Oltre il Sahara - Parte seconda

Continua una grande esperienza africana

Il diario di viaggio si ricollega a "Oltre il Sahara - Parte prima", già pubblicato su questo stesso sito.6 Novembre
Sono le 6, il rumore di un camion mi sveglia. Pietro sta ancora dormendo come un ghiro, cerco di riprendere sonno, ma non ci riesco. Il tempo passa velocemente e anche Pietro si sveglia. Prima di partire controllo la vettura, le buche di ieri potrebbero aver danneggiato l’avantreno. Per fortuna la vettura è in piena forma e alle 8.30 ci mettiamo in marcia.
I primi chilometri scorrono veloci su un manto di asfalto, il vento soffia forte e spesso la sabbia ricopre l’asfalto. La macchina è stracarica e supera con difficoltà anche i più piccoli laghi di sabbia. Sono preoccupato, con questo peso non arriveremo mai dall’altra parte del deserto. Ancora qualche chilometro e la sabbia inizia a “mostrare i denti”; passo ad una marcia inferiore, l’auto sbanda e improvvisamente si insabbia.
Scendiamo dalla vettura, il vento soffia fortissimo e sono costretto a coprimi il viso con la tela che ricopre i bagagli. Per più di mezz’ora tolgo la sabbia da sotto l’auto, cerchiamo di ripartire, ma non c’è nulla da fare, bisogna ricorrere alle piastre. Con pinza e cacciavite nelle mani tolgo gli arnesi dal portapacchi, alziamo la vettura e infiliamo le piastre sotto le ruote anteriori, una spinta e Cartizia con un balzo riesce a liberarsi dalla trappola. Colgo l’occasione di questa sosta per liberarmi di un po’ di occhiali . Non voglio più avere problemi con le dogane.
Qualche minuto di riposo e poi ripartiamo, verso “Tam”. La pista è un vero disastro : buche, sabbia e incomincia anche ad apparire la terribile “Tole ondulée”. Cartizia sembra andare molto bene e tra una scatola di tonno e una di carne, giungiamo alle gole di Arak.
Sono le 16.30, fra poco il sole tramonterà, non conviene rischiare al buio.
Ci fermiamo poco prima del campeggio, in un casolare dove un tuareg ci offre un buon thè alla menta, ci voleva proprio dopo tanta strada di arsura. Alle gole di Arak c’è un campeggio inteso come un’area intorno ad una costruzione in cemento dove alcuni tuareg cucinano cuscus e vendono thè alla menta. Le capanne di frasche di palma diventano rifugi per la notte; non esistono servizi né docce ma solo una vasca al centro del quadrato dove vanno a bere i pochi cammelli che passano di qui.
Un generatore dà corrente ad un impianto di illuminazione che smette di funzionare presto. Nel campeggio sono radunati ragazzi locali su selvagge moto da enduro, dai serbatoi enormi, ci sono resti anche di molte vetture abbandonate da chissà chi, forse da viaggiatori come me.
Nel campeggio oltre agli amici riminesi, c’è anche un gruppo di francesi con sei Peugeot 504, quest’auto pare vada molto bene sulle piste sahariane; ma i francesi ne perderanno ben quattro prima della mitica città di Agadez. Sono le 19.30, mentre mi accingo a cucinare una manciata di spaghetti, viene spento il generatore, è buio pesto, mi faccio luce all’interno dell’auto per cercare una torcia. Gli spaghetti sono pronti, apparecchio il cofano della vettura e, facendomi luce con la torcia, mangio la mia meravigliosa cena all’italiana.
Dopo cena aiuto Massimo, uno dei ragazzi di Rimini, in una riparazione alla sua moto, poi non mi resta altro che stendere il saccopelo all’interno della capanna e coricarmi. Nonostante il giubbotto che ho indossato, fa molto freddo e non riesco a chiudere occhio, questa nottata sarà un continuo dormiveglia fino al nuovo giorno.

7 Novembre
Mi sveglio, per modo di dire, alle 6,30, controllo accuratamente la vettura e ci mettiamo subito in marcia per un’altra giornata difficile.
Venti km dopo Arak la pista tende a diramarsi in molte direzioni; seguiamo le tracce alla nostra destra, c’è molta sabbia e la vettura rallenta sempre più all’impatto con le zone di Fesc Fesc. Proseguiamo sempre ad alta velocità per evitare gli insabbiamenti, ma quando la sabbia appare come un mare, Cartizia si “pianta” senza scampo. Fortunatamente la gente del deserto è molto cordiale e, con l’aiuto di alcuni passanti riusciamo a disincagliare la vettura. A causa della forte andatura che siamo costretti a mantenere per non insabbiarci, facciamo molta fatica a seguire la giusta direzione.
Qualche ora più tardi, infatti, ci troviamo isolati su uno slargo sconosciuto, abbastanza staccato dalla pista, da non sapere in quale direzione puntare. Con un po’ di timore cerchiamo di fare il punto con la carta e con la bussola per ritrovare la direzione.
La pista da prendere ha un fondo troppo sabbioso, l’auto non ce la farebbe mai, cosa facciamo?
