La Dancalia, terra estrema, è senza dubbio uno dei luoghi più inospitali della terra: pur essendo una delle regioni più spettacolari dell’Etiopia è però una delle meno visitate. La ragione è semplice: non esiste in Dancalia alcuna infrastruttura turistica, la maggior parte del territorio è segnata da piste polverose e incerte, ma, peggio ancora, il vero problema sta nel fatto che in questo deserto si raggiungono le temperature più alte registrate sulla terra.
Tuttavia, la ricerca continua di nuove frontiere turistiche, unitamente alle straordinarie attrattive naturali, ha portato negli ultimi anni ad un incremento esponenziale del numero di visitatori che affluiscono nella regione. L’affermazione non deve però trarre in inganno: i numeri sono sempre limitati, in senso assoluto, ma la totale mancanza di infrastrutture unitamente alla fragilità di molti siti naturali, fa sì che la regione cominci già a mostrare i segni negativi dei maggiori flussi turistici.
Pianificare un viaggio in questo deserto non è certamente cosa semplice: anche io e mia moglie, da sempre appassionati di viaggi fai da te, per questa avventura abbiamo dovuto rassegnarci ad unirci ad un gruppo di altri visitatori. Per me, è stato il primo viaggio totalmente organizzato in tanti anni di viaggi ma devo dire però che non esiste per ora davvero altra alternativa.
Itinerario
7 gennaio 2011
Partiamo dall’aereoporto di Venezia per Roma, dove incontreremo il resto del gruppo che condividerà con noi il viaggio. L’aereo per Addis Abeba della Ethiopian Airlines è previsto a notte fonda e, come se non bastasse, viene annunciato anche con oltre un’ora di ritardo. Poco importa, non sarà certamente questo il peggior disagio del viaggio!
8 gennaio 2011
Recuperiamo comunque parte del ritardo in volo ed arriviamo ad Addis Abeba in tarda mattinata. Inaspettatamente le formalità doganali sono rapide, fortunatamente non registriamo nessuna defezione tra i bagagli ed il trasferimento in albergo è molto veloce. La partenza per la Dancalia è prevista per il giorno successivo ed il programma prevede per la mattinata e il pomeriggio la visita al museo nazionale, dove è conservata una copia di Lucy, il famosissimo ominide scoperto negli anni 60, oltre a molti altri interessantissimi reperti archeologici di australopitechi e dinosauri. D’altra parte ci troviamo proprio nella terra dove tradizionalmente (e per ora anche storicamente!) si vuole sia cominciata la storia del genere umano. Farci trasportare per la città senza dover scegliere i posti da visitare è per noi un po’ strano ma, vista la stanchezza per il lungo viaggio, non abbiamo davvero di che lamentarci. Una guida preparatissima, con un Italiano impeccabile, ci accompagna nelle sale del museo, che si rivela essere davvero interessante, anche se un po’ decadente. Interessante anche la casa dove ha soggiornato ai tempi della dominazione Italiana il generale Graziani, a poche decine di metri di distanza.
Dopo il museo, e il pranzo al circolo Italiano di Addis Abeba, ci godiamo un giro per la città che, se pur non particolarmente bella, si rivela interessante. Ci sono ovunque cantieri, dove imponenti costruzioni moderne contrastano nettamente con misere casupole decrepite. I palazzi in costruzione, spesso con linee avveniristiche, destinate ad essere sedi di uffici e alberghi, sono circondati da traballanti ponteggi che fanno gelare il sangue. E’ facile immaginare che siano frequentissimi gli incidenti tra gli operai che lavorano in equilibrio precario a volte anche a 30 o 40 metri di altezza. Ma anche questa, purtroppo, è l’Africa.
Alloggiamo e ceniamo al Jupiter International hotel, di buon livello. Costo della cena: 360 birr, circa 15 Euro
9 gennaio 2011
Il mattino seguente ci vede carichi e ben riposati, pronti ad affrontare uno dei viaggi più duri finora effettuati. Ci dividiamo in quattro fuoristrada, al quale se ne aggiungerà un quinto di supporto logistico. Io e mia moglie finiamo nell’auto numero 3 insieme alla coppia più anziana del gruppo: lui ha 71 anni, portati benissimo, lei poco meno, e scopriamo presto che sono dei veri viaggiatori, una coppia che non ha paura di nulla, che ha girato mezzo mondo e che ha addosso una energia tale da fare invidia a molti ventenni. Insomma, due viaggiatori che si riveleranno dei compagni di viaggio ideali.
Quella di oggi è una tappa di trasferimento, che ci vede lasciare la capitale e fare rotta verso nord-est. Per la prima parte del viaggio restiamo sempre in quota: Addis Abeba si trova a 2360 metri sul livello del mare e questo spiega il clima gradevole, anche se siamo vicini ai tropici.
Attraversiamo piccoli e pittoreschi villaggi contornati da splendide foreste di eucalipti. Il paesaggio è a tratti addirittura montano con ampi squarci di verde intenso e se non fosse per i frequenti villaggi di capanne di fango ci riuscirebbe difficile immaginare di essere in Africa. Dopo una prima parte di saliscendi, la strada comincia ad inerpicarsi: è sempre asfaltata anche se la qualità del manto stradale lascia molto a desiderare…
La nostra prima tappa è in un villaggio Oromo, lungo la strada. Gli Oromo sono una delle etnie più diffuse in Etiopia, una delle poche che si vedono praticamente quasi in tutto il territorio dello Stato. Sono considerati originari dell’Etiopia, ma paradossalmente sono forse i più disprezzati e bistrattati dalle altre etnie.
La gente del villaggio ci accoglie con curiosità, qualcuno prova a chiederci timidamente dei soldi per le foto, che noi rifiutiamo sempre con cortesia ma fermezza di pagare. Abbiamo infatti consegnato un po’ di materiale didattico e qualche birr al capo villaggio e siamo tutti d’accordo di non distribuire nulla di nostra iniziativa per evitare che prenda piede la cattiva abitudine di chiedere sempre, a volte anche in maniera aggressiva, qualcosa in cambio delle foto.
Per tutto il viaggio rifiuteremo di pagare per fotografare, evitando sempre di ritrarre chi non vuole essere immortalato. Qui e in Dancalia è ancora possibile seguire questa regola, in altre zone dell’Etiopia, come nella valle dell’ Omo, purtroppo la situazione è diversa.
Il villaggio è povero ma dignitoso, con piccole capanne di fango generalmente di forma circolare. I tetti sono coperti dai tradizionali pannelli intrecciati dalle donne, anche se qua e là si vede qualche poco “tradizionale” lamiera! La mia attenzione è attratta da una anziana che trasporta qualcosa su un largo cesto di vimini. Mi avvicino e mi rendo presto conto che il cesto è pieno di escrementi!
La vecchietta scarica il materiale nei pressi di un muretto (anch’esso di sterco) e con rapidi movimenti divide questa strana torta in tanti piccoli pezzetti che schiaccia a formare delle vere e proprie pizze! Quindi le sistema a terra e le lascia essiccare al sole. Altri del gruppo mi raggiungono e la donna sembra molto divertita a vedere il nostro interesse. Probabilmente si starà chiedendo perché siamo così interessati al letame, possibile che noi non lo abbiamo mai maneggiato come fa lei? Se sapesse!
Lasciato il villaggio, ci avviciniamo al passo Termaber, a ben 3.100 metri di quota. Poco prima del passo ci fermiamo per alcuni minuti a goderci il panorama sulle valli sottostanti: sul posto ragazzini locali vendono tipici cappelli di lana dalla forma curiosa, e altri ricoperti di pelo di babbuino. Dopo una rapida trattativa, ne acquistiamo uno di lana per 50 birr, meno di 3 Euro. Ancora pochi chilometri e arriviamo alla “Galleria Mussolini” una delle tante testimonianze del passato coloniale Italiano in Etiopia. Sono tante le strade costruite dagli Italiani durante il periodo coloniale, e questa è una di quelle. La realizzazione partì ufficialmente nel maggio del 1936 e prevedeva la stesura di ben 2.800 Km di strada asfaltata entro il 1942, oltre al tracciamento di altri 18.000 Km di strade secondarie. Progetto audace, certamente, che fu realizzato solo parzialmente visti i noti rovesci bellici. La galleria è in pieno rifacimento e si transita a senso unico alternato: la sensazione è che non sia stato fatto nessun lavoro di manutenzione dopo la costruzione (nel 1938), e ci rendiamo conto che i lavori sono davvero necessari.
Scendiamo quindi verso il villaggio di Sembete, la nostra prima tappa importante. Oggi è giorno di mercato e i nomadi Afar affluiscono qui per scambiare le loro merce con gli uomini di montagna, principalmente di etnia Oromo e Amhara.
L’occasione è ghiotta per confrontare i diversi costumi di queste genti che pure vivono da secoli a contatto tra di loro. Qui ancora non si sa cosa sia la globalizzazione!
Alcuni degli uomini degli altopiani indossano sopra i pantaloni il “waya” una tunica spalmata di grasso che la rende impermeabile. Le donne Oromo invece sfoggiano delle stupende pettinature, valorizzate spesso da ciondoli d’argento e a volte anche d’oro. Gli Afar non sono molti, ma si riconoscono da una specie di gonna di cotone bianco e anche da un drappo sempre bianco che portano sulle spalle. Il mercato è sudicio, polveroso e animatissimo. Giriamo senza meta apparente soprattutto nella zona riservata al bestiame, forse la più interessante. Qui ci sono quasi esclusivamente uomini e non possiamo fare a meno di notare che molti sono armati di kalashnikov.
