Solo sul tetto d’Europa

Da Oslo a capo Nord e ritorno, con tenda, sacco a pelo e solo mezzi pubblici

Dietro un miraggio c’è sempre un miraggio da considerare.
Come del resto alla fine di un viaggio
c’è sempre un viaggio da ricominciare.
Francesco De Gregori – “Viaggi e miraggi”
Giorno 1 – 11/07/04
In volo sopra le Alpi, ore 20.45

Da quassù il mondo mi assomiglia di più.
Il viaggio, come concetto e come stato mentale, è solo un granello di poesia e libertà che iniettato nelle vene si fonde amalgamandosi col sangue. Conferisce forza e brillantezza al corpo e spinge la mente verso uno stadio più elevato della percezione del mondo. Contribuendo a formare una persona migliore.
Un altro granello sta per essere forgiato…
Caldo, folla, stress e mal di testa sul treno per Bologna. Niente posti a sedere, nessuno con cui chiacchierare. Acquazzone violentissimo a Bologna. Nei cinque secondi intercorsi dall’uscita della stazione al bus per l’aeroporto, mi sono infradiciato come un pulcino. Lunga coda al check-in, molta noia. L’aereo parte con 15 minuti di ritardo… una volta atterrato a Stoccolma sarà dura riuscire nell’impresa di prendere uno degli ultimi treni per Oslo; non vorrei passare la mia prima notte in Svezia. Non mi è toccato neanche il posto vicino al finestrino, sento la partenza.

Giorno 2
Stoccolma, ore 8.10

Prima regola: precisione e puntualità.
Quest’avventura non è cominciata sotto i migliori auspici. Arrivato in stazione centrale, ieri sera, dall’aeroporto, non ho trovato alcun treno Oslo o per qualsiasi altra città norvegese. Il primo disponibile era stamattina alle 7.
Mi sono messo in cerca di un ostello qui a Stoccolma: faceva freddo, pioveva ininterrottamente da tutto il giorno, ed erano le 11 di sera. Pensando di attraversare la Svezia in un lampo e di lasciarmela subito alle spalle, non ho portato con me né una cartina, né una guida o qualsiasi altra fonte di informazioni, né tanto meno corone svedesi. Discretamente spaesato, inquieto, ma soprattutto stanco, mi sono aggirato per un po’ alla cieca in cerca di informazioni.
Il primo incontro, un tassista pakistano: alla domanda su dove potevo trovare un ostello della gioventù, mi ha diretto verso un posto, near the big white boat, che ho capito essere una comunità di recupero per tossicodipendenti poco prima di varcarne la soglia. Un minuto prima ho incrociato un gruppo di punk locali: brutti, sporchi, dall’aria incazzata come i nostri. Non mi hanno dato grande fiducia. Ho dovuto faticare non poco, allungando il passo con zelo nonostante la stanchezza e il peso dello zaino – e con una certa strizza di contorno – per allontanarmi da loro.
Poi mi sono rivolto ad un albergo e l’uomo alla reception è stato estremamente gentile nel rifornirmi di cartina della città e dell’indirizzo di due ostelli in centro. Mi sono diretto verso il primo: non mi hanno neanche aperto il portone, urlandomi dal citofono che era tutto pieno, e credo che – dopo mie insistenze – mi abbiano anche mandato a quel paese. Anzi ne sono sicuro (mi stupisco di come sia svelto a capire questi svedesi che parlano inglese). Al secondo ostello mi hanno accolto: hanno prezzi un po’ troppo alti per la media europea ma mi sono dovuto accontentare.
Ho finalmente cenato (erano le una di notte) e mi sono fiondato a letto con la sveglia puntata alle 6. Alle 7 di oggi il mio treno per Oslo è partito ma io non ero a bordo: l’ho perso per un solo minuto, e qui la puntualità è una religione. Non solo, ma mi hanno anche spiegato che il biglietto comprato ieri sera lo potevo pure buttare nel cestino perché valeva solo per il treno delle 7 (prenotazione obbligatoria).
Il prossimo parte alle 5 del pomeriggio, quindi ho una più che mezza giornata da passare a Stoccolma. A proposito, ho buttato via 800 corone svedesi, più o meno 100 euro, perché ho dovuto fare un altro biglietto. Se adesso dicessi che mi girano violentemente i coglioni nessuno si stupisce, giusto?
Farò il programma per il viaggio, ma intanto approfitto per riempire lo stomaco con la colazione dell’ostello, mangiando insieme ad un simpatico quartetto di ragazze giapponesi… una non è niente male tra l’altro.
Piove ancora, la mattina è gelida: sarà meglio mettere la giacca a vento.

In treno fra Stoccolma e Oslo, ore 17.30
Ci stava bene un premio Nobel… uno qualunque.
Costretto dagli orari, me la sono presa con calma. Ho passeggiato tutta la mattina per il centro di Stoccolma, lungo il mare e i mille canali, nel cuore della città vecchia, fino al castello reale sperando che l’illuminato monarca svedese mi notasse e mi consegnasse un premio Nobel, uno qualunque, tanto sono di bocca buona.
Città gentile, piena di gente ma per niente caotica, esteticamente invitante, si attraversa piacevolmente a piedi. Avendo solo poche ore e ancor meno informazioni a disposizione (sono attrezzatissimo per affrontare la Norvegia, non la Svezia), non ho potuto visitare musei chiese e palazzi. A parte il castello reale e una deliziosa chiesa in pietra rossa posta al centro di un piccolo cimitero-giardino.
Adesso sono finalmente in viaggio alla volta della frontiera. Il treno passa in mezzo a foreste e costeggia laghi a grande velocità, ma non abbastanza da impedirmi di godere della vista e del panorama. Sarò ad Oslo verso le 10 di sera.

Giorno 3
Oslo, ore 15

Turista a tempo pieno.
Sono su una panchina dolcemente soleggiata del binario 4 della stazione di Oslo. Fra un’ora parte il mio treno per Bergen.
Sono arrivato nella capitale norvegese ieri sera. Dopo un assaggio della vita notturna cittadina – vivace, anche troppo per me, le strade gremite di studenti e turisti, locali sovraffollati – durata molto poco anche perché non sono riuscito a trovare nessuno di interessante con cui intrattenermi, me ne sono andato a letto.
L’ostello non mi piace, il personale non è cortese né, tanto peggio, bravo nel suo mestiere. Mi sono sentito trattato male (non so se è vero) e sono andato a dormire con un po’ di giramento addosso. Stamani mi sono dedicato a fare il turista a tempo pieno. Dalle 9 alle 15 ho girato senza sosta tutto il centro storico: cominciando dalla cattedrale, la Oslo Domkirke, per poi attraversare tutta la strada principale pedonale che dalla cattedrale porta fino al castello del Re di Norvegia. Ho visitato il teatro nazionale, meglio conosciuto come teatro di Ibsen (lo hanno costruito apposta per lui e le sue opere) e il museo di Ibsen, ma solo dal di fuori perché purtroppo era chiuso. Era chiusa – riposo settimanale proprio oggi, martedì – anche la Galleria nazionale, il principale museo di questo Paese, dove fra le altre cose è conservato L’urlo di Eduard Munch.
Ho svoltato per il municipio, Radhus, e ho puntato verso il porto che è dominato dalla fortezza e dal castello di Akershus. Purtroppo mi è mancato il tempo per visitare il famoso museo delle navi vikinge perché troppo fuori portata, distante da raggiungere a piedi. Ma quello che ho visto mi è bastato per farmi un’idea della città: ricca, legata alle tradizioni antiche, aggrappata come una bimba alla sottana della madre alla figura di Henrik Ibsen che è celebrato come un eroe nazionale. Hanno un senso dell’arte ben radicato ma sobrio, dimostrano sensibilità ma mai ostentazione.
Il centro di Oslo è a misura d’uomo, a piedi ma meglio se in bicicletta. Sono tantissimi i norvegesi che si spostano pedalando, in proporzione molti di più che in Italia.
La città insomma è carina, ma non è quello che cerco: sono venuto qui per la natura, i grandi spazi, la solitudine e il silenzio. Mentre per adesso ho soggiornato in due capitali europee chiassose e colme di gente, trafficate, sporche come le nostre (forse non proprio come le nostre…). La temperatura finora è stata piuttosto altalenante: si passa dal caldo paragonabile alla nostra primavera avanzata al freddo del nostro autunno con una rapidità impressionante. Basta che una nuvola copra il sole e la temperatura scende a picco. Finora le nuvole non sono mai mancate, seppure a sprazzi, come non si è fatta attendere la pioggia, mai copiosa ma sempre in agguato con le sue gocce sottili e pungenti. Fra le persone incontrate, fino ad adesso, nessuna che mi abbia colpito, interessato, incuriosito. Tantomeno le ragazze: non particolarmente belle come recitano le leggende giù da noi, anzi, ma soprattutto tendenzialmente scontrose e poco socievoli.
Finora si può dire che ho giocato: adesso si comincia a fare sul serio. Per prima cosa non arriverò in un sol colpo fino a Bergen, mi fermo a metà strada, a Finse, la località di montagna più importante e più alta di questa regione. Dormirò dove capita, non so, in tenda, campeggio libero, e domani riprenderò il treno fino a Bergen. Ripartirò nel pomeriggio così da avere il tempo, di mattina, per camminare un po’ in montagna. Dopo Bergen ho deciso di dire addio ai treni, troppo cari e sempre con questa trappola del biglietto a prenotazione obbligatoria senza possibilità di riutilizzo: in futuro solo traghetti e autostop.
p.s.
Ho deciso di abbandonare l’ipotesi di arrivare fino alle isole Svalbard, sull’80° parallelo. Non posso andare più su di Capo Nord. Alle Svalbard ci andrò con calma, in un’altra vacanza, magari con Enri, così da poterle visitare accuratamente, fare amicizia con il famoso orso bianco locale talmente ospitale che ti offre pure da bere, e se possibile arrivare fino alla sperduta isola di Jan Mayen.

Giorno 4
In treno fra Finse e Bergen, ore 15.30

Habeas corpus campeggio!
Mi sono appena reso conto che la telefonata di Baldo, ieri, mi ha azzerato il credito del cellulare. Non potrò più mandare messaggi per tutta la vacanza. Lo avevo lasciato acceso per sbaglio, Baldo mi ha chiamato, io ho risposto meccanicamente, e adesso sono senza un soldo nella scheda.
Appena sceso dal treno, ieri sera alle 21.40, mi sono reso conto che questa Finse, 1222 metri sul livello del mare, un numero di abitazioni che non supera la decina, un alberghetto, un ufficio postale-ferroviario, adagiata su un lago con tutto intorno solo rocce nude e neve, è quella che si può definire una località di frontiera. Non c’è niente, a parte il freddo polare, e la posizione strategica fra Oslo e Bergen nel punto più alto e selvaggio di tutto il tragitto ha fatto sì che il paese si sviluppasse tutto intorno alla stazione ferroviaria. Praticamente il paese è la stazione.
Pioveva già quando sono sceso dal treno, ieri sera. E piove anche adesso che me ne sono andato, direzione Bergen. Montare la tenda solo – ed era la prima volta che lo facevo – sotto la pioggia, con il vento forte, freddo, pungente, non è cosa facile. Ci ho messo un po’ per avere la meglio sul vento che cercava di portarmi via la tenda. E le mani, già congelate all’inizio delle operazioni, hanno pianto tutta la sera reclamando quei guanti che ho inavvertitamente lasciato a Firenze. Comunque, mi sono arrangiato: il mio primo campeggio libero in solitaria, isolato, perso negli spazi inospitali della montagna nordica, fra la neve e il null’altro.
Che grande paese è la Norvegia. Si può dire che sia la nazione più civile del pianeta? Quale altro parlamento, se non quello che rappresenta il popolo più civile del mondo, partorirebbe mai una legge nazionale sulla libertà di campeggio? Una sorta di Habeas corpus della vita all’aria aperta. Diritto inalienabile: l’uomo è sacro ma il campeggiatore non gli è da meno. Ce li vedete i nostri senatori e deputati che una mattina si alzano e dicono: “ragazzi, oggi discutiamo di campeggio”? Verrebbero dileggiati dalla stampa e accusati di non dedicarsi al bene del Paese. Errato! I norvegesi lo hanno fatto e lo hanno fatto bene – il campeggio libero è permesso sempre e ovunque; unica restrizione: la tenda deve essere montata ad almeno 150 metri dalle abitazioni – dimostrando grande sensibilità culturale, coraggio, amore per la natura e la vita all’aria aperta. E per questo, in questo campo, sono molto più civili e avanti di noi.
Ho messo la mia tenda al riparo il più possibile dal vento. Fatica sprecata: il vento era ovunque, e cattivo. Come l’acqua, in questa zona, è ovunque. E pure la neve. Infatti ho montato la tenda fra un fiume, forte e potente come l’immagine spettrale che danno di sé le montagne qui intorno, e dei blocchi di neve. L’occasione giusta per testare a basse temperature il mio nuovo sacco a pelo da ghiacciaio, che se l’è cavata egregiamente. Non ho potuto dormire bene ugualmente, non per colpa del freddo, ma per la continua e terribile sensazione che il vento – che via via è aumentato di intensità fino al mattino – potesse da un momento all’altro sradicare la tenda dai picchetti e farla volare via.
La sensazione è quella della frontiera, da film western. Non si vede anima viva, solo natura, con tutta la sua forza e potenza ricca di fascino aggressivo, come il suo clima, duro e spigoloso come le sue rocce. Appena sveglio, all’alba, ho disfatto la tenda e sono tornato in paese, cioè in stazione, dove ho affidato lo zaino a due simpatiche e gentili bionde ragazze che lavorano alla reception dell’albergo. Quindi mi sono incamminato su per il sentiero che prima passa nel mezzo al lago di Finse, lungo la diga, poi sale fino al ghiacciaio Blaisen. Bellissimo: il lago, il ghiacciaio, il panorama, questa sfilza interminabile di montagne. Mi sono sentito a casa per la prima volta in questo viaggio, dove la mia anima si esprime libera. Ho qualche problema con il freddo però (almeno quando non dormo): sono ancora molto a sud, appena all’inizio dell’avventura, e già sono al limite della resistenza alle basse temperature. Se, come temo, salendo di latitudine la temperatura dovesse farsi ancor più rigida, non so se i miei vestiti saranno in grado di contrastarla. Ci vorrebbe un po’ più di sole… un bene raro da queste parti. E molto prezioso.
Da quando ho lasciato Oslo, con la sola eccezione della brulla e desolata Finse, è stato tutto un susseguirsi di foreste e montagne, il più delle volte montagne completamente ricoperte di foreste. Sembrano non finire mai, in un tutt’uno di verde rigoglioso e magnifico, seducente e selvaggio. Di quando in quando appaiono nelle vallate dei piccoli laghetti azzurri, specchio di purezza, semplicità e vita. Questa zona centro-meridionale, con la sua scarsissima popolazione e la totale assenza di urbanizzazione, è quanto di meglio si possa chiedere se si ama il mondo come lo amo io.