Mi siedo scoraggiato all’ombra della vettura; Pietro è nervoso, non riesce a darsi pace. Rimaniamo ad attendere per quasi un’ora, mentre il caldo si fa sempre più insopportabile. Ma quando inizio a pensare al peggio, all’orizzonte appare un automezzo. Cerchiamo di farci notare ed in pochi minuti il camion ci raggiunge. Dal finestrino si affaccia l’autista, Capisce subito il nostro problema e fa cenno di seguirlo. In poco tempo ci riporta sulla pista battuta e così possiamo proseguire verso “Tam”. Grazie anonimo camionista…
Il percorso da Arak a Tamanrasset in teoria è facile perché c’è una strada, ma in realtà l’asfalto è inagibile per quasi tutto il tragitto, o perché sbarrato dai militari o perché in condizioni disastrose. Per scendere a sud ci si deve affidare a piste alternative; proviamo ad imboccare una deviazione a destra cercando di non perdere di vista la strada militare. Ma, per evitare spuntoni di roccia, collinette improvvise e avvallamenti insidiosi, ci allontaniamo sempre più dai punti di riferimento. Seguiamo alcune tracce, vecchie o recenti, chissà.
Il terreno è a volte duro, a volte soffice di sabbia, a volte sassoso, sempre imprevedibile. Il primo incontro con la micidiale Tole ondulée avviene qui. “La bestia nera” di tutti i sahariani sono le “rughe” del fondo della pista causate dal continuo passaggio dei mezzi pesanti. I colpi di rimando degli ammortizzatori, soprattutto dei camion, creano a poco a poco, piccole gobbe perpendicolari alla direzione di marcia, solchi micidiali, di frequenza e profondità variabile. Le gobbette possono essere alte una o due dita e distanti l’una dall’altra un palmo o arrivare a cinque, dieci centimetri e presentarsi ad ogni metro.
Non è facile immaginare cosa succede quando si percorre la Tole ondulée con un’auto come la nostra. Il più insidioso dei pavé cittadini al confronto, è un tavolo da biliardo. Due soli i modi per superarla: procedere lentissimi, quasi a passo d’uomo o correre come forsennati a 7080 km/h. Se si va piano gli ammortizzatori riescono a seguire il ritmo delle sollecitazioni anche se all’interno i saltellamenti sono snervanti; se si corre si riesce a volare sopra le gobbette senza dare il tempo alle sospensioni di spingere le ruote negli avvallamenti, ma così Cartizia perde ogni aderenza; il retrotreno sbanda continuamente, le curve strette significano un’uscita dalla pista quasi certa. La velocità intermedia è da scartare; le vibrazioni interne mettono a dura prova i nervi e la meccanica, il corpo sussulta a una frequenza allucinante.Mi viene voglia di urlare, fermarmi e smettere.
Nel deserto bisogna andare avanti, a volte bisogna osare oltre i propri limiti… e per assurdo, l’incontrare le gobbette, cercando semmai piccole e corte deviazioni, vuol dire che la pista è quella giusta. Proseguiamo senza soste; sono a pezzi e anche l’auto inizia ad avere qualche problema, ma continuiamo, Tamanrasset è ormai vicina.
Una giornata di vibrazioni continue, di schianti, di rumori assordanti di carrozzeria e Tamanrasset si annuncia con l’esaltante visione di una strada asfaltata. Sono le 17.30, percorriamo il breve tratto asfaltato che inizia all’aeroporto, passiamo sotto l’arco della porta di Tam e giungiamo nella via principale dove rivediamo gli amici riminesi. Dopo tante ore di sconvolgente percorso, l’approdo in un centro mi fa subito pensare a follie.
Mi aspettavo una grande città di piacevolezza, in realtà è una via centrale circondata in lontananza dai quartieri periferici di case basse e strade in terra e sabbia, abitate da tuareg sedentarizzati.
Pietro è distrutto, e forse ha anche la febbre. Lo accompagno nella camera di un hotel da quattro soldi dove si butta sul letto senza nemmeno svestirsi; accusa un forte mal di pancia, non so cosa fare. Chiamo Aldo, ma anche lui si limita solo ad incoraggiarlo.
Passa qualche ora e Pietro sembra essersi addormentato, ne approfitto per mangiare qualcosa e per controllare la vettura. Nel cortile dell’hotel non c’è nemmeno un po’ di luce, chiedo a Massimo di reggermi la torcia per poter fare un’accurata manutenzione. Stringo i bottoni, rabbocco il livello dell’olio, e fin qui tutto bene; mi sdraio sotto l’avantreno, Cartizia mi sembra più bassa del solito, sono molto preoccupato per la sua salute, gli ammortizzatori sono fiacchi e il peso all’interno della vettura è notevole. Vuoto una tanica d’acqua, Massimo mi guarda e, scrollando la testa mi dice: "non riusciremo mai ad arrivare ad Agadez con questo peso, anche la mia moto comincia a battere la fiacca…".
Chiamiamo Aldo, bisogna trovare una soluzione, da Tam ad Agadez sono 900 km. di pista sabbiosa dove l’inesperienza o la superficialità potrebbero costare caro. Chiamiamo un beduino e gli chiediamo notizie sulla strada che porta in Niger. Da buon esperto guarda la vettura, poi volge lo sguardo verso le quattro moto e con tono di rimprovero esclama: "Ragazzi! Molta gente è partita nelle vostre stesse condizioni, ma pochi sono riusciti ad uscire da quella terribile pista…"
Ormai è tardi, e con tanta preoccupazione decido di andare a riposare.

