi sono sentita un po’ come un esploratore in terre lontane. Sembra ancora di conquistare qualcosa.
Ci fermiamo a mangiare qualcosa da uno che troviamo aperto. C'è ancora il ramadam, ma ci concede un pasto. Esce a comprare l'occorrente e il ragazzo cucina per noi della carne con il pomodoro. Siccome ho ancora qualche problema intestinale evito di bere l'acqua nel bicchiere, non sapendo bene da dove arriva. Quasi mi dispiace e mi vergogno un po’ quando vedo che il ragazzo lo nota e portando il cay me lo presenta in un bicchierino di plastica. In realtà avevo forse più dubbi sull'acqua che sul bicchiere. L'igiene in Turchia è di casa e ho quasi paura di averlo offeso. Evito spiegazioni perchè parla solo turco o curdo. Una parola curda però l'ho imparata: Spasst, grazie. Alessio la ricorderà forse solo dopo altri 20 giorni e saremo in italia! :)
Il conto è ovviamente esageratamente onesto. Abbiamo mangiato due piatti a testa, bevuto cay e han messo la musica per noi infedeli dalla pancia ora piena.
Per le strade piccole botteghe, ragazzine che stringono il corano in mano, bambini che giocano. Anche qui solo curiosità e sorrisi, per noi stranieri arrivati da lontano. Credo che solo Van, la maggior parte degli abitanti qui, non l'abbia mai visto. Ci chiedono se siamo americani, forse per intendere che arriviamo da lontano. Come già successo appena dici italiano in Kurdistan... la stessa risposta. Avevate un buon politicoo D’alema, aveva dato asilo politico ad Abdullah Öcalan, leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan Pkk. Certo noi facciamo sempre la bella figura, prendendo in giro gli altri. Per i curdi siamo stati eroi e non è stata certo colpa nostra se gli americani ci hanno imposto di ridarlo alle autorità turche. Come se non lo sapessimo. Alla fine ne usciamo sempre vincitori, siamo un popolo di furbi.
Ci decidiamo ad andare verso l'Ishak Pashà. Un signore ci adesca e ci propone il suo taxi dicendo che non vi sono bus che arrivano lì, così contrattiamo la corsa e partiamo.
La strada asfaltata esce dal paese e attraversa paesaggi di montagne colorate ai piedi dell'Ararat dalla cima bianca. Il palazzo di Ishak Pascià ci appare all'improvviso come una visione miele che si staglia verso il cielo azzurro, così bello e semplice da non sembrarmi vero. E' lì alla nostra destra su una collina a tratti verde, marrone e beige. Siamo a 1.900 metri di altitudine e siamo tra le vette delle montagne. Il Palazzo davvero mi ricorda quello delle Mille e una Notte. Si trova a 6 km dalla città di Dogubeyazit, su un'altura che guarda sul panorama sottostante.
Alla fine del XVII secolo, nel 1685, Çolak Abdi Paþa il governatore della regione curda iniziò la costruzione di questa residenza estiva che fu completata solo nel secolo successivo dal figlio, Ishak Pasha. Il governatore lo realizzò per creare un palazzo che potesse competere con lo splendore del Topkapi di Istanbul, il palazzo del sultano. Giudizio profano il mio, ma l'Ishak Pashà mi ha emozionata molto più del famoso Topkapi. La posizione è così bella e la fusione di stili differenti ottomano, persiano, armeno, georgiano, selgiuchide è ben miscelata.
Venne edificato sopra i resti di una fortezza dell'antico regno di Urartu che fu poi modificata dai selgiuchidi e dal sultano ottomano Beyazit I Yildirim, soprannominato il lampo, per ultimo. Fatto prigioniero dei mongoli dal condottiero usbeco Tamerlano morì proprio qui nel 1403. Se non è storia questa. Le stanze erano 366, 24 erano riservate all’Harem, oltre ad un Caravanserraglio per i viaggiatori. Affascinante è sapere che si trovava sulla via della seta.
Entriamo. Dal portale orientale si accede al cortile destinato al corpo di guardia. Oltrepassando il secondo portale si accede ad un altro cortile affiancato da una moschea a cupola. Uno spazioso Selamik accoglieva gli ospiti e le udienze che deliberavano sentenze. Una volta c'erano porte placcate in oro, che ora non si possono più ammirare. I russi che nel 1917 occuparono la città le portarono via all’Hermitage di Pietroburgo. Quasi quasi le andrei a cercare.