Bergen, ore 22.30
Ritorno alla civiltà.
Una gustosa pinta di Guinness sul vivace molo di Bergen: ritorno alla civiltà.Sono arrivato in questa bella e accogliente cittadina turistica, la località più famosa e popolosa della Norvegia dopo Oslo, abbastanza presto nel pomeriggio. Ho avuto quindi la possibilità di girare il centro, disteso tutto intorno al molo a ferro di cavallo. Dal quartiere di Bryggen, antica sede dei mercanti della Lega Anseatica, al mercato del pesce di Torget, pieno di vita, odori, colori e salsedine. Dove ho potuto assaggiare un panino alla carne di balena che i pescatori-venditori del mercato (quasi tutti italiani e giapponesi fra l’altro) preparano sul momento. Ho visitato l’immancabile fortezza con torre di avvistamento – Bergenhus e Rosenkrantztarnet: quasi fuori dal tempo, così silenziosa e pulita, verde e luminosa, resa ancor più dolce dalla luce soffice del sole basso delle 10 di sera – e la piccola chiesetta di Mariakirken, il più antico edificio della città, risalente al XII secolo.
La dolce luce della sera dipinge questa città come una vera signora, consapevole della sua bellezza ma generosa, gentile, di atteggiamento protettivo e con lo sguardo sereno nei confronti dello straniero viaggiatore. Si propone come una Viareggio del nord ma in realtà credo che dentro di lei viva l’anima di Napoli, certo più pulita e tranquilla.
p.s.
È pieno, strapieno, di italiani. Sono dappertutto.

Giorno 5
Bergen
(nessun appunto).

Giorno 6
In mare qualche chilometro a nord di Maloy, ore 5.15 del mattino

Appuntamento con i fiordi.
Ieri mattina ho trovato un traghetto per il nord. È la famosa nave da crociera Hurtigruten, ex battello postale salito di rango – e di moda – nel corso degli anni. Non mi piacciono le navi da crociera ma non avevo altra scelta: la Hurtigruten è l’unica compagnia a costeggiare i fiordi dal sud al nord della Norvegia, più precisamente da Bergen a Kirkenes, e ritorno, facendo scalo in quasi tutte le città e i luoghi turisticamente più interessanti. La sua corsa dura 11 giorni, 6 per arrivare a Kirkenes – vicinissima al confine con la Russia – e 5 per tornare indietro. Fra l’altro costa cara, molto cara (altro che postale!), ma per gli studenti c’è il 50% di sconto. Pagare la metà rende possibile usufruire di questo lusso, che restando sempre tale è comunque svenante e va utilizzato con estrema moderazione.
La mia Hurtigruten si chiama Kong Harald ed è partita ieri sera alle 20. Al momento abbiamo appena passato il porto di Maloy e stiamo costeggiando la penisola di Stadlandet.
Ho avuto quindi un’intera giornata in più per conoscere meglio la graziosa Bergen. Per vedere il museo anseatico e per salire sui quartieri alti, sopra il Bryggen, e ancora più in alto fino ad arrivare in cima alla montagna che sovrasta la città, collegata da una funivia alla quale però ho sostituito le mie gambe da montanaro. Con tante ore a disposizione valeva la pena farsela a piedi – un’oretta abbondante a salire, un’altra a scendere: il panorama di Bergen e dintorni dall’alto della cima è splendido. Ho avuto anche tempo per studiare un piano di viaggio più preciso ed approfondito di quanto finora pensato. Ho trovato gli orari dei treni per il ritorno – da Narvik a Stoccolma: 20 ore e 20 minuti di viaggio ma almeno evito di scendere nuovamente a sud – e il piano di viaggio della Hurtigruten. Così ho potuto organizzare a puntino tappe e tempi di questa mia avventura a nord.
Ovviamente non risalirò tutta la costa fino a Kirkenes con la Kong Harald, non voglio mica trasformare l’avventura in una crociera – cosa che fanno in molti, tanti italiani, e i più anziani fra i norvegesi: mi hanno raccontato che la crociera sulla Hurtigruten è l’ultimo viaggio che i norvegesi compiono prima di morire – ma scenderò al molo di Geiranger, minuscolo centro abitato situato 20 km nell’interno, alla fine del famosissimo omonimo fiordo, considerato il più spettacolare dell’intera Norvegia.
Dallo scalo di Geiranger dovrei essere a poche centinaia di chilometri da Otta, la mia prossima meta, cittadina ai piedi dell’altipiano e parco nazionale di Rondane.
Per adesso mi godo i fiordi dal ponte scoperto, a prua, anche se fa molto freddo e il vento tira come un matto, ed è un orario estremamente mattutino. Mi godo, parlando al presente, nel senso che comincerò adesso a goderne (sono le 5.30 del mattino) perché nelle ultime ore tutto c’è stato tranne che godimento. Subito dopo essere salpati, ieri sera, ho avuto un forte attacco di gastrite che mi ha costretto sdraiato, dolorante, fino ad addormentarmi sul divano del ponte 5, a poppa. Mi sono svegliato alle 4.30 della notte, c’era già luce, e ora sto bene.

In mare a largo dell’isola di Gurskoy, ore 6.45 del mattino
La vera natura della Norvegia.
È come una carezza fra i capelli. Dolce e sensuale. La lunga mano della costa sud-occidentale accarezza il mio sguardo con le sue ruvide dita di fiordi verdi. Le cime fumano nuvole bianche e gli scogli fendono l’acqua come enormi balene che si tuffano inarcando la schiena.
Il sole delle 6 del mattino è l’ideale a questa latitudine per ammirare i colori di questa natura vitale. E il movimento ondulatorio della nave crea intima partecipazione fra la mia mente calma e riposata e le linee severe delle montagne a picco sul mare. Fino ad ora, con l’unica parentesi di Finse e del suo ghiacciaio Blaisen, la Norvegia si era mostrata a me sotto la sua luce moderna ed impeccabile, fredda e spietata come la precisione del suo sistema ferroviario, arida come la pietra bianca con cui costruisce le sue case fuori dai centri abitati. Solo adesso si sta mostrando per la sua vera natura: uno sconfinato palazzo fatto di vento, come vuoto, ma sfarzoso, lussureggiante, ricco di amore per il bello, pieno di significato per chi vive la natura con lo stesso trasporto con cui vengo man a mano trascinato verso nord. Tutto è calmo, tutto è bello.

Storfjorden, ore 10
Tutto scorre naturale. Anche io...
La nave ha costeggiato tutta la notte la regione dello Sogn og fjordane, facendo tappa a Floro, poi a Maloy, e infine Alesund, un’ora fa. Non si è mai addentrata fin dentro le insenature e i fiordi ed è rimasta sempre ad una discreta distanza. Adesso comincia la lunga cavalcata attraverso lo Storfjorden, per poi passare nell’ancor più stretto ed angusto Sunnylvsfjorden, e infine in quell’insenatura minuscola, dalle pareti altissime e ripidissime, che è famosa al mondo come Geirangerfjord. Approderò poi al molo di Geiranger alle 13.15, dove avrà fine questa mia prima esperienza di mare.
Ad Alesund la Kong Harald si è fermata e ci ha fatto scendere per una mezz’oretta. Solo il tempo per dare uno sguardo al caratteristico porticciolo di pescatori e alle deliziose casette di Apotekergate, ovvero via della farmacia. Alesund è una Bergen in piccolo. Qui si respira la stessa aria che trovi fra le strade della sorella maggiore ma con una piacevolmente minore presenza di turisti. È una cittadina all’apparenza davvero invitante, incantevole direi, ideale per passare qualche giorno di relax a contatto con il mare. L’odore di pesce è forte ma non fastidioso: tutto scorre via in modo così naturale e semplice che anche gli odori e i sapori forti che in altri contesti potrebbero dare noia, qui assumono un’aria tutta diversa. In una parola: soave.
p.s.
Se di ritorno dovessi di nuovo fermarmi ad Alesund, voglio andare a vedere l’isola santuario degli uccelli marini.

Geiranger, ore 18
In punta del dito con i fulmini al mio comando.
Seduto sulla punta del dito di mare che bagna Geiranger. Il paese è un porticciolo, un campeggio (che per stasera mi ospiterà) e due negozietti di souvenir. Tutto il resto è una composizione artistica di rara bellezza: verdi montagne sedute nel mare, anch’esso d’un verde abbagliante ed immobile, cime chiazzate di bianco. Dicono che quello di Geiranger sia il fiordo più bello: non so se è così, sicuramente però è di una bellezza accecante, difficile descriverlo, capace di infondere emozioni taglienti.
La nave ha attraccato – nel senso che è venuto a prenderci un motoscafo perché il molo qui è troppo piccolo e l’insenatura troppo stretta perché una nave possa giungere fino a riva – con mezzora di ritardo (è la prima volta che succede in questo paese dalla puntualità allarmante). Proprio quella mezzora che è stata sufficiente a farmi perdere l’ultimo autobus per Otta, ai piedi del massiccio di Rondane, montagna che Henrik Ibsen ha definito “un palazzo costruito sopra un altro palazzo” e che si estende per oltre 500 chilometri quadrati con vette che superano i 2100 metri. Ho tentato ovviamente la via dell’autostop ma nessuno – né fra i pochissimi residenti né fra i turisti tedeschi e olandesi incontrati – si è degnato di considerarmi.
Sono quindi bloccato qui. Bloccato si fa per dire: fra queste rocce e questo mare da sogno, il motore della mia anima che con troppa semplicità chiamiamo libertà, romba e tuona come avesse i fulmini al suo comando. Più emozionante ancora è stato percorrere i 20 chilometri che formano questo gigantesco, in lunghezza come in altezza, fiordo sud-occidentale. Ogni poche centinaia di metri un’insenatura, una nuova vetta, una cascata. O anche più di una alla volta come nel caso delle Sette sorelle e del loro sfigato Pretendente: sette cascate gemelle che si lanciano in mare da un’altura perfettamente di fronte ad un’altra cascata più grande, sull’altro versante del fiordo, che la leggenda racconta essere il pretendente perennemente rifiutato della mano di una delle sette. C’è da immergersi completamente in questa natura, fra le sue ripide scogliere e le sue casupole sparse ed isolate, spesso abbandonate, appollaiate in luoghi improponibili e in apparenza inaccessibili. C’è da respirare tutto il senso di potenza, di grandezza, di maestosa e spietata superiorità che questo luogo esprime. È il punto d’incontro fra l’infinita immaginazione e la totale immedesimazione.
Quella che mi aspetta domani sul Rondane è una natura ancora più prorompente, più selvaggia, più dura. Sarà una montagna che mi metterà alla prova.

Giorno 7
Rondvassbu, ore 18

Primo assaggio di parco.
Ho montato la tenda in un posto da sogno: a pochi metri dal lago Rondvatnet, lungo il sentiero che collega il parco nazionale di Rondane, da ovest, alla città di Otta. La località si chiama Rondvassbu e non è altro che un rifugio di montagna del Cai norvegese, il Dnt. La vista sui monti e sul lago è magnifica, incantevole. Domani mattina salirò l’impegnativa vetta del Vinjeronden a 2044 metri e poi quella del Rondslottet a 2178. Ma per farlo devo alzarmi alle 5, disfare la tenda e partire entro le 6 se non voglio rischiare di perdere l’ultimo autobus che parte alle 16.05 dal parcheggio Sprangh, all’inizio del sentiero, distante la stessa ora e mezzo di cammino che ho appena concluso, e chi mi riporterà ad Otta. Non voglio infatti passare una seconda notte qui, non me lo posso permettere – tempi stretti: tre settimane e tutta una nazione da visitare – anche se varrebbe la pena fermarsi a camminare in questi luoghi per una settimana.
Compiere questo primo tratto di sentiero fin qui a Rondvassbu, dove avevo deciso (e a ragione, visto il panorama) di passare la notte, non è stata per niente una passeggiata. Nonostante fosse solo un’ora e mezzo di marcia in pianura, la marcia è stata fortemente appesantita dall’enorme mole del mio zaino che con tenda, sacco a pelo e materassino, tre borracce, scorte di cibo per quattro giorni più tutto il vestiario, la macchina fotografica e gli altri ammennicoli da montanaro, è davvero molto pesante con i suoi 30 chili. Tanto che le mie spalle stanno già urlando pietà. Domani comunque lascerò quasi tutto qui al rifugio – che dista 50 metri da dove ho piantato la tenda – e proseguirò leggero. Vicino a me c’è un’altra tenda: una famiglia di norvegesi cordiali e di buona compagnia accompagnati da uno stupendo cane husky che si trova perfettamente a suo agio in questa cornice di roccia, neve e acqua limpida.
Già questo primo assaggio di parco è stato entusiasmante. Oltre ad essere vastissimo – comprende infatti il secondo massiccio montuoso più esteso di tutta la Norvegia – è ricco di vita: con ruscelli ovunque e una fauna molto variegata e popolosa, dalla renna al lemming. Ed è anche ricca di storia come testimoniano le trappole per renne che qua e là s’incontrano e che – dicono – risalgono a migliaia di anni fa. È una terra ruvida, aspra, spigolosa. Con la neve perenne che certo non contribuisce a renderla più ospitale. E anche per questo ancora più affascinante. Domani sarò tutt’uno con queste montagne e questo parco.

