Mali, l’Africa più vera – Parte seconda

Gente, mercati, colori, profumi, sorrisi: l’Africa che punta dritto al cuore!

E’ la seconda parte del viaggio in Mali narrato da Enzo. La prima parte, dallo stesso titolo, è stata pubblicata a suo tempo su questo stesso sito.DIARIO DI VIAGGIO

30 dicembre 2003
PAESI DOGON
Inizia l’avventura che aspettavo con più impazienza: la visita ai paesi Dogon. Partiamo da Mopti in direzione di Bandiagara, una piccola cittadina polverosa a circa 80 km ad est della città capoluogo. La città non ha nulla di particolare e l’attraversiamo velocemente senza neppure fermarci; alla periferia dell’abitato, appena dopo il centro di medicina tradizionale, che tutti conoscono per la sua architettura particolare a igloo, inizia la strada sterrata che ci porterà a Sangha, vicino alla sommità della Falesia, distante 45 km.
Il bus inizia a ballare ed iniziano anche le prime crisi di mal d’auto. La prima sosta ci introduce già al mondo dei Dogon. La roccia dell’altopiano si tinge di verde e scopriamo che con duro lavoro questa gente ha utilizzato ogni lembo di terra, ricavandone piccolissime terrazze quadrate dove si coltivano miglio e cipolle. Il popolo Dogon è tradizionalmente legato all’agricoltura e tutti, sia uomini che donne, si danno da fare per ricavare nuovi appezzamenti di terra, costruendo dighe sui corsi d’acqua e trasportando la terra dalle zone pianeggianti.
Il paesaggio che scopriamo è verdissimo: una piccola valle racchiude un corso d’acqua, ingrossato da uno sbarramento artificiale; le piccole terrazze degradano sulle due sponde e decine di persone sono intente ad irrigarle attingendo l’acqua con delle calabasse trasportate poi in testa. Le zone coltivate sono delimitate da cumuli di canne secche raccolte a formare delle specie di siepi, forse delle barriere per la polvere e la sabbia.
Siamo appena scesi e già accorrono i bambini; sbucano da ogni lato della strada anche se nelle vicinanze non vediamo villaggi. Nel giro di pochi minuti siamo già circondati. Eccoli il futuro del misterioso popolo dei Dogon, fatto conoscere al mondo poco più di cinquant’anni fa dall’etnologo francese Marcel Griaule. Lo studioso li studiò per circa quindici anni, e riuscì a trascrivere la loro singolare cosmogonia, che tutto spiega e tutto contiene della vita e del mondo, grazie alla fiducia di un vecchio hogon (sacerdote) cieco. Il suo libro, “Il dio d’acqua, incontri con Ogotemmeli”, è diventato famosissimo ed il mondo ha così potuto conoscere questo popolo che conta oggi circa 400.000 persone e che vive nei numerosi villaggi arroccati all’enorme Falesia di Bandiagara, un’aspra e spettacolare formazione rocciosa.
La falesia si sviluppa per circa 150 km con un'altezza di circa 300 m e si presenta come un colossale gradino fra l’altopiano e la pianura del Seno. La guida racconta che i primi abitanti della zona furono i Tellem, che la tradizione Dogon vuole di pelle rossa e di bassa statura. Dapprima i Tellem si sistemarono nelle grotte naturali presenti sulla superficie della Falesia per sfuggire alle scorrerie delle tribù della pianura. Poi svilupparono l'uso del banko e costruirono case e granai a forma di cono tronco, che vediamo ancora oggi incastonati nelle grotte della scarpata. Queste costruzioni sono raggiungibili solo utilizzando delle corde, calate dalla sommità della scarpata e sono ancora oggi usate come tombe dai Dogon. I Tellem si estinsero per assorbimento, mescolandosi lentamente con un popolo di invasori di razza Mandingo, forse i Mossi del Burkina Faso, circa 600 anni fa. Secondo una teoria fu dall'incrocio delle due etnie che nacquero i Dogon, che ereditarono le antiche tecniche di costruzione ed iniziarono ad edificare i loro villaggi sempre più in basso, fino nella pianura stessa.
Intanto abbiamo ripreso la marcia, sballottati a destra e sinistra dalle asperità della strada; dopo qualche chilometro serve un’altra sosta ed abbiamo un'altra occasione per ammirare le verdi terrazze nelle valli dei torrenti. Non conosco i nomi delle località e dei piccoli villaggi che abbiamo visto lungo la strada, mi piace comunque ricordarne uno, letto sulla cartina, ma impronunciabile: “Luogourougoumgou”. Che ne dite?
