Stati Uniti: il mito dell'Ovest - Parte II

Continua il Viaggio nell’Ovest degli States

L'articolo si ricollega direttamente al già pubblicato: "Stati Uniti: il Mito dell'Ovest - Parte I", presente sulle pagine di questo sito.
Sabato 25 maggio 2002
MEXICAN HAT - CORTEZ (km. 329 / 2127)
Dunque, eravamo rimasti nello Utah, terzo Stato dopo California e Arizona di questo nostro viaggio nel “lontano Ovest”; per la precisione a Mexican Hat, giusto una fila di case in posizione strategica per i viaggiatori in quanto situata appena 34 km. a nord-est di quello straordinario manifesto del Far West che è la Monument Valley.
Ma com’è che una cittadina può chiamarsi “Cappello Messicano”? La risposta si trova a breve distanza: poco fuori dall’abitato una sterrata a tornanti porta a un bel punto panoramico dall’alto sulle acque limpide del San Juan River, affluente che va a sfociare nel Colorado un centinaio di chilometri a ovest, ormai nel tratto in cui il Grande Fiume forma il Lake Powell. L’altura a ridosso del belvedere culmina con una formazione rocciosa dalla sagoma di busto umano sormontata da un grosso masso circolare in sorprendente equilibrio che dà proprio l’impressione di un sombrero. Una leggenda vuole che si tratti di un pastore messicano pietrificato da uno stregone perché innamoratosi di una bella indiana.
Dal paese vale senz’altro la pena di spingersi una quindicina di chilometri a nord-ovest fino al Gooseneck State Park; come dice il nome, il San Juan River descrive una serie di meandri a forma di “collo d’oca” (gooseneck, appunto) sul fondo di pareti rocciose stratificate, spettacolo che si può ammirare dall’orlo dell’altopiano, oltre 400 metri sopra il livello del fiume.
Tornati al bivio di Mexican Hat, ci immettiamo sulla strada n. 316 per deviare dopo pochi minuti verso la Valley of the Gods, una sfilata di elevazioni rocciose sacre ai Navajo che sembrano una Monument Valley in miniatura: in mezzo ad esse si sviluppa una pista sterrata in un susseguirsi di prospettive che, a parte le dimensioni più contenute, hanno poco da invidiare alla “sorella maggiore”. A differenza di quella e penalizzata dalla sua vicinanza, l’area è pochissimo visitata, secondo noi a torto; lungo la pista incontriamo solo due persone che hanno pernottato in una tendina ai piedi di un pinnacolo roccioso e in questo scenario devono avere ammirato un tramonto e un’alba da commozione. In tempi recenti anche l’industria cinematografica ha scoperto il fascino di questo luogo appartato: vi è ambientata ad esempio una sequenza di “Forrest Gump”.
La sterrata ad anello sbocca infine sulla Hwy 163 east una ventina di km. prima di Bluff, dove facciamo una breve sosta per un caffè alla “Cottonwood Steakhouse”: è anche il pretesto per qualche foto curiosa sullo slargo sterrato all’esterno del locale, ad esempio a una specie di saloon all’aperto, a una diligenza d’altri tempi e a due spassose tombe dalle quali spuntano due paia di stivali, le cui epigrafi suonano più o meno “Qui giace Whiskey Kip, impiccato perché non diede la mancia” e “Two Guns Pete si lamentò con il cuoco, ora sta a sei piedi di profondità”. Questi Americani!
Oltre Bluff la strada è contraddistinta addirittura da tre numeri differenti: 163, 262 e 41. Dopo 65 km. ci immettiamo, già in territorio del Colorado, sulla Hwy 160, che dovremmo percorrere in direzione est; facciamo invece una digressione verso ovest, giusto per mettere piede dopo pochi minuti in un altro sito significativo. “Mettere piede” mi sembra proprio l’espressione giusta: infatti poche centinaia di metri di strada sul suolo del New Mexico sono tutto ciò che toccheremo di quello Stato. Questo, per arrivare a Four Corners, vale a dire l’unico punto di tutti gli U.S.A. in cui convergano i confini di quattro Stati: Arizona, Colorado, Utah e New Mexico. È di nuovo il caso di dire “Questi Americani!”: di una curiosità geografica hanno fatto un fruttuoso business. Si pagano due dollari a testa per accedere a una piazzola in mezzo al nulla che riporta sul pavimento il punto d’incrocio delle frontiere, gli stemmi in bronzo e le bandiere dei quattro Stati con tanto di folla (beh, sì, anche noi…) in coda per farsi la foto, il tutto circondato da una miriade di chioschi di ristoro e vendita di souvenirs.
Nostra meta è ora Cortez, 60 km. verso nord-est sulla Hwy 160 che nella seconda metà si sovrappone alla Hwy 666. Eccoci in città verso le 13: ci avvaliamo di un grosso supermercato per acquistare un po’ di provviste e ci dedichiamo quindi alla ricerca di un alloggio. Rimarrà uno dei rari casi in cui la cosa andrà un po’ per le lunghe, non tanto per la reperibilità quanto per i prezzi elevati: ma è tipico dei weekend, occasione in cui si approfitta dalla maggiore affluenza di turisti: dopo alcuni vani tentativi in strutture delle catene Motel 6, Super 8, Econo Lodge (che economico proprio non è!), decidiamo per il Days Inn, dove occupiamo una “family suite” con due camere e servizi in comune per $ 106,07 risparmiando una cinquantina di dollari rispetto alle stanze separate. La presenza di una saletta con sedie e tavolo ci consente anche di fare uno spuntino con i viveri che abbiamo appena acquistato, dopodiché partiamo in direzione di Mesa Verde.
Percorrendo una strada panoramica di 37 km. che con parecchi tornanti porta dai 1800 metri di Cortez ai 2452 del Fair View Visitor Center, raggiungiamo il Parco verso le 15. L’attrattiva di questo territorio sta nelle “dwelling cliffs”, le dimore ricavate dagli Anasazi in ampie cavità della roccia e giunte a noi in ottimo stato di conservazione proprio perché protette da grandiose volte naturali; questa civiltà di agricoltori, cacciatori e ottimi artigiani, presente nella regione a partire dal VI sec. d.C., raggiunse il suo apogeo tra il 1100 e il 1300, dopodiché abbandonò definitivamente Mesa Verde per ragioni ancora poco chiare: le ipotesi considerate dagli studiosi sono l’invasione di altre tribù, il sovraffollamento, il progressivo deterioramento della struttura sociale o l’esaurimento delle risorse naturali conseguente a una siccità durata oltre vent’anni.
La visita dei vari siti del Parco è sottoposta a un meccanismo piuttosto avventuroso: è necessario mettersi in coda il mattino per riservare, fino a esaurimento dei posti, il tour guidato a uno solo dei tre più importanti insediamenti, che sono Cliff Palace, Balcony House o Long House. Sta di fatto che a quest’ora c’è per oggi il “tutto esaurito” e possiamo solo recarci a uno dei nuclei accessibili senza prenotazione: si tratta della Spruce Tree House, raggiungibile in dieci minuti dal Chapin Mesa Museum, che è un complesso di abitazioni ottimamente conservate in grado di ospitare un centinaio di persone. Il sito è anche allietato da una breve esibizione di danze e musiche con strumenti a percussione ad opera di un gruppo di indiani in costume tradizionale.
Rientriamo a Cortez, dove abbiamo il tempo per un breve giro in città, ordinata ma priva di particolari richiami, anche se in estate ospita spettacoli folcloristici e ricostruzioni di episodi dell’epopea dei cow-boys.
La giornata si conclude con una cena davvero soddisfacente in un locale che propone la formula “all you can eat”: per una decina di dollari a testa possiamo sbizzarrirci in un ricco buffet di carni, pesce, insalate, frutta e dolci di ottima qualità. Il locale fa parte della catena “Golden Corral” ed è vivamente raccomandabile, anche se non ancora molto diffusa, tant’è vero che nella continuazione del viaggio non la incontreremo più.

