La Transandina, sulle tracce del Che

Perù, Bolivia, Cile: nel cuore dell’America Latina!

"Buen Viajè, gringo!”
È questa la frase che sentivamo tutte le mattine oppure ogniqualvolta lasciavamo una località. Il viaggio, uno spostamento da un luogo ad un altro; in questa definizione “da vocabolario", così intuitiva, così semplice, si racchiude quello che per me è il significato del viaggio stesso; lo spostamento, il trasferimento, la possibilità di poter vivere con il movimento, in questo caso con la moto, momenti e situazioni che diversamente sarebbe impossibile.
Questa volta siamo in Sud America e attraverseremo Perù, Bolivia e Cile.

Transandina: questo è l'identificativo del viaggio, così come Transasia, Turkestan o West Africa riconduce al concetto di spostamento. E così, proprio attraverso le Ande ripercorriamo l'itinerario che qualche anno fa percorse un illustre viaggiatore, la cui fama sarà ricordata non perché viaggiatore ma per quello che ha fatto con un altro mezzo: Ernesto Guevara detto il Che (vedi “Curiosità”).PERÙ
Logisticamente il viaggio comincia a metà giugno con la spedizione della moto a Callao, il porto di Lima, e al mio arrivo mi stupisco della velocità delle operazioni di sdoganamento (solo 2 giorni, per chi non ha assolutamente esperienza potrebbero sembrare un eternità). L'approccio con il traffico di Lima non mi colpisce più di tanto: seppur caotico, in confronto a quello indiano o pakistano, sembra di girare in una grande città italiana il giorno delle targhe alterne. L'unico momento di panico è stato quando accostando per chiedere un informazione ad un poliziotto, ho notato che stava estraendo la pistola dalla fondina impugnandola con fare minaccioso: ho pensato così fosse meglio trovare la strada da solo a scapito del tempo. L'atteggiamento, pur non turbandomi più di tanto, mi ha incuriosito, così tornato all', ostello ho spiegato l'accaduto al titolare della bettola, il quale ha giustificato il comportamento per il fatto che la maggior parte delle rapine a Lima avviene in moto. Sarà anche così ma il mio abbigliamento da motociclista con la moto stracarica, tutto poteva far pensare ma non ad un terrorista.
Comunque a Lima, pur essendo una metropoli con circa 5 milioni di abitanti, hai la sensazione di non essere mai solo; sì, infatti la “garua”, la classica nebbia costiera, ti accompagna, ti segue ovunque anche all'interno degli edifici per gran parte dell'anno (da aprile a dicembre).
Il Museo de Oro è sicuramente un'ottima meta, la visita offre la possibilità di ripercorrere passo dopo passo la storia e le usanze dell' impero incaico.
Finalmente il viaggio o meglio l'avventura comincia: come sempre, ripassato a mente più volte l'itinerario, le situazioni e cercando di prevenire il tutto possibile, metto la prima e lascio la frizione. Istantaneamente all'interno del casco comincia un altro viaggio, parallelo, fatto di preoccupazioni per quello che può capitare, a volte di paure: come dicevano i latini, "solvitur ambulando", camminando si risolve, e per noi il cammino è lungo.
La Panamericana ci conduce dopo 450 km. di ottimo asfalto reso scivoloso dalla garua a Nazca, passando per l'oasi di Ica, la cui fattezza riporta alla mente, con le dovute proporzioni, la zona dei Laghi Mandara in Libia. Già dicevamo di Nazca, incastonata nella cordigliera di Huanzo: si sarebbe accertato che in questa zona non piove da 10.000 anni e questo spiega alcune cose di questa località densa archeologicamente di misteri, il primo su tutti quello relativo alle "Linee di Nazca". Maria Reiche, l'astronoma che più ha dedicato tempo e risorse a questo luogo, riconduce i vari disegni (condor, colibrì, scimmia, alberi e astronauti), ad un calendario Inca, il che non desta nessun mistero se non per il fatto che le figure stesse sono geometricamente perfette e data l'estensione a volte anche di 300 metri, solo con un controllo in quota potevano essere disegnate così perfettamente e la civiltà a cui si riconducono non volava ancora. Svelato il mistero ? Oppure il mistero sta nel non parlarne in maniera esauriente a scapito del turismo? Non importa, ne vale la pena, se non altro per il volo acrobatico su piccoli Cessna che hanno di misterioso il modo di stare in cielo...
Nei pressi di Nazca, a circa 30 km, il cimitero Inca di Chauchilla è una meta molto interessante, è possibile vedere mummie inca, teschi, ossa risalenti al 1000 d.C., seppellite in posizione fetale ancora con i capelli che per usanza venivano conservati per essere utilizzati in questa triste situazione.
Torniamo per un tratto sulla Panamericana in direzione di Paracas, bellissima penisola dove grazie a favolosi sterrati sabbiosi visitiamo sculture rocciose impressionanti, specie quella denominata Cattedrale.
C'è tempo anche per fare un po' i turisti visitando le isole Ballestras, da dove oltre al mestoso e famoso Candelabro Inca, gigantesca figura incisa su di una collina che arriva all'oceano, all'origine faro per i naviganti poi sagoma di un cactus (sacro per la cultura Chaum), simbolo della costellazione della croce del Sud, è possibile ammirare e per la distanza odorare colonie di maestosi leoni marini, foche, stelle marine e granchi rossi giganti.
Arriva il giorno che approcciamo le Ande, c'è emozione; per arrivare ad Ayacucho, lasciamo le onde dell'Oceano e, dopo aver fatto sosta alle rovine di Tambo Colorado ancora ben conservate ma incastonate in un paesaggio che ne sminuisce il valore, saliamo fino a 4800 m. del Passo Apacheta. Mentre la strada sale il GPS indica altitudini da scalatore e cerco di percepire, prevenire facendo attenzione a quelli che sono i sintomi del fatidico Soroche (mal di testa, nausea, vomito), sbattiamo quasi nel cartello che ne indica l'altitudine: 4800. Quasi increduli, viste le nostre ottime condizioni, ci apprestiamo a fare la classica foto di rito; ma tutto cambia dal momento che mi appresto a mettere la moto sul cavalletto centrale, il fiato è corto e sono stanco quasi come aver corso una maratona e averla vinta! È strano, ma la sensazione di stanchezza conferma che l'altitudine è reale.
