Per entrare nell'Arunachal Pradesh, uno stupendo stato nell’estremo est dell’India - anche se straziato dalla guerra civile - la via più facile è arrivare in aereo a Dibrugarh [Assam], una città polverosa, affollata e calda.La macchina corre veloce per i pochi chilometri di buona strada asfaltata e si ferma dopo trenta km al “tempio delle campane” dedicato al dio Shiva. Migliaia di campane di tutte le misure pendono dagli alberi o dai muri: sono state offerte dai devoti che si sono visti realizzare un desiderio dopo aver pregato Shiva. Dall’altro lato della strada alcune donne tornano a casa dopo un giornata di lavoro nei campi, con ceste di bambù piene di ortaggi. Alle 16,30 è già buio in questo estremo est dell’India.
L'accesso all'Arunachal nella regione di Tirap è sorvegliatissimo dai militari perchè questa zona confina con la Birmania e il movimento naxalita è molto forte. Qui, a quanto pare, i militari non devono rispondere delle loro azioni neanche al governo centrale!
La strada diventa disagiata; buche e salite al buio verso Khonsa, dove si arriva dopo cinque ore di sofferenza. Il compenso per le fatiche è una guest house già parzialmente occupata da VIP indiani; le poche camere rimaste (tre per l'esattezza) sono da spartire fra eventuali altri ospiti in arrivo. I pranzi e le cene, consistenti in riso e pollo, vengono preparati in una cucina incredibilmente sporca. Sempre e solo riso e pollo! Nelle camere non c'è acqua; viene portata dal personale, quando se ne ricordano. Fa freddo. Khonsa, un paesone di diecimila anime, è situato ad un altezza di 792 metri ed è la porta d’ingresso per il villaggio di Tutse dove vivono le tribu Olo o Tutsa, e per altri villaggi con etnie Nocte e Wangcho.
È una zona poco visitata dal turismo a causa della mancanza di infrastrutture e della difficoltà per ottenere i permessi. Infatti ci si imbatte subito in un posto di blocco di militari in assetto di guerra che fanno aspettare un tempo interminabile prima di alzare la sbarra: devono comunicare i dati dei visitatori ad altri posti di blocco ed assicurarsi che i permessi siano originali. Le strade, dissestate, sono orlate da foreste di bambù; dietro al bambù, altre foreste che sembrano un muro verde e impenetrabile.
Il villaggio è costruito interamente in bambù; le case a palafitta hanno un pavimento di bambù intrecciato; al centro della casa si trova un fuoco, per cucinare e per scaldarsi; le pareti, ovviamente in bambù, sono decorate all’esterno con teste di mithun (specie di enorme bue). Il villaggio è poco pulito e popolatissimo di cagnolini che finiranno in padella; l’acqua viene erogata da una fontana al centro del paese e gli abitanti ci si recano con un contenitore in bambù per farne scorta. Che strano, su alcune case ci sono piccole paraboliche!
Poco distante dal villaggio si trova il cimitero. Le tombe - gli abitanti sono cristiani per cui seppelliscono i loro morti - sono circondate da canne che si elevano chiudendosi a cupola; sui lati sono appesi gli oggetti del defunto - una radio, una valigia, delle bottiglie ed altro - che devono accompagnarlo nel viaggio nell'aldilà: una sfumatura di animismo integrata nel cristianesimo locale. In altri posti, lungo la strada, si trovano alte torri di bambù con un ombrello in cima; il giorno del decesso vi viene appeso un gatto o un gallo insieme alle piccole proprietà del defunto; in questo caso secondo la credenza popolare l’animale deve portare gli oggetti nell’aldilà seguendo il defunto. Ecco anche la tomba di un ricco signore ucciso dai terroristi, con al fianco la sua macchina con le ruote cementate.
I Nocte e i Wangcho, personaggi amichevoli e ridanciani, s'incontrano facilmente in mezzo ai camion militari mentre si recano al lavoro camminando scalzi sul poco asfalto di queste povere strade; come unico abito indossano un perizoma, hanno il torso nudo, una cesta di bambù a tracolla e l’immancabile dao in mano. Il dao è una sorta di machete inseparabile da ogni uomo. Può essere di varie forme, abbellito con diversi ornamenti: alle volte il fodero è rivestito con pelli d’animale - linci,orsi etc - alle volte solo di bambù. Il suo uso va dalla difesa all'attacco al taglio dell’erba.
I villaggi sono tuttora governati da un re; a Nimu il "palazzo reale" è una enorme casa di bambù, con vasti spazi, molte camere, il tutto senza nemmeno un piccolo mobile. Fenu, la regina di Nimu appartenente all'etnia Wangcho, è piccolina e fragile: ha 39 anni ed è la preferita fra le quindici mogli del re, che in totale gli hanno dato ventinove figli.
Il palazzo del re di Ponchau non è molto differente. Il re veste abiti moderni ed è seduto con amici intorno al fuoco. Su una parete alle sue spalle sono appese le sue armi e parte dei suoi abiti tradizionali.
In tutti i villaggi vi sono delle strutture chiamate "Murun", dormitori dove una volta vivevano i giovani; disposti in posizioni strategiche in modo da poter avvistare i nemici in caso di guerra, i murun contengono un enorme tamburo ricavato dal tronco di un albero. Il tamburo serviva per avvertire dell'avvicinarsi del nemico, per richiamare al raduno per un consiglio del villaggio, o semplicemente per un rituale.
