Il Tibet non finisce mai di meravigliarmi: per le innovazioni edilizie e tecnologiche, per i paesaggi e la vita che si svolge fuori dalle grandi città su percorsi mai fatti prima, per quello che si scopre parlando con lo staff.
Quest’anno, con dieci compagni di viaggio, il 29 ottobre prendiamo l’ultimo aereo per il Tibet; se qualcosa andava male avremmo fatto la strada due volte. Arrivati a Gongkar airport siamo ricevuti in un nuovo edificio perfettamente funzionante da sorridenti ufficiali tibetani e cinesi.
La nuova super strada che passa sullo Tsangpo, a qualche decina di chilometri prima del vecchio Chagdzam, con il suo tunnel decorato da arcobaleni, conduce a Lhasa in meno di un’ora.
E’ autunno. Lungo la strada gli alberi privi di foglie permettono di individuare il Potala già subito dopo il Drolma Lhakhang. A Lhasa un tempo stupendo ci permette di fare tutte le nostre visite al mattino, ma il pomeriggio nuvoloso ci trattiene nelle camere riscaldate dell’albergo in pieno barkhor. Nelle viuzze antiche il barkhor è rimasto originale, pieno di negozietti, carrettini che vendono frutta e pellegrini che si prosternano davanti al Jokhang.
La gita a Ganden è particolarmente piacevole, soprattutto la passeggiata sul lingkhor: per la prima volta vedo un “durtrö”, luogo dove viene celebrato il funerale dell’aria. Un grande pietra piatta è costruita sull’orlo di uno strapiombo. Poco prima è stato effettuato un funerale; ci sono macchie di sangue fresco sulla pietra, capelli e coltelli sparsi un po' dovunque, e sul lato destro si trova un primitivo, semplice posto dove vengono bruciati i resti che non sono stati divorati dagli avvoltoi! Ma le nuvole, che preoccupazione! Cosa succederà sulle gowa?
Il mattino che andiamo a imbarcarci sulle barche il cielo è stupendamente limpido e, quasi per miracolo, così si manterrà fino al nostro arrivo in Nepal. Si parte!
Il tratto della navigazione, in cui erano previste cinque notti in tenda, dopo il freddo della prima notte in tenda si riduce a due notti in campeggio e le rimanenti al riparo delle guest house nei monasteri.
Si sta bene in barca. Abbiamo tutto: coperte, cibo; ma quando il vento decide di soffiare il freddo si fa intenso. La giornata passa ammirando meravigliosi panorami e alle volte incagliandoci nell’acqua verde smeraldo un filino bassa. Il mio rematore si chiama Karma, anni 63, sempre vestito uguale e infaticabile.
Il primo giorno passiamo sotto il ponte della nuova ferrovia che collega Lhasa con Golmud, un ponte modernissimo che tutto sommato non distrugge il paesaggio più di tanto. Per assicurarmi se è gradito anche dai tibetani “locali” chiedo a Karma se gli piace; lui lo trova molto bello. Vediamo anche il treno!
Durante le lunghe ore di navigazione si parla. Parlo soprattutto con la nostra giovane corrispondente tibetana e con la guida sempre gentile e disponibile. Ciò che scopro mi lascia stupito, perchè si avvicina molto al mio proprio pensiero. Pema ha studiato all’università di Pechino. Mi racconta che i suoi migliori amici sono cinesi per via della loro mentalità aperta e priva di superstizioni; è d’accordo con me che il potere del clero nei tempi passati ha danneggiato il Tibet non poco; è d’accordo sul bisogno di “guardare avanti”; è d’accordo sulla “poca utilità” della fuga di tutti i capi spirituali in India o in Occidente, che invece di combattere al fianco di coloro che sono rimasti, come dei veri Buddha hanno preferito la facile vita in “esilio”; è d’accordo sulle molte favole raccontate dalla tradizione tibetana. Ma vede anche le restrizioni imposte dal governo cinese; comunque, dice: “ci sono delle leggi, se le rispetti ti lasciano in pace”. Intanto passa le ore a sgranare la sua mala e a pregare!
Tashi invece fra le altre cose mi racconta che i tibetani hanno il diritto di avere tre figli - alla faccia della sterilizzazione forzata!