Giorno 8
Rondvassbu, ore 11

Tempesta.
Sono bloccato nel rifugio, in mezze maniche, con 3 gradi fuori e l’impossibilità di uscire. Tutto ciò che ho di pesante e caldo – il maglione di pile, la giacca a vento, il k-way, e anche gli scarponi da trekking – è bagnato fradicio, gocciolante, a tentare di asciugarsi nella drying room di questo rifugio.
Stamani mi sono svegliato alle 5 come da programma, il cielo era limpido. Ho smontato la tenda e l’ho riposta insieme allo zaino nell’ingresso del rifugio Dnt. Il freddo intenso della mattina, unito alle fortissime raffiche di vento, ha accolto i miei primi passi sul massiccio di Rondane. Ho indossato tutti gli abiti pesanti di cui potevo disporre, a strati: maglione sopra la t-shirt, giacca a vento sopra il maglione e infine il k-way. Praticamente invernale. Appena partito ha cominciato a piovere, prima piano, poi sempre più forte. Il cielo era così nero che non riuscivo a vedere a più di 4 o 5 metri di fronte al mio naso. Ho affrontato la salita nel buio delle nuvole nere e nel silenzio delle 6 del mattino. Vento e pioggia non hanno mai cessato di deliziarmi con la loro ingenerosa compagnia. Intorno a me solo roccia – in alto – niente vegetazione e neanche un esemplare del vasto universo faunistico di cui è popolata questa zona. Si può parlare decisamente di tempesta: anche gli animali avranno preferito rimanere al riparo.
Su tutta la montagna pendeva un poderoso senso di morte, un gran freddo, sicuramente non lontano dallo zero. Come un piccolo mondo coperto da una cappa di grigio di nuvole e nebbia che ti intrappola al suo interno. Il vento aumentava progressivamente d’intensità, man a mano che salivo. Fino a diventare tanto forte da determinare la direzione dei miei passi. La pioggia, fine e pungente, non ha smesso un solo momento di cadere, per tutta la mattina. Io sono salito in queste condizioni – decisamente avverse – per circa tre ore fino alla prima forcella: la cima del Vinjeronden a 2044 metri. Arrivato in vetta avevo i pantaloni completamente fradici, le gambe di conseguenza congelate, come le mani e il volto. Cristalli di acqua ghiacciata dal naso e nella barba. Per di più, su in alto era talmente buio che passata la forcella non riuscivo a vedere neanche il sentiero. Sapevo che la meta finale, il Rondslottet, non era distante, ma le condizioni atmosferiche mi stavano mettendo al tappeto. Il mio corpo reclamava a gran voce calore e abiti asciutti, quindi mi sono rimesso in cammino sulla via del ritorno. Non prima però di essermi gustato una sigaretta bagnata a cavallo della cresta del Vinjeronden: goduta fino all’ultima tirata. La montagna ha avuto la meglio sulla mia forza di volontà e sulla mia resistenza, purtroppo. Ma non mi lamento: ho comunque superato i miei primi 2000 metri norvegesi. È stata un’avventura elettrizzante.
Adesso devo solo aspettare che i vestiti si asciughino anche se alle 14 dovrò rimettermi in marcia per tornare a valle, alla partenza del bus a Sprangh, anche se la roba dovesse essere ancora bagnata. Rinchiuso al caldo, senza la possibilità di uscire all’aperto a meno di non volermi coscientemente congelare, non so proprio come passare il tempo. Allora scrivo e sorseggio tè caldo…
Tirando le somme, l’avventura di Rondane non è stata poi così negativa. Valeva la pena salire fin qui anche solo per poter campeggiare a questa altezza sulla riva di un lago così bello. Anche il sentiero, nonostante fosse coperto e buio, freddo all’inverosimile e decisamente inospitale – e, soprattutto, nonostante non sia riuscito a portarlo a termine – ha contribuito al realizzarsi di questo veemente carico di emozioni.
Oggi ho avuto una prova ulteriore di cosa può voler dire andar per monti in modo serio. È stata un’avventura che mi ricorda molto ciò che successe l’anno scorso sui monti Assynt in Scozia. Comunque eccitante ed istruttiva. Mi fa ancora molto freddo però, sebbene sia ben riparato nel rifugio, e ho la pelle d’oca da più di 4 ore.
(Ogni anno mi dico: il prossimo anno porterò vestiti più pesanti. E mai che ascolti i miei stessi saggi consigli!)

Rondvassbu, ore 12
Fame.
È mancata la luce. Dalla finestra entrano timidi raggi solari resi argento dalle fitte nuvole. Ha smesso di piovere ma i miei vestiti – appesi – piovono ancora essi stessi. Senza corrente, la drying room si è trasformata in una mera “stanza calda” priva però della forza asciugatrice delle ventole. Ho fame. Stamani non ho nemmeno fatto una colazione come si deve (solo un pezzo di dolce) perché in questo rifugio servono il breakfast solo dopo le 8.30 ed io volevo partire – e sono partito – prima delle 6. Dell’ultima spesa alimentare fatta mi era rimasto solo qualche biscotto (che ho divorato prima di mettermi in marcia) oltre alla roba per i pasti cosiddetti “principali”. E non mi andava di mettermi a fare panini in tenda o al freddo del sentiero prima di partire. Per cui ho iniziato a camminare a stomaco vuoto, sono tornato stanco e congelato, ma ora la prospettiva di mettermi a fare panini (mangiare sempre panini, per giorni e giorni, avrebbe provato anche la resistenza di Mr. Sandwich) non è che mi alletti più di tanto. Meglio cominciare a rollare qualche sigaretta di scorta per il pomeriggio: la scatola è quasi vuota.
p.s.
Ho urgente bisogno di una doccia: sono sudicio alquanto. Stasera se arrivo a Trondheim dormirò di un nuovo in un letto, in ostello (ritorno all’urbanità del selvaggio montanaro da battaglia) e potrò anche lavarmi come si deve.

Otta, ore 17.25
L’arte di arrangiarsi.
Nell’attesa che l’autobus per Trondheim inizi la sua corsa, tento ancora di far asciugare i vestiti. Viaggiando in questo modo, da uomo-tartaruga, con tutto dietro in un unico zaino, poco spazio a disposizione e nessuna comodità, si impara alla svelta ad arrangiarsi.
Mentre camminavo dal rifugio al parcheggio di Sprangh, ero riuscito ad appendere pantaloni, giacca a vento e calzini bagnati, fuori dallo zaino, in modo che il vento li gonfiasse come piccole vele, o bandiere, me ben salde alla tenda a sua volta ancorata allo zaino. Poi, mentre aspettavo il bus a Sprangh, ho trasformato il cartello “Benvenuti nel parco nazionale” nel mio appendiabiti personale, coprendo fra l’altro tutte le scritte (speriamo che nessuno abbia sbagliato strada per colpa mia). Infine adesso, in attesa di un altro autobus, ho fatto la stessa cosa con l’insegna dei taxi presso la stazione degli autobus – nonché stazione ferroviaria – di Otta. Spero che con le 4 ore di viaggio che mi attendono alla volta di Trondheim, tutto possa finalmente finire di asciugarsi con l’ausilio del sistema di riscaldamento dell’autobus.
Ripensandoci – e guardandolo “riposarsi” sulla panchina – il mio zaino con i suoi mille ammennicoli appesi fuori dà proprio il senso visivo dello spirito di avventura che domina questi miei viaggi: pura improvvisazione e perfetta organizzazione e ottimizzazione degli spazi… oltreché dei tempi.

Giorno 9
In mare lungo la costa a nord di Trondheim, ore 14.30

Trondheim e la volontà del primato.
Mi trovo sulla Narvik, nave della Hurtigruten che porta il nome dell’ultima città norvegese destinata ad ospitarmi in questo viaggio. Ieri sera sono arrivato tardi a Trondheim, appena in tempo per trovare un ostello, fare la tanto sospirata e necessaria doccia, addentare un panino al bacon e formaggio straboccante di senape, e andare a dormire. Stamani per prima cosa ho cercato la nave: sapevo che doveva attraccare alle 8.30 per ripartire a mezzogiorno esatto. Ho fatto il biglietto – seconda mazzata da far impallidire – posato il mio pesantissimo zaino con tenda. Al che mi rimanevano 2 ore e mezza circa per dare una rapida occhiata alla città. Quanto basta, se si va di passo svelto, perché Trondheim è abbastanza piccola e il suo centro è a misura di scarpone, nonostante sia la terza città più grande ed importante dopo Oslo e Bergen.
Trondheim non è affascinante come lo sono Bergen o Alesund, ha un’anima universitaria e commerciale, sebbene riservi qualche piacevole sorpresa. Come la cattedrale, la Nidaros Domkirke, veramente meritevole. Nidaros è l’antico nome della città, d’epoca medievale, fondata da re Olav Triggvason alla foce del fiume Nid. Per rendere omaggio al loro fondatore, gli abitanti di Trondheim hanno eretto statue e targhe in ricordo di re Olav un po’ dappertutto.
La Nidaros Domkirke è una chiesa gotica bellissima, data 1070 e tuttora sede della cerimonia di incoronazione dei monarchi norvegesi. È un edificio enorme, circondato da guglie alte e scuro. È tutto scuro, triste, cupo. L’edificio d’epoca medievale più grande dell’intera penisola scandinava.
In pieno centro storico, che come in tutte le città costiere norvegesi è tutt’uno con il porto, c’è lo Stiftsgarden: un palazzo in tardo barocco completamente costruito in legno. Fra gli edifici costruiti con questo materiale, lo Stiftsgarden è il più grande in assoluto dell’intera Scandinavia. E così siamo a due primati scandinavi, non solo norvegesi, in una sola città: si vede che a Trondheim non piace essere seconda a nessuno. Curioso notare che quando il re di Norvegia decide di lasciare Oslo per passare un po’ di tempo al nord, è nello Stiftsgarden che viene ad abitare… ce li vedete Ciampi e signora a passare le vacanze in una San Rossore di legno?
Anche Trondheim, ovviamente, ha il suo Bryggen, il quartiere degli antichi mercanti dove ancora sono visibili vecchi magazzini di epoca anseatica, sull’altro lato del Nid rispetto al centro propriamente detto. Non bello e suggestivo come il Bryggen di Bergen, ma ha comunque un suo fascino, soprattutto grazie al delizioso ponte storico Gamble Bybro, ovvero “ponte della città vecchia”. Qui tutto sa di fine ‘700 e molti di questi magazzini abbandonati cadono a pezzi e vengono corrosi dall’acqua sporca del Nid.
Ho tentato infine di avere una visione panoramica della città salendo sulla fortezza di Kristiansund, svettante dal colle che sovrasta il Bryggen. Ma non ho scattato alcuna fotografia perché le cime degli alberi coprivano la visuale dell’intera città vecchia e l’unica parte realmente visibile era quella moderna, industriale, priva di interesse.
Nel complesso, tre ore poco meno passate a Trondheim non sono affatto state spiacevoli, nonostante che per me fossero solo di attesa della partenza della Hurtigruten. La città è carina, semplice.
Adesso navighiamo lungo la costa del Nord-Trondelag, la contea di Trondheim che si snoda a nord fino sopra a Namsos. La costa è un continuo alternarsi di isolette, o grandi scogli, e montagne, piccoli fiordi abitati da pochi pescatori e un gran via vai di barche, spesso a vela. Non è certo la parte migliore della costa norvegese…
È tempo di rilassarsi un po’.

In mare a nord di Rorvik, ore 22.05

L’universo immobile.
Abbiamo appena oltrepassato la cittàdi Rorvik, dove la nave ha sostato per mezzora. Ora sfrecciamo silenziosi e rapidi in un canale formato da un eterogeneo arcipelago di isolette, alcune delle quali a dir poco minuscole, grandi quanto il faro che una di loro ospita.
Il sole è alto non più di 10-15 gradi sopra l’orizzonte, il cielo terso, e i raggi che da dietro le isole sbucano ad illuminare i fiordi a poche decine di metri ad est della nave, rendono quasi impossibile lo sguardo verso ovest. Ma la gente, con me, a prua, guarda lo stesso.
A parte quelle che ci stiamo lasciando di poppa, delle isolette non restano che i contorni illuminati. Il paesaggio da qualche ora a questa parte è sempre uguale eppure sempre splendido. Natura fredda, distillata, asciutta nella sua grandiosa semplicità. Il mare è così piatto nel baciare gli scogli che ci si parano ad est della Narvik, che viene voglia di tuffarsi ed increspare le onde, solo per infondere la vita a questo universo immobile.

In mare tra Rorvik e Ornes, ore 24.20
La luce della notte.
Il sole è caduto in mare ma è ancora giorno in un certo senso. Per il sole di mezzanotte vero e proprio dovrò aspettare domattina, quando, verso le 7.30-8, passeremo la linea del 66°33’ parallelo nord ed entreremo ufficialmente nel circolo polare artico
Nel frattempo, mi sono goduto sul ponte scoperto di prua il sole delle 23.30 con vista sul monte Targen, famoso per avere un foro perfettamente circolare a quattro quinti circa della sua sommità. Purtroppo abbiamo passato il monte a dieci a mezzanotte, con il sole già a dormire ed una luce troppo fioca per scattare fotografie decenti. Ne ho scattate comunque due: una con l’obiettivo aperto a un quindicesimo, sicuramente mossa, e l’altra ad un trentesimo, sicuramente sottoesposta, anche perché la mia mano non è certo quella di un chirurgo ma soprattutto la nave in movimento non garantisce il massimo di fermezza.
A mezzanotte la luce che si sposa con la notte è uno spettacolo cinematografico: strisce di raggi d’oro opaco salgono dal mare, l’acqua è uno specchio d’alluminio, i fiordi assumono un’aria ancora più seriosa e un colore verde scuro di forte impatto.
All’aperto, a quest’ora, con il vento della navigazione e il circolo polare a poche ore di fronte a noi, fa un freddo sano e rinvigorente, l’aria si scolpisce nel volto, il corpo si immobilizza in un pacifico e rilassante granitico monolito. Solo lo sguardo si muove ancora, spaziando nella bellezza infinita di questo paesaggio.
È l’ora dei sogni, alla luce della notte.

Giorno 10
Ornes, ore 9.50

Sono un uomo artico.
Siamo passati di fronte al ghiacciaio Svartsen, il secondo più grande – per estensione – della Norvegia. Peccato non poter scendere dalla nave e risalirlo a piedi… visto da lontano sembra un’immensa cascata di neve che scende impercettibilmente lenta fino al mare.
Ci abbiamo girato intorno fino ad Ornes dove la Narvik ha attraccato per dieci minuti. Ornes è un’altra cittadina di pescatori con un bellissimo golfo che offre un panorama unico: tre distinte cime affiancate, tutte immerse nelle nubi, una delle quali, completamente ricoperta di neve, dovrebbe essere l’appendice nord del ghiacciaio Svartsen, se è davvero così esteso come dicono.
Man a mano che risaliamo la costa in direzione nord, le montagne si fanno più aspre, più appuntite e più serrate. Il cielo è tornato grigio e il mare argentato. Anche la luce ha cambiato colore: è assai più cupa e rende splendidamente l’essenza del nord.
Alle 12.30 la nave si fermerà a Bodo, uno dei maggiori centri della regione nord. Salperà di nuovo alle 15, alla volta delle Lofoten, staccandosi per la prima volta dalla costa per dirigersi al largo verso le isole. Sarà l’occasione per scendere a terra dopo più di 24 ore di navigazione, sgranchirsi le gambe e visitare la città che – raccontano qui sulla nave – è molto carina ed inspiegabilmente snobbata dai turisti.
p.s.
Da qualche ora sono ufficialmente un uomo artico. Il parallelo 66° 33’ è stato superato.