I fucili sono spesso solo una esibizione di forza, ma a noi Europei suscitano certamente una certa inquietudine. Durante il viaggio le armi saranno una costante, dunque ci abitueremo ben presto.
La parte riservata alle merci (soprattutto frutta e verdura, vasellame e attrezzi da lavoro) è una ghiotta occasione per ammirare le pettinature e i colorati costumi delle donne.
Dopo un ottimo pranzo a base di carne in un ristorante locale (che definirò “essenziale” per non ricorrere a termini più riduttivi!), continuiamo il nostro viaggio fino a Kombolcha, dove pernotteremo. La cittadina si trova a 1.800 metri di altitudine. Pernottiamo all’Hotel Sunny Side, tutt’altro che lussuoso, ma considerato quel che ci aspetta…
10 gennaio 2011
Partiamo di buon mattino verso Bati, dove ci aspetta un altro mercato. Il mercato è simile al precedente, diviso in due parti distinte: la parte bassa è riservata al bestiame, mentre la parte alta è riservata alle altre mercanzie. Anche qui si vedono Oromo e Afar, ma appare anche un’altra etnia, la Wollo. Benchè le etnie siano diverse, li accomuna una tipica dolcezza dei tratti che rende queste genti etiopi davvero particolarmente belle. I nasi sono sottili, ben modellati, e anche il resto del viso è spesso dolce e ben proporzionato. I bimbi hanno sorrisi radiosi e molte giovani donne attirano guardi ammirati non solo dei locali, ma anche nostri!
Nel mercato, che si sviluppa in parte lungo le strade del villaggio, abbondano le botteghe dei sarti, che, più che preparare nuovi vestiti, sono impegnati nei rammendi e riparazioni dei vecchi. Da queste parti non si butta via nulla!
Osserviamo anche la preparazione della njera, l’onnipresente pane tipico etiopico, preparato in forma di pastella che viene cotta a fuoco vivo su una larga padella. Ne esce una specie di crespella grigiastra spugnosa e leggermente acidula che ben si sposa con le carni ricche di sugo tipiche della cucina etiopica. I locali non usano le posate quando mangiano la carne, già tagliata a piccoli pezzi prima di cuocerla, ma la raccolgono abilmente con un pezzetto di njera. L’uso locale prevede anche che tutti i commensali mangino dallo stesso piatto: usanza che ci fa certamente storcere il naso, tuttavia, ad una attenta osservazione, si nota che gli etiopici sono molto abili a non toccare mai la carne con le mani: raccolgono sempre la carne rigorosamente con il pezzetto di njera, senza toccare mai il piatto con il cibo condiviso con gli altri. Cosa che ovviamente non riesce a noi turisti che ci riempiamo goffamente le mani di sugo già al primo approccio!
Il nostro viaggio prosegue quindi alla volta di Asayta, antica capitale del sultanato afar di Aussa, in passato luogo di partenza per le esplorazioni della Dancalia, esplorazioni che si sono spesse concluse tragicamente!
Ci siamo già allontanati dalle zone più frequentate dai turisti, infatti Asayta non dispone di buone strutture ricettive. Proprio per questo, anche su consiglio di Anna, la nostra guida Italiana, decidiamo di anticipare l’uso della tenda, e approntiamo il campo in una spianata oltre la cittadina. Nel giro di 10 minuti i locali accorrono per curiosare. Piantiamo le tende e ceniamo con una piccola platea raccolta ad una certa distanza ad osservarci. Sono quasi tutti bambini, ma tra loro c’è qualche adulto che smorza sul nascere i loro schiamazzi e li invita a non disturbare, ma solo ad osservare. Insomma, noi siamo per tutti loro come un bel film da godersi al cinema! Non posso fare a meno di pensare ai racconti dei miei genitori, che descrivevano le loro corse ad osservare il treno che passava… Il nostro pubblico si allontana silenziosamente solo quando noi siamo tutti rientrati in tenda a dormire, ovvero quando lo spettacolo è finito!
11 gennaio 2011
Ci alziamo al mattino presto, quando ancora è buio. Sia io che mia moglie ne approfittiamo per andare al bagno, protetti dall’oscurità. Ovviamente bisogna arrangiarsi dietro ad un cespuglio e non è cosa facile perché nei dintorni c’è parecchia acqua, pozze alimentate da un fiume vicino a lentissimo scorrimento e praticamente privo di argini. Siamo cosparsi di autan, ma qui le zanzare sono davvero numerose. Ci hanno detto che questo è l’unico luogo dove ci saranno zanzare e dunque c’è un piccolo rischio di contrarre la malaria. Nessuno del gruppo ha fatto la profilassi, proprio perché queste zone non sono particolarmente afflitte dalla piaga della malaria, molto comune invece al sud. Dobbiamo dunque fare i conti con qualche puntura, nella speranza che non abbia altre conseguenze che un piccolo fastidioso prurito.
Dopo la colazione davanti al pubblico che si è di nuovo riunito ad osservarci, mentre il resto del gruppo si prepara a fare un giretto a piedi al vicino villaggio (piccola vendetta nei confronti del nostro pubblico non pagante?) io ne approfitto per andare ad osservare alcuni aironi guardabuoi e ibis sacri che ho notato in una pozza lì vicino: purtroppo non ho l’attrezzatura da birdwatching, lasciata a casa perché particolarmente pesante. Un viaggio duro come quello in Dancalia mi ha imposto di ridurre i pesi dell’attrezzatura fotografica. Nonostante tutto riesco ad avvicinarmi abbastanza agli animali e fotografarli: si vede che non sono disturbati dai locali e non percepiscono l’uomo come un pericolo grave. Dopo la breve parentesi naturalistica mi unisco al resto del gruppo per una piacevole passeggiata tra le rade capanne del minuscolo villaggio Afar. Questa volta le parti sono invertite, siamo noi che osserviamo i locali, incuriositi! Cominciamo a notare come molte delle donne presentino delle leggere scarnificazioni al viso, segno di bellezza per le loro cultura. Cerchiamo di comunicare, soprattutto con donne e bambini: la difficoltà di comunicazione e l’imbarazzo vengono spesso stemperate da risate e sorrisi.
I nostri autisti ci vengono incontro con i fuoristrada e a metà mattinata partiamo finalmente per addentrarci nella depressione Dancala. Dopo aver viaggiato nei giorni precedenti su altipiani al di sopra dei duemila metri ora scendiamo addirittura sotto il livello del mare.
Prima di addentrarci nella depressione, però, dobbiamo raccogliere la guida Afar che ci è stata praticamente imposta: è una sorta di dazio da pagare da tutti coloro che entrano il territorio degli Afar: in alcune zone saremo costretti anche ad “assumere”una scorta di un paio di uomini dell’esercito, sulla cui utilità nutriamo seri dubbi. Ma ne parlerò più avanti.
Entrare in Dancalia è come varcare la soglia di un pianeta completamente diverso: non è semplicemente un deserto, è una terra bruciata dal sole, riarsa, dove si perde la cognizione del tempo, dello spazio, dove non ci sono punti di riferimento. Una terra affascinante e spaventosa allo stesso tempo. Qui abbondano solo la sabbia e il sale e le temperature raggiungono livelli che non si registrano da nessun altra parte al mondo. Noi ci arriviamo in pieno inverno, nella stagione più “fresca” eppure durante le ore centrali della giornata la temperatura sarà sempre al di sopra dei 30 gradi toccando un massimo di 48 gradi.
Ci dirigiamo verso il lago Afrera, chiamato al tempo degli Italiani lago Giulietti:proprio nei pressi di questo lago l’esploratore Italiano ha perso la vita durante una delle sue spedizioni in questa terra estrema.
Piantiamo le tende nei pressi della salina del lago (qui l’acqua è salata!) e scopriamo con sommo piacere che a fianco del nostro campo c’è una sorgente di acqua calda dolce e soprattutto pulita. Un’ottima occasione per lavarci, visto che la sera precedente non abbiamo potuto farlo e sarà difficile farlo anche nei giorni che verranno. Ci godiamo quindi un tonificante bagno prima della cena preparata dal nostro cuoco che si rivela essere davvero molto bravo.
12 gennaio 2011
Prima di partire ne approfittiamo per farci un giretto per le saline. La guida Afar risponde alle nostre domande sul duro lavoro degli operai alle saline. Ogni sacco di sale pesa circa 50 chilogrammi e costa 75 birr ovvero poco più di 3 Euro. Gli uomini lavorano a cottimo, spaccando le croste del sale ed insaccandolo solo il sole cocente. Un lavoro durissimo, ma incontreremo condizioni ancora più dure alla piana del sale.
Lasciamo quindi il lago per addentrarci nel cuore della Dancalia, terra dove solo gli Afar hanno imparato a sopravvivere.
Gli Afar sono gente fiera, dura come sa essere dura la vita in questo territorio ostile. La pelle è nera ma i lineamenti tradiscono contatti con la vicina penisola arabica. D’altra parte gli Afar sono musulmani, una religione che hanno probabilmente assorbito più per necessità che per reale convinzione: vivono infatti nel territorio più vicino alla penisola arabica e proprio per questo in passato erano il primo popolo che gli incursori arabi incontravano nelle loro scorribande alla ricerca di schiavi africani. Dato che la religione musulmana proibiva la riduzione in schiavitù di altri musulmani, non ci vuole molto a capire che per gli Afar la conversione deve essere stata prima di tutto un buon affare: diventare musulmani significava evitare di essere ridotti in schiavitù, innanzitutto! Il loro innato buon senso per gli affari ha inoltre dato loro la possibilità di essere i procacciatori di schiavi per i vicini arabi. Per secoli sono stati loro ad occuparsi della cattura di schiavi e questo ha sicuramente contribuito ad ingigantire la loro cattiva fama presso le etnie vicine. Ovviamente ora il traffico è finito, ma resta una certa sinistra fama degli Afar, alimentata anche dal fatto che questo è un popolo di guerrieri certamente induriti dall’ostilità e dalla inospitalità del luogo in cui vivono.
