Negli ultimi 4 anni la Namibia è stata una meta molto vicina, ma sempre mancata, per i nostri viaggi, per cui non ci siamo trovati impreparati ad organizzare questo viaggio in poche settimane viste le conoscenze già acquisite in passato.
Così dopo aver studiato in linea di massima l’itinerario decidiamo di noleggiare un 4x4 che ci servirà soprattutto per la zona del Ruacana, ma sarà anche utile per la tenda montata sul tetto che sopperirà ai lodge nei luoghi di maggiore afflusso turistico.
Decidiamo di concentrare la maggior parte del viaggio nel Nord del paese, sicuramente più “africano”, cercando tra l’altro mete un pò fuori da quelle classiche, come il centro di riabilitazione dei ghepardi di Otjiwarongo e il Save the Rhino Trust nel Damaraland.Così a Windhoek, ancora scombussolati dalle ore di volo, ci immettiamo con la nostra gigantesca jeep nella prima rotonda al contrario rispetto ai nostri standard, cominciando così i primi dei chilometri 4000 che percorreremo in totale.
Ci mettiamo poco ad accorgerci che le città sono molto più sicure di quelle dei paesi vicini, e la cosa ci tranquillizza molto, memori di ciò che abbiamo visto in Tanzania o Etiopia.
La pacificazione delle parti avvenuta dopo gli eventi bellici che hanno caratterizzato il periodo dell’indipendenza, che comunque hanno interessato solo una zona limitata del paese, e la poca densità abitativa, ha fatto sì che ci sia stata una relativa spartizione delle risorse. Sebbene sia da ammettere che la maggior parte della popolazione nera non ha tuttora accesso ai centri di potere economico, fortunatamente le diverse etnie non hanno dato seguito alle assurde guerre fratricide diffuse nel continente.
Dopo un’ottima cena al Joe’s Beer passiamo la mattinata successiva a fare la spesa e soprattutto negli uffici del NWR, dove scopriamo, come sospettavo, che si riesce a trovare alloggio nei parchi nazionali da loro gestiti (Etosha e Sesriem), nonostante dalle loro mail ricevessimo dei laconici “fully booked”.
Questa giornata preparatoria si rivelerà poi quasi l’unica senza sveglie all’alba.
Già il giorno successivo ci attende l’incontro con i ghepardi al Cheetah Conservation Fund, centro nato dalle amorevoli idee della Dr Marker, che si occupa dello studio e della salvaguardia di questa specie, visto che recupera gli animali feriti dai proprietari di fattorie della zona e, nei casi possibili, li reintroduce nelle aree protette.
Qui oltre a visitare l’interessante museo sulla storia del ghepardo, abbiamo preso parte ad alcune attività, quali l’esercitazione e la riabilitazione alla corsa di alcuni felini, cosa che ci ha lasciato a bocca aperta per l’emozione.
Abbiamo anche accompagnato un tutor nel giro quotidiano di controllo, scoprendo i tantissimi aspetti della struttura e degli obiettivi del CCF e le difficoltà che questi mammiferi (la sola Namibia ne ospita il 20% della popolazione mondiale) incontrano a causa della limitazioni dei loro habitat a favore delle farm.
Certo fa specie vederli vivere in semi cattività, ma considerando che il loro territorio naturale sta sparendo, bisogna encomiare il lavoro intrapreso da questo Centro, sperando che i loro metodi possano permettere alle future generazioni di tornare alla piena libertà.
Il ricordo forse indelebile della giornata è stato quando la nostra guida ci ha fatto scendere dall’auto in una radura dove siamo stati circondati da diversi ghepardi: osservare i loro limpidi occhi arancioni a distanza di solo un paio di metri è stata un’esperienza che ci ha riempito il cuore.
E’ ora di lasciare il CCF perché il nostro viaggio ci regala tre giorni di lunghi e solitari game drive percorsi a 20km orari sulla pianura attorno al Pan nell’Etosha.