Bodo, ore 14.15
Le donne.
Ci siamo fermati nel porto di Bodo alle 12.30 come da programma. Sono sceso come molti altri per fare due passi, visitare la città… è veramente penosa! D’accordo che i tedeschi l’hanno completamente rasa al suolo sul finire della guerra, ma potevano ricostruirla un po’ meglio! È tutta negozi, industrie e commercio marittimo. Plastificata, cementificata, sporca, maleodorante e terribilmente trafficata. Ho mangiato ad un chioschetto sul molo, fatto un salto al supermercato per le provviste, e sono tornato di corsa alla nave… almeno mi riparo dalla pioggia e aggiorno il diario.
La passeggiata per Bodo mi ha fatto riflettere su un aspetto tristemente importante di questo viaggio e di questo paese: le donne. Eh già, lo notavo in quella che mi ha venduto il panino al chiosco, nella commessa del supermercato e in quelle dei negozi lungo la passeggiata, ma anche qui a bordo fra le passeggere e l’equipaggio della Narvik, come l’ho notato durante questi dieci giorni in quasi tutti gli altri posti finora visitati (con l’unica dolce eccezione di Geiranger): le ragazze norvegesi sono tutte terribilmente sovrappeso!
Chi è che venerava le bellezze scandinave? Chi è quel pazzo? Da quando sono giunto in Norvegia le uniche due ragazze carine che ho incontrato sono state l’addetta all’ufficio turistico e la commessa del negozio di souvenir (dove fra l’altro ho acquistato un disco di musica folk tradizionale vikinga di un gruppo che si chiama Bukkene Bruse) del molo di Geiranger. Poi, tutte brutte, o al più insignificanti. Comunque tutte sul grassoccio andante, alla meglio ben rotonde, con un’evidente pancia da birra e le guanciotte rosee e ben pasciute. Anche le turiste straniere che ho incontrato campeggiando e girando nell’interno non sono state da meno. Come l’olandesina conosciuta alla stazione degli autobus di Otta. Anche lei come me aspettava il pullman per il massiccio di Rondane, anche lei decisa ad andare per monti e sentieri. Abbiamo passato diverse ore insieme: prima aspettando il bus, poi durante il tragitto, infine nell’ora e mezzo di sentiero che separa il parcheggio Sprangh da Rondvassbu e dal rifugio dove lei ha pernottato. Non le ho chiesto nemmeno il nome perché non solo la trovavo poco attraente – eccessivamente mascolina, ruvida, anche nei modi, con lineamenti tutt’altro che femminili, tutt’altro che avvenenti – ma mi ha pure un po’ irritato nella conversazione. Le avrò detto dieci volte che il suo inglese era troppo spedito e che se voleva relazionarsi con me doveva parlare più piano, e lei niente: persisteva. Alla fine ha pure sbuffato, sollevando le spalle con fare insoddisfatto, dicendo “ma in Italia non lo studiate l’inglese?”. Simpatica, vero? Insomma, se lei ha mostrato un qualche interesse per me, quantomeno sul piano della conversazione, da parte mia zero, nessun tipo di approccio. Anzi, tentavo di scansarla il più possibile.
A bordo della Narvik la ragazza più attraente era una giovane norvegese (dotata però di un ineliminabile fidanzato sempre alle costole) che in qualsiasi altro contesto avrei considerato guardabile, ma che per gli standard di questa vacanza è classificabile attraente. Per il resto, un ricco campionario di cinquantenni, ventenni ciccionazze, trentenni evidentemente rovinate – ed invecchiate – dal clima duro di queste parti. Nessuna ragazza minimamente degna di essere considerata e di ricevere un qualche interessamento da parte mia. Se continua così fino alla fine del viaggio (ed ora siamo perfettamente a metà), mi sa che torno a casa senza nemmeno aver socializzato con qualche indigena. Mah…

Giorno 11
Ramberg, ore 01.40

L’incanto delle Lofoten.
Fuori piove a dirotto ma dentro la tenda, avvolto nel sacco a pelo a mummia, sto al calduccio, riparato e al sicuro.
La pioggia mi ha raggiunto sulla via del ritorno della mia lunga passeggiata notturna – notturna si fa per dire: il regno della luce impera su cielo e mare – lungo la costa settentrionale dell’isola di Flakstadoya dell’arcipelago delle Lofoten.
Sono sbarcato a Stamsund, principale aggregato urbano dell’isola di Vestvagoya, alle 19, e subito ho trovato un autobus per Ramberg, la mia prima meta in programma per questo soggiorno alle Lofoten. Ramberg è un paesino squisito: silenzioso, tranquillo – forse anche perché l’ho vissuto solo di sera – e praticamente disabitato.
Ha una bellissima spiaggia di sabbia bianca che si apre su uno sconvolgente paesaggio di fiordi, scogli e mare azzurro incanto di fronte, e di montagne paragonabili alle nostre Dolomiti alle spalle.
È sempre giorno, ma questa è una cosa risaputa. Eppure saperlo, raccontarlo, descriverlo, non rende l’emozione e la poesia della luce della notte vista da una spiaggia color sapone con un golfo luccicante e teneramente calmo di fronte allo sguardo. Bisogna vederlo, esserci, e spalancare le porte delle sensazioni e della percezione… se Jim Morrison fosse vissuto qui, forse oggi sarebbe ancora vivo, e i Doors suonerebbero folk norvegese.
Dopo aver montato la tenda sul lungomare, a pochi metri dalla spiaggia, mi sono incamminato verso nord-est. Ho passeggiato a lungo, almeno 5 o 6 chilometri, osservando il panorama cambiare ad ogni angolatura, dopo ogni baia, assaporando l’aria fresca ma non fredda della notte artica illuminata da dietro le nuvole. E sono arrivato al paese successivo, Flaksad, quello che dà il nome all’isola, dove sorge un’antica chiesa di legno – la Flakstad Kirke – culminante in una ricca guglia rossa, anch’essa in legno.
Lungo la strada, montagne a perdita d’occhio, golfi e baie una dopo l’altra, pace e silenzio. Poi, sulla via del ritorno, è arrivata la consueta pioggia, ed io non avevo molto con me per ripararmi dall’acqua. Allora mi sono messo a cantare: erano le una di notte, ma all’orizzonte non appariva anima viva.
Una nota di cronaca: prima di partire per la passeggiata alla Flakstad Kirke ho bevuto il mio primo bicchiere di vino dopo dieci giorni in cui sono andato avanti ad acqua di fiume e birra di pub. Me lo hanno offerto due simpatiche famiglie di Torino che si sono accampate con i loro camper qui vicino a me. E abbiamo avuto una piacevole anche se breve conversazione prima di cena. Mai prima d’ora avevo apprezzato così tanto un bicchiere di bianco.
Ora sono le due di notte, e nonostante la luce è bene andare a dormire perché domani sarà un’altra giornata da vivere a pieno in questo paradiso in terra chiamato arcipelago delle Lofoten.

Reine, ore 14.30
Una Venezia incastrata fra i monti.
Stamattina l’autobus mi ha portato da Ramberg a Reine, un porticciolo, anzi una serie di porticcioli, che si estendono uno dopo l’altro lungo una laguna dai colori spumeggianti sulla costa sud dell’isola di Moskensoya, la più meridionale dell’arcipelago fatta esclusione per le più distanti e isolate Rost e Sorvaeroy.
È come una piccola Venezia ma senza ponti e immersa completamente nella natura. La particolare bellezza di quest’isola risiede nel fatto che è tutta un’immensa unica montagna, quasi completamente selvaggia. Qua e là, dove la montagna lasciava spazio sufficiente al mare, l’uomo ha costruito qualche casa e pochi villaggi. Reine è uno di questi, sicuramente il più panoramico. A nord solo rocce a picco, alte vette e pareti innevate che si parano di fronte al paese. A sud il mare, splendido e colorato di tutte le sfumature in dotazione all’acqua. Nel mezzo il blu trasparente e pescoso della laguna che si affaccia sul fiordo, il Reinefjord, che sto per affrontare in barca fino al paesino di Vindstad. Lì mi attende una camminata fino all’altro versante dell’isola, dove un tempo esisteva un villaggio, Bunes, e dove adesso c’è solo una spiaggia che gli ha preso il nome e che dicono sia un punto particolarmente spettacolare per campeggiare in libertà. Voglio andare a dormire là stanotte.
Nel frattempo ho girato tutta Reine passando non dalla strada ma dagli scogli e dai pontili che fungono da accesso alle case (quasi come a Venezia appunto). La grande maggioranza delle abitazioni – in tutto, a occhio e croce, una settantina – e degli edifici in genere, è costruito su palafitte. Ogni casa ha il suo piccolo molo, o comunque un attracco. Barche di pescatori dappertutto, anche qualche vela e qualche isolato motoscafo. Su tutto splende la grandiosità di queste montagne, onnipresenti, affilate, legate l’una all’altra fino a creare un solo grande massiccio, con punte elevate e drittissime che sembra ti osservino con il distacco di un santone indiano a cui però non si deve chiedere troppa pazienza. L’unico rumore che si sente è il continuo canto dei gabbiani, padroni della laguna.
Reine è un luogo bellissimo: fra barca e sentieri da percorrere, la vacanza qui potrebbe durare in eterno.

Spiaggia di Bunes, ore 21
Sia fatta la mia libertà.
Torniamo a riflettere sull’importanza e l’alto tasso di sensibilità culturale dell’Habeas Corpus campeggiatorio dei norvegesi…
Vista dall’alto dell’ampia forcella sabbiosa che ho attraversato questo pomeriggio, la mia tenda è un puntino rosso immerso in un mare di dune bianche, chiazzate verde di erba sul finire del pendio. La spiaggia è una larga lingua di sabbia accerchiata dagli scogli e sovrastata dal monte Helvetestind, una cima di roccia pura, con una grande testa piatta centrale ed una punta più snella ma anche più ripida, sul lato destro. Questa montagna assomiglia un po’ ad una delle Tofane dolomitiche ma sta seduta sulla spiaggia, come a sorvegliarla, e la bagna con il suo fresco torrente mettendo in ombra la mia tenda ma lasciando il bagnasciuga ai raggi del sole. Mi sono seduto anch’io, accanto a lei, a guardare il mare e a raccontarle e farmi raccontare storie d’avventura, di vette da scalare e passi da superare. Nessuno dei due era più solo in quel momento. Che dire… se questo non è uno degli angoli più belli del nostro pianeta, cos’altro lo è?
Dicevamo, il sacrosanto diritto di campeggiare di ogni uomo libero in questo paese: mi trovo là dove il fascino severo delle Tofane si unisce con la dolcezza calda e riposante di una baia caraibica… sono le 9 di sera e fa anche caldo: con il sole ancora alto e a picco sulla testa si sta bene anche in maglietta (se non si alza il vento). In Italia, ma anche in gran parte dell’Europa sarebbe lo stesso, in un posto come questo ci avrebbero costruito un bagno Maria qualsiasi, un bar rumoroso che vende gelati ai bambini e birra ai tedeschi seduti sulle moto, un ristorante affollato di famiglie, e una strada asfaltata che bucando la roccia con una galleria sarebbe arrivata fin sulla spiaggia. Qui invece ci siamo solo io, la Tofana, la mia tenda e il mio zaino, una coppia dai capelli rossi che parla una lingua nordica non ben definita e un piccolo gruppetto di ragazzi francesi con un cane. Poi, qualche pecora a pascolare libera, il rumore del ruscello, quello dei gabbiani e delle onde. Rollarsi e fumarsi una sigaretta qui fa sembrare il mio Old Holborn non un tabacco ma un concentrato di sapori paradisiaci.
Tre tende e un falò: ognuno sta per i fatti suoi ma ci guardiamo con simpatia, ci salutiamo cordialmente e rispettiamo tutti il sacro valore del silenzio. È puro campeggio libero, come libero è il mio spirito, espansa all’infinita contemplazione la mia mente, riposato il mio corpo. Eppure ho camminato tanto sugli scogli e su per il pendio est, fin dove era possibile arrivare. In questo luogo si celebra la vera essenza della libertà: il vuoto del silenzio e dell’immobilità che si riempie di sogno.
Per arrivare qui da Reine ho preso il battello che compie il giro del Reinefjord: un fiordo a forma di trifoglio dalle larghe dita ma poco profondo nell’entroterra dell’isola di Moskensoya. Sono sceso a Vindstad come da programma e ho proceduto a piedi lungo il sentiero che porta a questa spiaggia, passando dal versante sud a quello nord dell’isola in un’ora soltanto, perché in questo punto la Moskensoya è strettissima, come una sella di cavallo, e ricorda non poco il crinale di Itaca. Stasera sono Ulisse.
Diverso dal Geirangerfjord, meno imponente e meno vasto, ma ugualmente fascinoso, il Reinefjord presenta bellissime montagne a picco sull’oceano, tutte con punte acuminate e straordinariamente illuminate in questa calda giornata di pieno sole. Un vero spettacolo naturale che fa delle Lofoten quel paradiso che si vantano di essere.
Adesso non mi resta che aspettare il sole di mezzanotte che entrerà nell’acqua proprio qui di fronte a me.

Giorno 12
A, ore 15.24

…ma sedendo e mirando, interminato spazio di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete, io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno… (estratto da L’infinito di Giacomo Leopardi).

Questo piccolo villaggio – cento anime e un negozio di alimentari – si chiama A ma si pronuncia O, stretta e secca. È l’ultimo avamposto umano a sud della Moskensoya. Più che un villaggio è un museo: non tanto perché in giro a parte i turisti non si vede nessuno, e tutto sa di morto, d’antico, sottovetro, dove il vetro è fatto di mare, cielo e roccia; ma soprattutto perché il paese è stato conservato intatto ed uguale a se stesso dall’inizio del secolo. La vita sembra essersi fermata. Anche le barche all’attracco, le persone lungo le vie e sul molo, la stessa aria, sono immobili. Solo l’acqua del mare sembra possedere ancora vita, strofinandosi ai pali di legno delle palafitte.
Sono giunto qui al limite massimo sud delle Lofoten in autobus da Reine, ed ora non mi resta che risalire le isole in direzione opposta fino a Svolvaer, dove domani sera voglio riprendere la Hurtigruten per Capo Nord. Prima di lasciare Reine – dove stamani mi ha riportato la barca da Vindstad, al ritorno dal mio campeggio selvaggio sulla spiaggia di Bunes – mi sono arrampicato su per il monte che sovrasta il paese, fino alla cima da cui si gode un panorama spettacolare: che io ricordi, il panorama più bello mai visto in vita mia. La vista si apriva non solo su tutto il paese di Reine, nei suoi infiniti flussi e riflussi di insenature, ma anche su tutto il Reinefjord e sulle straordinarie montagne circostanti, una in fila all’altra, all’infinito, con una serie di guglie a dente di cobra che osservate da quella prospettiva formavano un disegno che può ricordare un gigantesco pettine. Un’esperienza visiva straordinaria – spero che le fotografie scattate da quell’altezza rendano giustizia a cotanta eccezionale bellezza – che nella mia mente si accompagnava ai versi di Giacomo Leopardi. Versi che ho recitato ad una coppia di tedeschi lì vicino a me.
Per arrivare fino in cima si deve scarpinare per un sentiero abbastanza breve (circa un’ora di marcia a salire, solo quindici minuti a scendere) ma ripidissimo, praticamente in piedi, e immerso in una fitta e selvaggia vegetazione. In certi punti il sentiero tirava talmente che era necessario salire a quattro zampe e tenersi alla roccia. E con il sole che picchiava duro e la temperatura più alta registrata in questa vacanza, è stata una gran fatica. Ampiamente ricompensata però dallo spettacolo naturale immaginifico del paesaggio dalla vetta.
Infine, ieri sera a Bunes, ho assistito al mio primo sole di mezzanotte: uno spettacolo suggestivo. Il sole si bagna nell’orizzonte, lo sfiora e lo attraversa per qualche minuto, intorno alle 24, orizzontalmente; poi risale senza mai scomparire e riprende la sua rotta da est. La grande palla arancione compie dei movimenti che in altre parti del mondo sono sconosciuti ed è estremamente interessante.
A mezzanotte ed un quarto però già dormivo: distrutto, comincio a sentire il peso delle fatiche accumulate lungo il mio duro e provante viaggio. Sto spingendo forte sull’acceleratore e sto portando il mio fisico a dare il meglio di sé. Gli unici momenti di riposo sono i tratti via mare, con la Hurtigruten: la utilizzo non solo per spostarmi ma anche per riprendere fiato.