8 Novembre
Sono le 6, il sole a queste latitudini sorge in un battibaleno. non bisogna perdere tempo, dobbiamo cercare qualcuno che possa caricarci i bagagli e i 60 litri di benzina contenuti nelle taniche necessari per arrivare al prossimo posto di rifornimento. Rompo le scatole a moltissima gente, ma nessuno è disposto a sovraccaricare il proprio mezzo.
Il morale non è tra i più brillanti, e in queste condizioni non c’è neppure la voglia di continuare. Passeggio per le vie di Tam fino a mezzogiorno, poi con la preoccupazione di chi ha paura di non farcela, decido di mandare un telex ai miei famigliari.
Alle 12.30 ritorno all’hotel, Aldo sta contrattando con un tuareg per il trasporto del materiale. Parlano per circa mezz’ora poi, improvvisamente si stringono la mano: è fatta! Non perdiamo tempo, carichiamo tutto sulla Patrol del tuareg di nome Hamed; sono le 15, si parte, seguiamo il fuoristrada che attraversa le vie del paese.
Ci fermiamo a riempire le taniche e a far provviste di pane. Sui muri del centro leggo un annuncio che riguarda un gruppo di tedeschi partito da qui mesi orsono e mai arrivato a destinazione. Si sente dire anche di un paio di motociclisti, in ritardo di alcuni giorni. Chi parte prenda nota perché nel Sahara c’è una legge che impera su tutte le altre: “aiutare chi è in difficoltà in ogni momento, in qualsiasi situazione”.
Tra poco lasceremo la leggendaria Tam, da decenni punto di partenza degli avventurieri del deserto e oggi inizio del tratto più difficile della Parigi-Dakar. Tam, il mito, come lo sono le sue guide, figli di nomadi e cammellieri che continuano le tradizioni dei padri non più sulle eleganti selle tuareg, ma al volante di potenti fuoristrada.
Imbocchiamo la strada che porta al posto di polizia, percorriamo qualche chilometro e siamo costretti ancora ad una sosta per le formalità doganali; arrivare al posto di frontiera di In-Guezzan senza i documenti in regola, significa farsi rimandare indietro, ricacciati verso la burocrazia da inflessibili controllori. Finalmente alle 16,30 ripartiamo, seguiamo il Patrol di Hamed, dietro di noi, i motociclisti di Rimini.
Superiamo velocemente le montagne che circondano la città e avverto subito i segni di un cambiamento. Il deserto si fa sempre più piacevole, niente più Tole, se non i rari tratti, ma sabbia liscia, mari enormi di fondo vellutato, grandi distese che scendono lentamente verso l’orizzonte. È una discesa, anche se quasi impercettibile, perché Tamanrasset è sull’Hoggar a 1400 metri di altitudine.
Proseguiamo verso il Tassili seguendo una pista larga qualche chilometro e infinita. Corriamo veloci accompagnati da uno stupendo tramonto; Massimo lascia la pista per qualche scorribanda sulla sabbia soffice, corre veloce verso l’orizzonte, lasciando dietro di sé una nuvola di polvere che, illuminata dal sole, mi fa ricordare uno dei tanti filmati del Parigi-Dakar. Uno scenario stupendo, sognato per più di un anno.
Il sole scompare rapidamente dietro la linea retta dell’orizzonte; è ora di fermarsi, cerco uno spazio fuori dalla pista dove poter montare le tende. In compagnia di Pietro, Hamed ed i motociclisti riminesi, tento di cucinare gli spaghetti in un’acqua che non bollirà mai a causa del forte vento. Rimedio subito con la solita scatoletta di tonno. Nel frattempo Hamed ha acceso il fuoco, mi avvicino a lui che, vedendomi arrivare, allunga la mano offrendomi del thè alla menta. Con lui passo la serata cercando di scambiare qualche parola sul deserto.
Sono le 23 e fa molto freddo; mi corico nel saccopelo e cerco di dormire. Dopo quasi un’ora di inutili tentativi, esco dalla tenda per accendermi una sigaretta; piano piano mi allontano dal bivacco, il vento soffia forte nel deserto e nel cielo splendono migliaia di stelle che illuminano la splendida notte africana.
Mi siedo sulla sabbia, attorno a me il silenzio. Cerco di godermi questi momenti magici e tra le urla del vento mi torna in mente un antico proverbio tuareg "non dire che il deserto è silenzio, chi dice ciò è un uomo che non può udire la sua possente voce".
Ma chi sono i Tuareg, questi principi del deserto? Il nome “tuareg” accende subito la fantasia e ci riporta, con gli occhi della mente, alla nostra infanzia. Ai libri, alle illustrazioni e ai filmati che parlavano di questi indomabili guerrieri; gli “uomini blu”, vincitori di centinaia di razzie. Ma i vincitori della nostra infanzia, sono i vinti di oggi; vittime di un implacabile progresso che non ammette intrusi e non accetta più le sorpassate tradizioni secolari.
E cosi, nel corso degli anni, anche i Tuareg hanno dovuto piegarsi e delle migliaia di “figli del vento” oggi non resta che un piccolo gruppo di poche centinaia di uomini che cercano di resistere in qualche modo, rintanandosi nelle zone più impervie, ai limiti delle sacche vuote del Grande Deserto.