Domenica 26 maggio 2002
CORTEZ – MESA VERDE – CORTEZ – MOAB – CANYONLANDS – MOAB (km. 481 / 2608)

Essendo domenica, ci sembra il caso di muoverci di buon’ora al fine di riuscire a visitare uno dei siti di Mesa Verde nella mattinata. Raggiunto il Visitor Center, c’è già una consistente coda, ma riusciamo comunque a prenotare il tour guidato: scegliamo quello a Cliff Palace (raggiungibile in auto in una dozzina di chilometri) delle 9,30. Un ranger (nel nostro caso una giovane alla sua prima visita ma piuttosto preparata) conduce i gruppi composti di un massimo di cinquanta persone a una terrazza a sbalzo dalla quale già si può apprezzare un suggestivo colpo d’occhio dall’alto sul sito, dopodiché lungo un sentierino di 400 metri ricavato nella parete rocciosa e un breve tratto in sottobosco si scende ai piedi dell’insediamento. Siamo davanti al più vasto nucleo abitativo nella roccia dell’America Settentrionale, una comunità che contava circa duecentocinquanta persone distribuite in 217 stanze su più livelli collegate da camminamenti, scale e passaggi interni: un’ambientazione davvero incredibile, impreziosita anche dalla presenza di una ventina di kivas, i recinti circolari interrati destinati al culto e alle riunioni, nonché da una torre cilindrica e una quadrata a quattro piani.
Terminiamo la visita di Mesa Verde intorno alle 11, rientriamo a Cortez e ci innestiamo sulla Hwy 666 west con meta Moab, situata a circa 200 km. da qui in posizione strategica per le visite ai Parchi di Canyonlands e Arches. Giusto a metà strada facciamo sosta a Monticello, nome comune a ben ventidue località nell’ambito degli Stati Uniti: qui approfittiamo di un bel giardino pubblico attrezzato di tavoli e panche sotto gli alberi per lo spuntino di metà giornata.
Dalla cittadina imbocchiamo la Hwy 191 north, già percorsa tre giorni fa sul tratto Chambers-Chinle: dopo una quarantina di chilometri lasciamo sulla nostra sinistra la deviazione per The Needles, uno dei settori del Canyonlands National Park del quale non abbiamo in programma la visita. Con il senno di poi possiamo dire che sarebbe stato opportuno dedicare una delle giornate jolly a un maggior approfondimento di questo Parco “difficile” che, per le eterogenee tipologie di paesaggio e la varietà di attrattive, è in pratica la somma di tre parchi: il Needles District è caratterizzato da formazioni rocciose appuntite come aghi (needles) e da uno dei più estesi complessi di disegni rupestri tracciati dagli Indiani nell’arco di duemila anni. L’area definita The Maze (il labirinto), è la più scomoda da raggiungere e penetrare (solo con fuoristrada e a piedi) di tutti i Parchi Nazionali U.S.A., ma pare che ne valga la pena per l’ambiente integro e selvaggio. Insomma, bisognerebbe stare in America tre mesi anziché quattro settimane: noi visiteremo solo Island in the Sky, ma credo di non esagerare consigliando a chi ne abbia il tempo una permanenza di due o tre giorni.
Dopo una breve sosta per ammirare il Wilson Arch, che si affaccia proprio sulla carrozzabile, entriamo in Moab verso le 13,30 e puntiamo senza esitazione sull’Inca Inn Motel, raccomandato dalla guida Routard, che come al solito non sbaglia: due camere di ottimo conforto in questa struttura all’estremità nord della Main Street ci costano non più di $ 47,70 l’una.
Nella cittadina si respira una piacevole atmosfera da vecchio West, grazie ai molti edifici in legno dalle insegne tradizionali che ospitano locali caratteristici e negozietti di buon artigianato indiano. Da qualche anno Moab è anche diventata luogo di raduno degli appassionati di mountain-bike, che hanno solo l’imbarazzo della scelta tra gli splendidi itinerari dei dintorni.
Uno degli aspetti stimolanti di questo itinerario nell’Ovest è di imbattersi in una grande quantità di scenari di films più o meno famosi e si può ben dire che parallelamente stiamo percorrendo un “viaggio nei luoghi del cinema”. Il circondario di Moab fu un set particolarmente gradito durante l’epoca d’oro del western e il grande John Ford vi ambientò ad esempio alcune scene de “I cavalieri del nord-ovest” e “Rio Bravo”; per non parlare di quello che ci aspetta nei due Parchi limitrofi.
Una quindicina di chilometri lungo la Hwy 191 north e altri 20 sulla 313 portano a una deviazione verso il Dead Horse Point, una spalla rocciosa che offre uno splendido belvedere dall’alto sulle anse del Colorado River, un po’ un’anticipazione delle meraviglie della Island in the Sky. Nelle vicinanze si dirama il Potash Trail, dove fu girata la scena conclusiva di “Thelma e Louise”, quella in cui le due donne si lanciano in auto oltre l’orlo del burrone.
Tornati al bivio con la 313, altri 10 km. portano al Visitor Center del Canyonlands National Park: da qui la Scenic Drive, tra andata e ritorno, si sviluppa su una lunghezza di una sessantina di chilometri collegando punti panoramici uno più bello dell’altro. La prima sosta avviene al Mesa Arch, uno stupendo arco naturale sull’orlo di una scarpata raggiungibile con un sentiero di 800 metri tra cespugli spinosi in mezzo ai quali scorrazzano scoiattoli e conigli selvatici: al di là di questa “finestra” si ha una veduta da favola sul sottostante pianoro roccioso dal quale si eleva una sfilata di monoliti. Una diramazione nelle vicinanze porta in breve al Green River Overlook: qualche centinaio di metri più in basso si stende a perdita d’occhio il tavolato di rocce sedimentarie nel quale, dopo la frattura dello strato superficiale dovuta al cedimento dei depositi salini sottostanti, il “fiume verde” ha scavato in milioni di anni il proprio corso per poi congiungersi con quello del Colorado. Anche qui non manca il riferimento cinematografico: più o meno su questa stessa altura si stagliava la figura di Gesù Cristo, impersonata da Max von Sydow, in una delle scene salienti de “La più grande storia mai raccontata” del 1965.
La strada ha termine una decina di chilometri più a sud in uno slargo sul quale si posteggia l’auto per raggiungere con una passeggiata di dieci minuti il Grand View Point Overlook. Qui si capisce perfettamente la denominazione di Island in the Sky: guardando il sottostante Green River scorrere a meandri tra due rive erbose sul fondo del canyon che qui esibisce tutte le tonalità immaginabili del rosso/arancione/giallo/marrone/violetto, si prova davvero la sensazione di trovarsi su “un’isola nel cielo”, in un posto in prima fila su uno scenario di straordinaria bellezza. Anche la posizione di questo belvedere sembra scelta da un architetto, ma ci ha pensato prima la natura.
Un confronto con il Grand Canyon, anche per la similitudine dei due luoghi dovuta al medesimo fenomeno geologico, sorge subito spontaneo. Certo, la grandiosità di quello (e ne abbiamo visto solo il versante sud…) ci ha lasciato davvero sbigottiti. Stando nei freddi parametri numerici, parliamo di 4934 kmq. contro i 1965 di Canyonlands, che si estende anche a quote più basse e con minori dislivelli tra l’orlo e il livello delle acque: però, a differenza della sommità del Grand Canyon, dove il Colorado è una presenza che si intuisce appena sotto forma di lontane strisce azzurre, qui il fiume è appena cinquecento metri sotto di noi e, con questo cielo limpido e la luce radente del tramonto, ci sembra quasi di toccarlo. Insomma, meglio non fare classifiche, anche perché nei prossimi venti giorni chissà quante volte dovremmo modificarle! La sola certezza è che da questo posto ce ne andiamo davvero a malincuore, visto che si avvicina l’ora di cenare e Moab dista quasi 70 km. di strada tortuosa.
L’Inca Inn Motel è gestito da una simpatica signora belga trapiantata in America da trent’anni, che ci dà una valida indicazione per la cena indirizzandoci all’Eddie McStiff’s Brew Pub, una delle poche birrerie del proibizionista Utah. Come inciso, riferirò di avere letto su un opuscolo turistico un sunto della legislazione sul consumo di alcoolici in questo Stato: c’è un tale groviglio di norme, direttive, eccezioni, cavilli e sfumature riguardo le località, gli orari, i limiti d’età, che penso proprio che da queste parti convenga diventare astemi o entrare sempre nei locali in compagnia di un avvocato! Per fortuna qui siamo nella piena legalità, visto che McStiff’s si vanta di essere “The Moab’s oldest legal brewery”: è quanto si legge in una delle cartoline in distribuzione gratuita all’ingresso insieme con un’altra decina, ciascuna sponsorizzata da un differente esercizio commerciale della città. Il locale, animatissimo e ricco di atmosfera, ha un assortimento di una dozzina di birre di propria produzione e un menù articolato che affianca alla cucina americana piatti messicani, giapponesi, greci e thailandesi. Spendiamo circa quindici dollari a testa per un pranzo decisamente buono, concluso con il dolce della casa (praticamente l’apporto calorico di un’intera giornata!) “Brownie Wowie”, da brown per la grande quantità di cioccolato che copre una gigantesca fetta di torta alla crema, e wow! che è il commento di chi lo ha assaggiato.