I nostri contatti con loro saranno frequenti e tutto sommato sempre segnati da esperienze positive. La loro innata fierezza, per esempio, li rende poco inclini a richiedere soldi senza un motivo apparentemente valido. Ecco perché non ci scontreremo mai con richieste insistenti di soldi per le foto, anche se ci verranno chiesti soldi per altri “servizi” quali scorte, guide, affitti di cammelli e portatori, a volte del tutto inutili o quasi. Insomma uno scotto da pagare per poter tranquillamente visitare il loro territorio. Con questo non voglio dire che non ci sia mai capitato che gli Afar ci abbiano richiesto soldi per le foto: anzi è successo abbastanza spesso, ma quasi sempre le richieste venivano da donne e bambini, quasi mai uomini. In ogni caso,al nostro gentile rifiuto, la cosa si risolveva con una rinuncia reciproca (ai soldi loro, alla foto noi!). Mai ci siamo ritrovati davanti all’aggressività tipica di molte altre zone dell’Etiopia o dell’Africa.
Nel corso della mattinata ci fermiamo presso un piccolo villaggio per visitare una scuola. Abbiamo parecchio materiale didattico da consegnare: penne, quaderni, mappamondi in plastica gonfiabile. Lo consegniamo al responsabile della scuola, il quale ci invita a visitare il povero edificio in cemento adibito a scuola. Lo facciamo con piacere, l’occasione è ottima per interagire con i bambini. Notiamo con piacere che la scuola è frequentata anche da alcuni adulti e la nostra presenza distrae tutti dalle lezioni. Alla fine il maestro mostra ai ragazzi uno dei nostri mappamondi di plastica gonfiabile e l’atmosfera si anima quando cerchiamo insieme l’ubicazione dell’Etiopia e dell’Italia. I bambini, come tutti i bimbi del mondo, dopo un primo momento di timidezza e panico, ben presto si scatenano eccitati e il maestro fatica non poco a tenerli a bada. Il responsabile ci fa vedere anche un paio di stanze adibite ad ospedale del villaggio e degli insediamenti vicini: due letti scalcagnati e un mobiletto dove sono raccolte non più di un centinaio di scatolette di medicinali, alcuni dei quali scaduti o inservibili.
Decisamente triste, se si pensa che il più vicino ospedale è a centinaia di chilometri…
Ripartiamo in tarda mattinata: le temperature ora sono cambiate e cominciamo ben presto a rimpiangere il fresco degli altopiani.
Ci dirigiamo verso l’Erta Ale, uno dei vulcani attivi più spettacolari del mondo. L’Erta Ale fa parte della catena dei vulcani che segnano la Rift Valley, una spaccatura della crosta terrestre dovuta all’allontanamento della penisola arabica dal continente africano. Questa lenta ma continua ed inesorabile deriva, scatena forze geologiche di inaudita violenza. La serie di vulcani di cui l’Erta Ale fa parte ne è una delle più evidenti manifestazioni, con la lava bollente che risale dalle viscere della terra lungo tutto la spaccatura. La continua attività fa sì che la lava si trovi perennemente a poche centinaia di metri di profondità (a volte, come nel caso della caldera dell’Erta Ale, risale fino a cielo aperto), dando luogo a spettacolari manifestazioni geotermiche, che sono la principale attrazione di questa terra magica e terrificante allo stesso tempo!
Il viaggio non è lunghissimo ma siamo nella zona dove ci sono le piste più difficili della Dancalia. Dopo una prima parte con una strada abbastanza buona, affrontiamo piste sempre più difficili da individuare, sempre più polverose, sempre più infide. Ecco, ora capiamo perché al nostro seguito abbiamo 5 litri di acqua a testa al giorno… Praticamente ci sono bottiglie d’acqua dappertutto e i nostri autisti si assicurano che ne abbiamo sempre una a testa a portata di mano.
Per pranzo ci fermiamo in un minuscolo villaggio Afar: da queste parti non ci sono bar, non ci sono ristoranti, non c’è nulla di nulla, a parte qualche misera capanna.
Dunque, visto che non ci sono neppure alberi o rocce sufficienti per darci un po’ di ombra, la nostra guida contratta con i locali per avere una capanna in “affitto”. Ci viene data la più grande, dove il nostro cuoco, organizzatissimo, in breve tempo organizza il nostro pranzo: un’insalata di riso, sicuramente preparata il giorno prima e del tonno in scatola. Ma la nostra attenzione, più che dal cibo, è attratta dalla insperata opportunità di vedere all’interno una vera capanna Afar.
La dimora è composta da due ambienti separati solo da una stuoia di foglie intrecciate (lo stesso tipo di stuoia spesso è usata per il tetto, ed è abilmente intrecciata dalle donne). Dall’ingresso si accede direttamente all’ambiente più grande, totalmente vuoto se si esclude un giaciglio rudimentale in legno che è sicuramente il letto non solo della coppia che vi abita, ma anche dei loro tre figli piccoli. A fianco dell’ampio letto, posizionato in fondo alla capanna, si accede ad un piccolo ambiente, adibito a cucina, dove sono raccolte poche misere stoviglie: una teiera in terracotta, due pentole consunte in alluminio e un paio di piatti/vassoi dove certamente la famiglia consuma il pasto. Un buco al centro sembra essere il focolare, anche se non ci sono segni recenti di fuoco. Probabilmente risulta molto più semplice accendere il fuoco all’esterno.
All’interno dell’ambiente cucina, noto con curiosità che è rimasta la padrona di casa. E’ una ragazza bellissima, sicuramente al di sotto dei vent’anni. E’ strano immaginare che il marito l’abbia lasciata lì da sola, circondata da donne ma anche uomini stranieri. E’ ovvio che non corre nessun pericolo, ma la cosa non rientrerebbe certamente nella mentalità musulmana: una conferma che da queste parti la religione non è certamente la priorità, nella vita di tutti i giorni, e siamo ben distanti da posizioni integraliste.
La donna ci osserva timidamente mentre mangiamo e presto arrivano anche i suoi tre figli. Il marito entra nella capanna solo poco prima della nostra partenza. E’ molto giovane anche lui, e ci osserva con aria molto più severa della moglie.
Ripartiamo dopo una breve pausa e arriviamo alla base del vulcano, dopo un viaggio massacrante, alle 4 del pomeriggio. Aspettiamo ancora prima di incamminarci, fa troppo caldo. Nel frattempo la nostra guida contratta con il capo villaggio su quanta gente debba accompagnarci. Alcuni sono assolutamente inutili, ma ci faranno almeno da portatori. Alla fine siamo in 23 con due cammelli.
Ci sono 10 persone con noi, due accompagnano i cammelli che ci portano cibo e attrezzatura, gli altri sono guide e uomini di scorta.
Partiamo alle 17.15 e l’ascesa durerà 4 ore. La prima ora sotto il sole è dura, ma la relativa freschezza della notte ci rinfranca molto presto. Proseguiamo fino alla cima del vulcano con l’aiuto delle luci da speleologo e finalmente arriviamo in cima, poco dopo le 21.
Arrivati in cima abbiamo purtroppo la conferma di quel che temevamo. Nel novembre 2010, dopo oltre 40 anni in cui si poteva ammirare la lava bollente nella caldera, la caldera si è tappata. Una forte eruzione, seguita dal ritiro della lava di nuovo nella caldera, ha fatto sì che la lava fuoriuscita, solidificandosi, tappasse la caldera. Qualche giorno dopo, si è aperto solo un camino di dimensioni relativamente piccole, che permette di vedere i bagliori della lava sottostante. Non ci si può purtroppo avvicinare al camino perché non si conosce la consistenza dello strato di lava solida che ricopre la caldera bollente. Così, dobbiamo accontentarci di vedere i bagliori da lontano, pur spettacolari.
Fortunatamente sulla vetta dell’Erta Ale abbiamo trovato solo un gruppo di 7 francesi, che hanno già abbandonato la zona della caldera, quindi possiamo godercela in tranquillità. Per poter dormire dobbiamo tornare indietro verso la zona di sicurezza, facendoci strada con prudenza nella nuova colata lavica. Dormiamo nel sacco a pelo, all’aperto, in una notte stellata straordinaria.
13 gennaio 2011
La luce del mattino ci dà la sveglia e, dopo una frugale colazione, ci incamminiamo di nuovo verso la caldera. I bagliori non si vedono più, visto che è giorno, in compenso abbiamo modo di ammirare i sensazionali colori della lava eruttata appena due mesi prima. Camminandoci sopra scricchiola come il vetro ed è percorsa da striature multicolori, a volte larghe anche un metro, altre pochi centimetri. Prevale l’arancione (ossidi di ferro) ma si vede anche il verde, il viola, il rosso, il giallo.
Prima che il sole diventi troppo forte riprendiamo la strada verso il villaggio. Per scendere sono sufficienti tre ore e 15 minuti (un’ora in meno della salita), ma quando arriviamo siamo già spossati dal sole cocente che non dà tregua. Mangiamo qualcosa rapidamente e ci avviamo verso Ahmed Ela, la località dove ci fermeremo per due notti e sarà la nostra base per l’esplorazione della piana del sale e del Dallol.
Il viaggio è semplicemente infernale. Percorriamo piste di sabbia fine, che le ruote delle auto sollevano verso i finestrini. Siamo quindi costretti a tenerli chiusi e spenta deve rimanere anche l’aria condizionata per non intasare i filtri. Il nostro autista prova ad accenderla ogni tanto, ma al terzo o quarto tentativo dobbiamo rassegnarci, perché non funziona più.