Arriviamo al campeggio; lo staff, eccezionale e tutto tibetano, ha già preparato le tende, il cuoco magnifico ha già predisposto the, caffe e biscotti. La cena è sempre abbondante, e con molti piatti differenti. Ma fa freddo.
A Dorje Drag, con gioia di tutti noi, troviamo posto nella guest house del monastero. Ci dividiamo nelle grandi camere e ci godiamo un'atmosfera di calma, silenzio, quasi mistica.
Al mattino chiedo di un mio vecchio conoscente, un anziano lama che vive lì. Mi indicano una porta ed entro. È seduto con calma e con un gran sorriso sulla bocca, mi dà la mano e mi fa sedere, arriviamo nel tardo pomeriggio.
Il trasferimento avviene su un trattore che ci sballotta e ci stanca di più che il tragitto da fare a piedi per arrivare al monastero di Za De, un monastero di monache tibetane a 4000 metri. Dormiamo in guest house e per fortuna, come a Dorje Drag, ci sono letti, coperte e lenzuola e si sta al calduccio.
L’ultimo giorno approdiamo vicino a Samye, i Toyota ci aspettano e lo staff viene con noi. È l’ultima sera con loro ma è anche la sera del mio compleanno. Una festa eccezionale, eravamo 23 persone, una torta gigantesca, birra e vino. Insomma sembrava di essere a casa. La serata è finita a panna in faccia fra i ragazzi dello staff.
Inizia la discesa verso il Nepal con i Toyota. Le distanze, oramai, si sono accorciate; la nuova strada asfaltata, veloce e sicura, conduce fino a Nagartse; dopo ricomincia lo sterrato.
Fra due anni la strada fino al confine tibetano sarà completata. Stupro dell’ambiente? Non direi; una strada non rovina certo i paesaggi stupendi che la fiancheggiano, e poi che dire delle nostre reti stradali? Ma forse qualche nostalgico preferirebbe che i tibetani continuino a spostarsi a piedi percorrendo distanze enormi in mesi, senza pensare alle comodità di cui “anche” il popolo tibetano vorrebbe usufruire vicino a lui.
Parliamo e mi emoziono. Mi ricorda il mio vecchio lama e resterei volentieri con lui per un po' di tempo. Ma il tempo non c’è! Le gowa ci aspettano per andare a Ngadrag.
Comunque i posti selvaggi, dove i carretti o altri mezzi primitivi di trasporto non sono del tutto scomparsi, esistono ancora. La strada che conduce da Shigatse a Shegar via Renda e Sakya ci porta in un Tibet che mi era quasi sconosciuto se non per le steppe deserte del lago Namtso.
La strada attraversa un deserto di sabbia finissima, per molti tratti le dune nascondono la pista e villaggi dei quali non si sospetterebbe l’esistenza appaiono nel deserto. Fra la sabbia emergono rovine di antichi villaggi o fortezze e l’immancabile tempesta di sabbia ci tiene compagnia per un paio d’ore. L’autista guida impassibile!
Il giorno dopo siamo a Rombug, al campo base dell’Everest. Il “Signore delle montagne” si mostra senza una nuvola, maestoso e un filino minaccioso per la sua severità. Rombug è un piccolo villaggio, con un piccolo gompa dove convive una comunità di monache e monaci. Bello, pulito; suppongo viva sulle spedizioni alpinistiche. I cinesi non hanno potuto fare a meno di innalzare anche qui un’antenna per i telefonini. Ma che fare, noi l’abbiamo utilizzata...
Al ritorno verso la ventosa e fredda Shegar ci fermiamo a mangiare nel villaggio di Tashi Dzong. Altro scorcio del Tibet antico. Un bazar con stradine polverose percorse da carretti trainati da cavalli, donne e uomini con magnifici costumi locali che si fanno fotografare senza chiedere soldi. Mangiamo in un tipico ristorantino tibetano, non veramente pulito ma pieno di gente, con un’atmosfera dimenticata nei ristoranti delle grandi città.
E presto arriviamo a Zhangmu, e il viaggio è finito...
Dharamsala, 30 novembre 2005
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Tibet: in viaggio sulle gowa
Tradizioni che si mescolano alle novità nel tormentato Paese himalayano
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2 commenti in “Tibet: in viaggio sulle gowa”
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decisamente interessante.Qual'è la stagione migliore?