Lunedì 27 maggio 2002
MOAB – ARCHES N.P. – PRICE (km. 292 / 2900)

Lasciamo Moab verso le 8 per iniziare la visita dell’Arches National Park in condizioni climatiche accettabili, visto che è descritto come un parco piuttosto caldo e che abbiamo intenzione di compiervi escursioni a piedi per un totale di circa quattro ore.
Un tratto di otto chilometri sulla Hwy 191 north che prevede anche un ponte sul Colorado River porta al Visitor Center, situato a 1245 metri di quota: il sistema viario del parco è articolato in una Scenic Drive di 29+29 km., dalla quale si diramano due strade secondarie rispettivamente di 4+4 e 2+2 dirette ad attrazioni che poi descriverò.
In quest’area la natura ha realizzato nel corso di trecento milioni di anni uno dei suoi più stravaganti capolavori: gli sconvolgimenti tettonici, le piogge, il vento e gli sbalzi di temperatura hanno eroso le pareti rocciose dando luogo, oltre che a monoliti, torrioni, guglie, pinnacoli che abbiamo visto e vedremo un po’ in tutto l’Ovest, a una gran quantità di archi e ponti naturali delle più svariate forme e dimensioni disseminati nei 300 kmq. del Parco.
Preferiamo lasciare per ultimi i punti panoramici che richiedono solo brevi passeggiate ed effettuare per prima l’escursione più lunga. Dopo una ventina di chilometri sulla Scenic Drive svoltiamo su una sterrata che in altri due porta al parcheggio nei pressi del Wolfe Ranch, costruito nel 1880 da un reduce della Guerra Civile (doveva averne davvero le tasche piene per ritirarsi in un posto così fuori mano!); di qui parte il Delicate Arch Trail, un percorso di cinque km. tra andata e ritorno che richiede circa un’ora e mezza di cammino su un dislivello di 150 metri. Solo all’ultimo momento, sbucando da dietro una spalla rocciosa, ci si trova davanti a uno dei più begli scenari d’America: sul ciglio di un anfiteatro concavo a quota 1474 il Delicate Arch, che dà davvero una sensazione di miracolosa delicatezza, monopolizza con il suo precario equilibrio l’ammirazione e gli scatti delle macchine fotografiche di milioni di visitatori. Non a caso l’arco è raffigurato nelle targhe automobilistiche dello Utah e sulla card del National Park Pass del 2002.
Rientrati sulla Scenic Drive, percorriamo i dieci km. che portano al suo termine, che coincide con l’inizio del Devil’s Garden Trail, escursione a piedi di 8+8 km. nel settore che annovera la maggior concentrazione di archi; l’interessante anello richiede quasi un’intera giornata, così decidiamo di percorrerne solo una parte, anche perché è quasi mezzogiorno e la temperatura continua a salire (e meno male che siamo a maggio!). Superati il Pine Tree Arch e il Wall Arch, dalla sommità del quale si affaccia sul vuoto l’imbecille di giornata che si è arrampicato fin lassù, ci poniamo come meta il Landscape Arch, il più scenografico del Parco insieme al Delicate e al Double: dopo il crollo nel 1991 di un blocco spesso un metro e lungo 20, è rimasta solo una striscia sottilissima di quello che è comunque il ponte naturale più ampio del mondo, 89 metri di larghezza su 32 di altezza.
È ormai l’una quando torniamo al parcheggio, nei cui pressi sono opportunamente presenti due fontanelle di acqua potabile. Dopo una rinfrescata, ci prendiamo una sosta sul vicino slargo all’imbocco di un piccolo canyon attrezzato con tavoli e panche, anche se i posti sono da ore monopolizzati dagli adoratori del barbecue, uno dei rituali irrinunciabili nelle vacanze degli Americani: ma vanno anche bene alcuni massi sotto un grosso albero addossato alla parete rocciosa per fare uno spuntino con le provviste che nel bagagliaio dell’auto non mancano mai.
Intraprendiamo la via del ritorno, ma lo spettacolo è tutt’altro che finito. Dopo 6 km. si incontra Fiery Furnace, un fitto labirinto di pinnacoli esplorabile solo con un tour di tre ore guidato dai rangers, che ci limitiamo ad ammirare dal belvedere: a parte la necessità di prenotare la visita in anticipo, non ci attira molto inoltrarci nelle ore più calde della giornata in un posto che hanno chiamato “Fornace infuocata” (indovinate perché…). Altri 8 km. ed eccoci al Balanced Rock, un grosso masso in prodigioso equilibrio sulla sommità di un roccione piramidale, da cui si dirama il tratto di 4+4 km. che porta alla Windows Section: al suo termine incombe in tutta la sua imponenza il Double Arch, alla cui base si giunge con una passeggiata di 400 metri per godere il contrasto tra il rosso dell’arenaria e il blu carico del cielo tra le due aperture. Anche qui è giustificata l’esclamazione “Ma questo posto l’ho già visto!”: è infatti lo scenario delle sequenze iniziali di “Indiana Jones e l’ultima crociata”.
Ormai nei pressi del Visitor Center, ci aspetta l’ultima meraviglia. Bastano pochi passi per ammirarla: non sono archi, ma un allineamento di rocce talmente squadrate da ricordare i grattacieli di una città e per questo denominato Park Avenue. Proprio queste forme fanno da inquietante sfondo a una memorabile scena notturna del già citato “Thelma e Louise” durante la fuga delle due donne verso il destino finale; ma già nel 1964 John Ford aveva colto le suggestioni di questo luogo facendone lo sfondo di una sequenza de “Il grande sentiero” (molto più struggente il titolo originale “Cheyenne autumn”).
Quello che abbiamo appena visitato è l’ultimo, per adesso, di quelli che abbiamo preso l’abitudine di chiamare “I Parchi rossi” con riferimento ai colori dominanti delle rocce che li caratterizzano. Oggi e domani il nostro itinerario punterà prevalentemente in direzione nord guadagnando circa 7° di latitudine, vale a dire dai 38° di Moab ai 45° di Yellowstone: più o meno l’equivalente di Trapani e Torino, con analoghe differenze climatiche. Anche il paesaggio sarà totalmente diverso: gli scenari aridi lasceranno gradualmente il posto a un ambiente di foreste e acque popolato da una grande varietà di animali.
Lasciata definitivamente Moab, individuiamo come verosimile luogo di pernottamento Price, primo centro di una certa consistenza che incontreremo, ubicato a 205 km. da qui: 55 sulla Hwy 191 north fino a Crescent Junction, 38 sulla I-70 west e gli ultimi 112 di nuovo sulla 191 ed eccoci a destinazione poco prima delle 19.
Tra alcuni motels di livello equivalente di questo anonimo centro dalla consueta pianta a scacchiera, scegliamo il Budget Host Motel, che è in via di ristrutturazione (la precedente gestione era El Rancho Siesta Motel): due confortevoli camere nell’ala appena rinnovata ci costano non più di $ 45 l’una. Un’altra conferma che per dormire si spende tanto meno quanto più le località sono distanti dalle attrattive turistiche.
L’altra faccia della medaglia di un luogo poco battuto dal turismo è invece che c’è poco da stare allegri per quanto riguarda la cena: un paio di steak-houses risultano chiuse, così la soluzione del fast-food è praticamente obbligata. Ci orientiamo sul McDonalds, che per lo meno (ma stasera ci concediamo anche le patatine) offre, in alternativa agli hamburgers e ai fritti, tre o quattro tipi di insalate: accettata con ironia la bizzarra confezione in grossi bicchieroni di plastica trasparente, è un po’ meno piacevole che contengano solo lattuga e che i pezzi di pollo, evidentemente appena tolto dal freezer, abbiano la consistenza dei cubetti di ghiaccio. Dopo una delle migliori cene, la peggiore di tutto il viaggio; meno male che in macchina abbiamo del pane e dei pomodori, che non ci facciamo scrupolo di prelevare e portarci in tavola.
Concludiamo la serata con un giro al “Walmart”, catena di supermercati tra le più presenti in America, dove approfittiamo per reintegrare le provviste alimentari del bagagliaio.

Martedì 28 maggio 2002
PRICE – JACKSON HOLE (km. 689 / 3589)