Viaggiare per ore in un’auto con i finestrini chiusi, senza aria condizionata, sotto il sole cocente è un’esperienza davvero spossante. Verso le tre del pomeriggio arriviamo nei pressi di un rigagnolo d’acqua, dove si stanno abbeverando dei buoi. Tutti i mezzi allungano il percorso di circa un chilometro, per aggirare il corso d’acqua, fuorché l’auto di supporto, il cui autista ha la brillante idea di gettarsi a capofitto in mezzo ai buoi nel tentativo di guadarlo. Pessima idea. L’auto si pianta subito nel fango, proprio davanti alla nostra. Corriamo avanti ad avvisare gli altri, i quali si sono già fermati per aspettare che il gruppo si ricompattasse.
Si torna tutti indietro, e qui comincia una odissea che dura oltre due ore. La pesante 4x4 sembra essere incollata nel fango e anche due mezzi insieme non riescono a tirarla fuori. Gli autisti provano a scavare, a spingere, a tirare, ma non c’è nulla da fare. Noi consigliamo di svuotarla completamente, ma loro non hanno una gran voglia. Dopo due ore di fatiche finalmente si convincono che svuotarla di tutto il suo carico è l’unica speranza. I fatti ci danno ragione: al primo tentativo di traino l’auto, notevolmente più leggera, si libera dalla morsa del fango e scivola fuori dalla trappola.
Questo contrattempo ci è costato un ritardo enorme nella tabella di marcia, e arriviamo al campo con grande ritardo, quando è già buio. La cosa ha comunque un risvolto positivo, perché ci viene assegnato un posto al di fuori del villaggio, tranquillissimo. Siamo proprio a fianco del sentiero invisibile percorso dalle carovane del sale quando arrivano al villaggio, la sera antecedente al carico.
Piantiamo rapidamente le tende (teoricamente si potrebbe dormire all’interno di alcune capanne messe a nostra disposzione, ma tutti preferiscono la tenda), mentre il cuoco prepara la cena. Siamo tutti spossati dalla lunga e faticosa giornata, probabilmente la più dura dell’intero viaggio. Fa molto caldo, anche se è già notte, ed io decido di dormire all’aperto, sopra ad uno dei 4-5 scomodi letti in paglia che i locali ci hanno portato. La schiena protesta, ma sempre meglio che chiudersi nel forno della tenda.
14 gennaio 2011
Al mattino presto abbandoniamo il campo per partire verso la piana del sale. In realtà, dal punto di vista geologico, tutta la depressione dancala potrebbe essere definita una piana del sale, lunga circa 200 km. e larga circa 30. Nel bel mezzo della piana si trova la catena vulcanica dell’Erta Ale, lunga circa 95 chilometri. Mentre a sud dell’Erta Ale la piana è ricoperta da materiali sabbiosi e argillosi, a nord si manifesta come una immensa distesa di cristalli di sale, potassio e magnesio. In altre parole, è proprio qui che il sale si presenta più puro.
Ci dirigiamo prima verso il mare salato, una zona con presenza d’acqua in superficie. La caratteristica di questo lago con pochi centimetri d’acqua è che il vento ne sposta in continuazione i confini. L’acqua sembra essere apparentemente imprigionata dalle basse bordature dei grossi rombi formati dai cristalli di sale. In realtà le folate di vento la spingono a superare queste barriere di pochi centimetri di altezza e il lago si sposta in continuazione, anche di parecchie centinaia di metri al giorno. Riusciamo a toccare con mano, anzi, con i piedi il fenomeno. Arrivati al limitare del lago ci togliamo le scarpe per camminare nell’acqua e rinfrescarci i piedi. Quei cinque minuti di refrigerio sono sufficienti per renderci conto che le scarpe, lasciate in una zona asciutta, sono già state raggiunte dall’acqua che avanza!
Attorno a noi non c’è nulla: non un cespuglio, un albero, una pietra che rompa la apparente monotonia del paesaggio. Il suolo è un susseguirsi di figure geometriche formate dal sale, il quale raggiunge in alcuni punti lo spessore di ben tre chilometri. Siamo sul fondo di un oceano preistorico, ritiratosi grazie all’azione geologica della spaccatura del rift. L’acqua già salata che risale dalle viscere della terra, contribuisce a riformare parte dello strato di sale che viene asportato dagli operai che vedremo all’opera più tardi.
Lasciamo con rammarico quel posto affascinante e ci dirigiamo verso la cava del sale. Oggi è venerdì, giorno di festa per i mussulmani, e le carovane dei cammelli non ci sono. Benché non tutti i conducenti delle carovane dei cammelli siano musulmani, il vero problema sta nel fatto che non ci sono gli Afar, che sono tradizionalmente coloro che fanno il lavoro di squadratura dei blocchetti del sale. Dunque, se mancano loro, non si può caricare la merce sui cammelli e gli asini. Gli operai che invece fanno il lavoro più duro, ovvero quello di estrazione delle grosse lastre di sale sono invece quasi tutti tigrini, ovvero originari della regione del Tigray, di fede cristiana. Dunque troviamo al lavoro solo loro, intendi a spaccare grosse lastre di sale che vengono sollevate e rovesciate sul terreno, in attesa appunto di essere ridotte in blocchi tutti uguali dagli abili scalpellini Afar.
I loro strumenti di lavoro sono solo dei rudimentali picconi e dei bastoni usati come leve per le lastre di sale. Sono divisi in gruppi di 5 o 6 uomini, che si alternano nel lavoro di picconatura e riuniscono le forze quando si tratta di sollevare le lastre con i bastoni. Lavorano ininterrottamente per tutto il giorno, sotto il sole cocente, per pochi spiccioli al giorno. Per noi è una sofferenza anche rimanere poco tempo a guardarli, lascio immaginare quanto sia duro per loro lavorare tutto il giorno in quelle condizioni.
Nella stagione più calda qui le temperature superano abbondantemente i 50 gradi (ora siamo a 35) e questa gente è diventata immune alla disidratazione e ai colpi di calore. Il loro lavoro viene sospeso solo nella stagione delle piogge, da aprile ad agosto, solo perché la pista carovaniera di cui parlerò più avanti è di fatto impraticabile.
All’ora di pranzo ci spostiamo verso l’Assa Ale, il “monte rosso” praticamente l’unico posto dove si possa trovare un po’ di ombra in quella immensa piana. Si tratta di un piccolo monte di sali di magnesio, chiamato anche Isola del sale inglese (il solfato di magnesio è chiamato anche sale inglese). I dancali lo usano come purgante ed il caratteristico colore rosso è dato dall’ossidazione dei Sali. E’ lungo non più 200 metri per circa 30 di altezza. Originatosi grazie ad una piccola recente esplosione vulcanica, secondo la tradizione dei locali, il monte ha una valenza sacra: considerato l’origine e la madre della piana del sale, la tradizione recita che se il monte verrà distrutto la stessa sorte toccherà all’intera piana del sale. Lungi da noi l’idea di distruggerlo, cerchiamo solo un po’ d’ombra per il nostro pranzo, ma all’arrivo ci aspetta una amara sorpresa: il vento ha spinto fino a lì il lago e dunque non è possibile sedersi all’ombra! Ci arrangiamo come possiamo, con qualche stuoia posata sulla roccia e cerchiamo di trascorrere lì le ore più calde della giornata.
Poco dopo le due di pomeriggio partiamo verso la collina del Dallol. La “collina degli spiriti” alta non più di 50 metri, ma visibile da lontano, vista la conformazione piatta del territorio circostante, si rivela essere una vera meraviglia della natura. Qui, in un anfiteatro naturale che si raggiunge dopo la breve scalata della collina stessa, si assiste ad uno spettacolo naturale ininterrotto da secoli: geysir in piena attività, sputano acqua bollente che si raccoglie in pozze multicolori, dipinte nel corso dei millenni da stratificazioni di diversi minerali, quali lo zolfo, il ferro, il magnesio, il potassio, il cianuro, l’arsenico.
Il risultato lascia tutti a bocca aperta. In anni di visite a zone geotermiche in giro per il mondo, mai mi è capitato di vedere una cosa del genere! Non ci sono descrizioni, foto o filmati che rendano giustizia e possano far comprendere la spettacolarità del luogo. Bisogna vederlo, semplicemente.
Ci disperdiamo presto in mezzo a quelle rocce e ai laghetti multicolori e siamo ben felici di constatare che non ci sono altre persone oltre a noi. Le due ore a disposizione volano e verso le 5 e trenta del pomeriggio, un’ora prima che scenda il buio, gli uomini della scorta ci inducono a tornare, per evitare di trovarsi in zona con il calare delle tenebre. Ci dicono che siamo vicini al confine con l’Eritrea e la zona non è sicura (i due paesi sono stati in guerra per molti anni e anche ora le relazioni non sono amichevoli), ma forse sono semplicemente stanchi e vogliono tornare a riposarsi al villaggio al più presto. Dato che prevediamo di tornare anche l’indomani, lasciamo con meno rammarico questo luogo straordinario.
15 gennaio 2011
Nel cuore della notte vengo svegliato da rumori e bisbigli. Disorientato, guardo l’orologio, cercando di capire ciò che sta succedendo. Sono le 4.00 del mattino e finalmente capisco di che cosa si tratta. Alla mia destra, a non più di 50 metri di distanza sta passando una carovana di cammelli e asini, diretta verso il centro di raccolta, una ampia conca di fronte al villaggio. Probabilmente non è la prima e non sarà certamente neanche l’ultima, perché nel dormiveglia continuo a sentire rumore di passi e i versi sommessi dei cammelli.
