Il Croz dell'Altissimo, un "classico" del Gruppo di Brenta

Una magnifica escursione, ma anche lo spunto per alcune considerazione sul “che cosa non fare” in montagna

Nei ritagli di tempo mi sono messo a scartabellare vecchi album di fotografie selezionando le più significative per passarle allo scanner. Ce ne sono parecchie risalenti a oltre trent’anni fa e, come si sa, con il tempo i colori tendono ad alterarsi: la digitalizzazione - ed eventualmente un po’ di fotoritocco - è quindi la provvidenziale risorsa per salvarle dal degrado.
Una parte cospicua consiste nelle foto delle numerose gite in montagna, in prevalenza del periodo 1978-1991 che mi vide ad ogni inizio settembre trascorrere un paio di settimane a Molveno ai piedi del Gruppo di Brenta, per il quale ho più volte dichiarato la mia predilezione illustrandone i vari aspetti in questa sezione “Un passo dal cielo”.
In particolare, pochi giorni fa mi sono soffermato sulle immagini di un’escursione alla cima del Croz dell’Altissimo di fine anni settanta, che rammento bene per il misto di meraviglie e di sofferenza che mi riservò.
Ma andiamo con ordine.

Il Croz dell’Altissimo, quotato 2339, fa parte del sottogruppo Altissimo - Gallino - Lasteri - Clamer situato all’estremità orientale del Gruppo di Brenta e separato dal settore centrale dalla profonda Val Perse. È una montagna che presenta due aspetti nettamente contrastanti: a sud-ovest una parete di 900 metri divisa in due colossali diedri di assoluta verticalità che incombe sulla Valle delle Seghe e su Molveno attira da sempre provetti scalatori per le ardite via di arrampicata, mentre a nord e nord-est un altopiano roccioso a terrazzamenti che emerge da una fascia di conifere offre ad ogni medio escursionista un accesso alla cima relativamente semplice.
L’approccio avviene tramite la bidonvia Molveno (890) - Pradel (1370) più la seggiovia Pradel (1370) - Rifugio la Montanara (1530). Da qui ha inizio l’itinerario di salita, che richiede circa tre ore su un dislivello di 809 metri.
Superata una croce sul pianoro del Rifugio, in pochi minuti ci si inoltra in un fitto bosco di conifere che si risale con ripetuti tornanti e un po’ di fatica fino ad emergere dagli alberi sul crinale del Palòn di Tovre. Siamo a quota 1913 - metà del dislivello totale - e si impone una sosta per prendere fiato ammirando una veduta spettacolare sul Lago di Molveno, ormai mille metri sotto di noi.
L’ambiente si fa ora più selvaggio. Fra mughi e roccette si svolge un sentierino che i molti passaggi hanno reso simile a un solco, si cala leggermente in una depressione disseminata di grossi massi, si risale un terrazzamento erboso e si perviene infine all’ampia Conca dei Mandrini: questa è una zona da attraversare con cautela e passo fermo per la presenza di numerosi karren, spaccature nel terreno calcareo - infide perché talvolta celate dall’erba - dovute all’acqua che vi penetra ghiacciando, tipici del Gruppo di Brenta.
Il percorso si fa più agevole e si guadagna quota lungo un pendio erboso che raggiunge il Passo dei Lasteri (m.2281), ampia insellatura che divide il Croz (sud) dalla Cima dei Lasteri (m.2459, nord): da qui si apre un improvviso panorama sul settore centrale del Brenta che anticipa quello che ammireremo dalla cima, da cui ci divide non più di una ventina di minuti.
Curiosamente, la prima delle due cime che si tocca è la più alta, ma quella su cui sorge la gigantesca croce metallica è leggermente più bassa: si prosegue toccando un intaglio (meglio non guardare di sotto!) e in pochi minuti si raggiunge la vetta.
Panorama sensazionale, uno dei più estesi del Gruppo di Brenta: di fronte a noi, in direzione ovest, si allineano da sinistra a destra Monte Daino, Cima Margherita, Cima Brenta Bassa, Bocca di Brenta, Cima Brenta Alta, Campanile Alto, Campanile Basso, Sfùlmini, Torre di Brenta, Cima dei Armi, Bocca dei Armi, Cima Molveno, Spallone dei Massodi, Cima Brenta, Bocca di Tuckett, Cima Sella, Cima Roma, Cima della Vallazza.
Per la via di ritorno, si può scegliere la medesima di salita, ma non mancano le alternative, tutte di grande appagamento per la tranquillità che caratterizza questo settore del Brenta, lungi dall’affollamento della zona centrale dovuto alla presenza di parecchi rifugi. Tornati al “nodo” rappresentato dal Passo dei Lasteri, si può ad esempio salire all’omonima cima in circa mezz’ora o aggirarla fino al Passo del Clàmer calando da qui all’idilliaca conca di Malga Spora e infine ad Andalo, oppure ancora concedersi un pizzico di avventura scendendo per i ripidi ghiaioni della Vallazza fino al Rifugio Croz dell’Altissimo (m.1430) ai piedi della formidabile parete sud-ovest della montagna.
Nell’occasione descritta ci limitammo a scendere lungo la via di salita, anche per i motivi che vado a spiegare.