Qui i nostri sguardi hanno cominciato a perdersi nel lontano piatto orizzonte, tanto che il tempo sembrava fermarsi durante le soste davanti alle pozze, quando assistevamo al lento procedere degli animali in che attendevano del proprio turno per abbeverarsi.
Tra i tanti appostamenti come potremo dimenticare l’avanzare lento e sospettoso di cinque rinoceronti di notte alla pozza di Halali: il loro scomparire e ritornare sotto la luce della luna ci ha fatto paragonare questo spettacolo a quello degli attori di teatro che si presentano a più riprese sul palcoscenico per ricevere applausi.
Siamo quindi dispiaciuti e restii ad andarcene quando ci presentiamo al gate nord del Parco, anche se allo stesso tempo temiamo la tappa odierna che ci porterà a Swartbooi’s Drift con gli ultimi 50km di strada presentata come molto accidentata.
Riusciamo però a trovare il tempo per fermarci all’interessante museo di Nakambale, gestito dalla popolazione locale e realizzato su una vecchia missione fondata da un pastore finlandese, che, anche grazie alle sbiadite ma esplicative fotografie esposte, è riuscita a trasmettere la vita dell’epoca oltre ad offrirci uno sguardo sulle tradizioni locali.
Questa zona del paese, l’Ovamboland, è una Namibia molto diversa da quella che vedremo in seguito: notiamo un susseguirsi di città popolose e di spazi verdi che, grazie ai molti fiumi (in questa stagione però quasi in secca), si differenzia dall’aridità del resto del paese.
Qui i residenti bianchi quasi non si vedono e in effetti si capisce perché la regione sia stata la culla della volontà di indipendenza verso il regime segregazionista sudafricano.
Con questi pensieri arriviamo a Ruacana, dove, oltre alle indicazioni per oltrepassare il confine angolano, troviamo la rassicurante indicazione per il Kunene River Lodge, che precede di poco la terribile salita che il nostro 4x4 supera brillantemente nonostante i miei timori iniziali.
Credo che questo difficile tratto di strada sia il giusto preludio per meglio apprezzare la bellezza del Lodge, dove si respira una pace incredibile e dove la veranda sul fiume è già da sola una fotografia.
Approfittiamo di questa atmosfera, dove il tempo sembra scandito da eventi ritmicamente ripetitivi, come la visita pomeridiana delle dispettose scimmie, per rilassarci un paio di giorni; invece del rafting, optiamo per navigare il fiume nella parte sua più tranquilla e panoramica.
Lasciamo il KRL per proseguire verso nord direzione Epupa Falls, non prima di avere fatto una non programmata sosta alla scuola primaria di Epembe, dove il professore ci ha raccontato alcune realtà della zona, trovandosi interessato ai nostri diversissimi modi di vivere e meravigliandosi che in Italia non esistono questi sterminati spazi aperti e che gli indigeni sono solo di pelle chiara.
Nella scuola rincontriamo gli Himba, timorosi perché forse immersi in un ambito poco naturale, ma sicuramente più veri di quanto visto nei villaggi, tanto che non credo capiti loro spesso di interagire con i turisti se non per le foto di rito.
Questa sosta ci fa sembrare la strada per le Epupa più lunga di quanto lo sia in realtà, cosa che però ci fa apprezzare lo splendido spettacolo offerto da queste cascate al tramonto.
Dopo esserci accomodati al camping affrontiamo un sentiero che ci porta ad un promontorio dal quale si hanno splendide vedute dell’estensione delle cascate, da dove attendiamo così la fine della giornata; scrivere questi pochi appunti in riva al Kunene, di fronte all’Angola, scrutando questi orizzonti è riappacificante.
