Se penso a questo viaggio, penso che sia stato un viaggio pieno ed appagante. Appagante come, però, in quei pranzi dove non vengono serviti i tuoi piatti preferiti, ma tante diverse buone portate, che stuzzicano, si gustano e quando ti alzi ti puoi dire, comunque, soddisfatto.
Immaginavo, prima di partire, che sarei stato costantemente avvolto da qualche cosa, ricordando sensazioni di altri viaggi a quelle stesse latitudini. Invece entravo ed uscivo. Entravo nella magia, nella meraviglia fuori dal tempo di cui sono pervase le Durbar Square, nei riti buddisti, nelle espressioni dei volti dei vecchi nei villaggi, nei loro occhi, finestre scure su un vissuto che solo lontanamente possiamo immaginare. Per poi uscirne subito dopo. Non vi è mai stata una dimensione nella quale mi sono sentito calato, dall’inizio alla fine. Non ho sentito quell’atmosfera, costante, che avvolge tutto e sempre, come ad esempio in Birmania, quella bolla incantata nella quale ti senti trasportato, che ti accompagna a prescindere che tu sia in una strada, davanti ad un tempio o nel cortile di un albergo. Perchè? Perchè il Nepal non è la Birmania, non è lo Sri Lanka; è diverso. Il tempo passa, tutto sta cambiando e forse anch’io, come può essere diverso il mio modo di sentire ed il desiderio verso le cose da scoprire.
Dunque, mi sono trovato a riflettere su questa sensazione, e mi si è rivelato, molto chiaramente, un obiettivo che non è più prevalentemente la meta del viaggio, ma il viaggiare in sè. L’appagamento che deriva dall’aver risposto al desiderio di conoscere, che quasi basta a se stesso, quando il ritorno è forte. E in questo caso, lo è stato. Il Nepal è un’esperienza pregnante che mi ha soddisfatto, nonostante alcuni aspetti non siano stati proprio nelle mie corde.
Non ho sentito in questo viaggio la giusta amalgama di esperienze e sensazioni, sia positive che negative. Al contrario, l’ho vissuto come scisso in due parti nette, incomunicabili tra loro: da un lato l’ammirazione verso i templi, i riti, i cerimoniali, i mestieri, i visi. Dall’altro il fastidio del traffico, i rifiuti, lo smog, il caos.
Al di là da queste... elucubrazioni, una cosa è certa: ho scoperto (o più esattamente, ho avuto conferma) di quanto sia importante per me viaggiare.
Igiene
In Nepal, come nella stragrande maggioranza dei paesi in Asia, Africa e America Latina, non si trova lo stesso livello di pulizia al quale molti di noi sono abituati. A meno che non si vada nei grandi alberghi pluristellati. Però, cosa di cui sono fermamente convinto, viaggiare è anche capacità di sapersi adattare, senza grossi sforzi, a situazioni alle quali non siamo abituati, come, ad esempio, standard di pulizia piuttosto lontani dai nostri. E’ importante per chi viaggia sapere ritarare le proprie abitudini, senza particolari drammi.
La moneta e i prezzi
La moneta locale è la Rupia nepalese. Nel periodo del nostro soggiorno, il cambio è fluttuato tra 106 e 108 Rupie per 1 €. Non abbiamo notato grosse differenze tra il tasso applicato all’aeroporto, in albergo o presso i numerosi uffici di cambio sparsi un po’ ovunque. Non vengono applicate commissioni e non vi è nessuna convenienza a munirsi di dollari USA.
Per quanto riguarda i prezzi, il costo della vita è estremamente basso rispetto ai nostri standard. Un abbondante pasto in un ristorante di medio livello può costare anche meno di 5 €. L’abbigliamento è il punto “forte” dello shopping in Nepal. Indumenti in cotone e lana sono convenientissimi e, sapendo contrattare, con pochi Euro si possono acquistare capi che qui in Italia costerebbero quattro o cinque volte tanto. Negli ultimi anni si è sviluppato moltissimo il commercio di equipaggiamento sportivo, per il trekking in particolare, sui modelli occidentali. Zaini, giacche a vento, pantaloni di buona fattura (a volte copie delle marche alla moda più in voga) con prezzi medi che si attestano a circa un terzo rispetto al prezzo italiano. Altri possibili acquisti sono le tipiche borsettine nepalesi, maschere, manufatti in metallo e naturalmente il te Ilam e Darjeeling. Per i siti storico-archeologici più importanti, si paga un biglietto d’ingresso, in genere d’importo esiguo. Solo l’ingresso della Durbar Square di Bhaktapur ha un costo più elevato. 1100 Rupie a testa (circa 10 €), validità 48 ore.
Le comunicazioni:
Facili, almeno per le zone intorno a Kathmandu. Vi è una buona copertura per i telefoni cellulari e per quanto riguarda la possibilità di comunicare con telefoni fissi o via PC collegati alla rete. A Kathmandu non è raro incontrare call center che espletano sia il servizio classico di telefonia, che internet. Tanto per dare un’idea dei costi, 1 minuto di conversazione telefonica si aggira tra le 30 e 60 Rupie.