E’ qui, nella campagna anonima dei villaggi dell’altopiano che un bambino mi ha regalato il disegno della maschera che tengo come ricordo più prezioso di questo viaggio; il bimbo è sparito subito con la monetina che qualcuno del gruppo gli ha dato in cambio, così ho saputo il nome del piccolo artista, forse Amodonbou, solo da un altro ragazzino.
La strada si snoda sull’altopiano roccioso ed arriva a Sangha e poi al villaggio di Bongo, dove abbiamo sostato sulla spianata di fronte all’enorme galleria naturale, tra le grida e le gare dei ragazzi che si offrono come portatori.
Iniziamo qui la nostra camminata, da ora in poi visiteremo i villaggi a piedi, come consigliano tutti gli scrittori sui Dogon, da Aime a Franchini. La sorpresa è ad ogni angolo, ma bisogna stare attenti perché la complessa cosmologia ha impregnato a tal punto la vita di questo popolo che ogni oggetto, ogni pietra, ogni piccolo gesto quotidiano, per noi insignificante, può essere un simbolo sacro (un omolo), la cui violazione può provocare una grave offesa. Ne fa le spese Simona che fotografa alcune donne intente a macinare il miglio, le ho fotografate anch’io, ma la sua macchina fa rumore ed è subito rissa, fra noi, sbigottiti per la brusca reazione, le nostre guide ed i portatori da una parte e le signore arrabbiatissime dall’altra. La “rissa” si calma e possiamo goderci la vista spettacolare sulla piana del Seno; sotto ai piedi della falesia i villaggi di Némi, Banani-ama e Banani kokoro. Percorriamo le strade di Bongo ed abbiamo la sorpresa di sentire i bambini che cantano un’allegra tiritera, riesco anche a registrare alcuni secondi della canzone, un ricordo davvero unico.
Ad un certo punto il sentiero piega verso lo strapiombo e prosegue in discesa in una spaccatura della roccia. Il sole di mezzogiorno è caldo ma assolutamente sopportabile: incominciamo a scorgere le prime cavità della rocce della falesia con le costruzioni di banko dei Tellem; una cascata precipita dalla scarpata con un effetto unico: chissà nella stagione delle piogge. I grigi baobab e le verdi chiome delle acacie decorano la parete rocciosa, mentre i villaggi con i granai dal tetto di paglia di forma conica e le caratteristiche case di fango sembrano dei presepi aggrappati alla roccia.
Sostiamo a riposare sotto un baobab e vediamo un omolo, un altare sacro, con tanto di galletto sacrificato per proteggere il villaggio contro particolari pericoli: è un semplice cumulo di sassi alto 50 cm, ma toccarlo sarebbe sacrilegio. Continuiamo verso la tai, cioè la piazza, dove vediamo i primi venditori di porte scolpite con i motivi elaborati, simboli della religione dogon.
Più in alto, in posizione dominante, sorge il Togu-na, letteralmente il “riparo madre”, ma più comunemente tradotto come “la casa della parola”. E’ un riparo dal tetto costituito da vari strati di fascine di paglia sorretto da nove pilastri, di cui gli otto esterni sono decorati con i simboli degli altrettanti antenati. Il togu-na è il luogo dove l’Hogon e gli anziani del villaggio si ritrovano per prendere le decisioni importanti o più semplicemente per stare assieme a fumare, scherzare o riposare. La tettoia è molto bassa: nella casa della parola si può stare solo seduti e calmi, chi si innervosisce, finisce per sbattere la testa contro il soffitto.
Saliamo al togu-na e vi troviamo l’hogon ed alcuni anziani: è un momento emozionante. Anche se la frequentazione turistica ha molto semplificato il cerimoniale, il contatto con il sacerdote del villaggio va sempre fatto con molto rispetto attraverso un intermediario (il kadana) a cui bisogna consegnare i doni o l’offerta per la birra di miglio. Sankum parla direttamente con l’hogon che accetta anche di essere fotografato; poi parliamo della complessa e raffinata religione. I Dogon dicono di discendere dal dio Amma proveniente dalla stella Po-tolo, che è anche il nome del seme del fonio, un cereale dai grani piccolissimi, simbolo della forza vitale. La stella, bianca, piccola e molto densa, come il fonio, è stata identificata come Sirio B, una nana bianca, poco più grande della Terra, ma con una massa pari a quella del Sole; gli astronomi occidentali l’anno scoperta solo nel 1862 (e fotografata solo nel 1970) ed hanno calcolato che descrive un’orbita attorno a Sirio di circa cinquant’anni.