Ai margini del nostro mondo civile dunque, sparsi tra il Sahara centrale e il Sahel, entro i confini di tre paesi (Algeria, Niger e Malì) assistono impotenti a una progressiva disgregazione della loro razza. I tuareg, tutti di razza berbera, hanno un’origine piuttosto discussa. Tuareg, secondo gli arabi, vuol dire "abbandonati da Dio" poiché ai tempi dell’invasione essi lottarono a lungo contro l’islamismo prima di accettare, anche se in forma molto blanda, la conversione.
I Tuareg, per contro, affermano che il loro nome deriva da un’antichissima voce che significa “egli è libero” e potrebbe riallacciarsi al nome Targa, con cui i tuareg stessi chiamano il Fezzam, regione che anticamente dominavano. Conosciuti pure come i “figli del vento”, della lancia e della spada, per il loro carattere guerriero, divennero celebri anche per il loro aspetto reso sinistro dal viso velato, che collimava con la loro crudeltà; fino a ieri infatti erano il flagello del deserto.
Una caratteristica che distingue i Tuareg dagli altri popoli dell’Africa araba è il velo maschile: il Taghelmust, che consiste in una striscia di 3,50 m e larga 25 cm. Abilmente passa sull’occipite, sulla fronte e sulla bocca, arrivando a coprire anche il naso. Il tessuto è un blu scuro impregnato d’indaco, come gli ampi mantelli per cui lascia un po’ di colore sulla pelle, da cui deriva l’appellativo “uomini blu”.
Il declino vero e proprio di questa razza, fiera e indomata, incominciò circa settant’anni fa quando i vari coloni, ultimate le conquiste, decisero di liberare gli schiavi. Il lento ma progressivo cambiamento li costrinse a ritirarsi nelle zone più ostili del Sahara e a isolarsi per mantenere intatta la purezza della razza, le tradizioni e, quel che conta di più, la libertà.
Ma i contatti con i viaggiatori e i turisti inducono i giovani a pensare che oltre l’ultima duna del deserto li attende una vita migliore; le antiche fonti di reddito dei Tuareg infatti si assottigliano sempre più, mentre le necessità aumentano. Per contro il nomade è conservatore e per lui, ancora legato ad una mentalità e ad uno schema medioevale, lo stato moderno è qualcosa di incomprensibile. Il pensiero di vivere in una civilissima casa di mattoni lo fa star male. In fondo quello che gli piace è ancora sapere che in qualunque momento del giorno o della notte, può sollevare una parete della Jiaima (tenda) e vedere l’immensità del deserto davanti a lui; per questo si dice che nessuno potrà distruggere completamente i Tuareg se non i Tuareg stessi.

9 Novembre
Sono le 6.30, l’alba illumina l’interno della tenda, fuori il vento soffia senza tregua. Lascio il calduccio del mio saccopelo per uscire nell’aria gelida del mattino. Il freddo è pungente, a fatica smonto la tenda e sistemo i bagagli all’interno della vettura, poi avvio il motore e inizio a rincorrere l’orizzonte.
La pista è buona; in alcuni tratti possiamo correre a 100 km/h verso le forme scure di montagne lontane, sfiorando i profili sassosi di collinette e scivolando col rumore di un soffio sul terreno morbido. In altri tratti dobbiamo superare laghetti di sabbia in velocità per non consentire alle ruote di sprofondare in una morsa da cui è difficile uscire. Il motore è sempre al massimo, per sfruttare tutti i cavalli disponibili, sono sempre pronto a scendere alla marcia inferiore non appena sento diminuire il regime dei giri.
L’emozione della vastità, l’emozione di approdare alle dune di Laouni, un altro leggendario punto di passaggio obbligatorio per tutti i sahariani. Ecco il deserto più stupefacente, assolutamente diverso da quello di dune, bello ma “facile” incontrato a El Oued.
Il passaggio dalle dune di Laouni è difficoltoso, la sabbia è molto soffice e la ormai stanca Cartizia si insabbia decine di volte. Tra i relitti di auto spingiamo Cartizia con l’aiuto degli amici riminesi, ancora uno sforzo e anche le terribili dune sono superate. Nessuna sosta per riposare, qui il Sahara non è un paesaggio da guardare, è una situazione più che un luogo dentro cui si vive un rapporto profondo con una natura che, per essere un deserto considerato simbolo di morte , paradossalmente, ha una vitalità straordinaria. Una montagna difficile si conquista, un mare insidioso si sfida, al Sahara semplicemente ci si unisce in un incontro che non è mai una lotta per designare un vincitore; e neppure una corsa contro il tempo, perché non è un ostacolo da superare più in fretta possibile, ma un cammino lento verso un orizzonte che pare irraggiungibile, che varia di continuo, inaspettatamente, per terminare all’improvviso com’era cominciato. Ma la fine del Sahara è ancora lontana e le sue suggestioni ancora vicine.
Sono le 14.30, all’orizzonte appare In Guezzam, una strada in terra battuta tra le consuete costruzioni basse, color ocra scuro. I fabbricati dei doganieri spuntano sotto il sole dopo un’altra insabbiata, un posto di frontiera isolato che rappresenta il porto di speranza per migliaia di nigerini, saliti fin quassù per cercare un’improbabile soluzione alla loro fame.
L’Algeria tollera il loro misero accampamento di tende disastrate e di bambini denutriti, capre magre alla ricerca di fili d’erba inesistenti, di nigerini che restano lì, ad aspettare, fantasticando, vivendo di quel cibo che il governo algerino distribuisce, organizzati come nomadi ma senza più quell’indipendenza e fierezza che era nelle culture nomadi.