Nusfjord, ore 19.50
Il regno della pace.
Da A sono arrivato a Nusfjord, di nuovo sulla Flakstadoya. Da quando sono sulle Lofoten mi sposto a grande velocità, toccando più di una località diversa al giorno. Eppure la vita sembra scorrere molto più lenta, nonostante il tempo continui a cavalcare come un forsennato.
Nusfjord è un piccolo gioiello: incuneata nel fiordo e nella montagna come se ce l’avesse spinta una violenta tempesta; il molo stretto e nascosto dalle rocce, tutto disseminato di robuer, nessun altro tipo di abitazione.
I robuer sono per le Lofoten quello che i trulli sono per Alberobello: un segno distintivo, un tipo di abitazione caratteristico, unico, peculiare. Tutto ciò che è alloggi in affitto qui è robuer. Non ci sono ostelli né alberghi, soltanto queste vecchie casupole di pescatori in legno, un tempo utilizzate per lavorare il pesce, conservarlo (per questo sono tutti sull’acqua, più spesso su palafitte), e per economia anche come alloggio. Mentre adesso sono state trasformate in strozza-turisti: sorta di bungalow spartani e scricchiolanti che danno allo straniero l’emozione della ruvida esistenza del pescatore artico d’altri tempi. I robuer esistono solo su queste isole e ormai ne sono diventati uno dei simboli… appunto, come i trulli di Alberobello.
I robuer di Nusfjord sono talmente vicini all’acqua che l’ospite potrebbe tranquillamente gettare la lenza direttamente dalla finestra, pescando comodamente seduto a tavola. La pesca, manco a dirlo, è l’attività che praticano tutti qui su questi moli, tedeschi soprattutto.
Questo minuscolo paese è la quintessenza della tranquillità e del relax: non c’è praticamente nessuno e il silenzio impera. Anche adesso, sul molo, all’ora di cena, seduti ai tavoli del ristorante Oriana dove ho appena mangiato un dessert e sto sorseggiando una birra, siamo solo in tre.
Il sole si abbassa alle nostre spalle, sulle montagne, quindi per stasera niente sole di mezzanotte. L’acqua è limpida a tal punto che si vede il fondale a dieci metri di distanza dalla riva e le montagne che abbracciano il rosso scuro della schiena dei robuer sono belle come sempre, come ovunque su queste isole.
Ho messo la tenda a circa un chilometro dal paese, lungo un sentiero, proprio sulla riva di un lago circondato da prati, boschi, una cascata, e un’illuminazione naturale che sembra costruita apposta tanto è perfetta.
Sono appena le 20.15 ma sono così stanco che mi sembra mezzanotte… tanto la differenza non la si nota. E siccome per stasera niente spettacolo del sole a bagno nel mare, andrò a letto appena finita la birra. Sarà dolcissimo addormentarsi in quel quadro verde da raffigurazione biblica del paradiso terrestre. C’è una gran pace, ed io ne avevo molto bisogno.

Giorno 13
Leknes, ore 10.05

Un vecchio sapore riscoperto.
Si può fare del buon autostop anche in Norvegia, o almeno sulle Lofoten. Dopo l’esperimento mal riuscito a Geiranger, ero molto scettico sulla possibilità di adottare anche qui – visti gli ottimi risultati ottenuti lo scorso anno in Scozia – questo economico e divertente sistema di spostamento. Invece, tra ieri sera e stamattina, ben tre passaggi che mi hanno tolto dai pasticci. Già, perché non esiste nessun autobus che serve Nusfjord, al massimo ti lasciano all’incrocio sulla strada che collega Ramberg a Napp, a 6 chilometri di distanza dal paese. E farsi 6 chilometri sull’asfalto con il mio pesantissimo zaino non è certo un piacere.
Abbandonato l’autobus al menzionato incrocio, sono passati solo 5 minuti e sono stato caricato dalla macchina di due giovani svedesi, una coppia, in gamba e dotati di un ottimo sorriso, diretti amche loro a Nusfjord dove lavorano come cuoco e cameriera al ristorante locale, l’unico ristorante del minuscolo villaggio, lo stesso Oriana dove ieri sera ho gustato dolce e birra.
Stamani, sulla via del ritorno, ho dovuto aspettare solo 20 minuti prima che una macchina si fermasse a prendermi: era uno dei pochi abitanti ancora rimasti a Nusfjord. Che mi ha condotto fino all’incrocio da cui passa l’autobus.
Mentre aspettavo l’autobus, infine, sono stato portato a Leknes (il secondo centro in ordine di grandezza, dopo Svolvaer, delle Lofoten) da un furgone guidato dal gestore dell’ostello di A che si è molto dispiaciuto nel vedere che avevo con me la tenda e nel sapere che non avevo pernottato nel suo ostello.
Ora sono alla stazione degli autobus di Leknes, sull’isola di Vestvagoya, e attendo che parta quello per Svolvaer. Ho comunque riscoperto il sapore eccitante di farmi trasportare in macchina da sconosciuti, purtroppo le enormi – soprattutto se paragonate alla Scozia – distanze da coprire in questo Paese, rendono impossibile impostare di nuovo la vacanza sull’autostop… devo basarmi sui trasporti pubblici sennò non ne vengo fuori.

Svolvaer, ore 15
La libertà colta sopra un albero.
L’isola di Austvagoya, sulla cui costa meridionale si trova Svolvaer, è meno interessante di Flakstadoya e Moskensoya. E anche la città di Svolvaer è assolutamente anonima. Ci sono i soliti robuer rossi come da tutte le altri parti qui sulle isole, ma le montagne sono meno belle e il carattere commerciale e industriale del porto rendono questo posto poco appetibile. Forse mi sono abituato troppo bene in questi giorni: troppi angoli di paradiso mi hanno reso eccessivamente esigente.
Attendo la nave e nel frattempo mi riposo. Parlando con gli isolani che mi hanno caricato in macchina e con un gruppetto di ragazzi romani freschi di maturità incontrati sull’autobus (ma li avevo già conosciuti all’ostello di Trondheim), e raccontando questa mia avventura, mi sono reso conto di quanti sacrifici, quanta determinazione e quanta fatica costi viaggiare in questo modo. Ci si sposta continuamente e non si dorme mai due volte nello stesso posto. Si cammina per ore, fermandosi solo per salire sui mezzi pubblici, mangiare e dormire. Anche queste due ultime attività sono alquanto precarie: mangiare quasi sempre in piedi, tra panini preparati sui sentieri e hot dog presi al volo nei chioschi dei moli; dormire quasi sempre in tenda, in montagna, lungo i sentieri, non certo circondati da tutte le comodità possibili. Certi giorni anche la pulizia diventa un optional: quando ti svegli su una spiaggia deserta e isolata dalla civiltà, circondata da montagne, devi fare a meno anche di lavarti il viso. Lo zaino è pesante perché ti porti sempre dietro tutto ciò che ti occorre, e raramente ti puoi permettere di toglierlo dalle spalle. Le scarpe (rigorosamente da montagna, legate molto strette per poter sostenere un intero giorno di marcia) sono sempre ai piedi, alla fine della giornata decisamente doloranti… a volte anche al mattino. Sempre di corsa, su e giù dagli autobus e dai treni spesso presi all’ultimo minuto. Non c’è tempo per il “divertimento”, la vita sociale, notturna: si va a letto presto a meno che non ci sia un valido motivo per restare alzati (come il sole di mezzanotte ad esempio), e al mattino la sveglia è sempre intorno alle 6. Macinando chilometri e scalando montagne, l’unico “svago”, se così vogliamo chiamarlo, sta in ciò che l’occhio riesce a vedere e nella natura che si respira passo dopo passo. Se sei solo, poi, è il silenzio il padrone assoluto delle tue giornate. E se vivi perennemente all’aria aperta, l’unica fonte di luce e calore è il sole (che per fortuna qui non tramonta mai). Il tuo migliore amico è il diario di viaggio e lo stato di salute delle tue scarpe è la prima preoccupazione quotidiana.
Se non sopporti la fatica, se il freddo frena i tuoi movimenti e incatena il tuo spirito, se indietreggi di fronte alle salite, se la solitudine ti spaventa e la natura non basta da sola a riempire il tuo tempo, alimentare la tua anima, e suggerire al cuore di pompare più sangue, allora è bene non cominciarla nemmeno una vacanza così. Non ne varrebbe la pena.
Per me è diverso, questo è l’unico modo in cui riesco a sentirmi realmente libero. E i mille e uno padroni che forgiano la mia esistenza e la mia giornata durante tutto l’anno, sembrano solo deboli fantasmi che arrancano alle mie spalle nell’impossibilità di starmi dietro, minuscoli buchi neri in lontananza, inoffensivi, che affogano in un oceano di luce senza soluzione di continuità. La libertà – diceva Giorgio Gaber – non è star sopra un albero, libertà è partecipazione. Si sbagliava, almeno in parte: ci sono angoli di mondo dove sopra il ramo di un albero, o su un sentiero di montagna, crescono frutti che assomigliano in maniera impressionante alla libertà.
E adesso, libero, vado a sdraiarmi da qualche parte sul molo in attesa della mia Hurtigruten.

In mare poco a nord di Svolvaer, ore 22.20
Urgentemente doccia.
Mi sono imbarcato sulla Trollfjord, la più recente e più lussuosa della flotta Hurtigruten. È veramente “troppa” questa nave… è veramente troppo per me. Tra l’altro, a differenza delle altre due Hurtigruten sperimentate finora, anche della poco lussuosa e ormai ventenne Narvik, qui non c’è la doccia per i passeggeri senza cabina. Mi hanno detto che per fare la doccia dovrò servirmi del locale sauna (hanno anche la sauna?), che però di sera è chiusa e quindi devo aspettare le 7 di domani mattina. Non per fare lo schizzinoso, ma sono quattro giorni che vago per sentieri e luoghi pressoché selvaggi, senza la possibilità di ripulirmi per bene dalla lordura del campeggio libero.
Questa notte penso di restare sveglio (non posso dire fare l’alba, è sempre giorno) perché la nave passerà lungo tutta la parte nord delle Lofoten – la parte che non ho visitato via terra – e attraverso le Vesteralen, le isole a nord dell’arcipelago, dove non ho mai messo piede. Lasceremo queste isole domattina verso le 9, quindi se rimango sveglio mi godrò dal ponte tutto quello che mi manca di queste fantastiche isole artiche.
Tra circa mezzora attraverseremo il famoso Trollfjord – il fiordo da cui prende il nome questa nave – uno dei punti di maggiore richiamo turistico della Norvegia. Corro in coperta a godermi il panorama…

Giorno 14
Trollfjord, ore 0.20

Cos’è un fiordo?
Cos’è un fiordo? È una lingua di mare, il dito di una mostruosa mano tentacolare, che penetra la montagna e si insinua nell’entroterra. È l’unione fra l’acqua e la roccia che si tuffa verticalmente fra i flutti, graffiando il pelo dell’acqua e innalzandosi fiera e rude nell’infinita immaginazione del cielo.
Il Trollfjord, sulla costa sud dell’isola di Austvagoya, racchiude in sé l’essenza più pura di questa immagine. Ne assorbe la magia, restituendo allo sguardo tutta la poesia di cui è capace questa unione.
Il viaggio verso Capo Nord continua a brillare nella sua luce artica.

Stokmarknes, ore 01.00
Innamorato? Oh, please, stay with me… Diana
Solo canzoni d’amore sul ponte 8, zona fumatori. Due anziani norvegesi ballano leggiadri sulle note di Diana di Paul Anka e di alcuni pezzi storici del soft rock dammore americano anni ’50 e ’60. Sono così belli con i loro capelli platino e gli occhi di ghiaccio. Si amano e si vede. Anch’io mi sento profondamente innamorato: cielo d’alluminio, mare piatto e montagne innevate intorno a me, sorridono al mio amore per tutto quello che esiste. Tutto è bello.

In mare tra Harstad e Finnsness, ore 8.40
Mi sento un altro.
Ora sono pronto a godermi per bene il tragitto, in coperta, con il sole che mi riscalda e il vento che gioca alla bandierina con il cappuccio del mio giubbotto.
Espletate tutte le attività di riassestamento e ritorno alla civiltà, mi sono messo comodo in attesa di altre meraviglie naturali. Ritorno alla civiltà è il termine giusto: ho lavato maglie e calzini (non ne avevo più ed ero ridotto realmente ad uno stato da profugo), ho lavato me stesso, ho addirittura tentato l’ardua impresa di stirare… e considerando che era la prima volta che facevo una lavatrice (anche se devo ammettere: sono stato aiutato in modo determinante da una ragazza tedesca molto gentile e dal sorriso materno alla quale devo aver fatto pena con i calzini in una mano e il detersivo per lavatrice nell’altra, il tutto condito da uno sguardo fra lo spaurito e lo sconfortato) e soprattutto che prendevo in mano un ferro da stiro, devo dire che non me la sono cavata poi tanto male.
La Hurtigruten va sfruttata a fondo: siccome è così cara ma è indispensabile per coprire grandi distanze, la cosa migliore è utilizzarla come ponte temporaneo fra la vita libera del campeggio e quella civile della città. Per dormire su un comodo divano, innanzitutto. Per farsi una doccia, lavare i vestiti, riposare le gambe e fare rifornimento di rullini per la macchina fotografica, marmellatine per la colazione, bustine di sale pepe e salse varie da raccattare al bar, che rendono meno indigesti i miei sempiterni panini.
Ieri sembravo un naufrago scaricato da qualche scafista su una spiaggia pugliese. Oggi, se si sorvola sul pantalone pluri-macchiato, pesantemente scucito e con qualche buco qua e là (ma non ne ho altri e me li devo tenere fino a fine vacanza), sono una personcina proprio a modino, pronto per essere presentato nell’alta società. E tutto il fango, la polvere, la terra, la salsedine e soprattutto gli escrementi di gabbiano accumulati fino ad oggi, sono soltanto un ricordo, spiacevole sì ma anche caratteristico ed essenziale elemento dell’avventura.