Il palazzo aveva persino un riscaldamento centrale, acqua corrente e una rete fognaria. E' stato chiuso per qualche tempo ma ora è quasi completato il restauro. C'è un tetto di vetro che protegge il palazzo dall'erosione da parte di agenti atmosferici.
Entriamo e vaghiamo per le stanze di pietra rossastra e miele caldo, senza arredi, completamente vuote. Possiamo solo immaginare la bellezza e il fasto durante il suo periodo di massimo splendore. Già sapere che si trovava sulla Via della Seta, dona un certo fascino. Anche il contesto di forme e colori delle montagne vicine non possono che emozionare. Pareti dai toni caldi e accoglienti, finemente incise in decori.
Passiamo dalle stanze dell'harem, dal bagno turco e dalle stanze delle fanciulle. Nelle stanze ci sono bei caminetti in pietra e finestre che danno sullo splendido panorama. Montagne spoglie grigie, marroni a piccoli tratti verde e rossastro. Dalla temperatura mite non sembra neppure di essere a 2.000 metri. In una stanza ampia, forse per le cerimonie, volte intagliate ed eleganti. Muri ocra a tratti bianchi e neri come una scacchiera. I colori si fondono e i toni rossastri, beige e l'azzurro del cielo sono magnifici. E' il palazzo che in vita mia mi ha affascinata di più. Girando con il naso all'insù per queste stanze e cortili non posso fare a meno di pensare che mi piacerebbe avere la macchina del tempo e tornare a quando il massimo splendore faceva vivere questa meraviglia dorata. Porte d'ingresso decorate e maestose.
Fuori dal palazzo conosciamo due ragazzi curdi. Ci hanno dato una mano con l'autista turco che voleva mollarci all'Ishak Pashà, dicendo che abbiamo chiesto di andare al palazzo, ma non abbiamo pronunciato la parola ritorno. Lo hanno così stressato che alla fine ha aspettato che facessimo la nostra visita. Ci dicono che qui nella zona di interessante ci sarebbe anche un fortezza urartea e delle mura che delimitano un frutteto dove, sempre per viaggiare tra le leggende, qui narra di un amore impossibile tra Karim un ragazzo musulmano e Asli, una principessa cristiana.
Volendo andare con loro a fare un giro in paese li facciamo salire sul dolmus e torniamo in centro. Figurarsi che loro volevano persino pagarci la corsa, ma non se ne parla.
La città di Dogubeyazit è nata solo alla partenza dei russi, è una città nuova che conta ora trentaseimila abitanti. I ragazzi ci mostrano l'Ospedale costruito dalla cooperazione Italiana specializzato in maternità per combattere l'alto tasso di mortalità post parto. Qui ci dicono essere una delle zone più in difficoltà del paese, cosa che senz'altro si può facilmente intuire girando per la città. Fuori dal centro ci sono molti villaggi che vivono in situazioni d'emergenza.
Fa un po’ timore vedere molti militari dietro il filo spinato. Ragazzini magri dal volto quasi sperduto che imbracciano il mitra, di guardia nelle caserme che qui al confine non mancano. Passa anche un carro armato a fianco a noi. Nonostante ciò l'atmosfera sembra quella di una cittadina tranquilla, almeno ora.
Il paese non ha nulla di caratteristico o storico, ma l'Ararat regala sempre uno scorcio unico. Il centro è una via pedonale di negozi e bar con tavolini anche in strada. Uomini seduti senza bere, fumare o mangiare. I quaranta giorni di ramadan sono appena cominciati.
Ci fermiamo per un tè e per chiacchierare. E' sempre interessante lo scambio culturale. Qui possiamo bere il tè nella terrazza superiore, che non si vede dalla strada, la terrazza degli infedeli la chiamo. Uno dei due ragazzi osserva il digiuno e l'altro non lo fa da qualche anno. Dicono che la scelta è libera e personale, ma a casa sua nessuno lo sa. Anche al bar altre persone sono curiose di sapere da dove veniamo e che la lavoro facciamo. Vogliono sapere cosa abbiamo visto della Turchia. Finiscono per ricordarci anche loro come eroi quando D’alema diede asilo politico a Ocalan. Peccato per gli americani, già, è tutta colpa loro, sostengono unanimi.