Partiamo senza rimpianti da Price per una tappa di puro trasferimento che sarà la più lunga del viaggio. Superata dopo pochi minuti Helper, per un’ottantina di chilometri la Hwy 191 north è classificata sulla mappa come scenic route e corre attraverso il paesaggio boscoso delle Uinta e Ashley National Forests. La strada coincide con la I-40 east nel tratto di 95 km. tra Duchesne e Vernal, da dove riprendiamo a puntare in direzione nord.
Questa zona è caratterizzata da parecchi “reservoirs”, bacini artificiali ricavati per scopi di irrigazione e approvvigionamento idrico dai numerosi fiumi che scendono dalle vallate delle Uinta Mountains, di cui la strada taglia in quota il versante orientale. Proprio in uno slargo intorno a quota 2500 facciamo sosta per lo spuntino di metà giornata, in un paesaggio di aspetto alpino caratterizzato da mughi e conifere.
Sempre in ambiente molto panoramico, scendiamo fino a quota 1800, ormai sulle rive del vasto Flaming Gorge Reservoir, che è classificato “Recreation area” per via delle molte attività praticabili nella zona, quali trekking, canoa, kayak, pesca alla trota. La strada corre sulla sommità della diga, con un bel colpo d’occhio sulle coste frastagliate di questo lago ricavato imbrigliando le acque del Green River, ormai una vecchia conoscenza dopo averlo ammirato l’altro ieri a Canyonlands.
Lasciato lo Utah per entrare nel Wyoming, facciamo la foto di rito sotto il cartello di benvenuto nello Stato, che come al solito è molto bello: questo raffigura un cowboy in sella a un cavallo scalpitante sullo sfondo della Devil’s Tower, il monolito lavico a tronco di cono reso celebre dal film “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Incrociamo dopo una settantina di km. la I-80 all’altezza di Rock Springs e per altri 160 ci manteniamo sulla 191 north fino a una breve sosta per uno spuntino a Pinedale, simpatica cittadina che dà un piccolo assaggio dell’aria western che ci attende nella nostra meta serale: proseguiamo poi tralasciando alcuni bivi fino a toccare, dopo 130 km., Hogback Junction che ne dista ormai solo 20 da Jackson Hole.
Volevamo giungere qua al più presto possibile, avendo ormai capito che l’affluenza ai motel ha una punta verso l’ora di cena e preferiamo metterci al sicuro. Riguardo al pernottamento in questa località ci erano infatti giunte voci allarmistiche, causa la sua posizione strategica sulla via dei Parchi di Grand Teton e Yellowstone che ne fa luogo di tappa quasi obbligato: l’anno scorso una coppia di nostri amici aveva trovato una stanza modesta a $ 150 dopo avere rastrellato tutta la città (ma era agosto…).
Per noi niente di tutto questo, visto che al primo tentativo ci accaparriamo due buone camere del Teton Gables Motel a $ 58,30 l’una: che bello avere la possibilità di viaggiare in maggio-giugno!
Prima di cena abbiamo il tempo di una passeggiata per le vie di questa piacevole cittadina, che ci ricorda parecchio, anche se più in grande, Moab. A parte la posizione magnifica ai piedi di catene montuose in questa stagione ancora ricoperte di neve, Jackson Hole è immersa in una vivace atmosfera western, magari un po’ artificiosa ma molto coinvolgente; nel reticolato delle sue strade prevalgono gli edifici in legno dalle insegne old time e ci si imbatte in numerose curiosità quali un museo storico che esibisce sul tetto una diligenza autentica, un parco ai cui angoli spiccano quattro arcate composte con migliaia di corna di cervi (mi auguro non ammazzati appositamente!), saloons conformi a quelli dell’epopea della corsa all’oro con tanto di ballerine in giarrettiere, negozi di artigianato indiano che espongono belle statue in legno dipinto. Sul curatissimo prato all’inglese che circonda il Visitor Center spiccano alcune splendide riproduzioni in bronzo a grandezza naturale degli animali tipici della regione, dall’orso al cervo, dal lupo all’alce all’aquila.
In una città frequentata dal turismo come questa non si corre il rischio di una cena penosa come quella di ieri sera: non c’è che l’imbarazzo della scelta e ci orientiamo su “Bubba’s”, un vivace BBQ Restaurant consigliato anche dalla Routard. I menù di questi templi della carne non saranno magari un esempio di inventiva, ma qualità e quantità sono sempre assicurate e anche stasera la sirloin alla griglia accompagnata da un buon buffet di insalate non ci delude.

