Terra davvero straordinaria per la molteplicità degli aspetti e dei valori che rendono fonte di scoperte e sorprese anche il millesimo viaggio nelle sue valli, l’area dolomitica si rivela irripetibile anche per quanto riguarda le tradizioni. Nonostante che un turismo talvolta invadente abbia, con il passare delle generazioni, snaturato la quotidianità delle popolazioni a vantaggio di un business che sembra voler macinare tutto nei suoi ingranaggi impietosi, non mancano esempi di mantenimento di tradizioni e tipologie di organizzazione sociale che, sostanzialmente invariate nei secoli, rivestono il valore di leggi e norme a tutt’oggi operanti.
Voglio in questo articolo riportarne qualche esempio significativo, con la modesta speranza di contribuire in qualche misura alla loro conoscenza e mantenimento: e chissà che qualcuno, ritagliandosi qualche ora di stacco dai caroselli “da mattina a sera con gli sci ai piedi”, non sia invogliato a “leggere” con occhio un po’ diverso i particolari che paesi e villaggi qui e là ancora presentano a testimonianza di quanto accennerò in queste poche righe.
LES VILES
I primi insediamenti umani nelle valli dolomitiche avvennero sui pendii, in posizione favorevole al soleggiamento; infatti le basse valli, spesso incassate, non vedevano il sole per mesi nel periodo invernale e, in più, i fiumi a carattere torrentizio erano una continua minaccia di inondazioni.
I centri abitati veri e propri sorsero sul fondo valle successivamente e vi si installarono le attività degli artigiani: falegnami, fabbri, tessitori, mugnai, muratori e quant’altro.
Tipico esclusivamente della Val Badia è però un insediamento, definito come “vila”, le cui origini vengono fatte risalire alla colonizzazione dei Reti. Si tratta di piccole concentrazioni autosufficienti di edifici, stanziatesi di solito sulla sommità delle colline: allo scopo di adattarsi alla natura più o meno acclive del terreno e di sfruttare al meglio l’esposizione solare, si svilupparono modelli urbanistici differenti, talvolta geniali, ad andamento lineare, ad anfiteatro, concentrico o a raggiera a seconda dei casi.
L’architettura delle viles è caratterizzata dal fatto che ciascuna famiglia della comunità possedeva due edifici ben individuati: uno con funzione abitativa, l’altro adibito a fienile, spesso collegati tra loro ed al terreno da un passaggio aereo per ovviare al dislivello.
La continuità nel tempo delle viles aveva il suo fondamento nella consuetudine del "Maso chiuso", del quale si legge nel successivo paragrafo.
Nelle viles era prevalente il senso della socialità e della solidarietà, nel progressivo rafforzamento di un’identità collettiva evidente negli spazi comuni, in particolare la piazzetta centrale sulla quale si trovavano la fontana e il forno del pane a disposizione di tutti i membri della piccola comunità. Pur con il sopraggiungere dei comforts moderni, ancora oggi la vita sociale delle viles si svolge analogamente a quella originaria.
IL MASO CHIUSO
Il “Maso chiuso” ha sempre rivestito, nell’ambito altoatesino, una vera e propria legge locale per cui l’eredità della proprietà agricola spettava unicamente al primogenito della famiglia.
Lo spirito del Maso chiuso (definibile anche come “fattoria indivisibile”) è chiaramente l’intento di conservare l’unità e la redditività dell’azienda agricola per scongiurare il danno di una frammentazione della proprietà e delle produzioni.
La pratica del Maso chiuso è plurisecolare e la prima documentazione storica risale al 1526 come regolamento del Governo del Tirolo. L’istituzionalizzazione delle norme è datata 1770 su decreto di Maria Teresa d’Austria: il Maso chiuso era definito come un insediamento, con circostante terreno, sufficiente al sostentamento di un nucleo familiare tra le cinque e le venti persone. Alla morte del capofamiglia, il primogenito rilevava l’intera proprietà liquidando ai coeredi un corrispettivo in denaro; con il tempo, le norme hanno subito modifiche, tra le quali la facoltà del padre di scegliere il figlio erede.
Pur non avendo oggi più la validità giuridica, i princìpi che improntano il Maso chiuso sono tuttora radicati e applicati nell’intero territorio dell’Alto Adige, tipico esempio di come la consuetudine faccia legge.
Parecchi masi sono visitabili, anche se alcuni si sono riconvertiti in struttura ricettiva, agriturismo o vendita di produzioni locali; la zona in cui hanno più fortemente mantenuto la peculiarità originaria è probabilmente, anche grazie al relativo isolamento, la Val Senales, con magnifici edifici in legno annerito splendidamente conservati.
