Bolivia: Salares Expedition

Il contatto con la natura più ostile, ma anche un’esperienza incomparabile

Può succedere che un giorno vi svegliate e vi troviate in uno dei luoghi più fantastici del mondo, che prendiate la bicicletta e percorriate per primi una delle valli più sconosciute del Tibet del continente americano: la Bolivia.
Risalendo verso nord la valle ai piedi della Cordillera Apolobamba e, superata la deviazione per la Valle de Amarete a 4500 metri, vi troverete di fronte alla maestosità di cime come l’Akamani. Proprio qui, in pieno inverno australe, stavo tentando di pedalare sotto una tremenda tempesta di neve. Pensando a ritroso, quel giorno poteva essere il 25 agosto. Avevo trascorso la notte sveglio nella tenda sbattuta dal vento, ero ripartito solo, stanco e affamato e per il quinto giorno consecutivo, pedalavo su un fondo terribile di fango e neve, contro proiettili di ghiaccio che mi colpivano il viso. Ma la mia avventura non era iniziata lì...

Da non perdere

Il deserto
Dopo mesi di preparativi, estenuanti allenamenti e notti insonni a studiare le carte, il sogno diventa realtà. Ad Antofagasta, sulla costa dell’Oceano Pacifico in Cile, ho l’appuntamento con la mia grande avventura.
Senza accorgermi mi trovo alle porte del deserto di Atacama e sono subito sole, polvere e 150 chilometri di sabbia per raggiungere la "Valle della Luna". La notte i cristalli di sale e gesso sparsi sul terreno brillano di luce riflessa.
Lasciate le case intonacate di fango e l’ombra degli alberi di pimento dell’omonima San Pedro, devo percorrere tutto l’estremo nord del Cile, attraversando il deserto più arido del mondo. Affacciato sul Pacifico, il deserto di Atacama mi mostra regioni dove negli ultimi dieci anni non è caduto un solo millimetro di pioggia. Sono momenti particolari, questi, si crea un vuoto dentro lasciato dalla.partenza e non si ha ancora nulla per colmarlo. Davanti solo la strada, l’ansia per il futuro e la gioia dell’inizio. La sua desolazione è affascinante, coinvolgente e solo dopo alcuni giorni la mia mente comincia ad abituarsi al suo silenzio e al suo vuoto. Fa caldo, gli occhi mi bruciano per il sudore, per giorni non trovo acqua e questo mi costringe a 12 litri di scorta, che porta il peso della bici a più di 60 chilogrammi.
Per evitare l’asfalto della monotona Panamericana, percorro vecchie piste ormai abbandonate che collegano antiche miniere di salnitro, i cui scheletri di metallo che campeggiano nel deserto sono l’unica testimonianza di un’antica presenza in queste immense distese desertiche. Le poche informazioni sulla direzione e sull’effettiva percorribilità richiedono continuamente bussola e carta. Sono all’inizio del mio viaggio e ancora pieno di energie, quindi gli interminabili chilometri di sabbia in cui affondo non mi creano preoccupazioni.
E’ difficile trovare un luogo tanto inospitale sul pianeta. I pochi villaggi che incontro, a distanze di oltre cento chilometri, mi accolgono con case di terra e polvere, unico riparo dopo una difficile giornata. IL caldo è ossessivo, 30-35 gradi, l’aria secca e sabbiosa mi prende alla gola e non vedo un albero all’orizzonte. L’unico compagno il sole, l’unico sollievo l’ombra della mia bicicletta, nella quale trovo riparo. Alterno lunghe giornate in questa infinita landa desolata e riarsa con alcuni tratti di asfalto, per collegare le piste e riposare le gambe. Sono stato così concentrato nell’affrontare le prime fatiche e ad abituarmi mentalmente a questa nuova realtà, che solo ora, seduto davanti alla tenda, mi rendo conto delle dimensioni di quanto ho iniziato. Di fronte il sole tramonta sulla terra rosso bruciato e sulle rocce sabbiate, scolpite per milioni di anni dal vento, inondando l’orizzonte di arancio e rosa. Gioia mista ad ansia mi pervadono e davanti ho ancora tanta strada.
Raggiungo Arica, nell’estremo nord, al confine con il Perù, dove mi concedo un paio di giorni per riposarmi e preparare i nuovi materiali, perché da ora in poi mi dirigerò verso l’altipiano boliviano dando inizio alla seconda fase del mio progetto.