Mercoledì 29 maggio 2002
JACKSON HOLE – YELLOWSTONE MAMMOTH VILLAGE (km. 261 / 3850)
Ed eccoci arrivati alle giornate di Yellowstone. Come già per il Grand Canyon e per la Monument Valley, il vocabolo stesso sprigiona una potente carica evocativa: storie di Indiani e pionieri, animali in libertà, fenomeni naturali, cartoni animati di orsi paciocconi.
Abbiamo in programma due pernottamenti all’interno del Parco: non è infatti pratico dormire all’esterno dei suoi confini effettuando ripetuti “vai e vieni” che comportano qualche centinaio di chilometri. Prevediamo anche un budget più elevato della media, ma soprattutto è importante trovarci per tempo al Visitor Center per avvalerci del servizio di prenotazione nelle strutture ricettive del Parco: anche se l’offerta è abbastanza ampia, c’è un po’ di rischio di trovare il “tutto esaurito” anche in bassa stagione.
Partiamo da Jackson Hole alle otto seguendo la Hwy 191 north che si sovrappone alla 89 e alla 287, per coprire i 103 km. verso l’ingresso sud che coincidono in buona parte con l’attraversamento del Grand Teton, splendido Parco di laghi e grandi montagne che è in parte penalizzato dalla vicinanza e dalla fama del vicino Yellowstone: gli dedicheremo qualche ora dopodomani sulla via del ritorno.
Su Yellowstone, primo Parco Nazionale americano e del mondo istituito nel 1872, si possono scrivere (cosa che in 130 anni è stata abbondantemente fatta) interi trattati di argomento naturalistico, geologico, botanico, idrografico e zoologico. In realtà si può affermare che proprio la scoperta delle sue bellezze segnò la nascita del concetto stesso di parco nazionale inteso come regione da tutelare da parte degli organi governativi.
Da parte mia, cercherò di riferire al meglio la nostra esperienza, con l’augurio a tutti i lettori di un riscontro “sul campo”. La strada panoramica che unisce le principali attrattive è costituita da due anelli sovrapposti a formare grossolanamente un “8”, di cui quello inferiore, come si rileva dalla mappa ufficiale fornita all’ingresso, ricalca più o meno il contorno della caldera, il cratere di km. 75x45 generato 600.000 anni fa da una spaventosa esplosione che modificò radicalmente il territorio: la lava e le scorie ricadute sul terreno nel corso delle successive epoche formarono uno strato di poco più di tre chilometri, sotto il quale si trova tuttora il magma in movimento. Proprio la sottigliezza di questa crosta è responsabile delle migliaia di aperture attraverso le quali il calore sottostante produce geysers, fumarole, sorgenti calde, pozze di fango bollente, manifestazioni geotermiche tremende quanto spettacolari.
Entrati dall’ingresso sud, uno dei cinque di questo estesissimo Parco, ci facciamo già un’idea di una natura che sfoggia il suo meglio lungo i 35 km. che portano a Grant Village, ma la prima esigenza è di natura pratica e la risolviamo con un po’ di fortuna alla “Lodge Registration”: questa sera dormiremo a Mammoth Hot Springs, all’estremità settentrionale del Parco, in una delle ultime cabins disponibili, composta di due camere con servizio in comune al prezzo complessivo di $ 151,20, mentre la scelta per domani, praticamente obbligata dall’itinerario, ricade sul lodge di questo stesso Grant Village, dove due camere ci costano $ 95,40 cadauna.
Risolto, anche se in maniera un po’ dispendiosa (ma era nelle previsioni e non ci sono alternative), l’aspetto logistico, possiamo ora dedicarci in tutta tranquillità alle meraviglie di Yellowstone.
La Grand Loop Road, la strada a forma di 8 che attraversa il Parco, si sviluppa su una lunghezza, deviazioni escluse, di circa 230 km. mantenendosi su una quota che va dai 1900 ai 2700 metri; noi la impostiamo in senso orario e puntiamo decisamente in direzione ovest alla volta dell’Old Faithful, che dista da Grant Village 27 km. Il “Vecchio Fedele”, così chiamato per la regolarità delle sue eruzioni, è il geyser più famoso del mondo: si manifesta con un intervallo medio di circa 76 minuti e gli orari approssimativi sono esposti in una tabella del vicino centro di servizi, struttura di dimensioni e risorse proporzionate alla popolarità della più decantata attrattiva di Yellowstone. Sulle ampie gradinate in legno intorno al sito si concentra la folla in attesa dell’eruzione, che consiste in uno spettacolare getto d’acqua bollente alto una cinquantina di metri che può durare tra i due e i cinque minuti.