Ci alziamo anche oggi all’alba e dopo una veloce colazione ci spostiamo verso il vicino villaggio.
Lo spettacolo che ci aspetta è davvero incredibile. Tutte le carovane di cammelli arrivate nel corso della notte, radunatisi intorno ad un ampio spiazzo, stanno lentamente mettendosi in moto per raggiungere la piana del sale. Uno dopo l’altro, i cammelli si allontanano in fila indiana, in una sequenza ininterrotta che, diversi minuti dopo, raggiunge una lunghezza di chilometri. Sembra che la fila non finisca mai, e l’ampio centro di raccolta ai margini del villaggio continua ad alimentarla.
I primi cammelli sono ormai lontanissimi all’orizzonte quando l’ultima carovana lascia silenziosamente il luogo. Mentre gli altri tre o quattro gruppi di visitatori presenti seguono i cammelli fino alla zona del carico, noi decidiamo invece di anticiparli al Dallol, ben sapendo che loro arriveranno più tardi.
E’ la seconda visita che facciamo in questo luogo. Dopo la magica luce della sera decidiamo di sfruttare anche quella del mattino. Siamo di nuovo in questo splendido teatro naturale poco dopo le 8.30 e ci restiamo fin dopo le 10, godendoci in splendida solitudine la naturale tavolozza di colori e la bellezza primordiale di questo sito unico al mondo. Ci gustiamo il silenzio rotto solo dagli sbuffi d’acqua bollente.
Poco lontano dall’anfiteatro colorato, invaso dall’acqua che forma laghetti multicolore, notiamo una serie di baracche recintate: la nostra guida ci spiega che era il campo di estrazione dei sali di potassio, risalente al 1912. Fu proprio in quell’anno che un intraprendente veronese, Tullio Pastori, ottenne dal governo del luogo la licenza per poter estrarre minerali dalla piana del Dallol.
Il luogo era ricchissimo di sali di potassio, merce preziosissima a quei tempi. I sali venivano usati principalmente come fertilizzante e l’Italia dipendeva interamente per la loro importazione dalla Germania. Eravamo alla vigilia della prima guerra mondiale e i rapporti con la Germania andavano via via raffreddandosi per sfociare due anni dopo in guerra. Dunque lo sfruttamento del Dallol era per l’Italia di vitale importanza. Gli scavi ed il prelievo di materiale fu inizialmente molto intenso ma rallentò con il passare del tempo anche grazie alle difficoltà economiche delle società che si susseguirono nello sfruttamento, fino a cessare del tutto con la cacciata degli Italiani dal Paese nel 1941. Fortuna volle che il campo e gli scavi fossero effettuati ad una certa distanza dall’anfiteatro colorato del Dallol. Questo, in aggiunta del fatto che non furono mai individuati giacimenti di idrocarburi come si sperava, contribuì a salvare dallo scempio questa meravigliosa area naturale. Le costruzioni del campo si vedono tuttora, fortunatamente ad una distanza sufficiente per evitare lo scempio ambientale.
La scelta di visitare subito il Dallol si rivela felice, perché solo mentre scendiamo verso le auto, incrociamo il primo gruppo che arriva. Il caldo è già quasi insopportabile: siamo esattamente nel punto che registra la più alta media annuale di temperature sulla terra: 34,1 gradi!
Percorrendo la via inversa tocca ora a noi andare alla piana del sale, a vedere le operazioni di carico del sale, che dureranno per tutta la giornata, vista la quantità di animali pronti a portare via la merce.
Il luogo di raccolta stupisce davvero per l’apparente confusione che regna. In realtà l’organizzazione è quasi perfetta con operai scavatori, scalpellini e carovane di cammelli divisi in gruppi, in modo tale che non vengano disperse energie e il lavoro proceda speditamente.
Gli Afar incantano per la loro abilità nel modellare tavolette tutte uguali, aiutati solo dal loro occhio clinico e colpi di scalpello. Sono di due tipi le tavolette che gli Afar preparano: il ghelaò di circa 8 chili e il ganfur, di 4 chili. Notiamo però che la maggior parte delle tavole sono i piccoli ganfur. Su ogni cammello ne vengono caricati 24 (dunque quasi 100 chilogrammi), mentre gli asini ne caricano 16 (circa 60 chili). Non si sgarra sulle quantità e scopriamo ben presto che il tutto è regolato da leggi ferree e precise. Nessuno può speculare e anche il prezzo del sale nei mercati dove verrà venduta la merce è fisso. Le tavolette sono legate abilmente tra loro, in modo tale che l’attrito non le rovini.
Quando tutti gli animali sono carichi, la carovana se ne va e lascia posto ad un'altra, ordinatamente, secondo uno schema organizzativo che noi non riusciamo a decifrare, ma che ci rendiamo conto essere collaudatissimo. Lasciamo la zona del lavoro quando la maggior parte delle carovane hanno già preso la via del ritorno.
Oggi dovremo percorrere solo una trentina di chilometri per trasferirci, fino ad Asso Bole, l’ultimo villaggio Afar che si trova proprio all’ingresso della gola del fiume Saba, laddove la piana del sale lascia il posto alle propaggini delle montagne che formano gli altipiani del Tigray. Quei trenta chilometri ci fanno infatti risalire al di sopra del livello del mare, siamo ora a circa + 70. Abbiamo lasciato la depressione dancala, perlomeno la parte più tipica e caratteristica ed il trekking di domani, lungo la gola del Saba, ci porterà alle porte del Tigray, ma senza uscire dalla Dancalia.
Piantiamo le tende ai margini del villaggio e approfittiamo della vicinanza del fiume per lavarci un po’. In questi ultimi 6 giorni ci siamo lavati come potevamo, utilizzando un catino e pochi litri d’acqua. Ma l’acqua di questo fiume, pur apparendo limpida, non è molto invitante perché sappiamo che a monte ci sono intere carovane di cammelli…
Tuttavia cerchiamo di non pensarci e ci laviamo un pochino. Mentre aspettiamo di cenare, arrivano le ultime carovane provenienti dalla piana del sale che si accampano in uno spiazzo vicino al villaggio, a poche centinaia di metri dalle nostre tende. Qualcuno del nostro gruppo si allontana per osservare e scattare qualche foto, ma ben presto torna assieme ad un giovane: il ragazzo ha una brutta ferita al polso, se l’è procurata nel pomeriggio con un colpo d’ascia, alla piana. Tra di noi c’è anche un dentista (non è un chirurgo, ma con le ferite ci sa fare!) e accorriamo tutti per dare una mano con bende, pomate, medicinali vari: sicuramente le nostre farmacie, messe insieme, sono più rifornite del piccolo ospedale Afar visitato insieme alla scuola. Purtroppo il nostro amico dentista non ha portato ago e filo per fare i punti (ci dice che di solito lo fa), ma comunque la pomata antibiotica e la fasciatura sono per il ragazzo sicuramente molto di più di quanto si potesse aspettare se noi non fossimo stati lì. Con l’aiuto di un nostro autista che parla il tigrino, gli viene spiegato di mettersi la pomata due volte al giorno. Lo farà? Ne dubitiamo, ma comunque il dentista gliela lascia, visto che in caso di necessità altri 4 di noi ce l’hanno. Lasceremo quasi tutti i medicinali alla fine del viaggio. Un’ora dopo, arriva al nostro campo un altro ferito, la voce è corsa! Si presenta agli autisti, perché non ha il coraggio di rivolgersi direttamente a noi. Non sa, il poveretto, che ci ha ora assalito la sindrome dell’infermiere e ci precipitiamo tutti al suo capezzale con borse di medicinali in mano e tanta buona volontà. Facciamo più confusione che altro, ma il ferito viene curato, “impomatato” e bendato come fosse in un ospedale di primo livello! Probabilmente alla fine ci sentiamo più bene noi di lui!
16 gennaio 2011
Ci aspetta una delle giornate più intense e soddisfacenti della vacanza. Stiamo per percorrere i 15 chilometri della gola che da secoli è stata l’accesso delle carovane verso la Dancalia e la piana del sale, e lo è tuttora. Ogni giorno questa gola viene percorsa da 2.000 animali, nei due sensi di marcia. La presenza dell’acqua e la superficie facilmente percorribile contribuisce a rendere i conducenti delle carovane decisamente molto rilassati. Chi sta arrivando sa di avere concluso il viaggio di andata, chi riparte ne approfitta per prolungare un po’ il riposo tra le pareti di roccia ombreggiate, dopo la giornata infernale del carico e prima del faticoso viaggio verso i mercati dell’altopiano. Percepiamo fin dall’inizio l’atmosfera rilassata del luogo. I cammellieri ci dispensano ampi sorrisi, qualcuno ci mostra come cuoce il pane sul fuoco, altri ridono mentre si fanno il bagno e riempiono gli otri di pelle di pecora d’acqua. Ci stanno certamente prendendo in giro, tanto sanno che non capiamo quello che si dicono. Ma a noi importa poco, ci piace pensare che per una volta tanto sono loro a guardare noi con curiosità e non il contrario. Quello è il loro regno, i turisti della piana del sale sono scomparsi, e qui loro si godono il fatto che noi europei siamo davvero una rarità…
La gola del fiume Saba è da sempre la principale via di comunicazione tra la depressione Dancala e gli altipiani del Tigray. Percorsa da sempre dalle carovane del sale che portano la preziosa merce ai mercati di Beraile e Macallè, ha segnato però anche storie drammatiche di tratte di schiavi verso la penisola arabica.