L’altra faccia di Kathmandu
Prima di dare inizio al diario di viaggio, con il racconto di come si è rivelata ai miei occhi questa parte di Nepal, vorrei però dire di un aspetto di Kathmandu che non sarebbe giusto esimersi dal descrivere: quello dello smog, dei rifiuti, del traffico, del caos; Riassumo quindi, in una volta soltanto (o quasi), queste brutture, lasciando così la cronaca che segue, un po’ più libera dall’incombenza di dover parlare, di queste sgradevoli compagnie quotidiane. Inizio dal traffico demenziale, disordinato, che paralizza costantemente la città. Interminabili file di autoveicoli pressochè immobili che metro dopo metro appestano l’aria con i gas di scarico. Ogni volta che ci si sposta, vi si rimane intrappolati. Ed è pesante, perchè il tempo che esige questo “mostro” non può non andare a contropartita con ciò che si è apprezzato magari solo un’ora prima, guastandone già un po’ la memoria. L’aria che si respira è greve: in molti fanno uso delle mascherina a coprire naso e bocca. Kathmandu è caotica. Nonostante sia una città piccola rispetto a tante megalopoli asiatiche, riesce a trasmettere un senso di caos completo. I rifiuti sono una vera piaga: accatastati ovunque vengono raccolti durante la notte, nel frattempo attirano cani randagi e mucche che frugano alla ricerca di cibo. Le acque del fiume sacro, il Bagmati sono deturpate dall’inquinamento e le sue rive, in alcuni punti, sono un’autentica discarica a cielo aperto, dove non è raro vedere maiali selvatici che qui grufolano e vi trovano giacilio. E poi l’abuso che viene fatto dell’utilizzo dei clacson, suonati in continuazione ovunque, da chiunque sia dotato di un mezzo di locomozione a due o quattro ruote. Li ho sinceramente odiati.Ottobre e Novembre sono i mesi ideali per visitare il Nepal. Temperatura mite, precipitazioni inesistenti, cielo terso. Noi siamo stati decisamente sfortunati, in quanto in barba ad ogni statistica, siamo incappati in una settimana grigia e nuvolosa, dove solo in rare occasioni la compatta nuvolaglia è stata rotta da pochi raggi di sole. Solo l’ultimo giorno le nubi hanno concesso tregua. Nel corso della settimana, abbiamo visto il cielo azzurro solo per un’ora, in occasione del volo aereo sopra la catena dell’Himalaya. Si dice che nelle parti più alte di Kathmandu, si vede il massiccio himalayano, si ha percezione della portata della valle, chiusa in fondo dalle più imponenti montagne del mondo. Constatazione che purtroppo non abbiamo potuto fare di persona.Il viaggio è durato dall’11 al 20 novembre 2011. Secondo uno dei classici itinerari proposti da Avventure nel Mondo. Ho fatto parte di un gruppo composto da 10 buoni compagni di viaggio. Abbiamo visitato Kathmandu e la sua valle, pianificando anche un trekking che purtroppo non siamo riusciti ad effettuare causa maltempo. Il gruppo ha avuto un valido coordinatore, non alla sua prima volta in Nepal, e questo ha dato una marcia in più, nell’ideare, già prima della partenza, un itinerario di massima, sostenuto da esperienze già vissute. Inoltre Avventure nel Mondo, si appoggia oramai da anni ad un referente locale, molto affidabile, al quale ci siamo rivolti, noleggiando un pulmino con autista, e con il supporto di una guida nepalese, il bravo Mahesh, fondamentale per capire e per sapersi muovere in questo paese. Ci siamo così spostati tra Kathmandu e la sua valle in assoluta libertà definendo, a discrezione del gruppo, mete ed itinerari. E’ andato tutto bene, tranne per i capricci del tempo che ci ha costretto a cambiare ed a rivisitare i nostri programmi. La formula di Avventure nel Mondo, prevede la composizione quasi sempre e per buona parte casuale del gruppo, e quindi, mi piace dire, che... un pizzico di avventura sta anche in questo aspetto. Il nostro è’ stato un gruppo coeso, in sintonia dal primo all’ultimo giorno.Venerdì 11/11/2011: Ha inizio il viaggio. Partiamo da Roma alla volta di Francoforte, dove ci aspetta il resto del gruppo e da dove poi raggiungeremo Dehli, con volo Air India. Francoforte, si sa, è uno scalo grande e ben organizzato: forse non si sa però dei prezzi assurdi di alcuni generi (bottiglia acqua 33 cl 2,6 €!!). Quello che invece mi ha piacevolmente sorpreso è l’aeroporto di Dehli; pulito, bagni lindi, raccolta differenziata dei rifiuti!
Sabato 12/11/2011: Il volo da Dehli Kathmandu è in orario. Dopo il lento e scrupoloso controllo e il disbrigo delle formalità doganali tra cui il rilascio del visto d’ingresso, eccoci trepidanti ai nastri del ritiro bagagli. Pochi minuti dopo tiriamo un grosso respiro di sollievo: tutti arrrivati, nonostante il breve lasso di tempo intercorso tra l’arrivo a Delhi e l’imbarco per Kathmandu che ci aveva un po’ preoccupato. Usciamo dall’aeroporto: ad accoglierci un cielo plumbeo con qualche goccia di pioggia. Raggiungiamo in pulmino l’Hotel Lai Lai, situato in strategica posizione, a Chhetrapati, tra Durbar Square e Thamel, la zona dei locali e dei negozi che tanto attirano i turisti. Già in questo primo tragitto, abbiamo iniziato a conoscere il traffico allucinante di Kathmandu. L’Hotel Lai Lai ( 6 € a notte pro capite) è un alberghetto piuttosto squallido, posto in uno strettissimo vicolo, ma come dicevo comodo per raggiungere sia Durbar Square che Thamel. Il personale è gentilissimo. E’ già pomeriggio avanzato, quindi tempo per una bella doccia e una breve passeggiata prima di trovarsi per cena al ristorante “Mitho”, forse il locale che più abbiamo apprezzato come cucina e ambiente, segnalato dal nostro valente capogruppo e da lui scovato in un precedente viaggio. Dopo l’ottima cena, eccoci nella prima notte a Kathmandu. Decidiamo di fare quattro passi cercando di raggiungere Durbar Square. E conosciamo così la città nella sua trasformazione. Nel giro di un paio d’ore scarse si passa dal caos alla... desolazione. Girare di notte per le strade buie del centro di Kathmandu non regala nulla di bello. Immondizia accatastata agli angoli delle strade, illuminazione quasi inesistente, cani randagi che rovistano nella spazzatura. Squallide strade, dalle tenebre private di quella brulicante umanità che almeno le rende vive di giorno. Durbar Square di notte è deserta. Irriconoscibile rispetto a come la vedremo tra qualche giorno. La scarsa e poco sapiente illuminazione, non riesce a rendere giustizia alla grande solennità di questa piazza. E poi, purtroppo, di notte, anche Durbar Square è invasa da cumuli di spazzatura che attende di essere rimossa.