Il tè naturalmente ce lo offrono e la cortesia curda non poteva certo venire meno. Uno dei due ragazzi lavora accompagnando le persone sull'Ararat, che qui si vede da ogni strada. C'è una cavità geologica in un villaggio vicino al piccolo Ararat che potrebbe avere la forma dell'arca. Mi piacerebbe restare un giorno in più per vedere qualcosa nei dintorni. Mi piacerebbe anche solo muovere qualche passo sull'Ararat. Affascinante, mistico con la sua vetta candida. Attualmente l'Ararat è un vulcano spento dal 1840, quando il 2 giungno eruttò per l'ultima volta.
Dati i suoi 5.165 metri di altitudine, il piccolo Ararat Buyuk Agi che sta accanto sembra quasi di modeste dimensioni nonostante i suoi 3.900 m. I ragazzi ci ricordano che altre attrattive sono interessanti sempre in questa zona. Agri, per esempio, che è il capoluogo di provincia a 95 km. La città di Iðdýr nella pianura di frutta e cotone. Monumenti rupestri urartici, un caravanserraglio Selgiuchida del XIII sec. a 25 km da Igdir nel villaggio di Kervansaray, il Castello NeroKarakale, il lago del pesce Balic nella zona nord orientale e le numerose sorgenti termali. Al lago Balik hanno la fama di essere ottime le celebri trote salmonate e il dolce locale "Asure", noto anche come il budino di Noè. Un cratere Meteor Cuckuru si formò nel 1920 a seguito della caduta di un grosso meteorite. Il buco ha dimensioni di 35 m di larghezza e 60 m di profondità.
A soli 18 km da qui c'è anche una piccola stazione sciistica che sorge sul monte Bubi.
Dogubeyazit ospita un Festival della musica e della cultura kurda tutti gli anni, ne sembrano molto fieri. Qui abbiamo anche comprato i cd con musica curda. Ormai le canzoni note le conosciamo anche noi.
Nessuno mi parla della Diga che avrebbe distrutto villaggi storici millenari tra il Tigri e l’Eufrate. Fortuna che il progetto, a quando so, è stato bloccato. L'idea di sopprimere i resti di quella che era la mezzaluna fertile mi avrebbe scioccata. I curdi sicuramente non erano favorevoli.
Uno dei ragazzi ci saluta, ci augura buon viaggio e ci lascia. L'altro ci invita a cena stasera. Accettiamo lusingati. Ci diamo appuntamento alle 19.30, ora in cui terminerà il ramadan oggi. Facciamo qualche giro per la cittadina e rientriamo in hotel. Facciamo tardi perchè il ragazzo che lo gestice ci fa sedere per una chiacchierata. Finisce che il ragazzo ci viene a prendere in hotel, mentre nella hall mi stavo asciugando i capelli. Di corsa andiamo a comprare il pane e corriamo a casa sua. E' il fratello, sposato e già con tre figli che ci invita. La bella e giovane moglie curda ci accoglie calorosamente e mi bacia sulle guance con sincera simpatia. L'esperienza di una cena con loro è unica. Noi mangiamo nella stanza degli ospiti solo con il ragazzo. Alla tv le canzoni curde e un pò di telegiornale. L'interno è nuovo, curato. Non ci sono mobili ma solo tavolo, tv e divano. In un angolo dei cuscinoni e tappeti. La cena è ottima e abbondante. Zuppa per iniziare, quella locale di lenticchie. Carne con patate come secondo, insalata di pomodori, cetrioli e prezzemolo. Il pane come sempre ottimo. Mi vergogno un pò quando ci chiedono se ci va dello jogurt e scopro che escono a comprarlo. Non volevo certo disturbare. Si scusano dicendo che a saperlo con anticipo ci avrebbero cucinato qualcosa di speciale e invece è una cena semplice. Neanche per idea, è tutto ottimo e abbondante. Abbiamo davvero apprezzato.
Un viaggio in Kurdistan vuol dire anche ritrovarsi nel negozio di tappeti a bere tè iraniano di contrabbando, delizioso con cannella e altre spezie. E' essere lì, spagnoli, curdi, italiani e scozzesi a parlare dei nostri giri. Chi domani va sull'Ararat, chi sta qui due mesi ogni anno e chi, noi, domani già riparte. E proprio quando nessuno ci vuol vendere un tappeto lo compriamo, con i disegni dell'Ararat e dell'arca di Noè.