Ho parlato di “il misto di meraviglie e di sofferenza” a proposito della mia ascensione al Croz a fine anni settanta. Ho già riferito in altri miei diari che il Gruppo di Brenta fu il mio “battesimo” con la montagna vera, dopo una decina d’anni di escursioni nell’entroterra ligure e basso Piemonte: sono peraltro aree da non sottovalutare, non essendo infrequente affrontare dislivelli di oltre mille metri tra il mare e le numerose cime che sfilano lungo l’AVML (Alta Via dei Monti Liguri) e il fenomeno della nebbia che spesso si incontra sulla linea spartiacque e sul versante padano.
Quando dico “sofferenza” non mi riferisco quindi alle condizioni fisiche, che erano anzi ottimali a trent’anni di età, con una pratica costante del sano “andar per monti”, in aggiunta a un po’ di attività calcistica e tennistica. Parlo invece di inadeguatezza nell’approccio per mancanza di esperienza, anzi è proprio per andare a parare su questa nota dolente che ho descritto questa ascensione. Innanzitutto l’attrezzatura, in tutti e quattro i partecipanti approssimativa se non risibile. Nel mio caso, calzoni alla zuava di velluto pesante, camicia di flanella e giacca a vento, ben presto strumenti di tortura in quella giornata caldissima di inizio settembre: quindi prima lezione, portare nello zaino calzoni corti e una maglietta leggera di ricambio. Appunto, lo zaino: pensando di fare solo passeggiate nei dintorni di Molveno non lo portai da casa ed acquistai per pochi soldi una di quelle sacche di fortuna che piegate stanno in tasca ma che una volta riempite diventano una massa informe ad ulteriore supplizio per la schiena; all’interno, un’esagerazione di viveri, quando ben presto avrei imparato che per una gita di un giorno basta poco, più che altro prodotti energetici e parecchia acqua. L’acqua, altra nota dolorosa: ne portammo una borraccia da litro a testa che si dimostrò ridicolmente poca tanto da esaurirla già prima di toccare la cima; la discesa fu quindi un calvario, in particolare sull’interminabile Conca dei Mandrini arroventata da sole, e appena giunti al Rifugio la Montanara ne depredammo il bar!
Non ho dimenticato le calzature, ce n’è anche per quelle! Portai da casa un paio di vecchie pedule, sempre per la serie “tanto non conosco nessuno, farò giusto qualche passeggiata per cominciare a conoscere il posto”: risultato, la suola ormai liscia mi creò più di un problema soprattutto in discesa, con l’aggiunta delle vesciche prodotte dalle spesse calze di lana direttamente alla pelle senza la “barriera” di un paio di cotone sottile.

Una bel campionario di comportamenti da non imitare, come vedete: una bella lezione che non ho più dimenticato e che a distanza di oltre trent’anni si sovrappone al ricordo di un’escursione che rimane splendida e consiglio vivamente.
Ma… mi raccomando: non fate come me! ;-)

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