Ci troviamo nel cuore del Geyser Basin, un settore del Parco in cui è concentrato un campionario di fenomeni geotermici che non ha uguali al mondo. Dalla strada principale si diramano numerosi percorsi a piedi strutturati in maniera esemplare su passerelle in legno che portano in vista di sorgenti calde e pozze d’acqua che esibiscono un’indescrivibile gamma di colorazioni: questa varietà è dovuta ai differenti minerali portati in superficie dalla massa gassosa che sale dal sottosuolo ma anche ad alghe, batteri e microrganismi che vivono nelle acque calde. Non starò a elencare gli innumerevoli siti indicati dai cartelli esplicativi lungo il percorso: per la suggestione che producono, citerò a titolo di esempio nomi quali Grand Prismatic Spring, Porcelain Basin, Sapphire Pool o Anemone Geyser. Nel corso delle passeggiate ci si trova più volte immersi in nuvole di vapore, il che aumenta la sensazione di “primo giorno della creazione” che spesso si prova in questo Parco.
Ma Yellowstone significa anche animali in libertà, per i quali questa terra rappresenta un vero paradiso: in una visita di tre giorni (ma penso anche di un anno) non è pensabile di poter avvistare esemplari di tutte le 58 specie di mammiferi e 280 di uccelli (per non parlare di rettili, anfibi e pesci), ma la loro presenza, anche senza ricerche specifiche, è costante dovunque. Il primo motivo di stupore è il grande numero di bisonti, sia in branchi sia isolati, talvolta anche in prossimità della strada, tanto che dall’auto ne possiamo fotografare uno al pascolo talmente vicino da riempire l’inquadratura di un grandangolare: in effetti questo animale, giunto ai limiti dell’estinzione con soli 50 esemplari nel 1902, oggi costituisce una popolazione di circa 4000 individui. In questa stagione stanno rinnovando il manto, quindi presentano ampie chiazze prive di pelo e sono… poco fotogenici.
È frequente anche l’incontro con il cervo, qui più noto con il termine indiano di wapiti, e con il mule deer o cervo mulo (detto così per le grandi orecchie), per non parlare della moltitudine di scoiattoli che scorrazzano anche tra i piedi della gente; abbastanza facilmente avvistabile pure l’alce (moose), benché spesso appostata tra gli alberi in quanto di indole più riservata. Riguardo agli orsi, un tempo erano facilmente visibili per l’abitudine di spingersi fino alla strada per prendere il cibo dai turisti; ma frequenti casi di ferimenti indussero qualche anno fa a emanare divieti severissimi per porre fine alla loro dipendenza dall’uomo, così è oggi più difficile scorgerne qualcuno. Un indizio inequivocabile sono gli intasamenti di auto parcheggiate sui bordi della strada e gli schieramenti di fotografi con cavalletto e teleobiettivo: noi abbiamo avuto la fortuna di vedere, anche se in lontananza in mezzo agli alberi, un’orsa con due piccoli e più tardi un grosso maschio accovacciato nell’erba.
Ma le scene più emozionanti in quanto più rare, colte quasi per caso dall’auto, sono state quella di una coppia di lupi che si rincorrevano su una radura fino a scomparire in pochi secondi nel folto della foresta e di un coyote che passeggiava tranquillo a pochi metri dalla strada.
Superata Madison, West Entrance di Yellowstone, la strada panoramica (il lato ovest dell’“8”) costeggia a lungo il Gibbon River, i suoi piccoli affluenti, l’omonima cascata e una quantità di laghetti, sempre con le cime innevate del Gallatin Range allineate sulla nostra sinistra. Passiamo all’altezza della deviazione per lo Steamboat Geyser, il più potente del mondo con un getto alto 110 metri; l’intervallo tra un’eruzione e l’altra varia da qualche giorno a parecchi anni, così, dato che si è degnato di svegliarsi l’ultima volta nel 1991, votiamo all’unanimità di lasciar perdere. Buona fortuna a chi passerà di qui al momento giusto!
Dopo Norris, gli ultimi 34 km. si sviluppano in leggera discesa, fino a raggiungere nel tardo pomeriggio Mammoth Hot Springs, il punto più basso del Parco con 1902 metri, appena 8 km. dal confine con il Montana.
L’area di Mammoth Hot Springs, unico ingresso al Parco aperto tutto l’anno, offre la scelta di servizi più completa di Yellowstone: alloggio, ristorazione, camping, stazione di servizio, supermarket, ufficio postale, ambulatorio medico. La sistemazione a noi riservata è una delle 126 casette disseminate in un prato sul quale passeggiano i wapiti ed è composta di due camere separate e bagno condiviso. Queste unità costituiscono la “fascia economica” del Mammoth Hot Springs Hotel & Cabins, un monumentale edificio del 1937 che richiama i grandi alberghi delle stazioni di soggiorno europee di quell’epoca, con il colonnato d’ingresso e l’atrio in stile Belle Epoque. Ceniamo in un vasto salone al limite del lussuoso, ma il prezzo della cena (questa sera salmone e abbondante buffet di insalate) è piacevolmente allineato a quelli consueti.

Giovedì 30 maggio 2002
YELLOWSTONE MAMMOTH VILLAGE – YELLOWSTONE GRANT VILLAGE (km. 147 / 3997)