La formalità di uscita dall’Algeria sono, come al solito, lunghe; controlli ai bagagli, alla vettura e timbri sul passaporto. Alle 16.30 un doganiere ci alza la sbarra che delimita il confine con la terra di nessuno, proseguiamo verso la porta del Niger. Alle 17, mentre il sole pian piano cala all’orizzonte, arriviamo alla frontiera nigerina. Subito un doganiere in tuta sportiva mi ordina con tono arrogante di scaricare completamente la vettura, inutili le proteste: o vuoto l’auto o non passo. Accontento anche questo doganiere curioso che fruga anche nello zaino, tra calzini e magliette. Mi spiace, ma per i tipi come lui non ho nessun regalo.
Alle 18, gli uffici doganali abbassano le serrande, il controllo del passaporto verrà effettuato domani mattina. Sarà una serata tra la sporcizia di Assamakka. Cucino una bustina di asparagi, poi un pezzo di formaggio chiude la cena. Le ore passano e si alza il vento gelido della notte; qui in prossimità della dogana c’è il divieto di montare tende da campeggio, decido di passare la notte nel mio saccopelo steso sulla sabbia.
L’aria si fa sempre più gelida, e come se non bastasse, la sabbia sollevata dal vento mi finisce tutta in viso… è impossibile prendere sonno in queste condizioni. Tra un brivido e l’altro, le ore passano e cado stremato in un sonno profondo fino al sorgere del sole.

10 Novembre
Dopo una nottata “cambogiana”, cosa c’è di meglio di un cane che ti dà la sveglia, abbaiando a meno di un metro di distanza?
Inizia un altro giorno, forse l’ultimo tra le sabbie del deserto; sono le 6.30, ripiego il mio saccopelo e corriamo subito a farmi vistare il passaporto. Lasciamo la dogana alle 8.45, il vento soffia forte, la visibilità è molto scarsa e c’è sempre il pericolo di perdersi.
Proseguiamo con cautela nella tempesta di sabbia e cerchiamo di non perdere di vista le balise che segnalano la pista giusta; le balise sono bidoni di benzina, mucchi di sassi messi a piramide, gomme di autocarro sovrapposte, insomma tutto ciò che può essere notato da lontano.
Parlare di pista qui è difficile: le balise in realtà indicano il passaggio migliore di una spianata ondulata che appare sempre assolutamente uguale. Così per circa duecento chilometri in un continuo alternarsi di laghetti di sabbia molle e cunette di terreno pietroso. Corriamo veloci per ore infinite sempre con il rischio di insabbiamenti, la polvere continua ad accumularsi all’interno dell’abitacolo fino a far diventare il cruscotto e la tappezzeria color deserto; ma è una polvere asettica questa, che non infastidisce chi sa vivere fino in fondo un rapporto che si ha con il deserto, che è selvaggio, a volte difficile ma affascinante come un mondo da fiaba.
Alle 12.15 rimettiamo le ruote di Cartizia sull’asfalto, qualche chilometro ed eccoci ad Arlit, dove l’Africa araba si conclude e comincia l’Africa nera. Ho la sensazione di entrare in un mondo remoto. Ci rechiamo subito alla polizia per i consueti controlli, tipici del costume nigerino, sotto il sole cocente devo attendere per più di tre ore prima di ottenere il visto necessario per proseguire.
Nel frattempo salutiamo il generoso Hamed, che essendo di nazionalità nigerina non ha bisogno di nessun visto. Nell’attesa mi diverto a barattare qualche paio di occhiali in cambio di due portafortuna tuareg; riesco a barattare anche la sveglia di Ambra e per concludere vendo anche la ruota distrutta nel deserto alla modica cifra di 2000 CFA, offerta speciale.
Finalmente alle 15.30 arrivano i gendarmi, cerco di fare tutto più in fretta possibile, ma come al solito perdo molto tempo per la lentezza delle pratiche assicurative del veicolo.
Alle 17.30 riaccendiamo il motore e ripartiamo alla volta di Agadez. Qui la sabbia del deserto appare come un’onda di morte che avanza e cancella la vita. Il Sahara è un enorme confine che separa la fierezza mista ad orgoglio e fanatismo dei musulmani del nord, dalla rassegnazione sempre più drammatica dei Paesi che si avvicinano all'equatore. Comincia qui il grido di dolore che non smetterà mai di risuonare nell'aria sempre più greve: cadeau, regalo, mani tese e disposte a ricevere qualunque cosa con occhi imploranti.
La strada che porta ad Agadez è asfaltata e in poco più di tre ore riusciamo a raggiungere l’ultima città del deserto: Agadez. Soliti controlli di polizia e poi è già buio… non ci resta che cercare un alberghetto da quattro soldi.
Troviamo i quattro ragazzi di Rimini e con loro affittiamo una camera all’hotel Sahara. Questo hotel, se così lo vogliamo chiamare, me lo ricorderò per parecchio tempo. Infatti, dopo aver cenato con uno schifosissimo piatto di cous-cous, assisto ad una rissa all’interno della sala da pranzo e poi la camera è in stile “vecchia topaia” abitata da salamandre, zanzare e rospi. Io non mi ritengo un tipo schizzinoso, ma quando i rospi saltano sul saccopelo. A causa della compagnia degli altri animaletti, non riesco a chiudere occhio. Il caldo è insopportabile e uscire dal saccopelo significherebbe farsi sbranare da feroci zanzare assetate di sangue. Così trascorre la notte, in un bagno di sudore, senza neppure avere la possibilità di rinfrescarsi sotto una doccia.