Come accennato all’inizio del racconto, gli Afar hanno per secoli gestito questi traffici per conto degli arabi. I loro tratti somatici fanno presumere molti studiosi che siano essi stessi di origine araba, d’altra parte i contatti tra il corno d’Africa e la penisola arabica, separata in un punto da soli 20 chilometri di mare, sono stati sempre molto frequenti ed intensi. I rapporti tra le popolazioni etiopi in generale non è mai stato amichevole e una analisi degli appellativi con cui l’etnia Amara definisce le altre etnie etiopi è senza dubbio illuminante. I popoli del Tigray sono chiamati Tigre, che significa sotto i piedi, gli Oromo venivano chiamati Galla, schiavi, i Nara Baria, che significa ancora schiavo, gli Uolaita erano chiamati uoilam, ovvero mucche. In questo contesto di odio reciproco, gli Afar non avevano molto da temere per la sicurezza dei loro sultanati e per secoli hanno potuto fare razzia di schiavi quasi indisturbati, protetti dalla debolezza e dal sospetto reciproco delle tribù vicine.
La diffidenza reciproca tra tigrini cristiani e Afar musulmani esiste ancora, anche se fortunatamente non sembra essere alimentata da questioni religiose. La religione degli Afar sembra essere dettata più da ragioni di convenienza che di convinzione, come già detto. Molti di loro non pregano, non sanno leggere il corano e la vita quotidiana è tuttora caratterizzata più da usanze tribali che da precetti religiosi.
D’altra parte durante il nostro viaggio abbiamo avuto modo di rendercene personalmente conto, come dimostrato anche da episodi già raccontati. Fino a qualche anno fa,le giovani donne Afar giravano ancora a seno nudo e questo non si sposa decisamente con la religione musulmana!
Nonostante la diffidenza i tigrini sono probabilmente la popolazione che ha i maggiori contatti con gli Afar, anche per la questione del sale. Dunque per tutto il giorno incontreremo gente Afar mescolata a Tigrini, quasi a rendere morbido e permeabili il passaggio da una regione all’altra.
Fin dal primo mattino il cielo è un po’ coperto e non lascia filtrare il sole. Meglio così,soffriremo di meno il caldo, anche se la luce ne risente un po’. Dal villaggio dove abbiamo passato la notte comincia la lentissima ascesa che ci porterà fuori dalla depressione dancala, verso gli altopiani. Seguiremo il fiume Saba per tutto il percorso, guadandolo più volte.
La gola, di larghezza variabile, ci mostra subito lo spettacolo che ci accompagnerà per tutti i nostri 15 chilometri di cammino. Le carovane di cammelli e asini si susseguono senza soluzione di continuità. Nella prima parte incontriamo soprattutto quelle che hanno già effettuato il carico il giorno prima: i conducenti non sembrano davvero aver fretta, e, benché ci sia luce da almeno un paio d’ore, molti stanno ancora oziando accanto al fuoco o preparando la misera ed essenziale colazione.
Le carovane sono di dimensioni variabili: le più piccole hanno una ventina di animali, le più grandi oltre 50. I conducenti sono in genere da due a quattro, e ogni spiazzo della gola viene utilizzato per farne campi per il pernottamento. Ci avviciniamo ad uno dei primi campi perché vediamo gli uomini affaccendati intorno al fuoco: stanno preparando il pane tipico, chiamato burgutta. La farina viene impastata con acqua e un po’ di sale, dopodiché l’impasto viene diviso in più parti e avvolto intorno ad una pietra di forma circolare che nel frattempo è stata arroventata sulle braci. Con gesti esperti, uno di loro prende la pietra con dei bastoncini e la deposita al di sopra dell’impasto tenuto in mano dal compagno, il quale la avvolge rapidamente intorno alla pietra e deposita la palla così formata sulle ceneri, vicino alle braci. Il calore delle braci cucina l’esterno, mentre il sasso rovente cucina la parte interna. Nel giro di pochi minuti il pane è pronto: viene staccato delicatamente dalla pietra e consumato ancora caldo:ce lo fanno assaggiare, somiglia al pane arabo. Non particolarmente appetitoso da solo, siamo certi che è però il degno accompagnamento ai piatti di carne stufata ricchi di sugo che costituiscono la loro dieta nei giorni di riposo, lontano dalle piste polverose che li portano verso la Dancalia.
Qualcuno sta invece approfittando del fiume per lavarsi, mentre altri riempiono gli otri ricavati dalle pelli delle pecore: la loro riserva d’acqua per le giornate a venire.
Abbandoniamo le prime carovane per incontrarne altre, man mano che risaliamo la valle. Incontriamo anche il ragazzo curato la sera precedente che ci regala ampi sorrisi e si ferma per farci fotografare dettagli del carico dei suoi animali. Ne approfittiamo anche per osservare più da vicino gli animali, soprattutto nei momenti di riposo del campo notturno. Privati del loro carico di sale, vengono di solito disposti in piccoli cerchi di 5-6 animali, vicino alla loro razione di fieno. Qualche carovana ha anche qualche giovane cammello, caricato solo di vettovaglie e materiale leggero. Questi giovani vengono messi di solito alla fine della carovana, perché imparino a seguire gli altri docilmente. Purtroppo non si va molto per il sottile con questi animali. Benché non si possa certo dire che vengano maltrattati gratuitamente (visto che sono tra l’altro preziosissimi per il sostentamento dei cammellieri), non posso fare a meno di notare che le schiene degli asini sono segnati da profonde cicatrici e qualche ferita proprio in corrispondenza della soma. I cammelli sembrano essere in condizioni migliori, anche se nel loro caso ciò che colpisce di più è il modo in cui sono legati tra loro: la corda che viene fissata al fondoschiena del cammello precedente passa tra i denti inferiori, in modo tale che basta uno strattone per provocare loro un forte dolore. Proprio per questo, ogni animale bada bene a mantenere la giusta distanza dall’animale che lo precede, per evitare strattoni della corda.
Come se non bastasse, nei momenti di sosta prolungata, ai giovani cammelli, non ancora “educati” a non allontanarsi, viene piegata e legata una delle zampe anteriori in modo tale che l’animale resti immobile sul luogo. Un triste spettacolo, purtroppo, abitudini che si perpetuano da secoli e contro le quali ben poco si può fare.
Nella tarda mattinata gli incontri si moltiplicano: alle carovane cariche di sale, dirette verso gli altopiani, si aggiungono quelle scariche, che viaggiano in direzione opposta.
Pranziamo all’ombra di un piccolo anfratto, in compagnia di un adulto e due bambini del luogo, spuntati da chissà dove e venuti ad osservarci incuriositi…
Man mano che andiamo avanti, le carovane cariche ci sorpassano, e verso la fine della giornata gli incontri diventano sempre più rari. Anche i nuovi arrivati sono ormai già tutti passati e sono probabilmente già arrivati nei pressi di Ahmed Ela, l’ultimo villaggio prima della piana del sale.
Arriviamo alla fine della gola verso le quattro, dove troviamo il campo già piantato dai nostri autisti che ci hanno preceduto, aggirando la valle in auto.
Ci laviamo di nuovo con mezzi di fortuna, e, dopo un’ottima cena, andiamo a dormire sotto una leggera pioggerellina. La nostra ultima notte in Dancalia!
Lunedì 17 gennaio
Il Tigray è decisamente diverso dalla Dancalia, pur essendo una regione confinante. La depressione lascia il posto a ripide e tortuose strade che conducono verso ovest. Il paesaggio cambia rapidamente, il clima cambia rapidamente. Dopo una rapida colazione saliamo sulle jeep e cominciamo a percorrere la strada sterrata punteggiata da carovane che cominciano l’ascesa verso il primo importante mercato del sale, quello di Beraile. Durante la notte ha piovuto e la strada di natura argillosa ne ha pesantemente risentito. Siamo costretti a procedere lentamente, perché le carovane di cammelli sono lente a spostarsi verso il ciglio della strada. La pigra andatura si rivela in un paio di occasioni una trappola per i nostri automezzi. L’argilla bagnata si attacca alle ruote come colla e le ruote scivolano sulla superficie facendo pericolosamente scivolare l’auto di traverso. In un paio di occasioni sono i cammellieri a toglierci di impaccio spingendo le auto ed esponendosi pericolosamente alle sbandate dei mezzi. Incrociamo anche dei camion inesorabilmente piantati sulla strada, senza essere capaci di muoversi ne in su, né in giù. Gli autisti, rassegnati, sono seduti sul ciglio della strada, in attesa che il sole che comincia solo ora a far capolino dalle nubi, asciughi la superficie argillosa della strada, viscida come sapone.
In cima alla prima salita, troviamo un piccolo villaggio con una rudimentale sbarra: è il confine ufficiale tra la Dancalia e il Tigray: un confine solo sulla carta, presidiate da uno svogliato militare che non fa nulla, non controlla nulla.
Dopo un’ ulteriore ascesa, arriviamo al villaggio di Beraile: siamo a 2200 metri di altezza, la depressione dancala, sotto il livello del mare, sembra lontanissima!
Nei pressi, la chiesa di Wucro Cercos, scavata sulla pietra, ci ricorda che siamo arrivati in zona storicamente cristiana: Wucro fu la prima chiesa del Tigray “scoperta” dagli europei. Una spedizione inglese la scovò fortuitamente nel 1868: aggrappata letteralmente alla roccia, sembra dare il silenzioso benvenuto ai visitatori che arrivano dalla Dancalia.
Seguiti da una manciata di bimbi curiosi, ci fermiamo subito al capannone dove viene scaricato il sale che viene venduto a Beraile. Ci aspettavamo un mercato tradizionale, non un capannone chiuso, pure un po’ bruttino! Siamo un po’ delusi, anche se nel corso del nostro viaggio, di mercati ne abbiamo visti davvero tanti. I cammelli vengono fatti inginocchiare e lentamente scaricati dagli addetti.