Il giorno successivo ci aspetta una levataccia come al solito, dato che abbiamo in previsione di arrivare sulle montagne del Grootberg, dove abbiamo prenotato un lodge contattato dall’Italia e conosciuto per la sua ecosostenibilità, salvaguardia del territorio e soprattutto per far parte del circuito della conservazione dei rinoceronti.
Ci arriviamo dopo una lunga tappa, ma nonostante stanchissimi rimaniamo estasiati davanti alla vista che si apre davanti alla nostra camera incastonata sulle pendici del canyon: il tramonto poco a poco accende di rosso le sue pareti facendo calare un silenzio assordante, preludio di un freddo, terso e scintillante cielo stellato.
La mattina seguente visitiamo l’interno del canyon, riserva privata gestita dal Lodge, accompagnati da una guida che, attraverso un’antenna telemetrica, ci assicura che ci avvicineremo ad un rinoceronte.
La giornata passa con diversi avvistamenti di animali, ma con l’assenza del personaggio principale (ce ne sono quattro nella riserva), tanto che in minima parte restiamo delusi.
Questo finché le nostre guide non intravedono delle tracce fresche nel terreno e si incamminano solitari, lasciandoci sulla jeep all’ombra di un’acacia.
Passiamo così una buona ora attorniati dal caldo e dalle innumerevoli e fastidiosissime mosche, ma il loro frettoloso ritorno ci preannuncia che qualcosa sta succedendo: scendiamo dall’auto mentre in pochi secondi ci spiegano il comportamento che dovremo tenere una volta in prossimità dell’animale e ci invitano a seguirli in fila indiana.
Ci spiegano che il rinoceronte è miope e non riesce a distinguere figure oltre i 30 metri; ha però un olfatto e un udito incredibile, per cui dovremo spostarci sempre a favore di vento.
La tensione comincia a salire mano a mano che ci avviciniamo, in quanto siamo consci della sua pericolosità nel caso ci attacchi.
Il timore di provocare rumori maldestri ci obbliga a guardare sempre a terra, così quando la guida ci intima l’alt, alziamo lo sguardo e rimaniamo senza fiato ed estasiati di fronte ad un esemplare così antico e allo stesso tempo maestoso.
Rimaniamo sempre a distanza di sicurezza e in costante movimento per non farci scorgere, sebbene sentiamo che l’animale ci ha percepiti. Sono stati trenta minuti di intense emozioni, grazie Namibia per questo inatteso regalo.
Lasciamo il Grootberg Lodge, forse il più bello in cui abbiamo mai alloggiato, e ci spostiamo verso sud, fermandoci a visitare sia l’interessante foresta pietrificata che le antichissime pitture rupestri di Twilfefontein.
Da qui il paesaggio comincia a farsi più desertico tanto che si cominciano ad intravedere i primi struzzi; decidiamo di fare tappa a Cape Cross, così ci dirigiamo verso la Skeleton Cost preannunciata dal muro di nebbia che si frappone al mare.
Arriviamo alla colonia di foche inondati dall’intenso odore provocato dagli animali e dalle indistinguibili chiazze di sangue dovute “all’eliminazione controllata” da parte dell’uomo.
Restiamo per un po’ ad osservare la vita di questi mammiferi che si dividono tra quelli che fanno acrobazie in acqua e quelli, la maggior parte, che sonnecchiano sulla battigia, mentre alcuni sciacalli pattugliano la colonia in cerca dei loro piccoli.
Arriviamo a Swakopmund dopo aver girato diversi giorni nella Natura, tanto che rimettersi nel traffico cittadino ci sembra una novità.
Qui troviamo difficoltà a trovare alloggio (ci dicono che il venerdì è sempre così), per cui dopo tanto girovagare arriviamo al Sea Breeze, guest house gestita da due italiani.
La scelta si rivelerà ottimale e l’ospite si dimostra cortese, tanto che ci intrattiene con un’interessante chiacchierata sulla Namibia, cosa chi ci rende partecipi della realtà del paese, dove i bianchi e i neri non sono ancora assimilati e dove gli stessi bianchi si isolano nei quartieri residenziali e nelle proprie etnie di origine.