I Dogon conoscono da sempre queste informazioni e le usano per determinare il periodo della festa del Sigi, che si svolge appunto ogni 50 o 60 anni circa per celebrare la comparsa della stella e della sua forza fecondatrice in un punto preciso dell’orizzonte (il prossimo appuntamento sarebbe per il 2020). Amma creò l’universo con le stelle e le costellazioni e poi creò Tenga, cioè la Terra, a forma di donna, con cui si accoppiò generando i Nommo, due esseri mezzo uomo e mezzo serpente, identificati come la forza vitale dell’acqua, e li inviò sulla terra a portare la parola. Come prima cosa i Nommo circoncisero l’uomo e la donna, perché creati da Amma con la doppia essenza maschile e femminile (il prepuzio, detto nay, la lucertola, sarebbe la parte femminile dell’uomo, il clitoride, cioè lo scorpione, la parte maschile della donna) ed essi generarono otto figli, quattro maschi e quattro femmine. Loro popolarono la terra ed impartirono, attraverso la Parola, gli insegnamenti fondamentali, come la tessitura, la metallurgia e l’ agricoltura.
Ringraziamo l’hogon di Banani ma ora noi abbiamo fame e in un attimo scendiamo a Banani-kokoro dove sostiamo per il pranzo. Siamo sistemati su di una terrazza, all’ombra delle stuoie: stiamo davvero bene. Il menù è essenziale: riso, cuscus e pollo.
Poi ci concediamo un po’ di tempo per l’acquisto della porta. Non posso astenermi dall’avere la mia porta dogon: certo non pretendo una porta antica ma non il solito souvenir. Così io, Fabrizio, Carlo, Simona e Manuela, ci avventuriamo nei numerosi negozietti del villaggio, che come dice la Lonely Planet, “brulica di venditori”.
Anche il ragazzino che mi ha accompagnato nella discesa dalla falesia, si è già attivato per “aiutarmi” nell’acquisto, ma preferisco scegliere. Dopo qualche negozio siamo catturati da un venditore che ci porta nel suo laboratorio, in mezzo alle viuzze del villaggio. Entriamo addirittura nella casa della sua famiglia: alcuni locali si aprono su due cortili; nel primo donne e bambini stanno mangiando da una calabasse, nel secondo vi sono due granai e vari locali. E’ qui il negozio-laboratorio di Siguenne. Gli oggetti sono più curati che altrove e allora scelgo la mia porta: anzi due, una piccola per l’ufficio con scolpito l’hogon e la sua donna e il serpente-nommo, una più grande per casa raffigurante le quattro coppie degli antenati. Anche Fabrizio acquista la sua porta e Carlo la serratura, abbiamo ampiamente contribuito al bilancio della famiglia. Le porte vengono confezionate in un sacco per le galline con tanto di piume originali e portate sul fuoristrada di servizio.
Nel frattempo sul tai del villaggio inizia un ballo tradizionale, certo è ad uso e consumo di noi turisti, ma l’atmosfera è unica con il suono dei tamburi, i canti tradizionali, gli uomini e le donne che danzano sotto i baobab e la falesia sullo sfondo. Anche se costruito, è un momento magico: forse ha ragione Marco Aime, sono un turista che vede solo “il mondo fatto di simboli cosmici, di misteriose astronomie, di gente che trascorre il tempo a riordinare l’universo secondo mappe ancestrali armoniche e virtuose”. Ma no, ho visto benissimo la miseria, gli sforzi ed il lavoro di un popolo per recuperare nuove terre da coltivare, la voglia di riscatto ed il conflitto generazionale: il venditore che richiede il doppio del prezzo a noi che, per i nostri sensi di colpa, siamo disposti a pagare molto di più del valore; il ragazzino che mi ha accompagnato e che si è fatto comprare le ciabatte facendosi dare la “cresta” dal venditore.
Certo i paesi dogon non sono più il mondo incantato descritto da Griaule, ma secondo me è importante che questo popolo riesca a riscattarsi, a migliorare il suo tenore di vita per sopravvivere e tramandare il ricordo della sua cultura e della sua storia. Sono questi i miei pensieri mentre il gruppo riprende la marcia ai piedi della falesia; siamo nella pianura del Seno, a meno di 70 km dal confine con il Burkina Faso: un tempo era una savana verdissima, ora è un’arida distesa, con baobab, acacie e bassi arbusti, sopra le nostre teste scorrono i villaggi di Bongo, Pegue, Saye e quindi anche Ireli ed in fondo Yane.
Arriviamo nel villaggio di Amadingue, due mesi fa c’è stato il presidente Chirac che è stato anche nominato “gran chef hogon”, ce lo vedo sotto al togu-na! Andiamo, è ora di montare le tende, ci aspetta una serata unica nell’infinito della savana attorno al falò.