Non ci sono trattative, perché il prezzo del sale è fisso per tutti, ed i cammellieri riceveranno il loro compenso in base al numero delle tavole consegnate.
Visitiamo brevemente anche il villaggio, dove ci fermiamo a mangiare in un ristorante locale. Chiamarlo ristorante è un eufemismo, si tratta di una capanna con il tetto di lamiera, dove veniamo fatti accomodare ad un tavolo sistemato in mezzo alla stanza in terra battuta. Attorno al tavolo sedie di plastica, tutte diverse tra di loro.
Mangiamo carne accompagnata dalla njera, il pane acido caratteristico Etiope. Il cibo è buono, ed il fatto che la carne sia cucinata sul fuoco vivo ci rincuora, viste le condizioni igieniche pressoché inesistenti!
Lasciamo quindi le strade fangose di Beraile per addentrarci sempre di più verso la regione del Tigray. Arriviamo nel tardo pomeriggio a Gheralta: finalmente, dopo 7 giorni di tenda e scarse possibilità di lavarci, un vero albergo!
L’hotel, poco lontano dal villaggio di Gheralta, è gestito da Italiani ed è davvero di buona qualità. Le camere sono distribuite in bungalow in pietra, sparsi in un giardino vasto e ben curato. Un vero toccasana, dopo una settimana di sole, polvere, marce forzate. Ci fermeremo qui tre notti.
Scopro ben presto che il giardino è frequentato da animali, in particolar modo piccoli uccellini: una rapida ispezione mi porta subito a scoprire un nido di upupa, proprio sul muro di uno dei bungalow. Mi apposto a poca distanza per godermi il viavai di mamma upupa che porta il cibo al suo piccolo pulcino. Benché un po’ allarmata dalla mia presenza, la mamma si limita ad osservarmi un po’ guardinga, con la sua crestina alzata, ma non rinuncia al suo affaccendato andirivieni per nutrire il piccolo.
Martedì 18 gennaio
La giornata è dedicata interamente alla visita di alcune delle numerose chiese rupestri della zona. Una delle cose più interessanti sta nel fatto che gli studiosi non sono concordi sulla loro origine. Alcuni sostengono che molte di esse sono addirittura antecedenti al cristianesimo ed erano ovviamente adibite ad altri usi, per essere poi riconvertite in chiese. Per altri, invece, sono state realizzate a cavallo di 4 secoli, tra il sesto ed il decimo. E’ possibile che la verità stia nel mezzo, ovvero che alcune di esse siano state ricavate da cavità ipogee pre-esistenti. Le chiese sono almeno un centinaio a non ci sarà ovviamente possibile visitarle tutte, anche perché molte di esse si trovano in luoghi quasi inaccessibili o comunque molto difficili da raggiungere.
Non è certamente facile da raggiungere una delle più importanti, Debre Tsion Abraham, abbarbicata in cima ad una delle montagne che dominano la strada principale.
Lasciamo le auto ai piedi del monte e cominciamo la salita da dietro: la chiesa lassù in cima ci sembra davvero irraggiungibile, tanto più che la giornata si preannuncia piuttosto calda…
Ci raggiungono subito una schiera di ragazzini, che si offrono di accompagnarci e portarci gli zaini. La guida locale li invita a non essere invadenti: alcuni vengono adottati da qualcuno del gruppo che li incarica di portare gli zaini, peraltro già ridotti ai minimi termini. E’ un modo come un altro per far capire i ragazzi che devono fare qualche lavoretto per guadagnarsi una piccola mancia finale e non far passare l’idea che possano prendere regali e soldi senza fare nulla. I ragazzini “disoccupati” ci seguono comunque, per loro l’ascesa resta un divertimento, più che una fatica! Che rabbia vedere che l’ardua salita è per noi una fatica che ci rende ansimanti e sudati, mentre i ragazzi fanno il doppio della strada, saltando come piccole antilopi tra le rupi, precedendoci, tornando indietro, girandoci intorno.
Finalmente dopo più di un’ora di fatica, arriviamo in cima. La chiesa è piuttosto grande, con un portone esterno che ne delimita il cortile sacro. Ci togliamo le scarpe prima di entrare, come prevede la regola. L’interno è scuro, con le pareti rallegrate però da una serie di affreschi. Gli affreschi sono del XVI secolo e alcuni sono purtroppo piuttosto sbiaditi. Un paio di sacerdoti ci accompagnano nella visita e ci mostrano alcuni arredi sacri. Ci soffermiamo però molto di più all’esterno, da dove si gode di uno splendido panorama sulla valle punteggiata di piccole capanne di fango e paglia. La nostra guida ci mostra un laghetto, sulle cui rive ci dice che nel pomeriggio ci sarà la cerimonia che precede il giorno del Timkat, l’epifania Copta.
Ed è proprio sulle rive del laghetto che ci fermiamo, dopo la discesa,a riposare e fare il nostro picnic di mezzogiorno. Prima di assistere alla cerimonia nella vicina chiesa andiamo a visitarne un’altra poco lontana: è la chiesa di Medhane Alem Keshno, una delle più belle della zona. Notevole gli interni, con il soffitto a cassettoni che non è certamente comune da queste parti. L’apprezziamo ancora di più della precedente, soprattutto perché ci impieghiamo 10 minuti a piedi per arrivarci, anziché un’ora di arrampicata!
Nel cortile antistante la chiesa, un fedele suona uno stranissimo corno e cominciamo a scorgere qualcuno vestito “a festa”. Dunque, torniamo verso il nostro laghetto, appostandoci alla vicina chiesa di Degum Selassie (siamo nel villaggio di Degum): le ridotte dimensioni della chiesa fanno supporre che originariamente il sito fosse solo una tomba. La visita alla chiesa è brevissima, e inganniamo l’attesa chiacchierando con i bambini del villaggio, molti dei quali parlano pure un inglese discreto, segno che, nonostante la povertà del villaggio e le loro umili origini, frequentano comunque la scuola. Finalmente, poco prima del tramonto, un rullio di tamburi e il suono delle campanelle ci annuncia che la processione sta per cominciare. Comincia dunque il Timkat!
Il Timkat o “epifania copta” è la festa che più di ogni altra tradisce la fusione tra le due grandi religioni che hanno modellato la tradizione religiosa etiope: l’ ebraica e la cristiana. Secondo la tradizione del luogo, Menelik I°, figlio della regina di Saba e re Salomone, durante uno dei viaggi che fece a Gerusalemme, trafugò dalla casa di Salomone le “Tavole della Legge” che Dio aveva donato a Mosè. Le tavole, portate in territorio etiope, vengono sin da allora conservate ad Axum, la antica capitale del regno. Da quando la religione copta si è diffusa in Etiopia, per tradizione ogni chiesa tiene nella parte sacra e inaccessibile una copia delle Tavole sacre. Le processioni del Timkat che si tengono in ogni città e paese dell’Etiopia cristiana, si prefiggono di accompagnare presso un punto dove si trovi dell’acqua, simbolo della fonte battesimale, queste tavole. La processione è accompagnata da canti, balli, preghiere. Le tavole vengono poi vegliate dai sacerdoti per tutta la notte, in attesa del “battesimo” del giorno seguente. Con loro, anche fedeli avvolti nello “shamma”, un drappo di cotone tradizionale.
Dopo la cerimonia del battesimo, le Tavole riprendono la via di ritorno verso la chiesa dove rimarranno, protette nella Sancta Sanctorum fino al Timkat dell’anno successivo.
Ma torniamo alla festa a cui stiamo assistendo. L’umanità che esce dalla piccola chiesa è quanto mai variegata. Alla testa ci sono alcuni giovani senza nessun costume particolare: portano piccoli strumenti, chiamati sistri e delle minuscole campanelle: li seguono dei sacerdoti vestiti con tuniche dai colori sgargianti e drappi damascati. Alcuni fedeli li riparano dal sole ormai basso all’orizzonte con degli ombrelli altrettanto colorati. Tocca poi ad alcuni anziani con le rituali toghe bianche tipiche del Timkat, orlate ai bordi da strisce colorate. In mezzo un paio di soldati armati di kalashnikov, che c’entrano davvero poco con una cerimonia religiosa. Ma in Africa, si sa, il sacro si mescola al profano come in poche altre parti al mondo…
Chiudono la singolare processione le figure più importanti, i sacerdoti più anziani che vestono le tuniche più ricche e colorate. Uno di loro regge le sacre tavole che vengono portate nei pressi del laghetto, che l’indomani mattina rappresenterà il fonte battesimale. Resteranno custodite in un piccolo riparo per tutta la notte. Un paio di solerti quanto imbranati addetti al servizio d’ordine si assicurano che la processione non venga ostacolata spingendo malamente le persone che secondo loro sono troppo vicine alla traiettoria del corteo.
La gente si raccoglie man mano intorno agli uomini in processione e, benché non ci siano più di una cinquantina di persone, veniamo coinvolti dai loro canti e dai loro balli, ritmati dai rulli dei tamburi.
Il lago è a non più di duecento metri dalla chiesa ed il corteo ci impiega non più di 10 minuti ad arrivare. Un’altra decina di minuti di canti intorno ai sacerdoti, e poi la folla si cheta e tutti pian piano si allontanano. Torneranno l’indomani per la cerimonia più importante, quella del battesimo.
Noi discutiamo il da farsi: la nostra guida non è ben certa circa l’orario della cerimonia del giorno dopo. Ci dice che probabilmente la messa comincerà alle 7.00 ma non ci sembra molto sicuro. L’unica cosa certa è che la cerimonia sarà molto lunga e durerà almeno due-tre ore.