Domenica 15/11/2011: Veloce colazione e partenza, alle 08:00 in punto, per Pashupatinath. Cielo grigio e pioggia fitta e fina che mi ricorda tanto le pioggerelline novembrine padane! In novembre siamo, ma la pianura padana è lontana, perbacco! Pashupatinath è il luogo famoso per le cremazioni. E’ un complesso di importanti templi e santuari hindu, al centro dei quali scorre il Bagmati, il fiume sacro, le cui sponde vedono le cremazioni dei defunti di religione induista. Abbiamo visitato questo luogo con la dovuta calma, assistendo con tutta la discrezione possibile, a diverse funzioni. Preziosissimo l‘aiuto di Maesh, la nostra guida che ci ha aiutato a capire le varie fasi dei riti funebri che culminano con l’accensione della pira, spiegandoci dettagli altrimenti ininterpretabili. Intorno, l’umanità composta da devoti e santoni (sadhu). Lasciamo Pashupatinath per la visita alla Tashi School. Della Tashi School ignoravo l’esistenza fino a che Filippo, il nostro coordinatore, non ce ne ha parlato. Filippo conosce personalmente il Lama Tashi, fondatore della scuola, e collabora con la ONLUS che la sostiene. La Tashi School ospita bambini orfani, profughi dal Tibet. “Orfani e profughi tibetani”. Dovrebbero bastare queste pesanti parole per sentire la condizione. Grave. E’ stata un’esperienza toccante. Entrare nelle aule, povere ma dignitosissime e osservare i diligenti ragazzi e bambini che con i loro occhi vivi, intensi, cercano i tuoi per poi abbassarsi subito, per pudore o reverenza, nei confronti di noi, occidentali, ricchi visitatori che per pochi attimi varchiamo la soglia del loro mondo, delle loro stanze. Cosa immagineranno di noi? Cosa sarà raccontato di noi dalle loro insegnanti? Orfani, profughi da un paese calpestato e offeso, che hanno trovato rifugio in questa scuola, chiusa in uno stretto cortile, che è tutto il loro mondo. Qui vivranno, acquisendo un’istruzione, mantenendo la loro lingua ed imparando il nepali e la lingua inglese. Rimarranno per anni in questo unico piccolo universo chiuso tra quattro mura. Isola di salvataggio, in grado di sfamarli ed accudirli. Abbastanza viene loro dato, ma c’è bisogno di molto. Sostegno viene in gran parte fornito da una ONLUS italiana. Altri aiuti provengono dallo stesso Lama Tashi, benefattore e fondatore della scuola, e dalla catena di solidarietà delle comunità tibetane. Ma c’è veramente bisogno di molto. A chi fosse interessato, e volesse qualche informazione in più, lascio il sito internet della ONLUS: www.butterflyonlus.org
Mi sono commosso. Sono stato contento di questa visita.
Lasciamo la scuola e in pullmino ci dirigiamo verso il pieno centro di Kathmandu, verso Boudnath, con il suo importantissimo stupa. Ripiombiamo nel delirante traffico di Kathmandu, spiacevolissima costante di ogni nostro spostamento su strada. Lo stupa sorge in pieno centro, in tutta la sua imponenza e solennità. Occupa una vasta area, ed intorno ad esso un fiume di fedeli, passanti, turisti. Prendiamo parte a questo lento, copioso flusso. Osservando. Poi, a piedi, in 5 minuti di cammino raggiungiamo un monastero, il Monastero Bianco. Qui, ci informa Mahesh, a breve avrà inizio una cerimonia buddhista, alla quale, volendo, potremmo assistere. Non ce lo facciamo ripetere e tutti quanti in silenzio, con la massima discrezione possibile, ci sediamo dietro i monaci già disposti in ordine per dare inizio alla liturgia. E’ stata per me un’esperienza molto coinvolgente. Essere lì, presente, cogliere i gesti, scanditi da una ritualità che non possiamo capire fino in fondo. Avrei voluto essere invisibile, per non recare disturbo, ma anche per rubare i loro momenti. Mi lascio trasportare dalle loro ipnotiche litanie, i sutra, testi di preghiere buddhiste, cadenzati dal suono di grossi tamburi, piatti e corni.
Lunedì 16/11/2011: Oggi prima tappa a Budhnilkanta, luogo di culto induista sorto intorno ad una antica statua scolpita in un monolite di roccia nera raffigurante Vishnu Narayan. Siamo venuti qui sapendo, grazie a Maesh, che stamani si sarebbe tenuta una cerimonia. Infatti ci mescoliamo alla grande folla di fedeli a portare omaggio alla dea, con offerte quali riso, essenze, fiori. In particolar modo fiori di tagete: diffusissimi oltre ogni immaginazione, sia per le pratiche induiste che buddhiste, collane, ghirlande, corone, cesti, è di gran lunga il fiore più utilizzato per rendere omaggio alle divinità. Quindi il colore, giallo-arancione, intenso, sempre ed ovunque. Non potrò mai più fare a meno di pensare al Nepal, quando vedrò questi fiori. E poi piccoli e grandi altari, ed un grande via vai di fedeli tra i quali anche qualche sadhu, a rendere ancora più variegata la folla dei presenti. Le persone nelle variopinte vesti, i fiori in grande abbondanza di colori, l’aria densa, profumata dai tanti incensi accesi e per completare il tripudio dei sensi, improvvisamente entrano in scena anche due suonatori, e per qualche minuto l’attenzione è tutta per loro. E’ bellissimo: fermarsi ed osservare quella umanità scorrere davanti. La nostra prossima meta, Swayamboudnath, è anche conosciuto come il tempio delle scimmie. Una lunga scalinata bianca conduce sulla sommità della collina dove si trova l’area sacra e già s’incontrano mendicanti, venditori, bambini che giocano, mistici che pregano. In cima, il grande stupa bianco sopra il quale, come a Boudnath, ci guardano gli occhi di Buddah. E naturalmente anche qui, le colorate bandiere di preghiera, tese su fili e mosse dal vento e numerose le ruote di preghiera, con incisi i mantra. Il grande stupa è l’elemento dominante, ma attorno, un buon numero di statue raffiguranti divinità, altari, in una mescolanza di stili e dimensioni diverse. Caratterizza questo luogo il gran numero di scimmie, a dare un tocco tutto particolare. Alcune sembrano indifferenti, altre alla ricerca di qualche briciola di cibo in terra, talune aggrappate a pinnacoli, altre ancora intente a schiamazzare saltando da un tetto all’altro.... fino a quando, come per incanto, improvvisamente fanno gruppo tutte assieme; decine e decine con piccoli al seguito. E da schivi animaletti in disparte si trasformano in una decisa e determinata entità che osa, prendendo di fatto possesso del passaggio dove le persone camminano. E le persone cedono il passo a questa improvvisa comunità in transito. Swayamboudnath sovrasta la città e questo, nei giorni limpidi, è un ottimo punto d’osservazione sulla catena himalaiana. Inutile dire che oggi la visibilità è ben lontana dal permetterci di ammirare le montagne. Anche in questo luogo indugiamo osservando le persone, molti pregano, assorti, indifferenti al gran numero di turisti. E’ palese la compresenza tra il culto buddhista e induista, elementi religiosi di diverse confessioni posti a pochi metri di distanza gli uni dagli altri. Ignoravo che potesse esistere questa convivenza in modo, poi, così plateale. Immaginavo, per mia ignoranza, la religione induista più rigida, più severa. E’ chiaro, almeno qui, che non lo è. Ma quante cose che si imparano viaggiando! Vi è anche un tempio buddhista, lo Shree Karmaraja Mahavihar e qui bissiamo l’esperienza di ieri, assistendo di nuovo ad una funzione, sistemandoci in silenzio alle spalle dei monaci in preghiera. Anche questa volta ci viene offerto del te, con latte e burro salato.