Scendiamo sino a 2800 m., Ayacucho non è solo una delle più belle città del Perù, ma è anche la città che ha dato i natali a Guzman Abhimael, padre del movimento terroristico di Sendero Luminoso, peraltro non attivo da circa dieci anni.
Il tratto andino che ci porta ad Andalauwaysa è motociclisticamente impegnativo, affascinante e faticoso; saliamo ancora più volte a 4000 m. per poi ridiscendere a 1800 e risalire ancora a 4600 in un’esplosione di colori e paesaggi mozzafiato, siamo in alto e lo si percepisce dalla temperatura dell'acqua dei numerosi guadi presenti sul percorso e causati da violente nevicate invernali.
La pista è dapprima battuta, poi sabbiosa ancora pietrosa, mette a dura prova la moto, che fascino però, le nuvole sono tanto basse che sembra si possano toccare, o siamo noi ad essere così in alto?
Vorrei che la pista non finisse mai, altre volte la maledico, intanto arriva il buio... Siamo sulle Ande e il solo faro della moto più i due supplementari ci guidano al villaggio le cui luci sembrano non avvicinarsi mai.
L'adrenalina è a buoni livelli, siamo su una delle catene montuose più importanti della Terra, è buio pesto e le stelle si presentano a noi puntellando un cielo così nero da confondere i confini con le ombre delle montagne intorno. Sono stelle della costellazione che noi non vediamo di solito, e questo aumenta le sensazioni.
Ho paura di non riuscire a vivere al 100% il momento per la concentrazione alla guida, ma spero nel suo valore retroattivo. Andalauwaysa è un centro attivo, ma la stanchezza si fa sentire, una sopa de quenisa, un piatto di papas fritas e alla cama (letto).
Sappiamo che dopo 180 km di sterrato ritroveremo l'asfalto che ci condurrà a Cuzco. Infatti, arriviamo a Cuzco di sera e la Plaza de Armas illuminata e vivace; ritroviamo il turismo di massa perché è da qui che partono le escursioni alla Valle Sagrada e a Macchu Picchu. Per quanto molto bella, Cuzco perde un po' del suo valore a causa dell'orda turistica che richiama da ogni parte del mondo, trasformando una piazza andina stupenda come la Jamel Fna del Sud America.
La bellissima Cattedrale è soffocata da locali con tanto di procacciatori davanti che schiamazzano attirando i turisti al pasto a base di Pizza e spaghetti, relegando in secondo piano l'importanza storica e culturale del luogo; persino il Cristo Blanco che domina la città sembra avere le braccia aperte in segno di rassegnazione a tanto scalpore.
Assurdo il costo del sito di Macchu Picchu (110 $), tanto assurdo da farci decidere che solo uno ci andrà: detto fatto, Manu al sito e io per le vie di Cuzco. Josè il barbiere mi racconta di trent’anni fa e del cambiamento portato dal turismo. E' malinconico e rassegnato (e ha il rasoio in mano…), anche se puntualizza che lo stesso fenomeno ha aumentato il tenore di vita di chi gravita intorno alla città. Fatico per fargli credere che siamo arrivati dall'Italia con la moto e siamo diretti in Cile, ma poi tutto si risolve con un... Roberto Baggio e Berlusconi e… Viva l’Italia!
La Valle Sagrada ci fa conoscere alcuni siti archeologici di grande interesse, Pisac, Urubamba, Col cha e Tullumango; attraverso valli colorate il trekking a causa dell'altitudine si fa sentire, obbligandoci a tappe sempre più frequenti. Lo spettacolo è per gli occhi, i mercati coloratissimi e le bancarelle di Empanada (specie di calzone ripieno di verdure e carne speziatissime) sono di cornice a questa mitica valle.
Siamo vicini alla Bolivia, circa 400 km ci separano dal Lago Titicaca e da Puno, da lì Desaguadero e il confine appunto.
Dopo alcuni tornanti, eccolo apparire in tutta la sua maestosità ma soprattutto blu intenso: questo mi ha colpito, più dell'estensione. Lungo oltre 170 km, ha il primato di essere a 3820 metri il lago navigabile più alto del mondo. Segna il confine naturale tra Perù e Bolivia e la parte più estesa è peruviana. Titicaca, che in lingua Checwa vuol dire "puma grigio", scompone il suo nome in Titi e Caca che geograficamente lega al Perù o alla Bolivia le due desinenze; culturalmente, a seconda se si parla con un peruviano o boliviano e lui a legare la desinenza Titi al proprio paese, perché come in italiano la desinenza Caca assume un significato spiacevole. Il Lago è abitato da due etnie, i Checwa e gli Aymara, ciascuna con le sue usanze ed il suo dialetto. Una delle principali attrazioni è legata alla popolazione degli Uros, abitanti delle isole galleggianti, ma i matrimoni misti con gli indios di lingua aymara stanno provocandone l'estinzione.
La vita di questa popolazione è strettamente legata alla canna che popola il lago, la Totora. Questa, appoggiata a strati ripristinati quando marciscono, ha permesso agli Uros di costruire vere isole fluttuanti; la più grande oltre a numerose abitazioni ospita anche una scuola. I locali si spostano utilizzando tipiche imbarcazioni a forma di canoa che ricordano un po' le imbarcazioni vikinghe.
Vista l'estensione del Titicaca, è presente anche un isola vera e propria, Tacquile, da Puno occorrono circa 3 ore di imbarcazione, ma ne vale la pena anche perché si ha la possibilità di ammirare i diversi colori del lago al tramonto. Tacquile ospita abitanti che, compresi gli uomini, passano il tempo sferruzzando per confezionare cappelli di lana tipici che a seconda dei colori identificano lo stato civile: bianchi = celibe, rosso = sposato. Le donne viceversa realizzano gilet dai colori sgargianti. E' uno dei pochi posti ancora dove gli abitanti parlano il Checwa invece dell'aymara.