Alcuni di noi decidono che verranno alle 6.30 per essere sicuri di non perdere neppure un minuto del rito, altri, tra cui il sottoscritto, non sono molto convinti della cosa e optano per venire un’ora più tardi.
Rientriamo in albergo per goderci il tramonto e un’ottima cena in compagnia. Dopo cena veniamo invitati dal personale dell’ albergo che ha organizzato una piccola semplice festa con balli tipici. Uomini e donne danzano insieme al suono di un gracchiante mangianastri, il cui volume assordante violenta letteralmente la musica. Ma l’allegria non manca, a dimostrazione del fatto che la felicità e l’allegria da queste parti si conquista davvero con poco.
Mercoledì 19 gennaio
Il mattino seguente, dopo colazione, quel che resta del nostro gruppo parte alle 7.00 dall’albergo. Gli altri ci hanno preceduto di un’ora. Alle 7.30 arriviamo nei pressi del lago, per scoprire che abbiamo fatto benissimo a dormire un’ora in più. Le rive del laghetto sono desolatamente vuote, e i nostri amici non sono certo contenti. La guida ci dice che i sacerdoti e la gente potrebbero arrivare da un momento all’altro, ma noi non ci fidiamo molto, le notizie che ci dà sono troppo approssimative. Siamo qui nel Tigray nel giorno più importante dell’anno dal punto di vista religioso e non vogliamo certamente sprecarlo attendendo in uno sperduto villaggio una festa che non sappiamo bene quando comincerà. Un rapido “consiglio di guerra” e, grazie anche ai suggerimenti dei nostri autisti, decidiamo di affrontare un’ora di viaggio per recarci a Wukro, una vicina cittadina di una certa importanza: la scelta si rivela indovinata. Arriviamo verso le 9 e notiamo subito una spianata piena di gente, con la cerimonia in corso. Ci tuffiamo subito tra la folla festante e passiamo tutta la mattinata a fotografare, chiacchierare, cercare di comunicare con la gente che fortunatamente si dimostra sempre ben disposta e incuriosita almeno quanto lo siamo noi con loro.
Il bianco è il colore dominante, e le donne sono certamente le più elegantemente vestite. Gli spunti fotografici sono davvero tanti e ci piace l’idea che, essendo Wukro una città decentrata dall’area turistica, qui i visitatori sono ben pochi, forse una decina in tutto, oltre a noi.
La cerimonia termina poco prima di mezzogiorno, con il battesimo simbolico della folla. Visto il numero delle persone, si usa un pratico inaffiatoio da giardino! Decisamente poco ortodosso, ma sicuramente più efficace: la folla si gode il bagno di acqua con urla festanti e non c’è nessuno che eviti il “battesimo”.
Dopo il rito culminante della cerimonia, comincia la festa! I sacerdoti si allontanano, formando un corteo seguito dalla folla che festeggia suonando tamburi e altri strumenti, improvvisando balli e cori per la strada. Ci sono gruppi di donne soltanto, altri più etrogenei, ma il minimo comun denominatore è il divertimento, decisamente poco “religioso”, almeno per i nostri canoni!
Una cerimonia comunque davvero soddisfacente, siamo contenti di esser stati presenti.
Torniamo quindi verso Gheralta, passando davanti al laghetto dove scorgiamo un piccolissimo gruppo di persone: dopo l’intensa mattinata di Timkat a Wukro, non ci attirano molto e preferiamo tornare in albergo per un rapido pranzo.
Una nuova osservazione a mamma Upupa, e poi parenza per la visita ad un’altra chiesa, quella di San Giorgio, risalente alla fine dell’800.
Giovedi 20 gennaio.
La nostra giornata conclusiva in questa regione, prevede la visita ad un altro spettacolare santuario, quello di San Pietro e Paolo. Sospeso su uno sperone di roccia, è ricchissimo di affreschi, anche se purtroppo non in buone condizioni. La salita è davvero la cosa più spettacolare, con una traballante scala in legno che ci dicono essere stata finanziata dall’Unesco. Non deve essere stata una gran spesa! Ci accompangano un paio di sacerdoti che abbiamo trovato alla base, sempre equipaggiati con la tipica croce copta e i paramenti del Timkat.
La chiesa di San Pietro e Paolo presenta proprio le tipiche caratteristiche delle chiese tigrine.La differenza sostanziale tra queste chiese e quelle più famose di Lalibela sta nel fatto che nel Tigray sono quasi tutte semi monolitiche, ovvero solo parzialmente scolpite e separate dalla roccia ospitante (quando non ospitate da caverne pre-esistenti). Le chiese di Lalibela sono invece in genere monolitiche, ovvero sono attaccate alla roccia alla base e scolpite per il resto della struttura direttamente dalla roccia. Questo suggerisce una probabile età più avanzata di quelle del Tigray, più “grezze” nella loro realizzazione ma spesso altrettanto ricche di decorazioni interne.
Stranamente le chiese del Tigray sono molto meno famose di quelle di Lalibela, ma forse è proprio questo che ne aumenta il fascino. O forse il loro fascino è aumentato dalla loro inacessibilità, che a volte raggiunge vertici spaventosi, con passaggi su pericolosi abissi.
Non è certo un abisso quello sotto alla chiesa di San Pietro e Paolo, ma certamente è un brutto salto.
La scala non dà sicurezza, ma, visto che è stata finanziata dall’Unesco, come dubitare della sua solidità?!?
L’edificio è piccolissimo e dobbiamo entrare tre o quattro alla volta. L’interno è abbastanza semplice, ma quel che più colpisce è il cortiletto ricavato sul retro, sempre in bilico sulla roccia, dove si notano teschi ed ossa umane: ci dicono che provengono dal vicino cimitero, posto in un non meglio precisato luogo definito “lì a fianco”. Non indago, sebbene a fianco non ci sia niente altro che roccia!
Torniamo sui nostri passi. Questa è la nostra ultima chiesa del Tigray e ci avviamo verso Makallè, che, oltre ad essere uno dei due capolinea (il più distante) del mercato del sale, sarà anche il capolinea della nostra vacanza, prima del rientro ad Addis Abeba. Pur essendo nel pieno del territorio Tigray, Makallè costituisce il termine ideale della vacanza in Dancalia, proprio perché segna la fine del lungo percorso del sale.
Ci arriviamo nel primo pomeriggio e, dopo aver lasciato i bagagli in albergo, visitiamo il nostro ultimo mercato. Davvero interessante la parte riservata ai conciatori di pelle, per i quali è famoso il mercato. Mi colpisce però anche la parte dove alcuni uomini, circondati da vecchi pneumatici, tagliano la gomma con gesti esperti per farne sottili strisce o intagliano addirittura delle ciabatte: un unico pezzo ricavato direttamente da un vecchio pneumatico!
Torniamo presto in albergo perché siamo davvero stanchi, i ritmi pesanti sostenuti cominciano davvero a farsi sentire. Domani mattina presto l’aereo ci porterà ad Addis Abeba.
Stasera si festeggia il compleanno di uno del gruppo e abbiamo invitato per la cena finale anche i nostri autisti, che ci lasceranno domani all’aereoporto.
Venerdì 21 gennaio
Partiamo presto da Makallè e arriviamo ad Addis Abeba a metà mattinata. Stamattina abbiamo previsto di visitare una scuola (la terza dopo le due in Dancalia) perché c’è ancora una valigia di materiale, lasciata qui ad Addis Abeba, da consegnare. La scuola è gestita da due volontarie Italiane: è molto piccola, ci sono più di un centinaio di bambini, i quali vengono tutti da situazioni difficili: ragazze madri, donne abbandonate o picchiate dai mariti e così via. I bimbi sono deliziosi, le maestre ci mostrano quello che sanno fare: intonano una canzoncina in italiano, ci mostrano come parlano bene l’Inglese, si divertono sicuramente quanto noi. Siamo verso la fine delle lezioni e prima di andarsene i bambini escono tutti insieme in giardino (sono divisi in tre classi) per la foto di gruppo. L’atmosfera è ovviamente festante e anche dopo le foto di rito i bimbi sembrano restii ad andarsene. Mi metto in mezzo a loro per farmi una foto e tutti accorrono per darmi la mano: sono circondato, tutti mi tendono la mano, ora capisco come si sente il papa quando stringe tutte quelle mani! Vengo praticamente sommerso dai bimbi che mi vogliono anche solo toccare! Finalmente decidiamo di andarcene noi, perché se fosse per loro resterebbero ancora lì. Una maestra osserva che almeno stavolta non scalpitano per andarsene a giocare, il gioco siamo noi! Fuori dal cancello c’è qualche mamma che aspetta, dunque non vogliamo far tardare ulteriormente i loro figli. Consegniamo la valigia di materiale didattico al responsabile e partiamo per l’ultima visita alla città.
Serata in un locale tipico, dove mangiamo etiopico, naturalmente con la immancabile njera!
Sabato 22 gennaio
Si torna a casa. Certamente questo è stato uno dei viaggi più difficili che abbiamo dovuto affrontare, ma certamente anche uno dei più belli. L’incontro con le genti etiopi è stato davvero gratificante, e con mia moglie ci siamo ripromessi di tornare per visitare una nuova regione del Paese, magari il sud.
Lasciamo Addis Abeba con un velo di malinconia e la struggente voglia di tornare presto a visitare questa bellissima e selvaggia terra d’Africa.
You're amazing Annika. I live in Italy and I still sltrggue even though hardly anyone speaks English where I am I guess us English people are brought up with the idea that everyone else can and should learn English and then we won't have to worry ourselves it comes as a bit of a shock when you realise that there are many, many places where it's hard to get along just with English. Buona Fortuna!