Martedì 15/11/2011: Oggi abbiamo in programma diverse visite, prima di arrivare a Bakhtapur, dove ci fermeremo per due notti. Di questo viaggio e di questo gruppo apprezzo il fatto che non si perda tempo. Siamo sempre puntuali nelle partenze mattutine. Il tempo è prezioso e quando se ne dispone, è saggio investirlo dedicandolo a questi luoghi, anche semplicemente evitando la fretta. Anche i finestrini del pullmino sono un buon punto di osservazione per fare conoscenza con il Nepal e Kathmandu. E... massì, volendo per forza trovare un aspetto positivo, diciamo che il traffico costantemente congestionato di Kathmandu, aiuta a soffermarsi su molti particolari. Ad esempio, come non notare, nel più completo disordine architettonico, le case dissimili tra loro, spesso intonacate e dipinte nel solo lato che presenta l’ingresso, mentre i restanti tre lati, spogli, con cemento, mattoni e armature a vista. O i coloratissimi e sgangherati risciò, per le strade. Appure accorgersi di quanto sono diffuse le piante da noi chiamate “stelle di Natale”, solo che qui assumono dimensioni considerevoli, fino a diventare veri e propri alberi. Crescono rigogliosi e spontanei fuori dai centri urbani, come non è difficile vederli anche all’interno di giardini. Come dai giardini capita di vedere alberi di pompelmo, ma con frutti di dimensioni enormi! Poi, non è raro vedere, in pieno centro, scimmie appollaiate sopra i pali della luce, o, vero esempio di equilibrismo, a spasso sopra i fili del telefono e completamente indifferenti al traffico che si contorce sotto di loro, con le Dahiatsu, le Mitsubishi, o vecchie Toyota dai modelli mai visti, da noi. E poi non possono sfuggire gli scuola bus, sgangherati, certo, ma parecchi! E sì, perchè le scuole sono numerose, a Kathmandu, come nei paesini. Si vedono e si sentono, nelle cantilene con cui gli alunni ripetono ad alta voce le lezioni in classe, e che si odono per le vie. E tutti, ma proprio tutti gli scolari hanno una divisa (magari un po’ trasandata, ma non importa), con i colori della propria scuola. Sciami di ragazzini, piccoli e grandi, riempiono le vie, orgogliosi nelle loro divise. Sì, insisto sulle divise. Lo ripeto, dato che mi ha colpito. Perchè nel caos e nelle sregolatezza più completa, vedere un segnale che riconduca ad una parvenza d’ordine, di regola... mi ha allietato. Mai avuto particolare simpatia per le divise in genere, qui in Nepal, invece, l’ho avuta, viste addosso a bambini gioiosi. E questo, fa ben sperare. Prima tappa di oggi, Dakshinkali, luogo sacro dedicato alla dea Kalì e famoso per i sacrifici animali. Si arriva dopo una quarantina di minuti di pullman: la strada termina con un ampio piazzale di sterrato adibito a posteggio, dal quale inizia il cammino che conduce al luogo sacro. Ai lati, bancarelle coloratissime che vendono tutto ciò che può essere offerto alla dea, in particolare collane di fiori, (naturalmente tageti), animali da sacrificare, noci di cocco e spezie. Inutile dire che la gente è numerosa e parecchi sono in fila per entrare nella zona dove vengono effettuati i sacrifici. Dakshinkali ha fama di essere un luogo truculento, ed in effetti di sangue se ne vede. Abili cerimonieri, con pochi precisi movimenti, dispongono l’animale oggetto del sacrificio, in modo che... al momento fatidico, il sangue fuoriuscendo dalla gola, bagni l’immagine della dea. E poi è folla, colore. Raggiungiamo il paese di Pharping a piedi, dopo una ventina di minuti di cammino, prima inerpicandosi su una collinetta, poi attraversando su sentieri appezzamenti coltivati a riso. Vediamo in lontananza molti contadini e contadine, sparsi nei campi. Punti colorati piegati sul loro lavoro. Sono pochi i mezzi agricoli a motore. A Pharping vi sono due interessanti Gompa, il Gompa di Ralo e il Gompa di Sakya Tarig. La caratteristica di quest’ultimo è di avere le mura interne completamente ricoperte di piccole statue in miniatura. Entrambi sono suggestivi. Siamo accolti in tutte e due le visite, da un monaco sorridente sulla soglia d’ingresso. Prossima meta, Gole di Chobar. Tappa evitabilissima in quanto si tratta di un anonimo ponte di cemento (ve ne è anche uno in legno, inagibile) sopra una gola sotto la quale scorre il fiume Bagmati, con le rive completamente ricoperte da rifiuti di ogni genere. Per fortuna a poca distanza, vi è il tempio di Jal Binayak, dedicato al dio Ganesh. Interessante: il primo che vediamo con raffigurazione di scene erotiche scolpite nelle travi di legno a