La giornata ha inizio con l’itinerario delle terrazze di Mammoth Hot Springs: al proposito, dirò subito che il primo mattino è l’ora più indicata per il minore affollamento e per la luce favorevole ai fini fotografici.
Lo scenario in cui ci si immerge è uno dei più particolari del Parco ed è il risultato di un fenomeno analogo a quello che si verificava a Pamukkale in Turchia prima dello scempio delle installazioni turistiche erette nella zona. Il calore dell’acqua porta in superficie il carbonato di calcio che si deposita trasformandosi in travertino: nel corso delle ere geologiche si sono così formate sul fianco di un pendio una serie di vasche a cascata dagli orli frastagliati come sculture, caratterizzate da un’infinità di colori dovuti a batteri e alghe che trovano in queste condizioni l’habitat ideale.
I percorsi da non perdere assolutamente sono due, l’Upper Terrace Drive, un anello automobilistico a senso unico di 2,4 km. intervallato da alcuni belvederi e, in partenza da un tornante di questo, il Lower Terrace Trail, passeggiata di un miglio su passerelle in legno: tra folate di vapori caldi ed esalazioni di zolfo, si possono apprezzare da vicino tutti gli aspetti di un fenomeno naturale davvero unico, con l’acqua delle vasche che mostra una gamma di colori comprendente tutte le immaginabili sfumature di rosa, arancione, smeraldo, giallo, marrone, azzurro. Il punto più elevato del percorso, raggiunto con alcune rampe di scale, è Minerva Terrace: qui, oltre che osservare curiose sculture naturali di roccia calcarea, si ha un bel colpo d’occhio dall’alto sull’area delle terrazze.
Una costante di cui non ho ancora parlato è la presenza di grandi distese di foresta bruciata, testimonianza degli incendi del 1988, dovuti a un’estate eccezionalmente secca e calda unita a una concentrazione in breve tempo di oltre 2000 fulmini, che distrusse il 36% degli alberi del Parco: cifra spaventosa, se si pensa che Yellowstone ha una superficie maggiore di quella dell’Umbria. Furono praticamente infruttuosi lo spiegamento per giorni e giorni di uomini e mezzi per un costo di 120 milioni di dollari: ci volle infatti una provvidenziale perturbazione, che portò pioggia e neve, per domare l’immenso rogo. In altre parole, a spegnere il fuoco furono le forze della stessa natura che lo aveva originato, quella natura che sa sempre che cosa fare e cominciò da subito a rigenerare il terreno, fertilizzato dalla cenere, con una nuova copertura arborea.
Lasciata l’area di Mammoth Hot Springs, percorriamo la scenic drive per una trentina di km. in direzione est fino a incontrare uno dei maggiori protagonisti del Parco, lo Yellowstone River. Il primo contatto avviene all’altezza della Tower Fall, una cascata alta 40 metri che deve il nome a un torrione roccioso che la sovrasta; ci caliamo anche alla sua base grazie a un sentiero a zig-zag (circa mezz’ora A/R) nel folto di un bel bosco di pini.
Di qui in avanti procediamo in direzione sud nel tratto di 30 km. che è il più elevato del Parco, tant’è vero che le chiazze di neve, già incontrate qui e là, si fanno più frequenti ed estese, fino a diventare muri alti un metro sul lato a monte della strada: sapremo poi che questo settore della carrozzabile è stato sgomberato e riaperto al traffico solo da una settimana. Incrociamo il sentiero escursionistico che porta ai 3122 metri del Monte Washburn, scolliniamo alla quota 2700 del Dunraven Pass e in breve eccoci all’area di Canyon Village, dove ci aspetta un’altra parata di meraviglie.
È qui che risulta finalmente chiaro il significato del termine “yellowstone”: la dominante giallastra della roccia (riolite) che caratterizza le rive scoscese del canyon scavato dal fiume nel corso di milioni di anni fu l’aspetto del paesaggio che più impressionò i primi esploratori di metà Ottocento, che raccontarono del “fiume delle pietre gialle”. In realtà la gamma di colori è ben più ampia e sfuma tra giallo dorato, arancione, ocra, grigio, rosa, risultato dell’azione dei vapori caldi ricchi di minerali sulla roccia vulcanica.
Per godere al meglio di questo spettacolo, reso indimenticabile dall’aggiunta dell’azzurro intenso del fiume e del bianco dell’acqua spumeggiante delle cascate, è stata tracciata una strada a senso unico che porta ad alcuni belvederi raggiungibili in pochi passi. Questi punti panoramici sono piuttosto affollati, ma non possiamo proprio lamentarci, visto che in luglio e agosto è normale rimanere incolonnati in auto per ore e fare poi un’ulteriore fila per accedere alle piazzole di osservazione. L’attesa è comunque ben ripagata: le vedute dall’alto sul canyon e verso le cascate che si godono da Inspiration Point e da Artist Point sono di quelle che inducono a ringraziare di vivere in un mondo che, oltre a tante brutture, offre anche capolavori come quelli che abbiamo sotto di noi.
Per contemplare più da vicino i due salti delle Upper e delle Lower Falls, alte 33 e 94 metri rispettivamente, si percorrono le deviazioni che si staccano dalla strada principale fino a due aree di parcheggio: con ulteriori brevi passeggiate ci si porta a terrazzini recintati sulla sommità dei salti per apprezzare al meglio la potenza delle acque, in scenari spesso arricchiti da uno sgargiante arcobaleno.
Ci stacchiamo con rammarico da queste meraviglie, anche se è un rimpianto già provato e che sappiamo si ripeterà nelle prossime due settimane. Abbiamo davanti un tratto da paradiso terrestre, 25 km. che si snodano parallelamente al corso dello Yellowstone River sullo sfondo di prati rigogliosi popolati di wapiti e di bisonti al pascolo. Facciamo sosta a Mud Volcano e Sulphur Caldron, due stagni vicini di fango ribollente sotto il livello della strada, ma ci tratteniamo pochi minuti per le potenti esalazioni sulfuree che, pungenti all’olfatto, possono anche essere dannose.
Il fiume si allarga infine spettacolarmente nello Yellowstone Lake, il più esteso bacino montano del Nordamerica con i suoi 360 kmq.: siamo a quota 2357 e in alcune anse la sua superficie presenta ancora strati ghiacciati. Facciamo sosta a Bridge Bay, stupenda insenatura che offre un bellissimo effetto specchio, con le cime delle Absaroka Range che si riflettono nelle acque azzurre del lago, e raggiungiamo infine il West Thumb, il “dito occidentale” sulla cui riva sorge Grant Village: abbiamo così chiuso il doppio anello iniziato ieri mattina.
Il complesso abitativo è composto di sei lodges per un totale di 300 camere, blocchi funzionali e confortevoli anche se piuttosto anonimi. Per la cena, tentiamo la sorte in un self service con veranda sul lago che prevede un all you can eat a base di pasta, con assortimento consistente in spaghetti e penne da condire con sughi al pomodoro, all’amatriciana e salsa Alfredo: bisogna dire che ce la mettono tutta, ma il voto non va oltre un sei di stima.

Venerdì 31 maggio 2002
YELLOWSTONE GRANT VILLAGE – EVANSTON (km. 508 / 4505)