Torniamo a Puno solcando le acque del lago che affoga un sole che fino a poco prima ne aveva esaltato i colori. L'aria punge, siamo a 4000 m. Due centimetri di ghiaccio sulla sella, sul serbatoio e sul manubrio ritardano la partenza verso il border, mancano ancora 100 km circa che percorriamo adiacenti al lago che ci conferma quanto è esteso; non ce ne accorgiamo, ma un cartello con su scritto "Bienvenidos a Bolivia" ci lascia alle spalle il Perù e ci spalanca un enorme porta fra salares, lagune e altipiani.
Ma l'avventura continua...

BOLIVIA
Due file interminabili di bancarelle caratterizzate da un entropia particolare delimitano l'imbocco al custom di Desaguadero: pane, formaggi, frutta, indumenti, animali e giocattoli intralciano il passaggio. Inizia anche a piovere. I militari, nonostante siano in pausa pranzo, contrariamente a ciò che capitava in Asia o Africa, si rivelano disponibili e in un tempo brevissimo il rumore del timbro sul passaporto ci da il via libera. Appuro che non scenderò più sotto i 3500 m. e questo non può che rendermi felice, anche il soroche è rimasto in Perù.
Parlare della Bolivia è molto facile in quanto si tratta di un paese dalle mille sorprese.
Questo piccolo gioiello, situato nel cuore del Sud America, è ricco di meraviglie culturali e naturali ed è considerato il Tibet del continente americano a motivo della sua ubicazione maggiormente isolata rispetto alle altre repubbliche dell'America Latina, oltre ad essere situata alle altitudini più elevate.
Senza sbocco al mare, abbraccia il tratto più largo della Cordigliera delle Ande estendendosi attraverso un meraviglioso dedalo di vallate e colline fino alle vaste foreste e alle savane dei bacini del Rio delle Amazzoni e del Paranà; possiede delle zone geografiche che toccano immense vette andine ricoperte di neve e vasti bassipiani in cui cresce la tipica vegetazione della giungla e savana.
Queste terre sono abitate da un popolo forte, che conosce la fatica e la sofferenza ma che non ha perso la gioia, manifestata nelle famose "fiestas", ricche di danze e folklore. Un'altra particolarità è il suo importante passato, come la cultura inca oltre che la musica boliviana, famosa in tutto il mondo; infatti, solo essa costituisce un valido motivo per visitare il paese.
La Bolivia è un viaggio ad alta quota, la maestosità del paesaggio unita al mistero di antiche civiltà e leggende la rende unica così come i famosi mercati: infatti sono luoghi davvero ideali per incontrare gente o anche solo osservare la loro quotidianità. Ci sono mercati di ogni genere, di arte, fiori, alimentari e musicali e molto altro ancora.
La strada solca vallate interminabili i cui colori ravvivano un paesaggio che dal punto di vista naturale non ha molto da offrire.
Pochi km e visitiamo il sito archeologico di Tiwanacho. Subito il museo, poi finalmente una collinetta nasconde ancora sotto la sua terra una piramide e proprio di fronte il Kalasasaya, una specie di fortino in muratura al cui interno ci sono vari idoli (Viracocha) e la celeberrima Porta del Sole, con tutte le sue incisioni che tuttora fanno discutere. Mi fermo a lungo a guardarla. Il resto delle rovine di Tiwanachp non mi sembra eccezionale, Porta della Luna compresa. Usciti dal sito prendiamo qualcosa da mangiare in una delle tante bancarelle che accompagnano parallelamente i binari del treno; per noi invece ancora asfalto, che ci porterà alla capitale della Bolivia, La Paz.
La Paz è la capitale più alta del mondo: posta a 3900 m. si è sviluppata ai piedi di una montagna di cui sfrutta anche le pendici, tanto che si possono trovare, al suo interno, dislivelli di anche 600 m. di altitudine e 10 °C di temperatura. Questa caratteristica regala a La Paz, quando scende il buio e si accendono le mille luci della città, la sembianza di un enorme albero di Natale. Come tutte le metropoli, anche La Paz è dominata dal caos, dal chiasso, dai clacson (suonati raramente per necessità...), dai mille ristori, ma anche dai mille servizi. Quando si arriva in una città come questa si può finalmente fare il punto della situazione ed avere la possibilità di trovare il necessario per organizzare il proseguimento del viaggio senza intoppi. Inoltre, particolare non secondario, si può scegliere che cosa mangiare...
Con oltre un milione di abitanti di cui oltre la metà di stirpe indiana, La Paz è la più grande città della Bolivia situata ad un'altitudine di 3649 metri sopra il livello del mare.
Uno storico spagnolo di nome Cieza de Leòn (vissuto nel 16° secolo) disse: "È un ottimo luogo dove trascorrere l'esistenza. Il clima è mite e la vista delle montagne conduce il pensiero a Dio".
Anche se Sucre rimane la capitale costituzionale, La Paz ha sottratto ad essa buona parte del potere governativo ed è oggi la capitale de facto. La città è adagiata sul fondo e sui pendii di un vasto canyon di quasi cinque chilometri di larghezza che permette la visuale, nelle giornate limpide, sulla vetta innevata del famoso Illimani alto 6402 metri.
A La Paz si può trovare di tutto ed è considerato il paradiso degli acquisti, non solo perché i prezzi sono ragionevoli ma anche per l'ottima qualità dei prodotti. Magnifici sono i manufatti in legno intagliato, la ceramica e l'argento; una particolarità da menzionare sono gli strumenti musicali di ogni genere. Altra particolarità è il tessuto boliviano, una meraviglia riconosciuta in tutto il mondo grazie al manto degli alpaca: essi fanno parte insieme al guanaco, vigogna e lama, della famiglia dei camelidi sudamericani e sono originari delle Ande; differentemente dai loro cugini cammelli e lama, gli alpaca non vengono usati come animali da trasporto. Piuttosto, gli alpaca sono conosciuti per il loro vello e la loro docilità. Il vello degli alpaca è apprezzato per la sua leggerezza, lucentezza e tocco setoso, nonché per le sue incredibili proprietá termiche. Non a caso, i tessuti realizzati con questa fibra naturale erano un tempo riservati per vestire gli imperatori inca.