11 Novembre
Mi sveglio, per modo dire, alle 6,30; la mia tuta bianca ha ormai cambiato colore e, a fatica la indosso, mi guardo allo specchio. Ho gli occhi profondi, la barba incolta e nonostante la voglia di raggiungere la meta, non riesco a mascherare la fatica. Anche Pietro è stremato; da qualche giorno soffre anche di una terribile dissenteria.
Prima di ripartire controllo accuratamente la vettura: olio, acqua, bulloni e pulizia del filtro dell‘aria. Dopo queste operazioni, cerco una banca per poter cambiare qualche travellers’ chèque. In Niger è necessario stipulare anche il permesso per fotografare presso l’ufficio del turismo.
Alle 10.15 imbocchiamo la lingua di asfalto che porta a Tahoua, il Sahara è davvero finito e avanza una regione totalmente diversa. E’ il Sahel, una terra lentamente bruciata dalla polvere, dalla siccità del deserto che insinua sopra terra che potrebbe essere buona, con lingue di sabbia simili alla frangia di un mare che finisce su una spiaggia.
Il nome Sahel ha origini arabe e significa “riva”. In genere nei paesi africani indica la striscia di terra che separa la costa dagli altopiani dell’interno. Ma in questo caso si tratta della terra che lambisce un altro tipo di mare, il Sahara; in questa zona sterminata, oggi avviata allo sfacelo economico ed etnico, otto stati formano l’ultima fragile barriera contro l’assalto del Sahara che avanza inesorabile come l’alta marea, riempiendo di sé ogni cosa, divorando centimetro per centimetro terre già rese aride dall’harmattan, il vento arroventato del deserto.
A cercarlo sulla carta il Sahel non esiste, sotto questo unico nome vengono emblematicamente accomunati gli stati africani colpiti dalla più terribile tragedia che possa abbattersi sull’umanità: la fame. Dall’esteso e popolatissimo Mali all’altrettanta sterminata e polverosa Mauritania, le piste della carestia sono visibili, come profonde ferite in un corpo scarnito, nelle crepe della terra, nei greti arsi, ma ancor più nei volti e nei corpi della gente. Il Sahel comprende paesi lontani ore d’aereo l’uno dall’altro, spesso anche molto diversi, politicamente instabili, sull’orlo del colpo di stato, ma tutti devastati dal flagello della siccità che rischia di cancellarne per sempre l’esistenza dal nostro pianeta.
Non appena ci si lascia alle spalle la costa o ci si allontana dai capoluoghi, si incontrano villaggi di capanne cilindriche, costruite con impasto di argilla, fango e paglia, senza pavimento e completamente prive di mobili. Non esistono strade, ma piste continuamente modificate, a tratti cancellate dalla sabbia; solchi lungo i quali carovane di uomini e di cammelli si spostano come fantasmi, senza una meta alla ricerca di acqua, di un filo d’erba, di un pugno di mais. E dire che qui per lunghi secoli fiorì il grande impero del Mali, principale fonte di rifornimento d’oro per tutta l’Europa fino alla scoperta dell’America, e che Tombouctou, sul fiume Niger, era l’ultimo porto prima del Sahara, centro importantissimo quindi per i commerci e gli scambi.
Oggi, con il Niger ridotto ad un filo d’acqua, il porto di Tombouctou è diventato un’arsa piattaforma dove poggiano grandi barche in secca permanente e tutto intorno, al posto di quella che era una verde oasi, si estende il deserto.
La fame è una realtà irreversibile. Nella città è possibile ancora cibarsi con qualche pollo scheletrito, mentre nei villaggi all’interno ci si nutre di topi e di larve di formiche; la morte giunge inesorabile, silenziosa, in questo mondo di polvere e di afa: una tragedia tanto più drammatica quanto più è pacata, senza le immagini apocalittiche che fanno spettacolo. Da sempre emarginato ed escluso da qualsiasi iniziativa di sviluppo anche ai tempi del colonialismo, privo o quasi di risorse naturali, il Sahel è ormai da anni il centro della miseria. Non è molto il tempo a disposizione per trasformare il tetro palcoscenico della morte in un ambiente dove l’uomo possa ancora sperare di vivere.
Corriamo per centinaia di chilometri in una pianura bruna coperta da una foschia che sembra nebbia. La polvere si deposita sugli alberi che qui cominciano a crescere e impedisce i processi vitali facendoli morire. Copre le colture di miglio, cancella col tempo i pascoli che sono il sostentamento delle mandrie di bovini dalle lunghe corna che si vedono pascolare in prossimità delle strade. Quando incontro i pastori Tuareg, non perdo l’occasione di fermarmi e scambiare qualche parola. Non riesco ad essere insensibile ad una realtà che sto toccando con mano.
Di tanto in tanto nella nebbia compare l’ombra di un villaggio, di rotonde capanne di paglia dal tetto aguzzo abitate da figure nere coperte di abiti colorati che, non appena scorgono passare un’auto, corrono verso la strada.