sostegno del tetto. E’ facile trovare in Nepal, templi con questo tipo di... ornamento. Si possono vedere anche a Patan, Bakhtapur e Kathmandu. Oggi qui a Jal Binayak si tiene una festa: siamo in mezzo ad un sacco di persone agghindate, che ci guardano con un tanto di curiosità. Riprendiamo il nostro pullman, per dirigerci a Kirtipur, centinaia di anni fa prestigiosa città ove furono edificati importanti templi e palazzi. Infatti, alternati a case anonime spiccano, anche se spesso malandati, edifici con portali e finestre finemente decorati con intagli di legno di tek. Nella parte più alta del paese svetta il tempio induista di Uma Maeshvar, a tre tetti, con la tanto suggestiva ed esotica forma a pagoda. Poi, il tempio di Bagh Bhairan. Severo, perfetto, bellissimo, posto in mezzo ad un largo cortile. Nella parte alta di questo tempio sono appese armi, spade e scudi di un esercito vinto in una cruenta battaglia di circa 250 anni fa. E poi, poco distante, l’antica vasca per la raccolta dell’acqua. Girovagare per le stradine e cogliere le persone intente nella propria occupazione, come filare o intagliare il legno.Qualcuno indifferente a noi, qualcuno accennando a un lieve sorriso. E poi i vecchi sotto i portici e le donne intente a battere il riso. Arriviamo a Bhaktapur che è quasi tramonto, sistemiamo i bagagli nelle stanze, all’hotel Bhintuna (9 € a notte a testa: alberghetto spartano, ma molto meglio del Lai Lai!). Si trova a ridosso delle mura che cingono il centro storico ed è a due passi dalla Durbar Square. L’ingresso dalla Lasku Dhoka (Porta della Città), è ricavato tra due alte mura che non permettono di vedere cosa c’è oltre. Varcata la soglia, un tuffo al cuore! Una piazza meravigliosa. Un incanto. Come descriverla? Orientale, esotica, con templi e palazzi di stili diversi, alcuni severi, con minacciosi guerrieri e leoni di pietra a loro difesa, altri più leggiadri, con motivi in legno finemente cesellati. E’ la piazza dove sono state girate alcune scene del film “Il piccolo Budda”. E non è finita qui perchè percorsa una stretta via di non più di un centinaio di metri, un’altra piazza meravigliosa si rivela ai nostro occhi: la Taumadhi Tole. E ti sederesti lì per ore, a guardarla. Spicca qui il tempio di Nyatapola, il più alto del Nepal. Perfetti esempi, icone di quell’arte esotica, ancestrale, celata in quell’immaginario, perchè no, anche un po’ fanciullesco, che ha forse nei templi di Angkor Vat, il suo sogno più ardito. Baktapur non è violentata da piccoli o grandi veicoli a motore, ed è più pulita. Ceniamo al Sunny Cafè, ristorante trenta metri a fianco al tempio di Nyatapola. Il locale è disposto su più piani e termina con una terrazza, che domina la Taumadhi Tole. Con gli occhi spalancati al buio, immagino cosa potrebbe essere, in una notte di luna, da questa posizione, questa piazza medievale pregna di storia e di fascino. Resta tutto all’immaginazione, questa è una notte buia e l’illuminazione, anche in questo straordinario luogo è ridotta a poche fioche lampade mal disposte a perimetro. Anche questo è Nepal.
Mercoledì 16/11/2011: Partiamo di buon ora per Panauti, attraversando da nord verso est la valle, qui più che mai fertile e coltivata a terrazzamenti, di sagome irregolari, prevalentemente a riso e a ortaggi. Arrivati all’interno del centro abitato, lasciamo il pullmino per continuare a piedi per la lunga dritta via che ci condurrà alla zona dei templi. Pochi passi nella parte storica della cittadina e l’atmosfera cambia completamente, qui non passano mezzi a motore e vi è un silenzio quasi ovattato. Siamo i soli visitatori e il nostro passaggio desta curiosità tra gli abitanti. La via è rossa, di terracotta, ai lati case, che se si osservano meglio, si rivelano palazzi. Si intuisce l’eleganza, l’importanza in un tempo passato, nei pregevoli intarsi resi opachi dal tempo. Dalle finestre, quasi tutte di legno lavorato, qualche bimbo appena sveglio, fa timidamente capolino. Ho colto dei momenti indimenticabili, in questa passeggiata. Donne ad aprire le botteghe, donne con pesanti fascine di legna sulle spalle. Camminiamo lentamente; è’ importante “lentamente”, altrimenti non si coglierebbero i particolari, i momenti più belli. La zona archeologica è sulle rive del fiume, e purtroppo anche qui, proprio vicino ai templi, il cancro dell’immondizia dice la sua. Sulla via del ritorno, abbiamo assistito alla tenera scena di una mamma e una nonna che spalmavano con dell’unguento un bimbo appena nato.