La Bolivia che ho sempre immaginato, quella dei salares, delle lagune e dei deserti, non è molto lontana: lì, nel cuore di questo Paese, non sono molte le genti che hanno scelto di viverci. Ci troviamo infatti nel mezzo di pianure spesso ondulate, di colline che si alzano sempre più sino a trasformarsi in veri e propri massicci rocciosi mano a mano che si procede verso la cordigliera andina. Siamo immersi in spazi aperti che fanno vedere orizzonti lontani, che paiono agli occhi ancor più lontani grazie all'aria sempre limpida. La vista di questi orizzonti non è affatto monotona: il paesaggio è generalmente piuttosto vario, la loro linea dà comunque l'idea di un uguale infinito. Questo è ancor più vero se mi sposto in un punto qualunque di questo orizzonte poiché, anche da lì, la vista tutt'intorno è praticamente la stessa: si tratta di campi nudi e rocce allo scoperto che a volte paiono fare a gara per mostrare i colori più vivi e le forme più strane. Più di una volta l'immensità del paesaggio, l'irregolarità delle piste, mi ricorda la steppa mongola; Bolivia terra di nessuno, senza limiti. Almeno così sembra... Il clima è semiarido, piove molto poco e la vegetazione si è nel tempo ben adattata a questo clima ed ha imparato a lottare con il vento che è considerato un elemento essenziale della Bolivia. Ci sono comunque lunghi periodi senza il minimo alito di questo vento, con un silenzio che regna ovunque e che rimane impresso come un ricordo indelebile. L'aria è sempre pulita e anche se la temperatura in genere è molto bassa, il sole, nelle ore più calde, la rende piacevolmente tiepida. Il clima qui è davvero particolare: d'inverno è molto freddo, soprattutto al Sud, e in questa stagione tutto ciò che è acqua ghiaccia poiché si possono raggiungere anche 20/30 C° sotto lo zero. Ciò nonostante, in estate si trovano giornate veramente calde: è un po' come succede da noi in alta montagna, anche se c'è freddo, non lo si sente. Queste condizioni esaltano i colori che sono sempre molto forti, il giallo del mio serbatoio sembra non essere lì per caso.
Potosì, la ricca Potosì, considerata come "il tesoro del mondo", "l'invidia dei Re", deve il suo splendore, così come le sue tragedie, alla presenza dell'argento, servito nel passato ad aumentare la ricchezza spagnola e il benessere della sua monarchia. Per me Potosì indica anche la fine dell'asfalto e finalmente l'inizio della pista che mi porterà a conoscere i famosi altipiani sul cui sfondo comparirà il Salar de Uyuni. La vegetazione è sempre più rada e bassa al livello del suolo: soprattutto più a sud, gli arbusti sono pochi e piccoli d'altezza. Non ci sono alberi, solo cactus (quei pochi che sono riusciti a sopravvivere...), piantati dall'uomo intorno ai rarissimi poderi che il più delle volte sono abbandonati. Anche questa vegetazione contribuisce ad aumentare il senso degli spazi aperti della Bolivia, e questo fin dai secoli passati, ai tempi di Darwin. Dove tutto è infinitamente grande però, le cose piccole assumono, perchè così rare, una estrema importanza.
La pista che da Potosì porta ad Uyuni è spettacolare: guadi, fiumi, lagune e lama che pascolano nei paraggi di laghetti i cui colori sono così sorprendenti da sembrare artificiali, creati al computer. E' però una pista impegnativa; si sale a 4300 m. attraverso mulattiere di pietre e sabbia che costringono più volte Manu, seduta dietro di me, a scendere e camminare. Io fatico molto ma lo spettacolo è tale da rendermene conto soltanto la sera nel sacco a pelo.
Dopo mille tornanti, tante soste e altrettante fotografie, come per magia una luce bianca mi sgrana gli occhi, è ancora lontano ma il Salar già si vede. Il lungo rettilineo sterrato conduce ad un agglomerato di case, è Uyuni; dietro di me, con poco ritardo solo la polvere alzata dalle ruote della moto. Un cartello con su scritto "Bienvenidos a Uyuni" mi dà accoglienza nel tardo pomeriggio, poco dopo arriva anche il buio, è un bel tramonto che corona una bellissima giornata e motociclistamente un percorso da ricordare.
Uyuni è sotto molti punti di vista una sfida climatica, tanto è vero che al suo nome si associa la frase "muy, muy frio" e posso confermarlo. Davanti, 12000 km quadrati di piastrelle esagonali di sale, è questa la forma del sale quando cristallizza. Il Salar è bianco, di un bianco accecante, che, giocando con il sole, dà quasi fastidio alla vista. Guidarci sopra è ineffabile, all'inizio provi insicurezza, forse perché sembra di stare sulla neve, poi al contrario ti spingi ad alte velocità per la compattezza della superficie. I tasselli delle gomme quasi non si sentono, nonostante sia una bellissima sensazione ed il Salar sia molto esteso, mi accorgo di essere molto spesso fermo, molte volte seduto appoggiato alla moto, chissà forse così il paesaggio non finisce troppo in fretta.
Una rotta ricavata in una distesa che a 360 gradi è formata da sale, e una perenne nebbiolina, pare di vedere il mare a pochi chilometri, in realtà è solo un'illusione dovuta appunto ad un velo di nebbia all'orizzonte che si mescola al colore del sale dando origine ai famosi miraggi. Per chilometri e chilometri mi sono illuso di vedere l'oceano e il movimento delle onde, alcune navi che lo solcavano, per poi capire appunto che era solo un miraggio e qualche cespuglio in lontananza. Il mare però, molti anni fa c'era, era il Pacifico. A testimoniarlo arriva, insidiosa, ribelle l'isola del Pescado, chiamata così data la sua forma di pesce e conosciuta anche come Isla Inka Huasi o casa degli inca.