31 dicembre
PAESI DOGON - MOPTI
Certo non è da tutti svegliarsi all’ultimo giorno dell’anno in una tenda, in mezzo all’Africa; fuori c’è una vista mozzafiato sulla falesia. Il sole sta sorgendo ed è ora di rimettersi in marcia.
Oggi, attraverso il villaggio di Ireli, risaliremo la roccia fino a Sangha dove ci aspetta il pullmino. Passiamo ancora da Amadingue ed al suo Togu-na “moderno”, poi iniziamo a salire il sentiero che porta a Ireli. Vediamo in alto, in una spaccatura della falesia, un agglomerato di costruzioni tellem, intorno a noi sorgono invece numerose case, ognuna con il cortile, delimitato da muretti a secco ed il suo granaio.
Ad Ireli non troviamo venditori ed anche i bambini sono discreti e schivi; attraversiamo la piazza con l’altare cumulo ed entriamo nel vecchio quartiere attorno al togu-na, che, come di consueto, è in posizione dominante. Su di un muro a lato sono state modellate sul banko le immagini della religione dogon e poi dipinte con colori brillanti: dal bianco al blu, dal rosso al nero. Riconosco la maschera guinna, che rappresenta la casa dell’hogon; il serpente Lebè, che tutte le notti va a leccare l’hogon per infondergli la parola (per non eliminare le tracce della parola l'hogon può essere toccato solo dalla moglie e non può lavarsi più di una volta l'anno…), la maschera kanaga, l’antilope, apportatrice di vita, la volpe e l’hogon stesso. Un’altra rappresentazione ricorrente nelle decorazioni Dogon sono le linee a zig-zag, che richiamano il moto perpetuo dell’universo.
L’urbanistica dogon vuole che il villaggio sia sempre disposto da nord a sud e che la sua pianta sia simile alla figura di un uomo sdraiato: il togu-na rappresenta la testa, le case con i granai sono il tronco e gli arti, mentre il braccio destro è costituito dallo yapunu guina, la casa dove le donne risiedono durante il periodo mestruale, in quanto impure. La pietra usata per macinare rappresenta l’organo genitale femminile, l’altare a forma fallica l’organo maschile.
Lasciamo l’hogon di Ireli e continuiamo a risalire la falesia; siamo tutti attrezzati con scarponcini e scarpe da trekking e dobbiamo stare attenti ad alcuni passaggi; come faranno le donne dogon a risalire con un bambino legato alla schiena, una calabasse colma d’acqua in testa e, sopra a questa, un sacco pieno? Ce lo siamo chiesti quando una giovane donna ci ha superato così carica: portava solo ciabattine infradito.