Il giorno successivo finalmente abbandoniamo la macchina per dedicarci alla visita della città, che si rileva abbastanza attraente, anche se architettonicamente fuori luogo, tanto i suoi edifici hanno l’aria di città tedesche o olandesi.
Troviamo un paio di negozi di artigianato di livello, anche se decidiamo di dedicare lo shopping per l’ultimo giorno a Windhoek; scopriamo invece molto interessante il museo cittadino, in particolar modo per la storia coloniale e del primo novecento (notevole la ricostruzione di una farmacia).
Lasciamo Swakopmund dopo aver assaggiato l’ottima cucina a base di pesce del Tug, che a dispetto degli anni di attività e della notevole pubblicità offertagli dalle guide turistiche, mantiene alto il livello qualitativo.
Siamo arrivati all’ultima parte del nostro viaggio, che ci porterà nell’interno del deserto del Namib.
Facciamo breve sosta a Walvis Bay scoprendola inglobata nelle sterminate distese di container e fabbriche per la surgelazione del pesce, cosa che fa pensare quasi fuori luogo l’abbattimento controllato delle foche di Cape Cross accusate della diminuzione della fauna ittica di questi mari; fortunatamente il sorriso ci torna quando avvistiamo l’immensa colonia di fenicotteri nella vicina laguna.
Arriviamo a Solitaire, dove assaggiamo la famosa ed eccezionale torta di mele, e girovaghiamo per la stazione osservando le foto ingiallite dal tempo che testimoniano la desolante bellezza che questo luogo aveva in origine.
Viaggiamo ormai da diversi giorni e i paesaggi ci sembrano quasi familiari, tanto che notiamo che da Uis non abbiamo più incontrato villaggi abitati da neri.
Finalmente arriviamo a Sesriem, dove purtroppo scopriamo che alloggiando fuori del parco (noi siamo a 5km) non ci è permesso entrare nel gate prima dell’alba.
Questo inconveniente comunque non ci impedisce di scalare con una fresca temperatura la famosa duna 45, da dove ci godiamo delle meravigliose vedute sul mare rosso che la circonda. Anche Dead Vlei ci regala delle belle emozioni di solitudine, anche se cominciamo ad essere attorniati da turisti annoiati provenienti dai lodge di lusso della zona.
Il caldo comincia a farsi sentire in maniera opprimente per cui decidiamo di fermarci un paio di ore all’ombra degli sparuti alberi. Solo nel pomeriggio riusciamo a ripartire verso la duna Elim, che decido di scalare scoprendo di essere in completa solitudine: un ricordo indimenticabile.
Prima del meritato riposo, facciamo un giro nel canyon di Sesriem, ancora circondati dagli stessi turisti dei lodge, questa volta tornati “profumati” dopo la sosta pomeridiana nelle loro fresche stanze; nonostante queste brutture il canyon è affascinante, quanto quelle poche piante che nascono dalla roccia e che vivono con pochissima acqua a disposizione.
Ormai siamo alla fine del viaggio, dedichiamo l’ultima mattina a Windhoek agli acquisti che ora abbelliscono la nostra casa e alla visita al museo della città, forse meno completo rispetto a quello di Swakopmund, ma interessante e specializzato per la parte relativa agli ultimi anni di storia di indipendenza namibiana.
Riconsegniamo la jeep e chiacchieriamo con l’impiegata della Savanna’s, la quale trovandoci entusiasti della nostra avventura ci suggerisce un prossimo viaggio attraverso un itinerario abbozzato su una cartina: da Windhoek al delta dell’Okawango, fino alle Victoria falls e ritorno per il Caprivi. Torniamo a casa ripensando a quella mano che indicava un’immaginaria strada su una mappa, sognando che magari un giorno questo si potrà avverare.