Verso il cielo
Da Arica al Passo Tambo Quemado sono 175 km che mi porteranno a 4600 metri di altitudine al confine con la Bolivia. Sono trascorsi 24 giorni di fatiche per attraversare il deserto di Atacama, che da solo vale un viaggio e ora tutto cambia: clima, paesaggio, tipo di fatica. Per la prima volta supero i 4000 metri, dopo cinque giorni di salita continua. Sono teso, mi chiedo come reagirò alla fatica dell’altitudine nonostante mi sia preparato accuratamente; ora non mi resta che concentrarmi, senza concedermi distrazioni.
Di notte, mentre fatico a riposarmi per il mal di testa, comincio a realizzare cosa mi riserverà l’altipiano boliviano. Una buca, uno scossone, quasi perdo l’equilibrio, disorientato mi rendo conto che sono ore che ho lo sguardo fisso sulla ruota anteriore che scorre sulla strada. La fatica a questa altitudine mi coinvolge tal punto da non lasciarmi pensare, concedendomi solo le sensazioni fisiche. Lo sforzo delle gambe, l’aria sulla faccia e cime innevate di oltre 6000 metri che si riflettono in lagune da favola. Trascorro alcuni giorni a pedalare ai piedi del vulcano Sajama, la vetta boliviana più alta, incontrando isolati “pueblos” dove, senza luce e mezzi di trasporto, la partita di pallone al tramonto è l’unico svago dalle difficoltà quotidiane.
Il lago Titicaca, una paradossale macchia blu schizzata in mezzo agli aridi territori dell’altipiano, mi mostra le sue acque color zaffiro e i suoi panorami mediterranei, che mi fanno sentire a casa per un’attimo. Per alcuni giorni costeggio il lago navigabile più alto del mondo, verso il confine con il Perù, per raggiungere una delle regioni più remote e difficili della Bolivia.

La valle sconosciuta
Da Escoma parte una pista di 150 km. che mi porterà nel piccolo villaggio coloniale di Pelechuco, stretto tra le alte vette della Cordillera Apolobamba. Sono il primo ciclista a percorrere questa pista, che scorre oltre i 4000 metri, tra i panorami superbi della catena montuosa più alta e imponente di tutte le Ande. E’ una zona molto pericolosa per i frequenti atti di banditismo e mi costringe a fare molta attenzione, a cercare luoghi riparati e nascosti dove montare la tenda.
Pedalo teso e concentrato, affrontando tormente di neve e venti fortissimi, superando continui passi oltre i 4600 metri. Spesso, di mattino, la neve rende impossibile riconoscere la pista, avvolto tra la nebbia, in questo luogo così lontano. Fa freddo, mi sento solo, più solo che mai in questa zona così desolata, selvaggia e pericolosa, ma eppure così affascinante.
Voglio conoscere alcuni villaggi dove ancora vivono i Kallahuaya, sciamani discendenti dall’antica civiltà Tiahuanaco, che ancora ricorrono a pozioni di erbe e riti magici per guarire le malattie. L’accoglienza spesso non è delle piu’ cortesi, sono popolazioni gelose delle loro antiche tradizioni e mi vedono come una minaccia alla loro intimità. Il ricorso al massimo rispetto e alla massima umiltà risolve di solito situazioni potenzialmente pericolose e mi permette di ottenere, a volte, un tetto di lamiera, un “cafecito” per riscaldarmi e il sorriso curioso di qualche bambino. Così mi ritrovo dopo dieci giorni nuovamente ad Escoma, stanco a ripulire bici e materiali dall’enorme quantità di fango che mi ha ricoperto completamente. Sono euforico per il traguardo conseguito, mentre senza fatica mi dirigo verso la capitale.
La Paz mi accoglie con le sue braccia di città moderna, in piena contraddizione con quanto vissuto fino ad ora. Qui posso riposarmi, gioire del successo appena conseguito e prepararmi alla salita dell’Huayna Potosì, che con i suoi 6088 metri e la sua imponente bellezza è una tra le vette maggiori e più conosciute della Bolivia.
Per la prima volta abbandono la mia bici e in cinque giorni, aggregato ad una spedizione americana, raggiungo la cima tra tormente ed abbondanti nevicate. E’ l’una di notte, i -18° mi gelano gli occhi, solo la lampada frontale rischiara i miei passi che l’aria rarefatta rende uno sforzo estenuante. Cammino verso l’alba per ore come in un sogno, sentendo solo il battito accelerato del mio cuore, che aumenta con l’avvicinarsi della vetta. Ieri ero nel deserto più arido del mondo e ora sono oltre i 6000 metri. E’ terribilmente eccitante, qui percepisco la vera dimensione del mondo, ma soprattutto la mia. Ma già i ghiacciai sono un ricordo, quando comincio a percorrere la pista verso Coroico, alle porte della foresta amazzonica.