Il sentiero sale attraverso un profondo canalone eroso dal vento e dall’acqua nel corso dei secoli; le rocce assumono strane forme e le grotte mostrano le tracce delle abitazioni tellem. Piano piano ritorniamo sull’altipiano di Sangha e già vediamo in lontananza le prime case. Sangha è uno dei villaggi più grandi e passiamo vicino alla scuola, alla biblioteca, all’ufficio postale e arriviamo sulla piazza con l’antenna per telecomunicazioni alimentata dai pannelli solari della cabina telefonica pubblica. Vediamo le cipolle, anzi gli scalogni, a seccare al sole, le caratteristiche scale ricavate da un tronco a forcella opportunamente sagomato, e poi ritroviamo la vivacità dei bambini che ci corrono incontro con la consueta allegria.
Il tempo, sempre insufficiente, dedicato alla visita dei paesi dogon sta per scadere; da una parte mi dispiace che sia già finito ma dall’altra solo questi due giorni valevano il viaggio intero: un popolo così semplice ma con una cultura complessa e singolare di cui va fiero.
Rientriamo a Mopti nel primo pomeriggio: l’avventura continua sul fiume Niger.
Consumiamo il nostro panino all’hotel e poi ci imbarchiamo su di una pinasse per la navigazione fino a Konna. Viene caricato tutto il necessario per la cena e per la notte; anche questa sera la passeremo sotto le stelle. Le operazioni di carico si protraggono ma poi i primi paesaggi ripagano l’attesa.
Il Niger è il terzo fiume africano e nasce dagli altipiani del Fouta Djalon; prima scorre verso nord-est attraverso il Mali, poi piega a sud e, attraverso Niger e Nigeria, si getta nel golfo di Guinea con un ampio delta. In tutto percorre più di 4000 km di cui 1700 in Mali. Nel tratto a nord di Mopti il letto è ampio e le sponde sono basse.
Passiamo poveri villaggi, i cui abitanti, di etnia bozo e peul, vivono della presenza del fiume. Sul fiume incontriamo piroghe di pescatori spinte a remi, o anche a vela, ed altre pinasses di trasporto stracariche di persone e merci. Filano tutte più veloci di noi, si vede che noi stiamo facendo una crociera. In tre giorni di navigazione da Mopti si raggiunge il porto di Timbuctu e la navigazione è sicuramente il mezzo migliore per raggiungere la mitica porta del deserto.
La navigazione fra le due città viene usata soprattutto per il trasporto delle lastre di sale che arrivano con le carovane (azalai) dalle miniere di Taoudenni a 700 km a nord di Timbuctu. Queste miniere sono costituite dai letti di antichi laghi salati prosciugati migliaia di anni fa ed il lavoro di estrazione avviene soprattutto nella stagione più fresca da ottobre a marzo; le carovane di cammelli si muovono solo di notte e impiegano 16 giorni per attraversare il deserto.
Leggo queste cose dalla guida ed intanto la pinasse scorre sulle acque fino al tramonto. Quando il sole è una palla infuocata sull’orizzonte la barca accosta e, sul fango del fiume, indurito dal sole, rimontiamo le tende; la stanchezza inizia a farsi sentire ed il morale del gruppo è basso. Dopo la cena inizia l’attesa della mezzanotte: da quanto tempo sognavo un capodanno senza luci, suoni e confusione. Sicuramente qui non ci sarà nulla di tutto questo.