Finnsness, ore 12
Mezzi di trasporto.
Il particolare logistico più interessante di questo viaggio è che mi sto spostando con tutti i mezzi di trasporto esistenti. L’aereo prima, poi il treno, la nave, un’infinità di autobus, un po’ di autostop. Bisogna stare attenti, diventare al più presto esperti delle dinamiche e delle traiettorie, per poter scegliere intelligentemente ed opportunamente il mezzo migliore per ogni tappa.
La rete ferroviaria è efficientissima e puntualissima, peccato però che non arrivi più a nord di Narvik. Dove non va il treno arriva l’autobus: con tre compagnie che coprono tre diverse zone del paese, in Norvegia l’autobus può arrivare quasi ovunque. Soprattutto sulle Lofoten questo mezzo è decisamente il più adatto, particolarmente capillare e frequente.
I traghetti invece coprono distanze relativamente brevi – relativamente ai vasti spazi e alla tortuosa costa che la Norvegia può vantare – e sono quindi meno interessanti nell’ottica di un viaggio come questo. A parte ovviamente la Hurtigruten, che va dappertutto, si ferma in tutti i porti principali e anche in molti dei secondari, passando sempre rasente alla costa: è indispensabile ed insostituibile. Non importa neanche prenotare a meno che non si voglia prendere una cabina (con l’avventura che però se ne va a spasso): si aspetta al porto, si sale a bordo, si paga e il gioco è fatto. Fatto strano per una lussuosa nave da crociera.
Prenotare è un’altra di quelle parole che va totalmente cancellata dal vocabolario del viaggiatore. Decidendo il da farsi – e di conseguenza le mete e le tappe – quasi giorno per giorno, diviene un verbo assolutamente straniero, sconosciuto. La parola chiave è improvvisazione.
Tra circa due ore la Trollfjord attraccherà al porto di Tromso, la più grande città della Norvegia settentrionale e capitale della contea di Troms, una delle ultime vere città di questo viaggio e del circolo polare artico. Starà ferma 4 ore, il tempo per visitare il centro e poi ripartire alla volta di Capo Nord. Questa volta senza più interruzioni.

Tromso, ore 17.30
Tromso, l’avamposto.
Scendo a terra, nella cittadina universitaria di Tromso, e subito le ragazze sono tutte belle: estive, solari, sorridenti, che corrono in bicicletta o prendono il sole sui prati del centro e vicino al porto.
La città in sé non dice granché (come tutte, a parte Bergen e Alesund, del resto): una chiesa in legno nella piazzetta di fronte al porto – la Tromso Domkirke – un’altra, questa volta cattolica, sulla collina che dà sul Sentrum (il centro), e dall’altra parte del canale la famosa Tromsdalen Kirke, altrimenti detta “Cattedrale artica” per il suo design moderno che ricorda i ghiacci polari, ricca di simbolismo. Ma che oggi pomeriggio era chiusa ai visitatori. La via principale, Storgata, traduzione letterale di via principale (infatti c’è una storgata in ogni borgo), è chiassosa, fitta di negozi. Il porto è eccessivamente industriale e il mega ponte che tiene insieme le due metà della città, da una parte all’altra del canale, una sulla terra ferma e l’altra sull’isola di Trmosoya, è una terrificante striscia di cemento che imbruttisce il paesaggio montano. La cosa che rende realmente interessante Tromso è l’università – la più settentrionale d’Europa – o meglio i suoi studenti: sono l’unica fonte di vitalità di questo luogo che – dicono – è la sera che dà il meglio di sé.
Sono tornato alla nave perché sentivo addosso una gran stanchezza ma soprattutto perché Tromso di pomeriggio non è che sia questa grande attrattiva. Fra l’altro ho trovato chiusa anche la fabbrica di birra Mack, manco a dirlo la più settentrionale fabbrica di birra del mondo, per riposo settimanale. Tanto una sosta qui sulla via del ritorno è quasi d’obbligo, quindi avrò un’altra occasione sia per la cattedrale artica che per la fabbrica di birra, che è un vero luogo di culto per gli amanti del luppolo di tutto il mondo, e soprattutto per vivere la città in notturna… ma con il sole.
Tra mezzora ripartiamo.

Giorno 15
Oskfjord, ore 02.30 di notte

Stretto in maglie italiane, tra Pisa e Catania.
Ho passato la serata e questa prima parte della luminosa notte in piacevole compagnia e conversazione con due gruppi di italiani conosciuti a bordo. Due studenti pisani appena usciti dal liceo e quattro siciliani, di Catania e dintorni, tre ragazze e un ragazzo, quest’ultimo fratello di una delle tre. Non facevo conversazione da tempo immemorabile e la cosa mi mancava. Aggiungete poi che i contatti con l’estero, e con gli indigeni in particolare, è pressoché inesistente, e potete tirare le somme.
Nessuno di loro sei è il mio tipo per così dire. Nel senso che non mi somigliano, siamo fatti di materiale diverso, distanti direi. Ma mentre i due pisani Luca e Christian sono discretamente antipatici, con i siciliani Luana, Catia, Giusi e Antonio, più adulti, grossomodo miei coetanei, mi trovo bene. Fra aneddoti scherzi e risate abbiamo ammazzato il tempo di quest’alba perenne che è il sole di mezzanotte.
Non è la prima volta che incontro degli italiani: ho incrociato due volte due gruppi di romani. Il primo, tre ragazzi anche loro appena maturati, li ho conosciuti a Bergen, ritrovati a Vindstad sulle Lofoten, e infine a Svolvaer. E in questa ultima occasione abbiamo avuto un’oretta da passare assieme per scambiarci informazioni di viaggio e consigli. Il secondo, stessa età, tre ragazze e un ragazzo (sfigatissimo!) li ho trovati all’ostello di Trondheim e su un autobus alle Lofoten. Anche fra di loro si sono incrociati un paio di volte… sembra proprio un giro di trottola.

Honnigsvag, ore 20.25

Capo Nord, la meta raggiunta.
Bevo e brindo al tetto d’Europa. Solo, ma felice, sul tetto d’Europa. Essere solo, adesso, qui, era una cosa che poche ore fa non avrei mai sospettato, visto le peripezie a cui sono andato incontro in questa giornata. Cerchiamo di razionalizzare l’accaduto…
Il sodalizio con i sei connazionali si è intensificato nel corso della mattinata. Dopo averli aiutati a fare il bucato, ieri sera, e dopo aver vissuto insieme una piccola disavventura con un ubriacone che ha pisciato in giro per la nave, barcollando, cadendo a più riprese, ferendosi anche al volto in seguito ad una caduta, abbiamo dormito tutti insieme a prua del ponte 8. Al mattino ci siamo preparati insieme per lo sbarco.
I due diciannovenni pisani sono dei fricchettoni irrecuperabili, e certe (molte) manifestazioni dell’essere di questa sempre in crescita categoria umana mi danno abbastanza fastidio. Invecchiando, divento ogni giorno sempre meno tollerante. Fossi nei loro genitori, due così non li manderei certo in giro per l’Europa.
I quattro catanesi sono come detto decisamente più simpatici: ragazzi semplici, alla mano, senza puzza sotto al naso come gli altri due, e per questo, credo, anche meno capaci di deludermi.
Eravamo quindi un gruppetto piuttosto eterogeneo eppure ben assortito e, in un certo senso, anche affiatato.
Quando siamo sbarcati ad Honnigsvag – da dove ora sto scrivendo – questa mattina ad un quarto alle 11, ci siamo messi in cerca di un mezzo di trasporto per Capo Nord. Honnigsvag è l’unico vero centro urbano dell’isola di Mageroy, il lembo di terra collegato al continente da un lungo ponte al cui estremo c’è, appunto, Nordkapp, ovvero Capo Nord, il punto più settentrionale dell’Europa continentale. Honnigsvag invece si trova all’estremità sud dell’isola e dista esattamente 33 chilometri dal simbolo per eccellenza della Norvegia settentrionale.
Prima sorpresa: niente autobus fino alle 20.30 di stasera. Ed erano solo le 11.30. Che fare? Tentiamo l’autostop. Solo che, in sette lungo 200 metri di strada, nessuno ci ha caricati. Abbiamo chiesto ad alberghi, bar, camper parcheggiati, macchine dell’ufficio postale, addirittura ai passanti a piedi. Anche pagando, diviso per sette, avremmo raggiunto Capo Nord. Ma niente…
L’unica soluzione rimaneva il taxi. 700 corone, quasi 100 euro, per fare quei 33 chilometri: un furto. Ma visto che il maxitaxi riusciva a caricarci tutti e sette, zaini compresi (anche se uno di noi ha dovuto viaggiare nel portabagagli, e quell’uno ero ovviamente io), lo abbiamo preso, dopo un paio d’ore di tentato e fallito autostop.
Arrivati al cancello d’entrata del Nordkapphalen, quella specie di centro commerciale orrendo con cui hanno voluto sfigurare e commercializzare il tetto d’Europa, non avevamo alcuna voglia di pagare il pedaggio. Luca e Christian avevano rimediato casualmente quattro biglietti già pagati per entrare, ma hanno dovuto sudare le famose sette camicie per convincere i controllori dei biglietti che li avevano acquistati regolarmente. Così 4 su 7 erano sistemati. Antonio e sua sorella Luana alla fine hanno deciso di pagare. Restavo fuori solo io e – convinto che fosse profondamente disonesto chiedere soldi per fare 100 metri nei quali nulla c’era da vedere né da fare, a parte una foto al mappamondo che testimonia il c’ero anch’io da turista, ho deciso di aggirare l’ostacolo incamminandomi a piedi sulla via del ritorno, svoltando per il giro largo lungo il promontorio roccioso, passando dalla scogliera, ed entrando così al Nordkapphalen senza pagare. Al momento è andata bene, ma non ho fatto neanche a tempo a ritrovare i ragazzi all’interno, informarli sulla buona riuscita della mia guasconata, e allontanarmi di nuovo per andare a recuperare lo zaino, che uno degli addetti al cancello mi ha riconosciuto: chiedendomi il biglietto e ottenendo risposta negativa, mi ha cacciato fuori in un secondo.
Sono uscito rapidamente dal cancello senza neanche avere il tempo di avvertire e salutare gli altri che, sapevo, non sarebbero poi tornati indietro verso Honnigsvag ma avrebbero preso l’autobus che da Capo Nord, in nottata, porta a Rovaniemi, in Finlandia.
Ho provato per una mezz’oretta l’autostop – pranzando mentre tenevo il dito alzato una decina di metri al di là del cancello: erano già le 4 del pomeriggio ma non toccavo cibo dalla colazione di prima mattina in nave – finché ho trovato un norvegese che mi ha riportato qui ad Honnigsvag, punto di partenza.
Adesso dovrei andare ad Alta, molto più a sud. Possibilmente stanotte, perché se perdo un giorno su quest’isola rischio di non potermi permettere l’ultima grossa camminata della vacanza in un parco nazionale: quello di Reisa. Ma l’autobus non passerà prima delle 6.45 di domattina e di piantare la tenda in questo luogo tetro non ne ho punta voglia. Per fortuna mi è venuto in soccorso uno sconosciuto organizzatore di pullman privati per i turisti delle crociere che mi ha trovato una sorta di passaggio via bus alle 3.30 di stanotte. È un autobus che va al deposito di Alta, fuori servizio, quindi vuoto e tutto per me. Una corsa, diciamo così, non proprio prevista ed improvvisata. Non mi resta che aspettare le 3.30… e ora sono le 21.35.
Nel frattempo, qui ad Honnigsvag, ho ammazzato le lente ore di attesa comprando un paio di corna di renna da attaccare alla parete di casa, scrivendo queste righe sul diario di viaggio, e chiacchierando con il cinese che da giorni sembra tallonarmi in ogni mio spostamento. Anche lui stanotte prenderà l’autobus per Rovaniemi, quindi gli ho lasciato un biglietto con un messaggio di spiegazioni per i quattro ragazzi siciliani. Così almeno sapranno perché sono sparito a quel modo.
Il cinese e sua moglie meritano un discorso a parte, come anche Capo Nord e il suo paesaggio. Cominciamo dai due viaggiatori asiatici: tipi davvero originali, due macchiette…