La foresta
Dai 4700 metri di La Cumbre parte quella che è considerata la pista più pericolosa al mondo. E’ snervante pedalare su un sentiero non più largo di tre metri con a fianco strapiombi di oltre mille metri. Il fondo già sconnesso e ulteriormente rovinato dalle frequenti cascate mi accompagna mentre mi insinuo nella giungla infuocata, altrimenti irraggiungibile. Col passare dei chilometri aumenta la temperatura, così come la vegetazione che da ormai tanto tempo non mi teneva compagnia. Ora pedalo a 35°, con la bandana sulla bocca per ripararmi dalla polvere che ricopre la mia bici e si mischia al mio sudore. Scivolando lentamente verso la foresta, incontro le magiche atmosfere di villaggi di frontiera, popolati da cercatori d’oro, come Guanay e Rurenabaque, dove assaporo incantevoli tramonti sul Rio Beni. Il caldo e la polvere sono insopportabili, ma pedalare tra la vegetazione della foresta accompagnato dai suoi rumori è un’emozione indescrivibile. Colorati pappagalli, scimmie, lucertole giganti mi danno il benvenuto.
Eccomi in compagnia di Ariberto, una guida indigena con la quale ho deciso di raggiungere a piedi le fonti del rio Tuichi, lungo il quale vivono ancora delle popolazioni indigene. Da otto giorni cammino nel Parque Nacional Alto Madidi, uno dei tratti più selvaggi della foresta pluviale, con l’80% di umidità, 35 ° e la sensazione di essere nel ventre della terra. La natura selvaggia mi sfiora con i suoi rami, sento il suo soffio caldo e umido sul viso, con gli occhi gonfi di sudore. Purtroppo la rottura del mio depuratore ci costringe ad attingere acqua all’interno di un tipo particolare di liana, che solo grazie alla mia guida riesco a riconoscere. Navighiamo in questo mare verde con tutte le attenzioni del caso per evitare spiacevoli incontri con serpenti e giaguari, che per fortuna vediamo solo da lontano. Quasi provo un senso di abbandono, quando esco dal folto della vegetazione dopo tanti giorni per costruire una zattera con la quale ridiscendiamo il fiume. Un lento ritorno alla normalità, al mio viaggio. La strada mi porta di nuovo verso le alte e gelide distese dell’altipiano.

Ai confini del cielo
Da Oruro mi dirigo a sud-ovest su una pista che mi offre per tre giorni la peggiore delle “calaminas”, le tipiche ondulazioni prodotte dal passaggio dei fuoristrada. Alterno lunghi momenti di solitudine a caldi momenti di contatto umano che lasciano dentro di me una profonda ambivalenza emotiva. Sono eccitato perché tra pochi giorni raggiungerò il Salar de Coipasa, a nord del salar de Uyuni ,il lago salato più alto del pianeta.
Il mio progetto prevede la difficile combinazione dei due, arrivando dalla pista del villaggio Chipaya. Umili capanne di fango circolari sono le tipiche abitazioni di questo solitario villaggio dove gli estranei non sono particolarmente graditi. Per ore cerco di instaurare un buon rapporto con un gruppo di giovani, vestiti con i tipici mantelli boliviani, dimostrandomi umile e bisognoso, ma soprattutto rispettoso delle loro tradizioni. Il risultato è un’inaspettata ospitalità in un magazzino di terra e acqua. Osservo curioso, ma non faccio domande evitando l’invadenza.
Quasi a ringraziarmi del rispetto, il giorno della partenza Juan mi vuole spiegare come la gente dell’altipiano viva combattendo quotidianamente contro il vento, la siccità, il freddo pungente e l’elevata altitudine. Sono campesinos, allevatori che lavorano tutta una vita per strappare a questa terra la sola possibilità di sopravvivere. Privi di ogni confort, non capiscono perché io lasci le mie responsabilità e il mio benessere per venire nelle loro terra. Capisco che il suo sguardo silenzioso mi interroga e che non capirebbe le mie motivazioni, così la mia unica risposta è una stretta di mano: in silenzio e sorridendo mi allontano spingendo la bicicletta.
Un foglio scarabocchiato in modo approssimativo dal mio amico è la mappa per trovare il passaggio tra la montagne per aggirare il salar attualmente allagato da piogge fuori stagione. Le poche indicazioni mettono a dura prova il mio senso dell’orientamento mentre affondo nel fango misto a sale per cercare la pista diretta a Llica. Con le riserve d’acqua per solo un giorno, mi trovo costretto a un bivio. Decido… e solo il mattino seguente l’ansia si attenua, quando uscito da una profonda gola rocciosa mi trovo sul lato sud dal salar.