15 agosto 2010
Volgiamo l'ultimo sguardo all'Ararat dalla finestra del nostro hotel. Volevo svegliarmi per l'alba, ma son rimasta a letto, pazienza. Scendiamo a far colazione che siamo gli unici. Lasciando l'hotel mi accorgo che mi spiace anche questa volta partire così presto. Prima di prendere il bus abbiamo tempo per far quattro passi per il paese. Incontriamo il ragazzo di ieri, il fratello e il signore italo scozzese che ancora una volta ci augurano buon viaggio.
Alle 10.30 partiamo con destinazione Kars. Il costo del dolmus è 25 tl a persona (13 €). In due ore e mezza dovremmo arrivare. I rilievi sono rossastri e ornano campi verdini. La strada taglia appezzamenti di terreno coltivati a fieno. Solo qualche nuvoletta bianca interrompe l'azzurro del cielo. La temperatura è sempre sui trenta gradi, anche se siamo a 1.700 metri. Iniziano le steppe verdi acido e i panorami qui sono di confine. Ci stiamo avvicinando all'Armenia. Questo è il luogo più di confine per questo viaggio. Il primo in cui la sensazione di isolamento è realmente tangibile tra i prati ondulati della steppa popolati da greggi di pecore.
Alle 13.00, siamo arrivati. Il dolmus che abbiamo preso è quello che fa la spola tra l'aeroporto di Kars e Dogubeyazit. Dobbiamo prendere un taxi per raggiungere il centro del paese. Ci facciamo portare direttamente all'hotel. Paghiamo 20 tl. (10 euro).
L'Hotel ci è stato consigliato dai ragazzi curdi di ieri ed è economico e confortevole. Subito il personale è di una cortesia unica. Vorremmo lasciare i bagagli e partire subito per Ani, ma ci dicono che le gite le organizzano la mattina. Non ci sembra il caso di noleggiare un auto e preferiamo aspettare domani e guardarci un pò nei dintorni.
Passiamo il pomeriggio per le vie della città. La decadenza in cui è precipitata questa città di frontiera si nota subito per le strade. Ha l'aria di essere una città bombardata, si è questa la sensazione. Forse dopo la guerra turco - russa molti edifici sono rimasti mutilati. Lo stile è definito come russo, ma essendo stata sotto russi, armeni e turchi lo stile è senz'altro un miscuglio malinconico delle varie dominazioni. Secondo tutti quelli che passano è una città brutta in cui non vale la pena perder tempo e non vi è nulla di interessante.
Io apprezzo vedere come scorre la vita di tutti i giorni ed assaporare quest'aria melanconica di ultima frontiera in decandenza.
Da quando nel 1993 è stata chiusa la frontiera Armena, Kars ha perso il ruolo chiave nel commercio internazionale e la situazione è divenuta realmente difficile.
Approfittiamo del giro per mangiare. Qui si capisce subito che formaggio e miele locali sono una delizia per il palato. D’altronde qui ci troviamo su di un altopiano stepposo a 1750 metri e la pastorizia sembra l'unica fonte di sostentamento.
Inutile dire che pranziamo a prezzi davvero irrisori, per noi occidentali.
Entriamo in una delle due agenzie per vedere di organizzare lo spostamento verso la Cappadocia. Nessuno nell'ufficio parla inglese. A furia di orari scritti su bigliettini e gesti riusciamo ad intenderci ugualmente. Prendiamo i biglietti per la Cappadocia. Se facessimo il tragitto contrario avremmo molta scelta, ma da Kars le opportunità sono un pò limitate. Optiamo per un viaggio il più possibile notturno e dobbiamo viaggiare su Ankara, per poi cambiare alla volta di Goreme. Partenza ore 17.00 arrivo alle 9.00 del mattino per 50 tl a persona. Da Ankara partenza ore 11.00 e arrivo alle 16.00 a Goreme. Va bene.
Rientriamo in hotel per sistemarmi con l'ennisimo brodo di carote, che il personale dell'hotel mi prepara. Sempre gentili da queste parti.
Finiamo a giocare a backgammon nella hall, io contro Ale. Il gestore è dalla mia parte perchè mi suggerisce tutte le mosse e siccome vinco, ripete ogni due minuti "Super Diana!". Ho avuto fortuna e bei suggerimenti, però. Non so come Alessio riesce anche a batterlo. Ma come?! Battere un curdo al suo gioco?! Non ci credo.