Prossima tappa Thimi, altro villaggio nell’orbita di Kathmandu, così vicino e così lontano. Thimi è il maggior centro di produzione di manufatti di terracotta del Nepal. Non esistono fornaci, non esistono “fabbriche” tutto viene prodotto, nelle vie e nelle piazze di questo antico villaggio newari. Camminando per le stradine ci si imbatte in chi, introducendo l’impasto di argilla grezza in antiquati quanto strani macchinari, ne cava il materiale in cilindri regolari. Le stesse forme ricavate, passano poi in altre botteghe lì vicino, che con dei torni azionati a pedali, vengono ottenuti i vasi foggiati, che ritroveremo nelle piazze, disposti a piramide secondo un ordine curatissimo e ricoperti di fascine di legno a cui viene dato fuoco. Così vengono cotti. Stupefacente, passeggiare nelle antiche stradine, dove davvero e non tanto per dire, il tempo sembra essersi fermato, e assistere alle varie fasi di creazione dei manufatti in terracotta. E’ incredibile, abbiamo assistito a tutto questo, semplicemente girovagando per le strade. Il villaggio unito, strada per strada, nel proprio lavoro. Un consorzio, nell’espressione più vera che possa esistere. Le guide di viaggio dicono che a Thimi ci si viene per i templi... x, y, e z. In questo caso per me sono stati x, y, e z, di fronte ai mestieri, all’operosità, ai movimenti, ai visi, alle mani. Nel pomeriggio siamo di nuovo a Bakhtapur, a continuare la visita di questa città-gioiello della storia nepalese. I templi sono numerosissimi, un po’ ovunque. Riattraversiamo godendocele di nuovo, la Durbar Square e la Taumadhi Tole e a non più di 500 metri da quest’ultima, la Tachupal Tole, altra bella e importante piazza nel cuore della città. Poi, col buio, una chicca, sotto il portico di un tempio due gruppi di musici a suonare. Ce ne siamo stati un po’ lì ad ascoltare, Sara ed io. Senza parlare, rapiti. La cena di stasera, in un ristorantino davvero verace. Maesh ci conduce da una scorciatoia per una delle strade non lontane da Durbar Square, dalla quale prendendo un buio e stretto vicolo, ci porta in un cortile, tipico, con tutte abitazioni. Unico ingresso con un po’ di luce, è quello del ristorantino... tibetano. In pratica uno stretto corridoio con una manciata di piccoli e scomodi tavoli. Qualche lampadina appesa al soffitto. Piatti di metallo e sorrisi, tra imbarazzo e sorpresa, dei gestori che non si aspettavano proprio quel tipo d’avventori. Qui Maesh ha dovuto fare da interprete per facilitare la comunicazione, naturalmente è andato tutto per il meglio, abbiamo mangiato bene, tutti soddisfatti di avere provato questo locale il più lontano possibile dall’essere... “turistico”.
Giovedì 17/11/2011: Questa grigia mattinata la dedichiamo ancora alla visita di Bakhtapur. Scendiamo con Maesh in stretti, scuri vicoli di mattoni rossi dove in povere botteghe (alcune volte direttamente al suolo) i venditori presentano le loro mercanzie. Ovunque in ogni villaggio visitato, ma qui molto più frequenti, le antiche vasche per la raccolta dell’acqua. Alcune asciutte ed in stato d’abbandono, altre contengono ancora acqua, non più utilizzata a scopi alimentari o igienici. La più importante, direi addirittura monumentale, è Sidda Pokhari, cinta da mura, con torrette lese dal tempo, penetrate e avvolte da radici e rami di imponenti alberi. Molto “Libro Della Jungla”, per intenderci. Sidda Pokhari colpisce per estensione, per il colore verde acceso delle sue acque, dovuto a particolari alghe, ma anche per la presenza di numerose quanto enormi carpe e pesci gatto che si aggirano a pelo d’acqua alla ricerca di cibo. Sidda Pokhari si trova in prossimità dell’altra importante porta d’ingresso alla città antica, la Porta del Leone. Molto frequenti qui, come in tutti i villaggi, anche le fontane, queste sì, utilizzatissime per il lavaggio dei panni e anche per igiene personale. Lasciamo Bakhtapur per Changu Narayan, un piccolo villaggio sulla cui sommità sorge uno tra i più antichi complessi di templi e sculture, risalenti a 1200 – 1500 anni fa. Il tempio più importante, a forma di pagoda, è severo e solenne, e vi fanno da guardia minacciose statue di pietra raffiguranti leoni e grifoni. E tutt’intorno vi sono numerosi santuari, tempietti e statue, con intarsi e bassorilievi. Innanzi a statue, templi ed altari, i fedeli offrono fiori, incensi e candele. Riprendiamo il pullmino per Patan, seconda città per estensione tra quelle visitate, dopo Kathmandu. Iniziamo il giro della città con la visita al santuario buddhista di Rudra Varna Mahavihar, non a caso, in quanto il nostro informatissimo Maesh, era a conoscenza che oggi si sarebbe tenuta un’importante celebrazione religiosa. Infatti il tempio è affollatissimo, fatichiamo ad entrare. L’interno è un tripudio di suoni, colori e profumi: un via vai e una gran confusione, dove folte schiere di fedeli passano ad offrire offerte a monaci seduti. Ci è sembrato tutto molto lontano dalla sobrietà buddhista di altri riti ai quali abbiamo assistito, ma... tant’è. Questa volta non abbiamo chiesto delucidazioni a Maesh. Anche in questo luogo, come a Swayamboudnath, si rende evidente l’esempio di tolleranza religiosa. A pochi metri dalla veneratissima statua del buddha, altari con divinità induiste, in ...perfetto rispetto reciproco. Pochi minuti di cammino separano questo luogo da altri templi, tra i quali forse il più importante è quello di Mahabouddha, cioè dei mille budda, appellativo che deriva dal fatto che è circondato da numerosissime mattonelle raffiguranti Buddha. Caratteristica bizzarra è che questo tempio è ospitato in un cortile davvero stretto cinto da alte case dai muri di terracotta. Per vedere la sommità occorre stare letteralmente schiacciati con le spalle al muro, a naso all’insù. La prossima esperienza che ci aspetta non sarà... facile. Visita alla dea Kumari di Patan. Maesh ci aveva accennato a questa possibilità, cosa assolutamente impensabile fino a qualche anno fa (e ancora assolutamente proibita in altri luoghi, come Kathmandu). Invece qui a Patan, chissà per quale motivo, solo con una intercessione di cui si è fatto carico Maesh, è stato possibile chiedere la visita alla famosa dea Kumari. Occasione assolutamente imprevista. Siamo entrati nella casa. Intimamente euforici per l’occasione inaspettata, ma rispettosamente attenti ad osservare le norme comportamentali di cui si era raccomandato Maesh. E’ stata un’autentica doccia fredda. Una stretta scala ci ha portato in una piccola stanza illuminata a luce elettrica. Qui la dea vivente. Una maschera. Una creatura di nove anni, eletta a divinità. Avvolta in uno sfarzoso abito rosso. Seduta su un piccolo trono. Sopra il suo capo, dei fiori. Ai suoi piedi, delle offerte. Vediamo quello che non ci saremmo aspettati di vedere. Vediamo ciò che non dovrebbe essere, per una bambina di nove anni. Gli occhi fissi, tesi davanti a sè. Quando lo sguardo si spostava, rimaneva solo pochi istanti sullo stesso soggetto per poi spostarsi con fremito innaturale verso qualcosa d’altro. Anche le mani tradivano movimenti rapidi brevi e bruschi forse a testimonoianza di una nevrosi che ti spiazza, perchè non ti aspetti di vederla in una bimba. Ci ha benedetto. Ce ne siamo andati. Mestamente. Siamo alla Durbar Square: un trionfo di templi, palazzi e cortili, edificati tra il 1500 ed il 1700. Alcuni di pietra rossa, altri bianchi, a pagoda o in altri stili, un vero spettacolo. E poi gli importanti e bei palazzi, dai quali si accede a degli stupendi, veramente stupendi cortili di mattoni rossi con pregevoli intarsi di legno in porte, finestre e travature. Tutto magnificamente conservato. Dalla piazza, un reticolo di piccole vie fitte di negozietti di ogni tipo.