1 gennaio 2004
FIUME NIGER – KONNA - SEGOU
Mai successo che al primo dell’anno mi svegliassi alle 7 ed in una tenda, ma la cosa più sorprendente è che sono riposato ed in ottima forma, e la cosa mi spaventa per gli eventuali futuri sviluppi che questa prova di adattabilità provocherà alla programmazione dei prossimi viaggi.
Il resto del gruppo non sta altrettanto bene: ho fatto bene a stare leggero e concedermi per il cenone solo riso bollito e carne in scatola della mia scorta personale (in questo caso è proprio servita). Nonostante qualche malessere non perdiamo tempo e, rifatti gli zaini, risaliamo sulla pinasse e ripartiamo alla volta di Konna.
Sankum e gli addetti della barca preparano la colazione davvero abbondante in confronto alla cena: brioches, frutta fresca ed anguria, caffè, tè… insomma ogni ben di dio se pensiamo di essere dove siamo.
L’aria del mattino è fresca e abbiamo indosso tutto quello che ci siamo portati nello zaino, ben presto però i raggi del sole iniziano a farsi più caldi e la giornata africana si preannuncia bella e calda come sempre. I pescatori sono già all’opera sulle loro piroghe; lanciano le reti, sistemano le nasse, qualcuno ha già un carico di pesce fresco.
Passiamo la cittadina di Wandiaka con la sua bella moschea di fango che innalza due torri e numerosi pinnacoli e raggiungiamo un villaggio di pescatori bozo. Sono nomadi e vivono in povere capanne di paglia; attracchiamo e siamo subito circondati da una nuvola di bambini. I colori che vediamo in questo villaggio sono incredibili: gli uomini sono intenti a riparare le reti, le donne puliscono e cucinano il pesce, il ciabattino sta lavorando davanti alla sua capanna assistito da alcuni piccoli apprendisti.
Come al solito il nostro arrivo è una festa: Simona non resiste alla tentazione ed ha già in braccio un neonato, Fabrizio è già assediato dalla solita nidiata di bambini, ce n’è persino uno con i riccioli biondi! Dopo aver attraversato l’accampamento allineato alla sponda del fiume, risaliamo sulla pinasse e salutiamo i nostri ospiti; siamo quasi arrivati. La barca devia a sinistra e si infila in un canale laterale che porta al porticciolo di Konna: è giorno di mercato ed il via vai di piroghe e pinasses stracariche è superiore al normale.
Arriviamo così in vista della cittadina a metà mattina: il sole è gia caldo ed illumina l’ampio spazio polveroso che separa le case dal canale, decine e decine di imbarcazioni sono già attraccate a riva e dobbiamo avvicinarci ad una pinasse già ormeggiata per scendere dalla nostra.
La navigazione è finita, il nostro pullmino è già pronto, ma abbiamo il tempo per fare un rapido giro per il mercato. La gente è tutta attratta da un camion pubblicitario del dado Jumbo; spettacolo di karaoke con le bambine invitate a salire ed esibirsi in canti e balli: a giudicare dalla folla deve essere un avvenimento per la città. Tutto intorno pastori peul e tuareg coperti dai caratteristici taguelmoust variopinti contrattano l’acquisto di bestiame; le vie della cittadina sono affollate di gente di ogni razza che si aggira fra le bancarelle sistemate sotto le precarie tettoie di legno, mentre decine di carri e carretti con cui i venditori sono giunti in città da tutto il circondario sono parcheggiati, con gli asinelli, davanti alla moschea.
C’è un’atmosfera strana a Konna; si sente già l’atmosfera del deserto: il lago Debo è ad un giorno di navigazione, la mitica Timbuctu a 230 km a nord.
Risaliamo sul nostro bus e riprendiamo la strada per Mopti; Simona, Manuela, Andrea e Silvia ritornano con noi fino in città, aspetteranno all’albergo l’aereo per Timbuctu del giorno seguente. Noi proseguiremo per Segou e pernotteremo ancora all’hotel de l’Indipendence.