La Bolivia ti prende nei suoi spazi senza fine, cerco sulla pista le tracce di altri transiti, di altri viaggiatori... Sulle piste che percorro il transito è così raro che una traccia sconosciuta viene esaminata con attenzione, come nei films degli indiani, dove gli stessi indiani interpretavano le tracce ed erano capaci di dire da esse chi era passato, quanti e quando. Non è fantasia, in Bolivia è realtà effettiva, anche io imparo a leggere tanto dalle tracce, o meglio ad interpretarle, anche se nel mio caso il più delle volte si tratta di jeep o camion. Che tipo di veicolo, verso dove andava, da quanto tempo approssimativamente è passato, queste analisi mi aiutano ad autoconvincermi che la pista è quella giusta.
Le mappe esistenti sono sempre molto incomplete e troppo generiche. Le strade e piste marcate spesso non ci sono o, al contrario, molte volte non sono segnalate. E' di grande aiuto il punto GPS.
San Juan è una cittadina tranquilla, composta da agglomerati di capanne e un negozio che vende di tutto. Le persone conservano la propria cultura tradizionale e lo si nota soprattutto nelle donne; è singolare il fatto che sono molto diverse fra loro.
Di nuovo in sella, l'ultimo tratto è davvero insidioso e difficile, siamo a 5000 m. e la pista è delimitata da grandi cumuli di neve ai fianchi, ciò che si vede è speciale. Dopo chilometri di paesaggio secco, senza un filo d'erba verde, se non qualche alberello e cespuglio, arrivo alla riserva della Laguna Colorada. Il sole sta per tramontare donando all'acqua un colore viola, la luce è indescrivibile, nonostante il freddo mi fermo a fare una foto che per una serie motivi mi rimarrà molto impressa, anche perché il rullino finisce e il cambio fa si che il buio mi sorprenda, circondandomi di un color nero spezzato solamente dal faro della moto, ma che soprattutto non ha niente a che vedere con i colori di pochi minuti prima.
E' impossibile trovare la pista, nonostante alla riserva mi avessero detto che il rifugio era a soli 14 km e che bisognava seguire i margini della laguna tenendoseli a destra. Niente da fare, non vedo niente, neanche la freccia del GPS, che con tutto quel buio mi dà meno sicurezza e mi affido così al classico sesto senso. Vagabondo per circa due ore in mezzo al nulla, poi una luce quasi si accende anche se era lì da subito. Mi avvicino e quando mi accorgo che la pista diventa segnata non occorre essere un indiano per capire che il rifugio è vicino. E calata la notte, così per alleviare la tensione mi avvicino alla riva della laguna, osservo le stelle, ascolto il rumore dell'acqua, e sospiro per tanta bellezza, poi, scaricata la moto, dritto nel sacco a pelo, senza cena.
Poco dopo un rumore assordante attrae la mia attenzione, è un camion vecchissimo, ormai divorato dalla ruggine che non avevo neanche notato al mio arrivo. Fa freddo eppure sdraiata di sotto c'è una persona, minuta, che cerca di rianimarlo. Anacleto mi racconta che fa il muratore e che a quel camion è molto affezionato perchè apparteneva già al nonno. Ha sette figli e vive in un villaggio a sette ore dalla laguna, talmente piccolo che pur transitandoci non me ne sono neppure accorto. Mi racconta della sua vita e persino di quanto guadagna, mi colpisce la semplicità di come lo fa e soprattutto quella della sua persona. E' preoccupato perché il suo mezzo ha poco olio e lui vuole tornare a casa nella notte per poter iniziare a lavorare al mattino. L'olio non è un problema, gli dò quello della moto a patto che lui rimanga lì la notte, la strada è bruttissima e insidiosa già di giorno. Mangiamo del formaggio e del pane e lui continua a parlare e a voler sapere, senza essere curioso; mi stupisce quanto mangia nonostante il fisico minuto. Passeggiamo in questo scenario che colpisce solo me, percepisco l'odore del freddo. Passiamo una bellissima nottata, e al mattino dopo aver preso il matè ci salutiamo. La Laguna Colorada non solo mi porterà alla mente dei colori e paesaggi indimenticabili, ma soprattutto mi farà ricordare di Anacleto, un piccolo grande uomo che solamente in un posto dove contano i valori veri è possibile incontrare. Un proverbio peruviano dice: se sai ascoltare, impari; Anacleto è in grado di insegnare molte cose, soprattutto dare grande valore alle cose che si hanno, in particolare a quelle semplici, basta ascoltarlo.
Alla mattina, la laguna è uno specchio, l'acqua che non è gelata è di color azzurro intenso e specchia i fianchi innevati delle montagne circostanti. Qualche fenicottero coraggioso passeggia nell'acqua gelida che comunque offre temperature sempre più alte che all'esterno. La stanchezza distoglie l'attenzione, e aprendo gli occhi ciò che vedo è un paesaggio nuovamente arido, ora affiorano montagne innevate, paesaggi lunari, prati dai fili color dell'oro e il nulla.

”Non esiste vascello che come un libro
ci sa portare in terre lontane
nè corsiero come una pagina
di scalpitante poesia.
E' un viaggio che anche il più povero può fare
senza il tormento del pedaggio”

Ancora pista, aria limpida e colori, le montagne sembra li sfoggino come ad una sfilata; se tutte le volte che ho l'istinto mi fermassi a fotografare non avrei rullini a sufficienza ed arriverei in Cile chissà quando. Arriviamo alla Laguna Blanca verso mezzogiorno e lì vicino, quasi a toccarsi, la Laguna Verde spiega perché si chiama così. La Bolivia ha esaltato il concetto di spazi infiniti e di paesaggi differenti, solo la Mongolia mi ha dato paesaggisticamente le stesse emozioni. Il mitico Condor Pasa a 5300 m. mi proietta verso Aytocayon, in mezzo al nulla una casupola con tanto di bandiera e due giovani militari armati di fucili senz'altro più vecchi di loro mi intimano un mesto "Alt! Passport por favor". E' istintivo, mi giro e prendo coscienza della fine di un paesaggio memorabile, a fare da guardia un innevato Licancabur che con la sua mole sarà presente ancora per un lungo tratto in Cile.