Il mare bianco
Di fronte a me 20.000 kmq di abbaglianti distese di sale, residuo di laghi preistorici che ricoprivano la zona oltre 10.000 anni fa. Niente più foreste, niente più sabbia, né montagne. In posizione assolutamente isolata mi avvolge un paesaggio extraterrestre, un immenso mare bianco. Chiamato l’autostrada più alta del mondo per il suo fondo piano e liscio, ora si presenta sotto le mie ruote come un’immensa distese di mattonelle esagonali alte più di quindici centimetri. Le forti piogge e il vento hanno reso il fondo così sconnesso che mi permette solo 5/6 km l’ora e le terribili vibrazioni danneggiano, per fortuna non seriamente, alcune parti della bicicletta. Qua e la trovo specchi d’acqua che riflettono alla perfezione il cielo blu dell’altipiano mentre nel totale silenzio la mia mente si perde all’infinito. Niente punti di riferimento, solo emozioni accompagnate dallo scricchiolare dei cristalli di sale sotto le ruote.
Procedo controllando costantemente bussola e cartina verso il centro del salar, per raggiungere l’isola del "Pescado", un rilievo di rocce sovrannaturale, coperto di cactus. Dopo 240 km di bianco, vivo un ultimo contatto con la gente, i suoi colori e gli sguardi dei bambini, cui spiego chi sono, da dove vengo e dove vado.
Ho ancora l’ultima e più difficile parte della mia avventura. La pista delle lagune, così si chiama al mia prossima sfida che mi porta nella regione Los Lipez, un’enorme e desolata regione desertica,uno dei territori dalle condizioni più severe al mondo. Giunto al punto di controllo di Ch’iguana, dopo aver attraversato il piccolo salar omonimo, un gruppo di militari dall’aria impacciata mi fermano, non soliti a vedere una bicicletta inoltrarsi in questi territori. In molti tentano di dissuadermi dalla mia idea,convinti dell’impossibilità del progetto.
Con il vulcano Ollague alla mia sinistra, mi dirigo a sud verso territori sempre più impervi e subito mi trovo a spingere su salite improponibili dal fondo troppo sconnesso. Attraverso paesaggi malinconici e, con un opprimente senso di solitudine, pedalo 8-9 ore al giorno su tratti impraticabili, contemplando la voce del silenzio e il battito del mio cuore. La disidratazione e la fatica a questa altitudine sono elevatissime e mi obbligano a pedalare con quindici litri di acqua da razionare.
Le ruote affondano sempre di più mentre mi inoltro verso un vero deserto a 5000 metri circondato da cime innevate. All’improvviso mi trovo a terra e per la fatica tardo un’attimo a capire, le spalle mi fanno male… sto spingendo da 19 km, la sabbia e il vento mi impediscono di pedalare e non ho un posto per ripararmi, vorrei fermarmi, ma l’unica alternativa è spingere e andare avanti.
Attraverso un vero paradiso di vulcani sbuffanti e lagune, la cui superficie assume i colori più diversi per le alghe e i minerali presenti. Assistere all’alba a 5200 metri quando le fumarole dei geyser di Sol de Mañana sono vivacizzate dall’aria ghiacciata è uno degli spettacoli primordiali cui tutti dovrebbero assistere e da cui ho tratto la forza per continuare.
In due giorni e con l’aiuto di un po’ d’acqua donatami da un fuoristrada di una spedizione, eccomi sulle rive della Laguna Blanca per effettuare la salita al Vulcano Licancabur, che con i suoi 5900 metri si affaccia sul Cile. Dalla cima vedo laggiù, a due giorni di fatiche, il confine e la fine del mio viaggio. Sono veramente stanco e questi ultimi giorni mettono a dura prova le mie spalle, la bici, ma soprattutto la mia volontà. Non riesco a essere attratto da nulla,se non dall’idea di terminare questa sofferenza, fatico a mantenere la lucidità, ma ormai ci sono.
Non provo gioia mentre varco il confine e comincio a scendere verso la costa, passando per San Pedro de Atacama. Pedalo ormai con impazienza per coprire gli ultimi 50 km, sono esausto, eppure sul lungomare, dove tutto è iniziato tre mesi fa, rallento, quasi non volessi terminare il mio cammino…
Capisco che viaggiare e conoscere chi non siamo e dove non viviamo, ci dà una visione più reale di noi stessi. Domani non dovrò affrontare salite, raggiungere cime o attraversare deserti, e per un attimo penso di ricominciare. Poi, mentre sto per bere l’ultima volta dalla mia borraccia, un bambino mi ferma con la solita domanda "Hola gringo! Donde vas con tu bicicleta?" Sorrido: "Da nessuna parte. Torno a casa".

Un commento in “Bolivia: Salares Expedition
  1. Avatar commento
    kostanna
    22/11/2004 15:16

    complimenti.Noi stiamo organizzando un viaggio in Bolivia in moto. Anche in bici però...Ancora complimenti.

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