Venerdì 20/11/2011: oggi vera levataccia: ci si sveglia alle 5.30 per tentare il volo sull’Himalaya. Le condizioni meteo sono al limite, l’OK può essere dato solo all’aeroporto, in costante contatto con la stazione in quota e solo poco prima della partenza. Quindi è necessario essere là ed incrociare le dita. Giungiamo al piccolo aeroporto e siamo nelle stesse condizioni di ogni altro giorno, ossia con il cielo grigio ed uniforme. Intanto intorno a noi vediamo passare fior di attrezzature alpinistiche impacchettate al meglio: sono i bagagli per le spedizioni per il campo base dell’Everest o per l’Annapurna: fa un certo effetto... Attendiamo pochi minuti e poi abbiamo la conferma, il volo parte. Ancora un po’ di attesa alla porta d’imbarco e poi via verso il velivolo della compagnia Buddha Air che ci attende in pista. Si tratta di bimotori piuttosto piccoli con un’ottantina di posti di cui solo una quarantina saranno occupati: quelli disposti sui due lati finestrino. Il volo dura in tutto un’ora. Decolliamo, l’aereo prende rapidamente quota, ma per minuti interminabili, dai finestrini si vede solo il grigio denso delle nuvole che stiamo attraversando. Poi, improvvisamente, uno schiaffo di luce violenta ci fa quasi sobbalzare, e tutto cambia. Il cielo si presenta, di un azzurro abbagliante, unico. E subito a fianco a noi l’Himalaya, con le vette innevate, bianche sfolgoranti, che emergono da un manto di soffici nubi e puntano dritte al cielo turchese. Prima di salire, con la carta d’imbarco ci hanno fornito anche una semplice e chiara cartina con la parte della catena himalayana che avremmo potuto vedere, raffigurante tutte le cime con i loro nomi. In pratica tutto ciò che sta tra il Langtang Lirung ed il Makalu. Il volo è costato 120 €, tutt’altro che economico, ma ne è valsa la pena. E’ stata poi l’unica circostanza nella quale abbiamo potuto vedere l’Himalaya e l’Everest. Torniamo all’albergo dove ci aspetta il pulmino per condurci a Bungamati: un piccolo paesino d’anima medievale, a sud di Kathmandu. Anche questo villaggio, come e forse più degli altri è immerso nel torpore, nei ritmi lenti, con gli abitanti intenti nelle proprie faccende domestiche e contadine. Dice la guida che a Bungamati è particolarmente diffuso l’artigiananto dell’intaglio del legno. Assolutamente vero, numerose sono le piccole botteghe dove vediamo gli artigiani intenti nel loro lavoro, con asce, scalpelli e ceselli... difficile vedere macchinari. A Bungamati si trova anche un importante tempio, dedicato a Rato Machhendranath. Sinceramente lo rammento poco, nei dettagli. Una piazza, più grande, in mezzo il tempio. Anche oggi mi interessa di più la gente. Siamo gli unici visitatori, per queste strade. Un vecchio esce dalla soglia della sua casa, per riordinare degli oggetti lì vicino all’ingresso, incurante delle nostra presenza. Un bimbo fa per sbucare da una porta, si ferma e ci osserva nella penombra. Raggiungiamo a piedi il vicino villaggio di Khokana. Forse mezz’ora scarsa di cammino, a passo lento, indugio e osservo con la massima discrezione di cui sono capace, gli spaccati di vita autentica che scorre davanti ai miei occhi. I campi terrazzati, i contadini chini. Poi le prime case, con le donne lì davanti a distendere e pulire granaglie. Altre donne con gerle cariche di legna, uomini a impilare fasci di canne, bufali, placidi, che brucano l’erba, anatre e galline, che trotterellano libere per le vie. Khokana è come Bungamati, c’è un tempio che non ricordo, invece ricordo bene l’atmosfera, la pace, qualche lieve sorriso, qualche saluto sincero incontrando lo sguardo di chi vedo ma non conoscerò mai. Lasciamo Khokana, ritorniamo a Kathmandu e facciamo tappa in un grande laboratorio, dove (anche qui) profughi tibetani producono tappeti, per poi ritornare alla Tashi School. E’ pomeriggio, pausa dalle lezioni. Ritroviamo i bambini, gioiosi e festanti, che ci salutano calorosamente. Ricambiamo il loro entusiasmo mescolandoci ad essi e improvvisando qualche gioco, suscitando tutta la loro ilarità. Accompagnati da uno dei responsabili della scuola raggiungiamo un importante monastero poco distante. E ci aspetta un’altra esperienza forte. Visitiamo l’interno, con le parti riservate agli alloggi dei monaci e poi ha inizio la cerimonia, particolare, data la presenza di un autorevole Lama. Ci disponiamo, questa è la terza volta, dietro la fila di monaci seduti. La cerimonia ha inizio, dopo non molto, dei giovanissimi monaci, ci offrono tè con latte, poi del cibo. Tutto prosegue, secondo liturgia, nella recita delle loro cantilenanti preghiere intermezzate dalle trombe e dai tamburi. Al termine della cerimonia uno dopo l’altro riceviamo la benedizione direttamente dal Lama in persona. Torniamo alla Tashi School, e salutiamo per l’ultima volta i ragazzi.