CILE
Settanta km di strada separano Aytocayon da San Pedro de Atacama. Niente di strano, anzi, dopo sei km dal classico cartello "Bienvenidos a Chile" lo sterrato finisce e inizia un tappeto di asfalto cileno, e in questi settanta km ci sono tre o quattro curve. La cosa strana è che Aytocayon è a 4600 m. e San Pedro de Atacama a 2400. Risultato, una picchiata di 2200 m. in pochi km. Il rischio non è più l'altidudine ma… l'embolia!
Il significato della parola Cile, nella lingua degli indios Aymara, antico popolo andino, significa "là dove finisce la terra". Geograficamente, il Cile è infatti una striscia di terra sottile, stretta tra il Pacifico e le Ande, larga in media 180 chilometri e lunga ben 4300, una mostra unica di ambienti e suggestioni naturali: deserti di sale, fiordi ghiacciati, steppe ventose e vulcani innevati, mari tempestosi e isole sperdute.
La parola Cile, nel linguaggio politico invece, evocava fino a qualche tempo fa gli spettri della dittatura militare. Il golpe contro Allende, i diciassette anni di repressione spietata, i desaparecidos. Nel 1990 però è tornata la democrazia ma il generale Pinochet è sempre lì: senatore a vita e ancora punto di riferimento per i settori più conservatori della società cilena. A intervalli quasi regolari si ode il rumore degli stivali dei carabineros, si levano le grida di chi attende giustizia per i crimini subiti, e viene da chiedersi se il Cile non sia tuttora una democrazia parzialmente sotto tutela. Eppure il Cile di oggi è considerato il Paese più ricco e stabile dell'America Latina, tanto che molte multinazionali lo hanno scelto come sede per i propri uffici continentali.
Appena lasciata la dogana cilena, mi accorgo subito che il paesaggio è cambiato, in comune solo il vulcano Licancabur, per il resto ero troppo ben abituato. E' vero che ormai la meta è Santiago per provvedere al ritorno della moto in Italia (via nave) e del nostro (via aerea), ma confido nello spettacolo del deserto di Atacama.
Il deserto più arido del mondo, incorniciato dall'imponente cordigliera delle Ande ed i suoi vulcani innevati - che sorpassano i 6000 metri di altezza - è uno dei posti più visitati del Cile. Turisti da differenti paesi della Terra convergono in questo luogo, che conserva la magia dei suoi antenati con importanti attestazioni della cultura atacamegna - il cui culmine fu nel secolo XII, prima di essere conquistata dagli inca - con incredibili formazioni geologiche che sfidano contemporaneamente il vento e con una fauna scarsa ma unica.
Per il fatto di essere una regione desertica possiede un'oscillazione termica importante. È cosi ci si trovano notti gelate e giorni caldi in estate, un po’ più freschi in inverno.
Non rimango deluso quando arrivo a San Pedro: sembra un posto surreale, la burocrazia in dogana è diversa, controllo meticoloso dei documenti, del carnet ed infine anche dei bagagli. La signorina che infila le mani nei bauletti di alluminio desiste quasi subito, lo si immagina il perché, dopo circa un mese di vagabondaggio, sono io stesso a provare fastidio a cercare qualcosa di pulito da indossare. La strada principale di San Pedro de Atacama conta appena due isolati dove si concentrano i numerosi ristoranti - che offrono gastronomia internazionale e cilena -, le agenzie di turismo pullulano ovunque, negozi di vendita di artigianato, un paio di magazzini, qualche posto per affittare biciclette e l'ufficio di telecomunicazioni.
Vale la pena visitare il museo antropologico, la cui maggiore attrazione è Miss Chile, una mummia di duemila anni dai capelli ancora perfettamente intrecciati. E nei dintorni, le rovine di antiche fortezze indie, pukara, e la pianura di cristalli del Salar de Atacama, il più vasto deposito salino del Cile. L'antica Chiesa di San Pedro, dichiarata monumento storico nazionale, la fiera artigianale o semplicemente le sue costruzioni di mattone crudo e pietra. Il resto della città non offre maggiori alternative di servizio. Un ufficio di cambio, i carabineros, la polizia internazionale, un registro civile e la dogana, oltre a dei semplici alberghi. Non essendo collegata dalla rete elettrica del Cile, San Pedro possiede dei generatori che somministrano luce dalle 8 fino alla 1.30; durante la notte solo alcuni albeghi possiedono generatore proprio, questo caratterizza e giustifica gli enormi falò che occupano la stanza centrale dei locali. Esiste un solo dispensatore di benzina e il seguente più vicino si trova a Calama dove si trovano tutti gli altri servizi. Pertanto, non è da rimpiangere il clima che si vive a San Pedro di Atacama, da piccolo paese, dove tutta la gente si conosce e si può percepire quella solidarietà che galleggia nell'aria, oggi dimenticata nella voragine delle grandi metropoli. Questa magia si palpa ogni notte nei distinti pubs e ristoranti alla luce di candele o di un gran focolare, circondati da allarmati europei, canadesi ed alcuni latinoamericani. Pare di essere in una città del vecchio West, le case sono basse le strade sterrate e polverose, i locali hanno le porte a battenti, mancano i cavalli, ma in compenso c'è la moto. Mi colpisce il numero di agenzie di viaggio e locali, ovunque, uno di fronte all'altro. E' bizzarro, siamo nel luogo più arido della terra, non piove da 400 anni: il deserto di Atacama.
La sosta prevista è di due giorni, approfitto per fare un po' di manutenzione alla moto, ripulirla dal sale boliviano, e controllare di non aver perso nessun bullone con le infinite sollecitazione che ha subito in Bolivia. Abbandono volentieri la moto per fare il turista e girovagare per le vie del paese senza meta, mangiare infinite empanadas, e perché no, scrivere qualche cartolina. Le attrazioni più significative del deserto sono tutte nei paraggi, così organizziamo qualche escursione, tassativamente a piedi.