Giorno 16
Alta, ore 7.35

Incontri.
Sono stato fermato nella stesura del diario, ieri sera. E ho viaggiato tutta la notte, nel bus vuoto, per tre ore ininterrotte a tutta velocità. Abbiamo percorso molti chilometri tra flash di tundra e dune di terra e mezzore di sonno spezzettate.
Ma andiamo per ordine… Dove eravamo rimasi? Allora: i cinesi e Capo Nord.
I due cinesi, anzi di Hong Kong, marito e moglie, mi perseguitano da giorni. Li incontro dovunque. Conosciuti sulle Lofoten, li ho ritrovati prima sulla nave e poi ad Honnigsvag. Per loro ogni incontro è occasione per conversazioni senza fine. Cosa impossibile perché del loro inglese masticato in cinese e pieno di l improbabili, confuso ed incoerente, non capisco proprio niente. Ho capito però che stanno viaggiando da mesi e stanno percorrendo da est a ovest e da nord a sud tutta l’Europa. Saltando l’Italia perché, parole di lui: non ci interessa.
Quando li ho incontrati ad Honnigsvag stavano aspettando l’autobus serale per Capo Nord da cui io invece ero tornato. E come me avevano di fronte alcune ore di attesa. La follia estrema che esprimono questi due, lui grande e grosso, lei minuscola, dotati di più macchine fotografiche pro capite di ogni altra persona che io abbia mai conosciuto – tutte di dimensioni maggiori della donna – ha del paradossale. Risate senza fine, chiacchiere incomprensibili senza fine, caos senza fine. E mi è estremamente difficile ogni volta riuscire a togliermeli di dosso, ad evitare le estenuanti domande di lui, e starmene un pochino in pace. Dal messaggio ricevuto stanotte via cellulare da Catia, ho capito che i quattro ragazzi hanno ricevuto la missiva del cinese. Bene, mi sentivo un po’ in colpa per essere scappato così all’improvviso.
Capo Nord, ammettiamolo, è un po’ deludente. Se si eccettuano le decine di renne sparse per la strada e sui promontori e le scogliere, oltre al paesaggio desolato e falsamente selvaggio, non c’è altro. È solo una questione simbolica, rituale, tanto per dire “sono arrivato dove più avanti non si poteva”. È quasi patetico a dire il vero, se lo si guarda da questo punto di vista, ma se non ci fossi andato mi sarebbe rimasta la voglia.
Capo Nord è il regno incontrastato del vuoto, e delle renne. Niente alberi, né abitazioni, soltanto l’orrendo centro per turisti Nordkapphalen. Niente da vedere, niente da fare. Il tempo di una foto e si può tornare indietro. E così ho fatto, complice anche la storia del biglietto non pagato.
Tornato ad Honnigsvag nel tardo pomeriggio mi sono messo a scrivere il diario e a bere birra Mack al pub Corner che, chiudendo a mezzanotte, mi avrebbe aiutato a far scorrere alcune delle ore che mi separavano dall’autobus. È al pub che ho conosciuto Marja e sua figlia.
Marja ha 70 anni e la figlia 45. Quando hanno capito che sono italiano mi hanno invitato al loro tavolo – praticamente con la forza – e sempre con la forza hanno voluto subito fare amicizia. Il fatto è che Marja ha una sorella più piccola che vive a Foligno da 50 anni e adora l’Italia e gli italiani. Mi hanno offerto uno schifosissimo caffè norvegese – che ho trangugiato cercando, spero con successo, di mascherare le smorfie di dolore – e abbiamo chiacchierato animatamente fino a mezzanotte. Mentre al tavolo accanto i loro amici cantavano e ridevano sguaiatamente in preda alla normale ubriacatura della serata nordica.
Le tre ore successive le ho passate dormendo nel letto che Marja aveva preparato nel gabbiotto del suo giardino: donna dall’ospitalità straordinaria, ha detto di voler essere mia madre almeno per un giorno. Poi, l’autobus era effettivamente al porto alle 3.30 e ho potuto schiacciare qualche altro pisolino di poche decine di minuti l’uno. Dalle 6.30 di stamani sono qui ad Alta, capitale del Finnmark, la contea più settentrionale della Norvegia. Ho fatto colazione con gli infermieri di un centro di ricovero per anziani e adesso mi trovo davanti all’entrata dell’ufficio postale da dove, appena aprirà, spedirò le pesanti corna comprate ieri.
Nella lunga conversazione in inglese – facile: loro lo parlavano peggio di me – con le due donne, sono emerse alcune cose interessanti. Fra queste il fatto che le renne stanno cercando altri pascoli, sempre più in alto sulle montagne, perché l’eccessivo caldo di quest’estate, per loro eccezionale, sta creando numerosi problemi di respirazione a questi animali artici, e molti hanno una brutta infezione alle narici. Abbiamo affrontato anche l’argomento “alcool”, e non hanno avuto grossi problemi nello spiegarmi le abitudini serali della loro gente: “beviamo molto, diceva Marja, per tradizione. La tradizione nasce dall’esigenza di ripararsi dal freddo, ma ormai si è andati oltre”.
Tirando le somme della giornata di ieri e della notte appena conclusa, devo proprio dire che ho avuto quel pizzico d’avventura extra-montanara che ancora mi mancava. Tutto all’insegna dell’improvvisazione, con una gran dose di culo (come sempre mi accade in vacanza) e tanta capacità d’adattamento e spirito di sacrificio.

Giorno 17
Tromso, ore 13.05

Piccole grandi delusioni.
Piacevole e vivace, soprattutto la sera ma anche durante il giorno, se la si gira per bene e le si dedica abbastanza tempo, Tromso ha smentito la fuggevole impressione che mi aveva fatto la prima volta, durante la mia breve visita in direzione nord.
Ora ci sono tornato nella discesa verso sud, stanotte ho dormito nell’ostello che si trova dall’altro lato dell’isola di Tromsoya, sul versante nord. E ora pranzo e frescheggio sul prato adiacente alla cattedrale, in pieno centro.
Davanti all’entrata della chiesa un quartetto di ottoni intrattiene le decine di ragazzi che sostano sul prato e sulle panchine, prendendo il sole. Fa un certo effetto sentire intonare Luna rossa da una banda di strada sul 70° parallelo nord, in pieno circolo polare artico. Ed è divertente vederli saltellare fra pezzi jazz americani e un’insolita versione per tromba e trombone di Help! dei Beatles.
Ieri mattina, ad Alta, avevo già preso il letto all’ostello quando ho ricevuto via telefono la notizia che l’imbarcazione che risale il fiume fino al canyon di Sautso – l’attrattiva più interessante dell’intera regione – non aveva più posti disponibili. Non ci ho pensato un attimo a prendere il primo autobus che scendeva al sud, alle 10.45. Non avevo nessuna intenzione di regalare un’intera giornata alla triste e squallida capitale del Finnmark occidentale, se non per la gita al canyon.
Ho deciso quindi di saltare una tappa e dirigermi a Sortlett, dove sapevo di avere un altro autobus per Sarlev, nell’interno, all’imbocco del parco nazionale di Reisa. Con l’intenzioine di addentrarmi nella vastissima zona dell’altipiano del Finnmark per un paio di giorni. Purtroppo, niente da fare neanche lì: gli unici bus ad addentrarsi nell’entroterra sono quelli scolastici che, ovviamente, d’estate, a scuole chiuse, non si muovono. Ecco perché ho proseguito ancora verso sud, fin qui a Tromso, dopo una giornata completamente passata tra un autobus e l’altro, oltre alla scorsa nottata se contiamo anche il viaggio da Honnigsvag ad Alta.
Ho dunque dovuto rivoluzionare completamente il mio piano di viaggio: un giorno qui a Tromso, con le comodità di una città universitaria, per riprendere fiato dopo le lunghe fatiche e dormire in un letto vero dopo 7 giorni che non vedevo un materasso. E poi chiudere in bellezza la vacanza con una due giorni sulle alpi del Lyngen, situate sull’omonima isola, raggiungibili con solo due ore di bus da Tromso.
Alle 15 partirà il mio bus per Furuflaten, località ai piedi del massiccio e dell’immenso ghiacciaio del Lyngen, e ho lasciato alcune cose all’ostello di Tromso, per viaggiare e campeggiare più leggero e agile, tanto dovrò tornare in questa città e forse passarci un’altra notte, prima di andarmene definitivamente alla volta di Narvik dove ho il treno diretto per Stoccolma e l’aereo.
Nel tragitto Alta-Tromso ho conosciuto altri italiani: due imolesi e tre veronesi con cui ho ammazzato il tempo della lunga traversata che mi ha portato da un desolato paesaggio pianeggiante, il Finnmark dei Sami, paludoso, selvaggio e pieno di zanzare grosse come palle da golf, alla montagnosa e ricca di neve contea di Troms, fino alla sua principale città, Tromso appunto, che sembra vivere su tutto un altro pianeta.
Questi ultimi due giorni non sono stati proprio esaltanti, e adesso oltre al corpo anche la testa comincia a risentire delle fatiche del viaggio: le idee, prima copiose e vulcaniche, cominciano a scarseggiare…questi repentini e indesiderati cambi di percorso mi hanno disorientato.
Hanno ricominciato a suonare… Ennio Morricone!
Ripensando a tutto quanto è accaduto negli ultimi due giorni, è un peccato che, per colpa della cattiva rete di trasporti del nord, non abbia potuto visitare per bene la regione del Finnmark: era l’unica parte della Norvegia che mancava a questo mio viaggio, se non del tutto almeno in gran parte. Per di più è anche la più selvaggia, la più estesa, e quella culturalmente più interessante per via dei Sami. A parte l’isola di Mangeroya, dove sorgono Capo Nord e Honnigsvag, e il tragitto tutto lungo la costa attraverso Alta e poi giù fino al Troms, non ho visto molto del Finnmark. Ma senza mezzi privati non è proprio possibile godere delle delizie offerte da questa terra semi abbandonata, magari quando tornerò quassù con la moto andrà meglio. Gli spazi sono troppo ampi, da perdercisi dentro. Le strade scarsissime, praticamente una sola. Manca la ferrovia e l’unico modo per spostarsi è con lunghissimi tratti di autobus, anch’essi però tutt’altro che frequenti.
Se il Finnmark è vastissimo e selvaggio, desolato, il Troms assomiglia alle nostre zone alpine, con l’aggiunta però di una vera città al suo centro, con tutto quello che di bene e di male comporta. E io credo di averne colto solo il bene.
Dunque, se la salita al profondo nord è stata un’avventura eterogenea, ricca di sorprese, di incontri, di cambi di marcia, colma di spettacoli naturali sempre diversi e sempre appassionanti, la discesa a sud che da qualche giorno sto effettuando, verso casa, mi ha messo addosso un po’ di tristezza e, nonostante il perenne sole a cui ormai sono più che abituato, ha leggermente abbuiato il mio animo. Colpa anche del fatto che, complice la sfortuna, il mio piano di viaggio è risultato imperfetto e fallace, almeno per quanto riguarda questi giorni finali. Sono stato approssimativo, forse per eccesso di fiducia nelle mie capacità di spostamento e organizzazione. Sicuramente per eccesso di fiducia nel sistema di trasporto pubblico norvegese, inizialmente impeccabile, poi dimostratosi estremamente carente.
A Tromso ho comprato altri due oggetti artigianali Sami, uno per mia sorella e uno per Laura. A Silvia ho regalato una borsetta-zaino in pelle di renna e pelo di foca, adornata dei colori blu e rosso tipici di questo popolo nomade. A Laura una collana in argento raffigurante un’antica incisione nella roccia risalente ai primi insediamenti Sami nel Finnmark, migliaia di anni fa.
Forse Silvia si arrabbierà perché il suo spirito animalista non approva che siano state uccise renne e foche per fare quella borsa. E forse neanche a Laura piacerà la collana: troppo etnica e alternativa per il collo borghese e cittadino della mia piccola splendida bimba.

Ghiacciaio del Lyngen, ore 21.30
Il mio habitat naturale.
In poche ore l’umore è radicalmente cambiato. Dopo quattro giorni sono finalmente tornato al mio habitat naturale, la montagna, e sto molto meglio.
Mi sono appena infilato nel caldo sacco a pelo, dentro la tenda che ho sistemato proprio alla fine del sentiero che da Furuflaten si inoltra nella vallata fin sotto la montagna. A poche centinaia di metri inizia il ghiacciaio, la grande coperta di neve che si estende per tutta l’isola di Lyngen. Per arrivare fin qui ho dovuto percorrere tutta la valle che accoglie il fiume, potente e frizzante, e che collega la montagna al mare. In tutto nemmeno tre ore di cammino, comodo, lento, per respirare l’aria della natura e della solitudine, ma soprattutto della libertà, e per scattare qualche foto.
Prima di montare la tenda mi sono arrampicato un poco su per il ghiaione che sale al ghiacciaio, fin quasi a toccare la neve. Una mezz’oretta in più fuori dal sentiero, su per la salita, tanto per sentirmi anch’io parte della montagna stessa: una roccia imperiosa con sguardo minaccioso e fiero, mento alto e lunga barba bianca da vecchio saggio.
Quando sono arrivato alla fine del sentiero c’erano già quattro tende piantate, vicine a due a due, cento metri una coppia dall’altra. Io mi sono sistemato accanto alle prime, ma gli occupanti non si sono mai fatti vedere anche se li ho sentiti chiacchierare all’interno. Magari domattina li conoscerò. Durante il percorso ha piovuto sempre. Ho salvato lo zaino (grazie al sempre utile telone di plastica che mi porto dietro) e la parte alta di me stesso grazie al k-way. Ma scarpe, calzini e pantaloni sono da strizzare. Sembra sia destino che quando sono in nave o in bus il sole splenda sempre che è una meraviglia, il vento taccia e la temperatura superi i 20°, mentre non appena intraprendo un qualche sentiero di montagna si annuvola subito, con pioggia a catinelle, vento forte e pungente, e un bel freddo più che autunnale. Ahimè, in questa vacanza è stato sempre così: prima a Finse, poi sul Rondane, e ora qui nel Lyngen. Comunque mi sento molto bene, rilassato e partecipe di tutto quanto mi circonda: il bosco, il fiume, il ghiacciaio e le sue alte rocce. La mente è vuota, libera da preoccupazioni, e l’animo è sereno.
Di nuovo solo, sui monti. Di nuovo in armonia con il mondo.