La sera ceniamo in hotel, il ragazzo cucina per noi due, per lui e un altro uomo. Ci troviamo allo scoccare della fine del ramadan, ovviamente. La cena che ha preparato è ottima. Riso in bianco con verdure, melanzane, patate e peperoni verdi. Zuppa di lenticchie e succo di limone. Insalata di pomodori con cetrioli e ottimo pane. Ayran per pasteggiare e l'immancabile cay.
Il suo turno di lavoro è finito. Siccome ci siamo noi ospiti dell'hotel è rimasto a cucinare e per cena. Trovo questa gentilezza commuovente. Qui anche se non han molto, ti danno tutto, davvero. Ci porta a fare un giro con lui. L'hotel si trova vicino alla cittadella e facendo quattro passi siamo sotto le mura che restano e le moschee. I resti delle mura nere si trovano su un rilievo che domina la città. Le strade sono di un silenzio assoluto. Solo i rumori dei nostri passi e del fiume che scorre. Qui tutto è in pietra nera, basalto. Nel buio della notte, la città sembra ancora più scura e desolata. Antichi hammam in pietra e un ponte di pietra. Facciamo un giro in questo silenzio. In questa città è ambientato il romanzo "Neve" di Orhan Pamuk, che ha vinto il premio Nobel. Devo ancora leggerlo. Cerco di imprimere nella memoria questi luoghi e queste atmosfere per ricordarmene quando leggerò il romanzo.
Chiedo com'è la situazione con gli armeni. Sulla collina a fianco del castello c'è un monumento alla pace tra turchi e Armeni. Due enormi statue di pietra stilizzate: due uomini che si guardano e stanno l'uno in fronte all'altro. Sono un turco e un armeno che stanno a simboleggiare un'allenza. Si vede anche dalla parte armena la posizione è stata scelta proprio per questo motivo. Il monumento non è terminato, perchè il progetto prevedeva illuminazione e acqua che scendeva dalle statue, simbolo delle lacrime. Purtroppo l'interpretazione da parte dei turchi è stata errata o pretestuosa. A loro è parso un modo di chiedere scusa e non la pace, così come spesso succede la stessa pace viene dimenticata e si complicano ulteriormente le cose. Mi scoraggia venire a sapere che il nuovo sindaco vorrebbe rimuovere il monumento. Amarezza. Ma forse noi che siam lontani non riusciamo a capire nulla di questa situazione, in fondo. La frontiera per il momento rimane chiusa, e il nostro nuovo amico curdo dice che tra la popolazione c'è anche qualcuno favorevole al mantenimento dei confini chiusi. Non so ma ora nel buio e nel silenzio di questa cittadina percepisco un'atmosfera melanconica e di desolata decadenza.
Il ragazzo ci porta dai suoi amici che stanno guardando la partita. Sono in cortile, ad un tavolo all'aperto, bevono cay o birra e insieme guardano la tv. Hanno un cagnolino cucciolo bianco e nero morbido come un batuffolo. Ci accolgono tra di loro, offrendoci un posto a sedere e da bere. Beviamo il cay bello carico e zuccherato e giocherello con il cagnolino. Adoro gli animali. Non parlano inglese ma non è importante. Gli uomini davanti alle partite si capiscono lo stesso. Troppo noioso, io non riesco a seguire e continuo a giocare con il cucciolo. Ripercorriamo le vie buie e sgangherate fino al nostro hotel dove salutiamo e ringraziamo del giro.
Questa è la prima sera in cui è freschino. Andiamo a letto che domani ci aspetta Ani! Fa anche rima!
16 agosto 2010
Sveglia presto e colazione in hotel. Oggi sono gasata, andrò finalmente ad Ani. Sono arrivata fin qui apposta praticamente!