Consapevole del fatto che gli ultimi giorni dove è possibile visitare qualcosa di turistico si trovano a San Pedro, e nonostante ci siano ancora 1800 km, realizzo, come accade sempre, che il viaggio è giunto al termine.
Con la testa libera dai pensieri, cerco di rivivere alcuni momenti che mi sono rimasti impressi, mentre aspetto le 15, ora in cui un pulmino ci porta nella Valle della Luna.
I ricordi sono talmente tanti e disordinati che non riesco a focalizzarne nessuno per più di qualche secondo. E' buon segno, vuol dire che sono davvero tanti. Su di un nastro d'asfalto perfetto ci insinuiamo all'interno del deserto, il paesaggio è nuovamente esclusivo, surreale, conformazioni rocciose erose dal vento a dall'acqua creano figure di animali, che sembrano forgiate dalla mano di uno scultore esperto. Nella Valle della Luna, c'è una concentrazione di sale tale da rifornire l'umanità intera, anche senza tener conto del Gran Salar.
Il ragazzo che ci accompagna recita un discorso che sembra aver imparato a memoria, l'armonia del paesaggio spesso non va d'accordo con il suo dire, anzi, quasi lo sminuisce, così cerco di immaginarmelo aiutandomi con la guida. I colori cambiano man mano che il giorno va a finire. Nel tardo pomeriggio saliamo su di una grande duna per vedere la luna che si alza, sarà lei la prima donna della serata, e come tante donne si fa aspettare più del previsto. Però quando arriva è un esibizione, si posiziona proprio di fianco al vulcano Licancabur che gli cede la scena. Poco prima, la dipartita del sole aveva lasciato sulle pendici del Licancabur un color rosso intenso, la situazione che si crea fa in modo che non si sa cosa guardar prima. Sono dentro ad una cartolina!
E' solamente con il tramonto che realizzo perché questo luogo si chiama "Valle della luna", le zone d'ombra con il color rosso del tramonto identificano un paesaggio desertico, spoglio e difficile.
La temperatura è scesa in maniera repentina, il buio anche e con l'aiuto di una pila guadagniamo il pulmino per far ritorno all'hotel, anche in questa occasione la nostra guida non riesce a dire niente di personale ma in spagnolo recita alcune frasi fatte.
Ora mi aspettano tre grandi trasferimenti verso Santiago; la prima tappa è Tal Tal, e lungo la Panamericana nei pressi di Antofagasta, si fa notare una scultura che si erge dal deserto: è la "Mano de piedra" un inquietante mano di 12 m. che uno scultore sconosciuto ha scolpito una decina di anni prima senza un significato particolare. Poi solo asfalto, di fianco l'Oceano Pacifico, la costa è priva di interesse, e torna la garua che avevamo lasciato a Lima. A Coquimbo, nota meta balneare, deserta visto la stagione, approfittiamo dei prezzi per concederci finalmente un hotel degno del nome, assaporiamo per qualche istante la vacanza intesa come relax e riposo.
Negli ultimi km la media di velocità diminuisce, quasi inconsciamente per fare in modo che la vacanza duri di più; arrivato a Santiago devo occuparmi della spedizione, prassi noiosa ma obbligatoria.
La città, nonostante le dimensioni, presenta un traffico pressoché ordinato; arriviamo in centro senza difficoltà, pare di essere in una città americana, lo stile è quello, Mc Donalds, Pizza Hut, grandi centri commerciali e auto in perfetto stile occidentale. Mi rendo conto di come sono lontani gli infiniti spazi boliviani.
Unica vera megalopoli cilena, al passo con le sue sorelle sud-americane, Santiago subito mi deprime. Il traffico caotico e le grandi avenide che sembrano non avere mai fine. Ovunque i grattacieli si affiancano a caseggiati coloniali. Poi, la maestosità delle Ande, il clima solitamente mite e la scoperta dei numerosi parchi e piazze coloniali che danno respiro alla città, mi incoraggiano.
Per muoversi c'è la metropolitana e il servizio taxi. La via principale downtown è l'Avenida Bernardo O'Higgins, brulicante di negozi, bar e fast food. Una immancabile sosta al palazzo del Governo, il famoso La Moneda, e quindi, deviando per le vie pedonali, ecco Plaza De Armas, assolutamente da vedere.
Se la vita diurna si concentra tutta lungo l'Avenida principale, quella dello shopping e notturna, fatta di ristoranti, locali tipici e negozietti è sicuramente nei quartieri di Providencia e Bellavista, un po' decentrati ma facilmente raggiungibili in taxi. Nel quartiere Bellavista, sulla morbida collina di San Cristobal, vi è un altro dei più noti quartieri di Santiago, qui è possibile comprare oggetti e monili in lapislazzulo direttamente dagli artigiani locali. A "La Chascona", una delle case del famoso poeta Pablo Neruda, oggi è la sede della Fondazione omonima, che ospita oltre a diversi testi del poeta anche alcuni quadri della sua pinacoteca.
Poco distante, il villaggio di Pomaire è un piccolo avamposto del passato dove gli artigiani offrono un bel campionario di produzioni artistiche di vario genere. Sempre a Pomaire in genere si possono trovare fossili a prezzi interessanti.
Santiago è lo specchio del momento felice che vive il Cile, con interi quartieri nuovi che avanzano nella vallata. La capitale non è bella, ma è il cuore, un po’ nordamericano, un po’ andino, del paese. La casa di Pablo Neruda alle pendici del Cerro San Cristobal, una delle tre case dove visse il poeta in Cile, è ora un un museo aperto al pubblico, ricca di reperti e ricordi della sua esistenza di giramondo sensibile. Le altre due sono sulla costa, di fronte all'oceano: la Sebastiana, a Valparaiso, la città delle quarantuno colline e delle funicolari che la collegano al vecchio porto e, un centinaio di chilometri più a sud, la casa-labirinto a forma d'imbarcazione di Isla Negra. L'ultima e la più amata, zeppa di libri, conchiglie e polene, nel cui giardino Neruda è sepolto, accanto alla compagna Matilde Urrutia, "sopra il mare fiorito".