Giorno 18
Nordkjosbotn, ore 17.15

Conversazione Sami.
Maledetti autobus norvegesi: la coincidenza per tornare a Tromso passerà solo fra un’ora e mezzo! Più ci penso e più mi fanno incazzare, con la loro puntualità maniacale che spacca il secondo e i loro treni superveloci. Ma appena passi il circolo polare artico ti sembra di essere catapultato nel far west: niente più ferrovia e autobus isolati e privi di coincidenze degne di chiamarsi tali… Non c’è niente da fare, per il nord della Norvegia occorrono mezzi propri o si perde un’infinità di tempo prezioso.
Stamattina ho dormito a lungo. Ieri sera mi sono chiuso nel sacco a pelo alle 21.30 e quando ho riaperto gli occhi erano le 10.30 di mattina! Oddio quanto avevo bisogno di un po’ di riposo come si deve, quello della notte scorsa nel comodo letto dell’ostello di Tromso evidentemente non mi era bastato.
Appena sveglio ho camminato per un altro paio d’ore sotto il ghiacciaio, sul confine fra terra e neve. Ci ho girato un po’ intorno, lungo il crinale della montagna, oltrepassando le rapide del fiume nell’unico punto possibile: un ponticello in legno scricchiolante, così basso e vicino all’acqua che le onde create dalla forte corrente mi bagnavano i piedi. Solo quelli per fortuna, oggi: a differenza di ieri, quando ha piovuto per tutta la durata della camminata, stamani sono stato svegliato dal sole che, tra una nuvola e l’altra, mi ha fatto compagnia fino ad adesso.
Magnifica questa montagna, ha saputo rincuorarmi dalle molte fatiche e dalla delusione della mia brevissima puntatina nel Finnmark. La neve perenne aveva dei riflessi blu e argento molto lucenti e brillanti. Il rumore del fiume che lì nasce, per morire poi nel mare a Furuflaten, è quasi assordante. E in certi punti il bosco è così intricato e buio che sembra la giungla dei film di Tarzan.
Degli occupanti delle due tende non ho visto nemmeno l’ombra, davvero strano. Ho incontrato invece un Sami, e anche questo è discretamente insolito perché queste terre sono troppo a sud per loro. Normalmente vivono solo nel Finnmark, che comunque non è poi così lontano. E poi c’è da considerare che sono di tradizione nomade.
I Sami, o Lapponi, sono per la Norvegia ciò che gli indiani rappresentano per l’America. Solo che, in percentuale, i Sami sono molti di più. È bello vederli girare in gruppi di quattro o cinque, con le donne vestite di lunghe gonne rosse e blu, vesti e scialli in pelle di renna e pelo di foca alle caviglie e sul colletto. Hanno tutte grandi foulard anch’essi con merletti, che calano dal collo fin quasi alla cintura. Mentre gli uomini vestono in modo più moderno, anche se spesso con i medesimi colori. Pochi di loro parlano inglese, e spesso preferiscono il sami, la loro lingua tradizionale, allo stesso norsk, il norvgese. Ormai sono in grado di capire la differenza fra i due linguaggi. Le conversazioni con questa gente sono divertenti, anche se quasi completamente a gesti, perché dimostrano un’apertura di spirito che i norvegesi non hanno. Si prodigano in sorrisi con i loro tratti asiatici – ricordano vagamente il siberiano Dersu Uzala di Akira Kurosawa – e i capelli fini fini sulla pelle ambrata. Questo popolo punteggia di piccole macchie rosse e blu la desolata pianura del Finnmark, anche per questo, per conoscerli meglio, ho ferma intenzione di tornarci armato di motocicletta.
La mia vacanza è praticamente finita. Stasera tornerò di nuovo a Tromso, domani andrò a Narvik, dopodomani prenderò il treno per Stoccolma (la tratta dura 20 ore d 20 minuti), e il giorno successivo ho l’aereo che mi aspetta per tornare a Bologna. Quindi, si può ben dire che la mia avventura si sia cocnlusa.
Visto il cambiamento forzato e inopportuno del piano di viaggio, e la sosta forzata a Tromso un’altra volta, proverò ancora la vita serale di questa città, stavolta però senza Roberto a tenermi compagnia. Roberto è un ragazzo di Bergamo che ho conosciuto due sere fa all’ostello, e la sera abbiamo girato insieme la città facendo quattro chiacchiere. È stato forse l’incontro più interessante dell’intera vacanza: un 27enne giardiniere che come me viaggia da solo – ieri è partito per le Lofoten dove spera di trasformare l’amicizia con una ragazza bergamasca che vive là in una storia d’amore – e che come me è appassionato di montagna. Arrampica e fa lo skyrunner, viaggia molto in moto e ha girato mezzo mondo. Un ragazzo solitario, molto intelligente e riflessivo, in gamba, davvero un’ottima compagnia.

Tromso, ore 23.40
Il mio Bianconiglio e la dolcezza delle cose.
Tutti viaggiano, o almeno molti. Ma pochi sanno viaggiare.
C’è un’ora, in ogni giorno, per ogni libro, storia, avventura. Una fase della giornata in cui mi trasformo in un certo personaggio, o almeno così mi sento. Anche il luogo, il paesaggio, il tipo di sentiero, contribuiscono. Soprattutto oggi, con tutti i cambi repentini di situazione che ho vissuto, ho sentito molto forte e viva, netta, questa sensazione.
Un po’ Robinson Crusoe alle prese con le forti correnti del fiume di Furuflaten, sul ponte traballino. Un po’ Marlow di Cuore di tenebra, fra la boscagliae le zanzare. Mentre sul ghiacciaio mi sentivo perso e abbagliato come un personaggio di Virginia Woolf, tipo Gita al faro.
C’è un Gulliver dentro di me, a contatto con la natura. E c’è un Jonathan Harker, nel suo viaggio verso Castel Dracula, quando il cielo si fa scuro e la meta è ancora lontana. Miei compagni di viaggio sono Alan Quatermain, il furioso Orlando e le sue inchieste senza fine e senza sosta. Ma soprattutto Alice, con tutte le meraviglie di cui è capace la mia immaginazione – e ancora più capace la realtà – ed Ulisse.
Il mio personale coniglio bianco è una sete incontrollata di natura e spazi vuoti, di vastità, ampie visuali, imponenti monumenti alla bellezza che sono queste montagne, questi fiordi, quest’infinità sottoforma di silenzio. Da aspirare in solitudine, in compagnia di una sigaretta di Old Holborn ben rollata.
Mi viene in mente un verso di una poesia francese citata da Jean Rochefort ne L’uomo del treno di Patrice Leconte: “poni attenzione alla dolcezza delle cose”. Johnny Hallyday in quell’occasione commentava: “non credo che le cose siano dolci”. Io invece lo credo, lo voglio credere. Voglio credere che il mondo sia tutto qui, racchiuso dalle montagne, per me. Per me fabbricato, costruito, per il mio piacere disegnato. Per la mia sensibilità, dolce. C’è dolcezza nelle aspre rocce del Geirangerfjord, come nella desolazione di Capo Nord o nell’infinita piatta e polverosa terra del Finnmark. È dolce il mare che bagna i porticcioli delle Lofoten, dolce il cielo bianco della notte artica, dolce a suo modo anche la tempesta degli elementi che si è scatenata sul Rondane o a Finse. Lo è anche la sera fredda e chiassosa di questo pub a Tromso, forse perché è dolce la mia Guinness e il torpore del sonno di mezzanotte aiuta a rinvigorire la sensazione.
Tutti intorno a me ridono a crepapelle. Solo io taccio e sto tranquillo. Solo io, solo. Ma non m’importa, anzi mi rincuora.

Giorno 19
Narvik, ore 22.40

Ostelli, che tristezza!
Narvik è una città tristissima. Ma è da qui che parte il mio treno per Stoccolma, domani pomeriggio. Per far passare le lunghe ore della mattina che mi aspetta, in questo luogo cupo e grigio, mi affiderò alla compagnia di Nicola e Omar, altri due viaggiatori solitari come me, il primo bergamasco e il secondo milanese, simpatici anche se un po’ strani.
Anche l’ostello di Narvik è triste come tutto il resto. Ma quasi tutti gli ostelli sono stati deludenti, qui in Norvegia e anche a Stoccolma. L’unico minimamente vivace era quello di Oslo, e un po’ anche quello di Trondheim. Mentre a Bergen, Tromso e Narvik, ma posso dire lo stesso per Alta nonostante non ci abbia passato la notte ma solo pochi minuti al mattino, gli ostelli non sono veri luoghi di aggregazione e di conoscenza come accadeva l’anno scorso in Scozia. Ognuno sta per i fatti suoi, c’è grande silenzio (ma in questo caso non è per niente positivo), nessuno che osi socializzare. Tutto è molto freddo, in linea con il clima e il cuore di questa gente. Anche in questo ostello ragazzi e ragazze dormono insieme – cosa rara, più spesso ci sono dormitori separati – ma lo stesso nessuno scambia due parole con gli altri. Ed è un gran mortorio!
Quando sono partito tutti mi dicevano: “vedrai che in Norvegia trombi come un opossum”. Invece niente, neanche una timida e platonica relazione umana con la popolazione indigena femminile: non danno relazione. A parte Marja e sua figlia, ovviamente, ma loro erano, come dire, un bel po’ anzianotte.
Non resta che augurarmi la buonanotte.

Giorno 20
Kiruna (Svezia), ore 19.15

Fauna da treno.
Sono passate 3 ore e mezzo delle 20 e più di durata del tratto ferroviario Narvik-Stoccolma, ultimo spostamento via terra prima dell’aereo. L’idea di stare altre 17 ore chiuso in treno, bloccato su un sedile singolo o quasi, mi terrorizza. Anche l’ultima compagnia acquisita lungo il tragitto, Francesca, una ricercatrice di medicina genovese che lavora e vive a Uppsala, è scesa dal treno pochi minuti fa. Si fermava a Kiruna, paese di miniere nel profondo nord della pianura svedese.
Ora sono di nuovo solo con il mio diario e il paesaggio che sfreccia forsennatamente dal finestrino. Bellissimo nella prima ora di treno, con le ultime montagne norvegesi prima della frontiera. Poi la tundra, seguita da una timida e poco folta boscaglia, per di più rada. Da ora cominciamo a vedere una foresta un po’ più ricca, sempre selvaggia, ma maggiormente animata e vivace. Il sole picchia forte e non c’è l’aria condizionata. Per di più questo treno sembra cadere a pezzi da un momento all’altro, e alcuni gabinetti sono intasati e traboccanti schifezze. Assomiglia molto ai nostri vecchi Espressi – che quando sono in Italia mi piacciono tanto – e l’aria puzza di marcio. Per il resto, non mi lamento: il mio scompartimento è invaso da punk tutti vestiti uguali, in nero, con tatuaggi e piercing da farci un emporio; c’è un bambino che zampetta carponi, mani e piedi nudi su e giù per il lercio corridoio, ridendo come un matto, e con i genitori che lo rincorrono di continuo; infine altri viandanti dagli enormi zaini come il mio e varia umanità nordica e africana. Non c’è spazio per sdraiarsi, chissà come farò a dormire.
ore 23.20
Terza sosta nello scomparto fumatori. Finestra sempre aperta, otto posti. Gente che va e viene, si siede, accende e fuma, poi si alza e se ne va. Una coppia di donne dal linguaggio incomprensibile ha messo le tende qui già da Narvik, e non si muovono. Caffè a volontà, patatine in busta, succo d’arancia, e sigarette a quantità industriali, una dopo l’altra senza sosta. Accanto c’è un silenzioso solitario tizio sulla quarantina, un armadio in camicia a quadri scozzesi, sguardo perso nel vuoto. Ancora, due anziane ciarliere, uno svedese hippy sessantenne con moglie estremamente brutta e ciccionazza a fianco, due biondine sui sedici anni. Infine io, li guardo e intanto rollo il mio Old Holborn. Stamattina ho anche finito i filtri, mi dovrò arrangiare spezzettando vecchie confezioni di cartine per un paio di giorni.
Scendiamo verso sud e la sera si fa sempre più scura. Non c’è ancora il vero buio, ma il sole è lontano e il cielo nuvoloso incrementa la voglia di notte. Ho dormito un po’, rannicchiato su me stesso come in un guscio di mollusco di mare. Poco però, e soprattutto male. Sarà una lunga notte…
ore 23.59
Di nuovo nella mia carrozza, la numero 15, posto 68. Quattro donne sedute davanti a me, nessuno accanto.
Due sono madre e figlia, sui 50 la prima, sui 20 scarsi l’altra. Tipiche nordiche, anche loro però sul brutto andante, pancia da birra e fianchi larghi. La terza è addirittura indescrivibilmente brutta: sembra un uomo, ma un uomo brutto, anzi sembra un incrocio fra un giocatore di football e un camionista, espressione da incredibile Hulk incazzato, mangia croccantini e legge a muso lungo Affari esteri di Patricia Scanlan. Infine la quarta: una bionda stangona pressoché della mia età, dal viso molto attraente e lo sguardo malizioso e intelligente. Legge Cosmopolitan e indossa un paio di calzini rosa molto carini. Sorseggia succo di mele, mangia pesche e uva bianca. La bionda ha dei seni grandi e belli, come quasi tutte le donne da queste parti, manco fosse il marchio di fabbrica scandinavo. Peccato però, anche lei con la solita irrinunciabile pronunciata pancia da birra.
Non c’è nessuno, su questo treno, che parli italiano. E con i locali – è stato così per tutte e tre le settimane – non c’è verso di socializzare.

Giorno 21
Ange (Svezia), ore 06.25

Avvicinamento a pelle.
Dopo due settimane di circolo polare artico, ho avuto il mio primo piccolo assaggio di notte. Come una rivelazione.
Il paesaggio svedese è sempre uguale a se stesso, eppure sempre molto bello, d’un verde rigoglioso. Le fermate del treno si intensificano e i paesi, sempre piccoli e circondati da laghi e foreste, si fanno più frequenti. Lo sento addosso che mi sto avvicinando a casa, al sud, alla normalità dell’alternarsi fra giorno e notte. Fa ancora molto freddo però.

Stoccolma, ore 18.10
Il cerchio si è chiuso.
Il cerchio si è chiuso: da Stoccolma a Stoccolma. E le tre settimane sono passate, volate.
Sono riuscito nell’impresa di visitare tutta la Norvegia in così poco tempo, dalla costa all’interno, dal sud al nord. Tutta o quasi, perché la breve parentesi del Finnmark non può considerarsi ben riuscita.
Comunque, mi sono spostato ogni giorno, dedicando parte del mio tempo al mare, parte alla montagna, parte al turismo di città. Ho camminato su sentieri e ghiacciai, visitato chiese di legno e non, musei e quartieri storici e caratteristici. Ho campeggiato lungo spiagge, passeggiato sui lungomare. Ho goduto della poesia del sole di mezzanotte, del giorno perenne, dei fiordi mozzafiato. Ho utilizzato tutti i mezzi a disposizione: via mare, ferrovia e gomma. E ho diversificato enormemente il paesaggio, passando dalle isole alla terra ferma.
Non posso dire di essere entrato appieno nella cultura e negli stili di vita norvegesi, la scarsità di relazioni me lo ha impedito. Ma ho avuto modo di conoscere la cultura Sami e il relativo popolo. Ed è stato come tornare indietro nel tempo, insieme a gente che sa veramente cosa vuol dire vivere in armonia con la natura. E, ancora più importante, che sa come trasmettere e insegnare questa armonia. A volte basta uno sguardo, un gesto, cinque minuti passati insieme a tentare di racchiudere in uno scatolone le mie enormi corna di renna. Un’esperienza molto breve ma significativa, importante, mi sento arricchito. Come mi ha arricchito, calmato, ma non saturato, la grandiosità di questa natura selvaggia e senza fine.
Da ora per me Norvegia sarà sinonimo di armonia, partecipazione emotiva, pace dei sensi. Questa è stata certamente un’avventura dalle venature religiose… e ve lo dice il solito ateaccio che sono.

Quando ti alzi e ti senti distrutto,
fatti forza e vai incontro al tuo giorno.
Non tornar sui tuoi soliti passi,
basterebbe un istante.
Edoardo Bennato – “Un giorno credi”

Il mio obiettivo l’ho raggiunto, e sono stato di parola: ho proseguito sempre in avanti.
Saluti a tutti. E al prossimo viaggio.

3 commenti in “Solo sul tetto d’Europa
  1. Avatar commento
    Alteredo
    28/12/2007 11:19

    ciao Miriam, grazie per l'apprezzamento. Tutto compreso, mi è costato 1500 euro

  2. Avatar commento
    miriam
    28/12/2007 10:26

    ciao, complimenti per il viaggio! una curiosità: ma quanto hai sborsato per un viaggio di tale portata? grazie, miriam

  3. Avatar commento
    eddy
    02/03/2007 18:10

    gli opussum introversi non trombano nemmeno in Norvegia

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