CAVALESE E LA MAGNIFICA COMUNITA’ DI FIEMME
Sulla piazza di Cavalese fa bella mostra di sé il Palazzo della Magnifica Comunità di Fiemme: belle facciate dipinte, lo slanciato campanile, ambienti ricchi di storia ed opere d’arte, in breve un complesso architettonico meritevole di una visita.
Non tutti sanno però che il Palazzo è sede di un potere che ebbe il suo primo embrione nientemeno che nel 1111: in quella data il principe-vescovo di Trento, Gebardo, ratificava, pur sotto la superiore autorità del Vescovado, il diritto della Comunità a un’ampia autonomia. A distanza di 882 anni, la Corte di Cassazione sentenziò nel 1993 che (riferisco testualmente) “la Magnifica Comunità di Fiemme ha natura di Ente Pubblico e come tale il potere di darsi l’ordinamento meglio confacente alle sue esigenze e alle sue finalità”: un raro esempio di saggezza nell’imperante burocratizzazione odierna, demandare cioè agli abitanti stessi di una vallata la gestione delle risorse e la risoluzione di problemi che nessuno meglio di loro può conoscere. Eppure sembrerebbe così semplice…
Così come le Viles e il Maso Chiuso, parliamo di un’istituzione fortemente radicata nel tessuto umano e sociale, nata per gestire un territorio dalle peculiarità uniche. Nello Statuto si parla di “unità spirituale e socio-economica”, fondata su una proprietà collettiva, basata su una significativa estensione territoriale (circa 200 kmq di cui 110 circa coltivati a bosco) e su altri beni mobili ed immobili. I beni comunitari invece sono di proprietà collettiva ma indivisibile, amministrati tramite rappresentanti liberamente eletti e l'utile va a coloro che fanno parte della Comunità stessa.
Per un maggior approfondimento di una tematica davvero unica, consiglio l’esauriente sito ufficiale della Comunità.
LE “REGOLE” DI SPINALE E MANEZ
Un esempio analogo a quello della Comunità di Fiemme si sviluppò nelle valli ad ovest e ad est del Gruppo di Brenta.
Testimonianze di tentativi di darsi una regolamentazione sulla gestione dei territori e delle risorse sono presenti già in documenti di epoca medioevale, anche se i primi progetti di economia alpestre erano talmente rudimentali da prevedere la risoluzione delle diatribe con sistemi sbrigativi e non di rado sanguinosi: lo stesso principe-vescovo di Trento affidò nel 1155 un’intricatissima questione sui pascoli di Malga Movlina a un duello cruento tra i contendenti della Val Rendena e del Bleggio, un vero e proprio “giudizio di Dio” sul modello della sfida tra Orazi e Curiazi.
Il primo statuto scritto, che rimase nei secoli il modello sul quale innestare modifiche e aggiustamenti, è la Regola di Spinale e Manez, datata 1377 e di grandissima importanza storica e sociale: costituisce infatti la dichiarazione che (cito ancora) “una gestione democratica del territorio sia possibile solo in presenza di princìpi da tutti accettati circa il suo uso non speculativo e sostenuti da una conduzione concordata ma rigorosa”.
Con successive modifiche nel corso dei secoli prese gradualmente corpo un apparato legislativo volto a regolare, con norme e sanzioni, ogni aspetto della vita contadina, quali ad esempio:
= il taglio dei boschi e l’impiego dei diversi legnami per usi ben differenziati;
= le limitazioni, in quanto a periodi dell’anno e a numero di capi di bestiame, nell’impiego delle aree a pascolo;
= le licenze di pascolo ai forestieri e i corrispondenti affitti;
= le indennità sull’erbatico (cioè l’erba consumata) dei capi di bestiame condotti a malga;
= le normative sui prodotti degli alpeggi; come esempio della loro importanza, in tempi in cui gli scambi erano fondati sul baratto, basti pensare che la forma di formaggio rivestiva il ruolo di unità di misura.
Aspetto di sorprendente modernità, le “regole” hanno sempre insistito per limitare i diritti di sfruttamento in misura tale che le risorse fossero concretamente rinnovabili nel tempo. Dal mondo della Montagna, una lezione antichissima che, alla luce degli sperperi scriteriati di cui oggi siamo testimoni (e in parte corresponsabili), conserva intatta la sua validità.
Allora, che cosa ne dite? Durante la prossima settimana bianca sulle Dolomiti non sarà il caso di dedicare una mezza giornata a un itinerario che ci porti alla scoperta delle radici più profonde di questa Terra? Credo proprio che ci sia di che tornarne un po’ arricchiti, e pazienza se ci saremo persi qualche discesa con gli sci…
Bello ed interessante. Un aspetto conosciuto da pochi ed una riprova della ricchezza del mondo dolomitico.