L'itinerario tra le case di Neruda è uno dei tanti possibili nel Cile degli scrittori. Terra di scrittori e di premi Nobel non solo Neruda insignito nel 1971, ma anche la poetessa Gabriela Mistral, premiata nel 1945. E di romanzieri contemporanei di enorme successo, come Isabel Allende, per esempio, grande narratrice di saghe familiari tra realismo e magia. E Luis Sepùlveda, l'ultimo fenomeno, cantore appassionato della natura e dell'umanità del "mondo alla fine del mondo". Il suo nome è legato soprattutto alla Patagonia, ma nei suoi libri ha raccontato anche l'anima rarefatta e spaziosa dell'altro Cile, altrettanto remoto ma meno conosciuto.
Intanto, dopo aver fatto il turista, concretizzo l'appuntamento con lo spedizioniere e in poco tempo la moto è dentro al container, via mare attraverso lo stretto di Panama raggiungerà Genova circa quaranta giorni dopo.

Beh, ora il viaggio, questo viaggio, è proprio finito.
Ogni viaggio è diverso dal precedente e dal successivo, e non solo per le diverse peculiarità geografiche. Un viaggio deve il più possibile essere vissuto nella sua totalità, i momenti negativi o difficili devono servire da bagaglio, i momenti belli devono essere ricordati, perché non si vive di ricordi, ma sicuramente i ricordi ti fanno vivere meglio, meditando sempre che la cosa più abbondante sulla terra, è il paesaggio.
Questo viaggio, come gli altri, mi ha lasciato grandi ricordi a volte addirittura malinconici per la genuinità della gente, la semplicità della loro vita e la fierezza del loro carattere.
Infatti proprio in questi luoghi circa 50 anni fa, un giovane di nome Ernesto Guevara, non ancora detto il "Che", in sella ad una moto denominata Poderosa arrivò anche lui fino a Santiago del Cile, così come in Turkestan più volte ripercorrevo nel casco l'itinerario di Marco Polo a Samarkanda, anche questa volta ho pensato come poteva essere un viaggio in queste zone con una moto non sicuramente attrezzata come la mia.IL CHE E LA “PODEROSA”
Nell'ottobre del '51, a 23 anni, Ernesto Guevara decide di partire con la Poderosa II, una motocicletta Northon 500, con l'amico Alberto Granado per visitare il "suo continente"; scrive: "Era una mattina d'ottobre, ed io ero andato a Córdoba approfittando delle vacanze del 17. Bevevamo mate dolce sotto il pergolato della casa di Alberto Granado e ci raccontavamo le ultime novità sulla nostra 'vita da cani', mentre cercavamo di sistemare la Poderosa II. [...] Sulle ali del sogno arrivavamo in paesi remoti, navigavamo per i mari tropicali e visitavamo tutta l'Asia".
Nel febbraio del 1952 è in Cile. Si devono fermare a Lautaro per un guasto molto grave alla Poderosa. Racconterà Ernesto: "La moto era più o meno sistemata e saremmo partiti il giorno dopo, così decidemmo di andare a bere e far baldoria con alcuni amici del posto. Il vino cileno è buonissimo! Io bevevo a una velocità straordinaria, così quando si trattò di andare al ballo del paese, mi sentivo capace di grandi imprese. [...] La compagnia era gradevole e gli amici continuavano a riempirci lo stomaco e la testa di vino. A un tratto, uno dei meccanici dell'officina, particolarmente gentile, mi chiese di ballare con la moglie perché tutto quel bere gli aveva fatto male; la donna era calda ed eccitata, ed anche a lei scorreva vino cileno nelle vene. Io la presi per mano per portarla fuori e lei mi seguì docilmente [...] ma, quando si rese conto che il marito la guardava, cambiò idea e disse che doveva rimanere; io, che non ero più in grado di intendere ragione, iniziai un tira e molla che ci portò vicino a una porta d'uscita. Ormai ci guardavano tutti e la donna mi diede un calcio; io continuavo a trascinarla, finché perse l'equilibrio e cadde rovinosamente a terra. A quel punto io e Alberto capimmo che era meglio darcela a gambe; ci mettemmo a correre velocemente verso il paese, seguiti da uno sciame di ballerini furenti..."
La moto, molto amata dal Che, dopo vari tentativi di riparazione si rompe definitivamente a Santiago del Cile ed Ernesto e l'amico, seppure a malincuore, l'abbandonano e decidono di continuare a piedi. In quel viaggio si consolida la sua abitudine di registrare le proprie impressioni su carta: la manterrà per sempre. Lavorano qua e là, come capita, finché s'imbarcano come marinai su una nave diretta in Perù. Sono passati sei mesi dalla partenza e a Lima fanno amicizia con un medico che li conduce nel lebbrosario di Huambo a più di duemila metri, in piena selva; poiché Ernesto subisce un attacco di asma, l'amico Alberto fa in modo che possa viaggiare sino al lebbrosario su un cavallo. A Huambo si commuove per le condizioni drammatiche che stanno vivendo gli ammalati di lebbra; li visita e alla fine scrive: "Le persone che se ne fanno carico svolgono un lavoro davvero meritorio, perché la situazione generale è disastrosa. In un piccolo spazio di meno di mezzo ettaro, due terzi del quale riservato ai malati, si svolge la vita di questi condannati che aspettano come liberazione la morte".

Un commento in “La Transandina, sulle tracce del Che
  1. Avatar commento
    luca
    03/06/2006 16:47

    peccato che dal racconto non si riesca a capire che il viaggio era organizzato e viaggiavate con altre 10 moto .Per un attimo abbiamo pensato che il salar era stato attraversato in solitaria senza auto d'appoggio, ma parlando con alcuni vostri compagni di viaggio abbiamo saputo che non è cosi. ciao

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