Il caldo inizia a diventare insopportabile ed ad ogni villaggio non perdo l’occasione per rifornire le mie borracce. Ai margini delle strade troviamo piccoli laghetti d’acqua sporca da cui escono come fantasmi tronchi contorti di alberi rinsecchiti. Spesso sono bacini artificiali, ricavati grazie a sistemi idrici, e servono da riserva d’acqua per un raggio di 10 o 20 km per uomini ed animali.
Lontano da un villaggio incontro un gruppo di ragazzini; ci fermiamo e cerco di dar loro qualcosa da mettere sotto i denti per poter placare quel senso di vergogna che mi ferisce, davanti a scene vissute sempre come lontane. Veder sorridere quei bambini mi gratifica e forse mi fa sentire in pace con me stesso.
Alle 16.45 siamo al controllo di polizia di Tahoua; da questa mattina sono tormentato da un granello di sabbia entratomi in un occhio e, nonostante il collirio l’arrossamento dell’occhio mi provoca un gran fastidio. Mentre Pietro sbriga le formalità doganali, Aldo tenta di togliermi il fastidioso granello con la stagnola delle sigarette. Dopo numerosi tentativi l’operazione riesce. Ora sto meglio.
Ripartiamo seguendo a distanza le luci delle quattro moto; ormai il sole sta per scomparire dietro l’orizzonte. Anche quest’oggi arriveremo a destinazione col buio. La strada sembra correre veloce, quando Stefano si ferma ai lati della strada; la sua moto fuma ed emette un suono metallico preoccupante. Illumino la moto con la torcia mentre Massimo cerca di risolvere il problema. Purtroppo il motore è bloccato e non ci resta che trainare la moto fino alla prossima città. In una notte impenetrabile riusciamo a spingere la moto fino a Birnin-konni; cerchiamo un posto per la notte e dopo aver cenato, aiuto Massimo a smontare il motore della ormai inservibile Honda.
Alle 11.30 saluto i motociclisti riminesi e mi rintano nel mio sacco a pelo.

12 Novembre
Questa mattina voglio riposare un po’ di più e così decido di svegliarmi alle 7; faccio subito colazione e controllo la vettura, il deserto potrebbe aver danneggiato qualche organo.
Ma fortunatamente la nostra Cartizia, anche se un po’ fiacca, gode ancora di ottima salute.
Prima di metterci in marcia, aiuto i motociclisti riminesi a contrattare il prezzo per il trasporto della moto fino a Niamey dove, spero, riusciranno a trovare qualche soluzione.
Partiamo alle 8.45, all’uscita dalla città facciamo rifornimento di carburante, poi ci dirigiamo sulla buona strada asfaltata che divide il Sahel.
Passano i chilometri; le scene ai bordi delle strade, durante le soste, sono sempre più raccapriccianti. Una folla di bambini e di adulti è sempre pronta ad assieparsi attorno alla vettura e a frugare tra i rifiuti dei vari spuntini. In questa parte d’Africa sembra che la dignità dell’uomo si sia perduta; alla fierezza dei Tuareg si contrappone un atteggiamento di servilismo e sottomissione che sono il retaggio di secoli di soprusi e sfruttamento non ancora terminati. Il Niger ha molte risorse minerarie che forse riuscirebbero a salvare questo Paese, un paese il cui pacchetto azionario però è in mano a multinazionali straniere.
La tappa di oggi è una delle più corte, di tanto in tanto ci fermiamo nei villaggi ed io ne approfitto per scattare qualche foto. Alle 17.45 siamo alle porte di Niamey, compiliamo velocemente i soliti formulari al posto di polizia e poi ci addentriamo nel centro della capitale nigeriana. Niamey ha l’aspetto di un grosso villaggio; strade attraversate da mandrie di bovini si contrappongono ad un albergo lussuoso di una catena internazionale e a palazzi amministrativi modernizzati. Si tratta di strutture realizzate da uomini bianchi in evidente contrasto con la realtà del Paese.
Troviamo un posto per la notte all’hotel Tènèrè; nonostante il prezzo molto basso il servizio e le camere sono eccellenti; dopo tante notti passate in “postacci”, un bel letto è ben gradito. Mentre Pietro prepara la cena, cerco un telefono e mi metto in contatto con la mia famiglia. A volte qualche chiacchera scambiata con le persone care dà il giusto morale e la carica necessaria per completare imprese delicate e faticose come “oltre il Sahara”.
La serata scorre veloce nel bar dell’albergo e tra una birra e l’altra giunge anche la mezzanotte: è ora di andare a dormire.

13 Novembre
Sono le 7, un raggio di sole illumina la camera dell’Hotel, per un po’ rimango a poltrire nel letto ma poi mi devo alzare a causa del solito cameriere che sveglia i poveri viaggiatori per annotare sul suo registro il numero del passaporto. Trascorriamo la mattinata in un assolato posto di polizia in attesa di un visto sul passaporto che non arriva mai; a volte questi militari fanno perdere la pazienza anche ai più calmi, ma non conviene nemmeno protestare altrimenti si rischia di passare l’intera giornata ad attendere un timbro. Nel frattempo gli amici di Rimini trovano un posto sull’aereo diretto a Roma per Stefano e la sua moto.