Mi addolora vedere una scenata francese in reception. Non solo perchè mi sento ormai amica di quel bravo ragazzo, ma perchè la sua cortesia tocca il cuore. Come sempre assisto a scene di europei o connazionali, che vorrei non fossero tali. Certe cose mi fan davvero uscire di testa. Non per essere fiscali, ma alloggiamo in un hotel da 12 euro a notte. Ed è bello e pulito, nulla da dire. O se dobbiamo dire qualcosa sarebbe bello farlo con l'educazione che dovremmo aver imparato nel nostro paese. Ma forse è proprio quello il problema. Sono scesi questi due signori francesi over 50 anni gridando come matti che non avrebbero pagato la stanza perchè dalla cornetta della doccia non scendeva un getto d'acqua adeguato. Mi aspettavo fosse uno scherzo di cattivo gusto ma nulla. I signori vanno a letto sporchi e si lavano la mattina, così giustificano il fatto di non aver cortesemente chiesto alla reception di cambiare stanza o doccia la sera. Il personale come al solito è gentilissimo. Che pazienza, io una scenata di mezz'ora per una cosa del genere non la reggevo. Che maleducazione! Sicuramente mi guadagno la loro antipatia dicendo in faccia al ragazzo di farsi dare fino all'ultimo centesimo. Ma continuo...
Partiamo alle 9.00 puntuali per Ani. La gita la organizza un signore che con un dolmus ha raggruppato una decina di persone per 30 tl a testa (15,00 euro).
Ani è una città medievale che fu la capitale del regno armenoicino che una volta si estendeva anche per gran parte della Turchia orientale. Ora si ammirano solo resti e rovine di quella che fu una città gloriosa. Prese il nome dalla dea persiana Anahid, l’equivalente greca venerata dagli urartei. Venne scelta come capitale da re Ahot III che si trasferì da Kars. Ora si trova tra queste steppe turche solitarie e impregnate di storia, quasi scomode e dimenticate. Ricchezze culturali e gioielli armeni in queste steppe di pascoli.
Il nostro dolmus procede su una strada deserta che porta verso l'Armenia attraversando l'altopiano stepposo. Terra secca giallastra e verdognola che sembra ai confini del mondo, lontano da tutto. Qui mi torna in mente l'isolamento di cui si parla nel libro "Neve". Tutt'intorno nulla a parte greggi e qualche capanna nella piana. Ha un fascino particolare questo luogo remoto.
Appena arrivati al sito, noto che hanno restaurato le mura d'ingresso con le torri. Le pietre chiare sono quelle nuove, mentre quelle scure e consumate sono le parti originali. Immancabile la bandiera turca alzata sopra la porta d'ingresso. Non ci sono ovviamente problemi per accedere alle rovine. Il posto è deserto, non c'è nessun altro a parte il nostro dolmus e le guardie.
L'ingresso costa 5 tl a persona. All'interno l'area è una valle che possiamo girare in autonomia nella quale si trovano le chiese e i reperti rimasti. All'ingresso c'è una mappa del sito che permette di farsi un'idea, ma alla fine perdersi come esploratori alla ricerca ha più fascino.
Ani era sulla via della seta, viaggiatori e mercanti, in un tempo lontano passavano di qui. Ora noi in questo silenzio rotto solo dal vento, facciamo lo stesso. Era un centro fiorente ed importante poichè in posizione strategica per le vie commerciali. Era persino molto avanzata, per l'epoca, a livello tecnico ed artistico. Divenne capitale dell’Armenia nel 961 sotto la dinastia dei Bagratidi. Nel 1045 cadde sotto il controllo bizantino e nel 1064 i Selgiuchidi turchi l'assediarono e ne massacrarono la popolazione. Fu solo il primo dei massacri che ne segnarono la fine, che orrore le pulizie etniche.
Le mura fortificate erano lunghe 2 km e racchiudevano la cittadella. Entriamo superando la cinta muraria e camminiamo alla ricerca delle chiese che nella steppa arida e giallina appaiono, come visioni. Il loro fascino è ancora intatto, nonostante il tempo passato; le condizioni atmosferiche ed i terremoti le hanno squarciate e più o meno danneggiate. Ma il fatto che siano ancora originali e nessuno le abbia restaurate, fa sì che siano genuine e autenticamente belle.
C'erano una quarantina di porte e un centinaio di chiese in questa città che raggiunse i 200.000 abitanti e un'importanza paragonabile a Costantinopoli. Vederla qui abbandonata per secoli e in rovina ha un fascino unico. Pietre rosse di chiese armene che spuntano dai ciuffi d'erba giallastri e secchi.
Entrando ci dirigiamo verso destra e troviamo i resti di un torchio per l'olio in rovina. I fiori secchi scossi dal vento fanno da cornice a queste rovine solitarie e il sole si alterna alle nuvole contribuendo a creare magia in questa valle fuori dal tempo e preziosa.