In un villaggio Wangcho, vicino ad uno di questi murun si trova una capanna che contiene 47 teschi: su un piano più alto il teschio del re nemico, più in basso i teschi dei nemici "comuni". Eh sì, fino al 1970 qui esistevano ancora i tagliatori di teste! I missionari cristiani hanno costretto molti altri villaggi a seppellire i resti dei nemici, per cui trovare testimonianze di questa usanza è difficile.
Gli Apatani
Il battello in un’ora e mezza porta sull’altra sponda del Brahmaputra, verso i villaggi delle etnie Apatani. I villaggi sono più moderni di quelli nel Tirap, un misto di case in cemento e bambù, e strade abbastanza ben tenute, anche se non asfaltate attraversano i villaggi. I giovani hanno abbandonato gli abiti tradizionali, ma tra gli anziani si incontrano ancora personaggi fantastici. Le donne hanno due cerchi di legno nero inseriti nelle narici e il loro viso è tatuato come quello delle donne Gallong. I cerchietti inizialmente erano piccoli, e man mano si introducevano quelli più grandi, fino a provocare una sorta di taglio fra le due narici. Questa usanza è stata abbandonata venti anni fa, soltanto le donne più anziane ne portano ancora i segni.
La tradizione sciamanica è tuttora mantenuta viva. Per esempio, finita la costruzione di una nuova casa, come buon auspicio vengono fatte offerte rituali: si costruisce un piccolo totem di bambù - tanto per restare nel paese del bambù -, e lo sciamano lega un gallo dalle zampe, con la testa in giu. Cantando strappa alcune penne che conficca nella parte superiore del totem e poi con disinvoltura afferra il dao e decapita il pollo. Lo slega dalla sua posizione originale e strofina il sangue sulla parte inferiore del totem; subito dopo lo taglia a metà ed estrae il fegato che consegna al padrone di casa. Sul fegato si leggono i presagi buoni o cattivi. Con il resto della famiglia lo sciamano entra in casa ed intorno al solito fuoco centrale il gallo viene cucinato mentre tutti beveno una birra molto simile al chang tibetano.
Non è soltanto nei villaggi Apatani che si corre verso la modernizzazione; anche nei villaggi nel Tirap descritti sopra la popolazione giovanile è quasi del tutto assente: i ragazzi lavorano nelle grandi città, vestono abiti moderni, le ragazze sono disinvolte come mai lo sarebbero nel resto dell’India e solo gli anziani ancora siedono sulla piccola veranda della casa in bambù a intrecciare panieri o ceste con canne (di canna? Sì, di canne per non ripetere bambù!), ancora vestono gli abiti tradizionali, ancora le donne portano collane fatte con monete risalenti al 1904, epoca britannica.
Il Nagaland: il Hornbill festival a Kohima
Anche se con strutture abbastanza primitive, il Nagaland è meno sorvegliato dall’esercito ed ha una popolazione oramai modernizzata. Ma ancora esiste la possibilità di vedere le etnie nei loro costumi tradizionali nelle feste nei villaggi dove eseguono danze in costume, e soprattutto nel Hornbill festival. Il Nagaland è composto da 16 tribù completamente differenti per usi e costumi ma riunite tutte sotto il simbolo della piuma dell’uccello "bucero bicorno". In occasione del festival le etnie si ritrovano in un villaggio appositamente costruito fuori Kohima, la capitale del Nagaland, una città costruita disordinatamente sui pendii delle colline ad un'altezza di 1500 metri.
L’organizzazione del festival è meticolosa; sono stati costruiti bagni in cemento, ed un’arena con una scalinata semicircolare di fronte alla tribuna dei VIP, occupata da decine di soldati onnipresenti con mitra spianati ma sorridenti. Ogni etnia ha un suo spazio, con una tipica casa della tribù, un ristorante con piatti tipici e, naturalmente, i componenti della tribù che sotto la guida di un maestro si allenano nelle danze o nei giochi che in seguito eseguiranno in pubblico. Gli ospiti stranieri sono ricevuti cordialmente al festival, e non c'è nessun problema per fotografare.
Il programma del festival viene svolto con puntualità. I membri delle etnie che partecipano allo show mattutino o pomeridiano siedono sulla scalinata avvolti nei loro scialli di lana rossi e neri tipici del Nagaland, ancora tessuti a mano; quando entrano in campo vengono introdotti da una voce, alle volte femminile alle volte maschile, e il simbolismo della danza o della lotta o del gioco viene spiegato con dovizia di particolari. È uno spettacolo di colori, suoni di tamburi, urla selvagge, canti e risate che si svolge in un cerchio di colline verdi, fra filari di stelle di natale enormi, di colore rosso o bianco. La sera molti dei componenti delle etnie si spogliano dei loro costumi: rimettono i jeans e li si ritrova nel bazar di Kohima; qualcuno comunque dorme nello stand della sua etnia.
Il Nagaland, anche con una guerra civile in corso, strade dissestate, mancanza di elettricità, strutture alberghiere povere, è già cambiato; sulle strade non si incontrano più i personaggi del Tirap. Quanto tempo ancora rimane al Tirap di oggi!