Alle 11, un poliziotto mi riconsegna il passaporto col visto necessario per l’uscita dalla capitale. Ritorno all’Hotel per salutare gli amici riminesi; Massimo è molto preoccupato per il pessimo stato delle motociclette, non posso che incoraggiarlo e stringendogli la mano gli dico: "Massimo, non arrenderti, un giorno potresti pentirtene". Con un po’ di malinconia lasciamo l’Hotel Ténéré, qualche chilometro ed è subito un altro intoppo: un altro petulante controllo, i doganieri ci fanno togliere tutti i bagagli, ma cosa vorranno controllare in una vecchia vettura come la nostra?
Dopo circa mezz’ora abbiamo via libera, percorriamo velocemente il tratto di strada che porta alla frontiera nigeriana; i controlli in dogana sono veloci, cosa insolita in un paese africano, e alle 14 ci accingiamo a percorrere quel cuscinetto di sicurezza posto tra le due frontiere che chiamano “terra di nessuno”. Il posto di frontiera del Burkina Faso è tutto un racconto: durante il primo controllo ci viene chiesto un rotolo di carta igienica dal doganiere di servizio, qualche centinaio di metri e il mio bagaglio viene alleggerito di una confezione di carne in scatola dalla gendarmeria, di questo passo arriverò a Ouagadougou senza viveri.
Nonostante i doni dati ai doganieri, i controlli sono lenti e noiosi e solo alle 16.30 riusciamo ad avere il visto d’entrata nel Paese. Proseguiamo sulla buona strada asfaltata che porta alla capitale, di tanto in tanto dobbiamo lasciare la strada principale a causa di lavori in corso ed addentrarci in piste alternative che si snodano nella savana. Anche in Burkina Faso come in Niger, i controlli di polizia sono frequenti su tutta la rete stradale.
Il sole scompare all’orizzonte, manca ancora molta strada prima di arrivare alla capitale: sono le 22.45 ed io sogno un posto dove stendere il mio saccopelo; fortunatamente un giovane vestito all’europea ci accompagna alla Sacra Famiglia dove un religioso di colore ci offre un posto per la notte.

14 Novembre
Sono le 6.30, ormai da qualche ora mi giro e rigiro nel letto. Il caldo a questa latitudine si fa sentire anche di primo mattino. Dopo un’abbondante colazione offerta dai missionari, ci rimettiamo in marcia verso la missione di Nanoro. Attraversiamo la città, come Niamey anche Ouagadougou ha un hotel lussuoso, costruito prima dell’avvento del regime socialista e via via che si va verso il sud si fa più vistosa la presenza dei condizionamenti e degli interessi economici del mondo industrializzato.
Il villaggio di Nanoro è situato a nord della capitale, per raggiungerlo occorre percorrere la strada che porta al confine col vicino Mali. Fino a Boussè è tutto asfalto, poi una pista nella savana porta fino al piccolo villaggio.
Nonostante i soliti controlli della polizia locale, alle 10.30 arriviamo a destinazione, ad attenderci troviamo Vittorio, un missionario che opera da ormai quattro anni in questo Paese. Dopo i rituali saluti, scarico l’auto e mi faccio una doccia; mezzogiorno arriva in un baleno e, se Dio vuole, il pranzo di oggi sarà uno di quelli che non dimenticherò facilmente dopo quasi due settimane di scatolette. Nanoro è una missione della Sacra Famiglia di Torino, i fratelli missionari che lavorano qui si occupano principalmente di allevamento e coltivazioni dando anche lavoro a buona parte degli abitanti del piccolo villaggio.
Il pomeriggio scorre velocemente, e dopo aver fatto un meritato pisolino, convinco Vittorio a farci da guida nella savana alla ricerca di qualche villaggio incontaminato. Con la sua Mazda ci addentriamo nella savana sulle piste larghe poco più di un metro, è un continuo saltellare all’interno della vettura. Viaggiamo per circa un’ora in direzione nord fino a quando avviene l’incontro inatteso: un villaggio di pastori Peul.
Ci fermiamo, sono quasi incantato a simili scenari. Qualche foto, una stretta di mano al capo tribù ed eccoci di nuovo in marcia per addentrarci ancor di più nella savana. E’ una continua gimcana tra gli arbusti rinsecchiti per venti, trenta chilometri o forse più. Ai bordi della pista ci sono vastissime piantagioni di cotone e, di tanto in tanto, appaiono imponenti i baobab.
Ci fermiamo in un altro villaggio costituito da capanne circolari di argilla col tetto di paglia a forma di cono; a prima vista potrebbero sembrare dei trulli, ma poi… ci si accorge subito che la gente non parla pugliese. Vecchi silenziosi, bambini che giocano e donne che allattano, sono tutte scene di vita che sembrano serene ma guardando negli occhi di questa gente, appare sempre un mondo di sofferenza, un mondo che non può lasciare insensibile chi, come me, certe verità le ha toccate con mano.
Prima del calar del sole siamo di nuovo alla missione di Nanoro. La serata la passiamo in compagnia di Paolo, un simpatico piemontese che vive da sedici anni in Africa per lavoro. Con lui si parla dei problemi che si stanno creando in Burkina Faso dopo la rivoluzione del 1983.
Sono le 23.30, dopo aver scritto le ultime righe di un’altra pagina del mio diario di viaggio mi rinchiudo nella zanzariera e buonanotte.

Il seguito e la conclusione del resoconto di viaggio nell'articolo "Oltre il Sahara - Parte terza", sempre su Ci Sono Stato!

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