02 gennaio
Il soggiorno all’hotel è sempre confortevole, una doccia, una buona cena ed una bella dormita in un letto ci hanno rimesso di buonumore anche se oggi è l’ultimo giorno del nostro viaggio.
Segou è la seconda città del Mali per numero di abitanti; è la sede del vasto progetto di irrigazione chiamato Office du Niger, al centro della principale regione agricola del Paese per la produzione del riso. Si ritiene che l'esploratore inglese Mungo Park arrivò sino qui e scoprì così che il fiume scorreva verso est. Durante il dominio francese, la città fu un centro amministrativo molto importante; i suoi ampi viali e i vari edifici in stile coloniale danno l’idea di come doveva essere la città a quell’epoca.
Visitiamo il Gran Marchè ed un laboratorio tessile; poi percorriamo il viale che costeggia il Niger e scattiamo ancora qualche foto: le caratteristiche abitazioni bambara in banko rossiccio, i pescatori intenti a gettare le reti, le donne che fanno il bucato, un signore indaffarato a lavare la sua pecora. Sotto agli alberi vi è un grande assortimento di terrecotte bambara prodotte a Farako, un piccolo centro poco distante da Segou.
Lasciamo la città e facciamo un’altra sosta a Segou Koro, centro dell’impero bambara nel 18° secolo; per visitare il villaggio bisogna pagare una tassa al capo-villaggio che ci accoglie sotto ad una tettoia, usata anche come scuola; qui ci racconta i trascorsi storici della sua gente con un’ espressione ed un’enfasi davvero uniche.
Arriviamo a Bamako nel primo pomeriggio, una sosta per il pranzo e poi un meritato riposo all’hotel Salam.
Verso sera l’ultima visita al centro della città. Passiamo davanti alla stazione capolinea della ferrovia Dakar-Bamako; il viaggio fra le due città si effettua due volte alla settimana, il viaggio dovrebbe durare 35 ore ma in genere se ne impiegano 40 o più.
Il pullman ci lascia a Place de la Republique, dietro alla sede dell’Assemblea Nazionale. Qui c’è il mercato dei feticci. Non fotografiamo niente: la macabra varietà di ossa, pelli, camaleonti secchi, teste di scimmia marcescenti ci lascia sgomenti. Preferiamo la Maison des Artisans, dove spendere gli ultimi franchi. Più che artigiani dovremmo dire venditori, ma se ci si spinge un po’ oltre il perimetro del cortile interno del mercato, effettivamente si trova qualche artigiano che intaglia il legno o lavora il cuoio. Purtroppo l’inquinamento nella Rue de Sobuta, una delle principali direttrici della città, è insopportabile e ci costringe a ritornare nella zona più turistica.
Rientriamo in hotel, il programma della serata prevede una cena con musica tipica al ristorante San Toro; purtroppo siamo sistemati in giardino e alle notizie che non servono birra e che hanno finito il pesce decidiamo di tornare in hotel. Così ceniamo nel tranquillo ed elegante ristorante del Salam dove sembra di essere già tornati in occidente.
Domani mattina saremo già in Italia.

4 commenti in “Mali, l’Africa più vera – Parte seconda
  1. Avatar commento
    manu
    20/11/2008 21:17

    prova di inserimento

  2. Avatar commento
    Enzo (l'autore)
    16/05/2004 20:12

    Cara Grazia, ti ringrazio per i complimenti e ti consiglio un'altra lettura davvero commovente alla scoperta del popolo tuareg: Sono nato con la sabbia negli occhi di Mano Dayak

  3. Avatar commento
    Brunella
    16/05/2004 11:27

    "L'Africa più vera, che punta dritto al cuore"... Bravo, Enzo! Anche se non ci sono stata (ma mi auguro di andarci), credo che il titolo sia proprio indovinato! L'Africa con la A maiuscola non è certo la settimana (servito, riverito e... animato, c'è a chi piace...) sulle spiagge di Djerba, Malindi o Sharm el Sheick!

  4. Avatar commento
    grazia
    24/04/2004 10:35

    Un viaggio bellissimo, un racconto molto coinvolgente e buone letture. Grazie a te ho letto il libro di Marco Aime "Le radici nella sabbia" e adesso ho già pronto "Taxi brousse. Sulle strade dell'Africa". Ora manca solo un viaggio in Mali: spero di poterlo fare presto. :-)

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