Ed è venuto il momento di lasciare anche Yellowstone. Il tratto di 148 km. tra Grant Village e Hogback Junction ricalca esattamente quello percorso all’andata, con la differenza che oggi dedicheremo un po’ di tempo alla visita del Grand Teton N.P., la cui scenic drive coincide con la Hwy 89. Ho già sottolineato quanto questo Parco paghi in termini di frequentazione la vicinanza di una “star” come Yellowstone, con il quale ha peraltro in comune il tipo di paesaggio fatto di folte foreste, montagne innevate, laghi e fiumi dalle acque limpide.
La sua denominazione è legata al malizioso accostamento da parte dei cacciatori francesi di fine Settecento tra le forme delle tre cime allineate sullo sfondo del Jackson Lake e quelle dei seni femminili (in francese appunto teton con l’accento sulla o finale): la vetta più alta (m.4197) fu così definita Grand Teton, le altre due South e Middle Teton. Con pari malizia noi possiamo insinuare, osservando il profilo piramidale delle montagne, che quei rudi pionieri non dovevano ricordare molto bene come fosse fatta una donna…
Una giornata di rara limpidezza valorizza al meglio gli stupendi scenari, anche se ci limitiamo alle soste sulle piazzole panoramiche lungo la carrozzabile: si tratta di un Parco che meriterebbe un maggiore approfondimento, a prezzo però di un’esplorazione tramite qualche trekking lungo una fitta rete di sentieri escursionistici per i quali ci manca il tempo.
Arrivati al bivio di Hogback Junction, ci teniamo sulla Hwy 89 south lasciando sulla sinistra la 189/191 percorsa all’andata. Terminate per il momento le attrattive clamorose, la strada taglia vaste pianure sulle quali sorgono di tanto in tanto grosse fattorie o piccoli centri abitati: è un paesaggio riposante nel quale si ha l’impressione che i ritmi di vita siano cambiati poco rispetto a cent’anni fa. Stiamo attraversando l’America quotidiana appena sfiorata dal turismo, l’America dei paesi in cui tutti conoscono tutti, delle casette basse con il pick-up parcheggiato a fianco, delle mandrie di bestiame al pascolo, degli scuolabus gialli, dei ranch con i cancelli d’ingresso sormontati dalle decorazioni fatte di ferri da cavallo o da fregi in ferro battuto col nome della tenuta o silhouettes di cowboys e animali.
Facciamo sosta per uno spuntino nella cittadina di Afton, all’ingresso della quale spicca un arco in corna di animali sull’intera larghezza della strada principale da fare impallidire quelli dei giardini di Jackson Hole, fino a varcare, 286 km. dalla partenza da Grant Village, il confine con l’Idaho. In questo Stato percorriamo una settantina di km., tra empori di antiquariato che espongono all’esterno e all’interno gli oggetti più incredibili e paesini ordinati tra i quali ne spiccano parecchi dal nome europeo, quali Etna, Geneva, Paris e Montpelier. Proprio quest’ultimo espone all’esterno della banca cittadina una grossa targa a memoria della rapina del 13 agosto 1896 ad opera di Butch Cassidy, Sundance Kid e il loro “Mucchio Selvaggio” che fruttò $ 16.500 in oro, argento e contante: la provincia americana è anche questa, villaggi pacifici che a distanza di 106 anni mantengono ancora vivo il ricordo del passaggio di un bandito famoso, unico avvenimento rimarchevole della propria storia.
Costeggiamo poi per una trentina di km. il bellissimo Bear Lake, frequentatissimo dagli appassionati di pesca e vela, per fare infine una passeggiata nell’elegante cittadina di Laketown, piacevole porticciolo da diporto proprio sull’estremità meridionale del lago. Nel frattempo siamo rientrati da 20 km. nello Utah; ci rimaniamo per un’altra sessantina seguendo, sempre verso sud, la 16 e la 30, strade secondarie che percorriamo volentieri per il traffico inesistente e per il paesaggio che continua a offrire quadri agresti di pascoli, mandrie e corsi d’acqua.
Per gli ultimi 15 km. della giornata eccoci di nuovo in territorio del Wyoming, fino ad arrivare, intorno alle 19, alla confluenza con la già nota I-80, dove decidiamo che per oggi può bastare: siamo a Evanston, l’ennesimo paesotto tranquillo nel quale già sappiamo che troveremo subito alloggio spendendo poco. Ormai non sbagliamo più un colpo: due stanze nel confortevole Hillcrest Motel ci costano $ 35,10 l’una, consentendoci di equilibrare il bilancio dopo i due pernottamenti a Yellowstone. Un’altra piacevole scoperta è un’area commerciale della catena “Flying J Travel Plaza”, presente in 154 località degli States: tra i vari servizi c’è un self-service a prezzo fisso che per $ 8,95 permette di rimpinzarci con un assortimento davvero raccomandabile per quantità e qualità.
Dedichiamo il dopo cena dapprima a uno dei soliti giri per rifornimento nell’immancabile supermarket aperto fino a mezzanotte, quindi a fare il punto sull’itinerario: ci accorgiamo di essere in vantaggio di circa una giornata e ciò vuol dire che potremo visitare anche il Grande Lago Salato e Salt Lake City, regione non prevista nel programma di viaggio.
Arriveremo là domani e sarà l’inizio della Terza Parte del resoconto.

9 commenti in “Stati Uniti: il mito dell’Ovest – Parte II
  1. Avatar commento
    lallibergi
    02/03/2010 14:25

    A chi c'è stato: ho a disposizione il periodo dal 26 agosto al 10 settembre, posso pensare di fare questo giro?

  2. Avatar commento
    Leandro
    26/08/2005 20:59

    Lieto di esservi stato utile! E' proprio lo scopo di Ci Sono Stato! ;-)

  3. Avatar commento
    Luca e Celestina
    26/08/2005 16:16

    Ciao, siamo Celestina e Luca, due ragazzi di Bologna che sono appena tornati da un viaggio nel west USA ... più precisamente siamo partiti da Las Vegas per poi arrivare a San Francisco toccando i seguenti punti: Grand Canyon, Canyon de Chelly, Monument Valley, Bryce Canyon, Zion, San Diego, Los Angeles, Sequoia e Yosemite ... volevamo solo ringraziarvi perchè la vostra esperienza di viaggio c'è stata utile. Ciao e buon viaggio Celestina e Luca

  4. Avatar commento
    Leandro
    14/02/2005 18:17

    Ciao, non mi sono stancato durante il viaggio, perché il resoconto l'ho scritto dopo tornato a casa! Di solito prendo solo due o tre righe di appunti ogni sera e poi, a casa, "ricostruisco" tutto con le guide, le mappe, le fotografie, ecc.

  5. Avatar commento
    emozionante
    14/02/2005 18:10

    E' stato un viaggio davvero emozionante lo vorrei fare anch'io. Non ti sei stancato di scrivere tutto il viaggio? se ci tornerai dimmelo vengo anch'io a provare le stesse splendide emozioni! Complimenti

  6. Avatar commento
    sandrino
    05/08/2004 12:02

    Ho visto sul forum il post sull'ovest degli USA e sono stato curioso di leggere questo diario indicato da Leandro.... E' veramente pieno di indicazioni precise, complimenti e grazie!

  7. Avatar commento
    sagittario
    17/10/2002 08:29

    Ho letto il commento su questo viaggio; una parte di Arizona e Utah l'ho gia fatta, un viaggio anche questo agosto me lo faccio per completare la visita di questi parchi fantastici.

  8. Avatar commento
    Leandro
    17/10/2002 08:29

    Essendo un argomento molto vasto, le ho risposto diffusamente sulla sua casella postale. Auguri di un ottimo viaggio!

  9. Avatar commento
    amarcord
    17/10/2002 08:29

    Ho letto con grande passione l'articolo perchè è ben scritto ed è utile e poi perchè la passione della mia vita sono stati gli Stati Uniti. Comincio ad esser vecchio e mi piacerebbe tanto che qualcuno mi aiutasse in un itinerario per la prossima primavera. California ed Arizona in auto.

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