Sabato 21/11/2011: Oggi ultimo giorno: tutto dedicato a Kathmandu. Si comincia dalla Durbar Square, bellissima, affollatissima, coloratissima. I superlativi ci vogliono. E’ la piazza. Più che in ogni altra parte, si mescolano passanti, venditori, turisti, devoti, santoni e rishò. Templi, statue, palazzi e cortili, qui come non mai in una commistione di epoche, di stili, di dimensioni, di livello di conservazione... di tutto. Tanto ricca che anche a passarci ore ci sarebbe sempre qualcosa di nuovo su cui soffermarsi a guardare. Decidiamo di fare una camminata, seguendo un itinerario pedonale consigliato dalla Lonely Planet, a visitare una parte della Kathmandu vecchia, a sud della Durbar Square. In un’ora circa di cammino, non incrociamo nessun turista. Il giro è interessante, vediamo diversi piccoli templi, alcuni un po’ diroccati, alcuni ubicati in piccole piazze ed altri anche in grandi cortili. Essendo sabato, festivo per i nepalesi, si incontriamo spesso bambini indaffarati nei loro giochi e adulti seduti a chiacchierare. Il pomeriggio di quest’ultimo giorno lo dedichiamo agli acquisti: ciascuno di noi per le stradine di Thamel. E la sera, ultima cena da Elena’s.
Domenica 22/11/2011: E’ la partenza! Ripercorreremo le stessa tappe, gli stessi scali dell’andata in senso inverso. Un bel sole chiaro ci sbeffeggia dai vetri dell’aeroporto di Kathmandu. Il volo da Kathmandu a New Delhi ha avuto un ritardo pazzesco. Eravamo oramai rassegnati all’idea di perdere il volo da Delhi a Francoforte. Invece, miracolo, una volta arrivati alla capitale indiana, Air India ha in pratica predisposto un corridoio preferenziale all’interno del grande aeroporto, grazie al quale di corsa, abbiamo passato in un lampo barriere e controlli per catapultarci sul boeing che ci stava ancora attendendo! Arriviamo a Francoforte e qui i saluti. Giacomo e sottoscritto a Roma, il resto del gruppo a Milano. Francoforte vede così dividersi ciò che una settimana prima ha visto unirsi: un gruppo formato da persone in gamba, costituitosi più o meno casualmente (per qualcuno è stato il primo viaggio con Avventure nel Mondo). Una buona “band” formata da musicisti molto diversi ma che hanno saputo come suonare in gruppo, con Filippo, valido... direttore d’orchestra.
Saluto quindi, in rigoroso ordine alfabetico:
Cristina da Milano
Daniele da Varese
Filippo da Padova
Giacomo da Firenze
Luigi da Bergamo
Paola da Milano
Sara da Modena
Stefano da Padova
Valeria da Bologna
Un saluto particolare a Giacomo, perfetto sconosciuto fino al giorno prima della partenza, con cui ho diviso una stanza per otto notti e di cui ho sinceramente apprezzato il garbo, la simpatia e l’intelligenza.La sera abbiamo sempre cenato presso ristoranti ed ha rappresentato il momento di vera convivialità, della giornata. Abbiamo cercato di evitare locali troppo turistici, prediligendo ristorantini... veraci. In questo l’esperienza del nostro coordinatore più i consigli di Maesh, la nostra guida nepalese, ci hanno fatto approdare in posticini davvero interessanti. Le colazioni, presso gli albergetti dove si pernottava, a base di te, caffè pane tostato, marmellata ed omelette. Pranzo come veniva veniva, dipendentemente dal momento e da dove ci si trovava, spesso presso bancarelle lungo le strade, o comprando qualcosa al volo in qualche negozietto, tipo pane, dolci o frutta. Ma cosa (e come) si mangia in Nepal? Direi bene, a prezzi incredibilmente bassi. La varietà dei cibi, anche nei ristorantini più modesti, è abbastanza ampia. Quasi ovunque vengono proposti piatti della cucina nepalese, tibetana, indiana e cinese. Quindi per chi gusta volentieri cibi speziati e piccanti, non c’è che l’imbarazzo della scelta, per chi come il sottoscritto ha qualche difficoltà con determinati sapori... esiste sempre un buon piatto di riso con carne e verdure dove rifugiarsi! Piatto tipico nepalese, sono i momo, ravioloni di pasta di soia cotti a vapore, ripieni di verdure, carne, o, più raramente, formaggio di yak o pesce. Altro must della cucina nepalese, sono i chowmein, noodles serviti con verdure o carne. Frequenti salse e salsine; anche chapati e naan (pane cotto al forno che ricorda la nostra piadina) non mancano quasi mai nei loro menù, e poi più che onesti bistecconi all’aglio o al pepe. In tutti i ristoranti, i piatti sono sempre stati abbondanti. Mediamente, nelle cene, (nelle quali non ci siamo fatti mancare nulla, birra compresa) si spendeva un corrispettivo di 6 € scarsi a persona. A Kathmandu siamo stati ai ristoranti: Mitho (3 volte), Elena’s (2 volte), Muktinath (1 volta). A Bhaktapur al Sunny Café (1 volta) e al Tibetian Momo Corner (1 volta). Tornerei in tutti tranne che al Muktinath.
Ed infine, nota di merito ai mastri birrai nepalesi: l’ottima birra locale (Everest, Nepal Ice, Gorkha), non ha niente da invidiare alle marche occidentali più blasonate.