Arrivo alla Chiesa del Redentore, spaccata perfettamente a metà da un fulmine nel 1957. E' ancora qui, come un dolce tranciato di netto da un coltello con le briciole che ancora sono ai suoi piedi. Starei ore a guardarla, è magnetica. Girando il sito attira la mia attenzione anche da lontano. E' di una bellezza unica. La base della Chiesa è circolare e all'interno si sviluppano diverse absidi. Esternamente è in pietra rossastra e scura perfettamente levigata. All'interno la base è come l'esterno in pietra rossa. Mentre il resto delle pareti interne sono di un bianco panna. Termina in cima a forma di cupola. Sulla facciata esterna sono incise in lingua armena le informazioni secondo le quali la chiesa venne costruita nel 1034 per ospitare la vera croce che arrivò qua da Costantinopoli. Ancora leggende?
Vicino al canyon che divide Turchia e Armenia scorgiamo la Chiesa di San Gregorio l'illuminatore (Resimli kilise, ovvero chiesa con dipinti in lingua turca). Risale al 1215 e all'interno gli affreschi, anche se rovinati dai vandali, sono i meglio consevati del sito. Il bianco e il blu sono i colori dominanti delle scene religiose affrescate. Sui muri ben conservate ci sono incise scritture armene ed elementi di decoro raffinati.
Qui il canyon del fiume Akhurian delimita il confine con l'Armenia di cui vediamo ora i militari armati che stanno immobili e sembrano guardare verso di noi.
Da qui si scorge il Convento delle Vergini, in turco Kusanatz, non raggiungibile poichè si trova sull'orlo della gola.
Si nota nella vallate la cattedrale, che fu trasformata in moschea della Vittoria "Fethiye Camii" ed è l'elemento più imponente del sito. La cupola è crollata e al suo posto è rimasto solo il buco erboso, dal quale spicca l'azzurro del cielo d'agosto.
Un'altra moschea è la Menucer Camii dalla forma rettangolare. Facilmente riconoscibile per il minareto ottagonale tronco che svetta verso il cielo. Fu la prima moschea dell'Anatolia, costriuta dai turchi nel 1072, eretta quando arrivarono ad Ani, scelsero come governatore della città un capo delle tribù curde locali e fecero costruire la moschea, che ora è un mix di stile tra armeno e selgiuchida.
Camminando come esploratori si ha la sensazione di scoprire ogni cosa. Della Cittadella di un tempo resta ben poco, ma saliti intravediamo le abitazioni trogloditiche, grotte scavate sulla parete della gola che furono case di poveri o nascondigli cristiani. Non è certo. A intuito li reputo nascondigli cristiani, di cui la Turchia è piena.
Delle case della città sono rimasti solo pochissimi muretti. Li trovo verso il canyon e la chiesa tagliata a metà si staglia come sfondo verso il cielo azzurro.
La visita di Ani è stata indimenticabile. Unica. Fuori dal tempo. Un vero tesoro.
Torniamo a Kars che sono le 13.30 e facciamo un giro per la cittadella assolata che si sviluppa ai piedi della fortezza di Seljuk Kars Kalesi, del dodicesimo secolo.
I bambini che incontriamo sono riservati, ci notano e sorridono sempre.
La cattedrale, chiamata in seguito Chiesa degli Apostoli, venne costruita quando Kars faceva parte del territorio dei bagratidi e ne divenne capitale dal 928 al 961. Si trova sotto al castello ed ha una cupola su una base quadrata con quattro absidi. Sulla cupola un bassorilievo dei dodici apostoli e per finire un tetto conico. Nel 1998 è stata convertita in moschea.
Da un depliant russo vedo le foto della cittadella nera di Kars sotto una coltre di neve bianca. Un bel contrasto. Scopro anche che Anna Zimmerman, la nonna materna del cantante Bob Dylan crebbe in questi dintorni.
Finiamo il tempo libero giocando a backgammon in hotel. E' ora di partire. Non si possono scordare le persone di questo paese, ne sono certa. Ogni volta è così, mi sento tanto a casa e a mio agio, che rimarrei.
Il signore che organizza le escursioni ad Ani ci vede uscire dalla hall e ci da un passaggio all'agenzia dove prenderemo il bus. Ennesima gentilezza turca.
Riempio gli occhi delle ultime immagini prima di partire. Altro trasferimento. Sono le 17.00 arriveremo domani alle 9.00 del mattino ad Ankara.