Il lato dolce di Genova

Una meta “golosa” non lontano dal capoluogo ligure

Già in due occasioni ho trattato di Genova sulle pagine di Ci Sono Stato.
La prima fu a pochi giorni dall’inizio del mai troppo deplorato G8 del luglio 2001, quando raccontai di alcune realtà genovesi, piccole rispetto agli aspetti storici e monumentali ma non per questo meno importanti sul piano del vissuto quotidiano; la seconda, all’inizio di questo 2002, per fare il punto sulla riconversione delle aree portuali in quel polo di aggregazione, manifestazioni, spettacoli ed eventi culturali che diventerà in pochi anni una delle più piacevoli attrattive del capoluogo ligure.
Questa volta voglio spostarmi (e magari portarvi) in una delle vallate che fanno da collegamento tra la costa e il mondo padano e che vedono un susseguirsi di località (ormai delegazioni del comprensorio genovese) i cui nuclei originari, come spesso accadeva, si svilupparono a ridosso del corso di un fiume. Come quasi tutti quelli liguri, il Polcèvera, che dà il nome alla valle, è un fiume a regime torrentizio, purtroppo di tanto in tanto sgradito e involontario protagonista della cronaca, alla pari del Bisagno, come responsabile di frane e alluvioni.Non ci si aspetti di trovare in questa mia breve caratterizzazione della zona attrattive alle quali la guida Michelin attribuirebbe le note classificazioni “merita una deviazione” o “vale il viaggio”; nondimeno, un itinerario alla scoperta della Val Polcèvera può riservare sorprese e posso consigliarlo a chi voglia avere ancora una prova che Genova non è solo l’Acquario e il colore locale dei carruggi del centro storico.
Mentre la bassa valle si sviluppa attraverso delegazioni che formano un ininterrotto agglomerato abitativo fittamente popolato e piuttosto anonimo (non me vogliano i residenti, pure io vi ho abitato), l’alta Val Polcèvera è suddivisa in un ventaglio di vallette confluenti su Pontedecimo, che costituisce geograficamente il limite meridionale dell’area. Ecco allora una successione di paesini, ciascuno ricco di una propria storia: anche se non è la Storia con l’iniziale maiuscola, è talvolta ben più tangibile di quella, proprio perché circoscritta in ambiti in cui tutti conoscono tutti e la memoria ne rimane viva nel racconto di chi l’ha vissuta, direttamente o tramite padri, nonni e antenati.
Parlo delle realtà originariamente contadine dei piccoli appezzamenti coltivati a vigne o a miseri frutteti, delle case patriarcali con a fianco l’orto, il pollaio e la conigliera; parlo di storie di guerra e di lotta partigiana, ricordate nei cippi che ogni paese, per quanto piccolo, espone con fierezza sulla piazza principale; parlo delle trattorie di campagna dei menu senza fronzoli ma genuini, ancor oggi meta gradita di gite domenicali; parlo di limitate ma preziose produzioni di vino, olio, formaggi e salumi fatti ancora “come una volta”; e parlo di piccole storie di imprenditorialità all’insegna del prodotto di qualità, che in certi casi hanno visto la botteguccia di quartiere ampliarsi fino a una notorietà via via sempre più vasta.
Proprio su una di queste mi voglio soffermare, una meta decisamente “golosa” che ripaga ampiamente i venti chilometri che la separano dal centro cittadino.

Mi sono ritrovato, dopo una trentina d’anni, a passeggiare per Pontedecimo. In realtà ci passo spesso in auto, ma tirando sempre diritto, quando con i compagni di gite mi dirigo ai luoghi di partenza delle escursioni a piedi, numerose e di grande interesse naturalistico, ambientale e umano. Faccio appena cenno ad alcune, ripromettendomi magari un maggiore approfondimento in un futuro articolo:
- il giro della cerchia dei Forti, sistema difensivo in ottimo stato di conservazione che unisce a vista le principali alture del crinale;
- gli itinerari lungo l’Alta Via dei Monti Liguri;
- il Monte Figogna con il Santuario della Madonna della Guardia, luogo di culto tra i più frequentati dai genovesi, meta alcuni anni fa anche di una visita di Papa Woytila;
- l’anello naturalistico del Gorzente, bell’itinerario intorno ai tre laghi che alimentano gli acquedotti genovesi, lodevolmente allestito dai volontari del CAI con il recupero delle vecchie mulattiere che favorivano gli scambi commerciali tra le località costiere e quelle dell’entroterra.
Dicevo di Pontedecimo, località a me cara in quanto proprio in una sua frazione era radicata la famiglia di mia madre, in una zona che lasciai trent’anni fa per stabilirmi in una località della Riviera; mi ha spinto qui la visita a una vecchia amica, convalescente da un serio intervento chirurgico.
Mi sono trovato davanti alla Pasticceria Poldo e la mia memoria si è messa a lavorare a velocità vertiginosa. Sono tornato agli Anni Sessanta (quelli mitici…), quando con la mamma e tre zie facevamo qui tappa obbligata per una pastarella, un caffè o una cioccolata calda prima di una visita al cimitero o ai parenti nelle feste natalizie. Erano i tempi degli inverni “veri” e quelle giornate le ricordo sempre fredde e uggiose, quindi la sosta era quanto mai gradita. Il vecchio Poldo cominciava a limitare la sua presenza in laboratorio e in negozio, ma sapeva che con il figlio Luciano, che aveva da poco sposato Mariarosa, l’impresa sarebbe rimasta in ottime mani. Era intanto nato Francesco, che ricordo sgambettante tra i piedi dei clienti con addosso la maglietta con i colori della Sampdoria (all’epoca era di quelle fatte con i ferri da calza dalle nonne, anni luce da quelle stampate in acetato che sono oggi uno dei business del mondo calcistico), squadra del cuore della famiglia Crocco.
Ma le cronache ci portano ancora più indietro nel tempo e affondano le radici nella grande tradizione della pasticceria ligure, da sempre di prim’ordine anche se non osannata come quella di altre regioni per via del ben noto carattere schivo che ci contraddistingue. Pochi sanno ad esempio che a metà Settecento fu un cuoco ligure a chiamare un dolce portato alla corte di Madrid “pan di Spagna”, e che presto la corte stessa lo ribattezzò “Genovese” in onore del creatore di quella squisitezza.
Quella di Leopoldo Crocco (per tutti semplicemente Poldo), classe 1886, è una delle tante storie belle celate in quelli che oggi sono negozi luccicanti ma che un tempo erano piccoli laboratori dediti a una clientela di quartiere. È la storia di un ragazzino di otto anni che, lasciato con la famiglia il paese natale nell’entroterra, diventa apprendista in una nota pasticceria imparando un giorno dopo l’altro i trucchi del mestiere fino a superare i maestri.
Due guerre, il rilievo dell’azienda, la costituzione di una società, la conduzione in proprio dal 1948, cambiamenti di sede, il passaggio a Luciano e infine a Francesco sono, in estrema sintesi, le vicende che precedono l’attuale prestigiosa realtà.
Sorriso aperto, simpatia istintiva, fisico del ruolo, Francesco Crocco è oggi davvero un “numero uno” della pasticceria, e non solo per il titolo vinto due volte, nel 1995 e 1996, nell’omonimo programma televisivo di Pippo Baudo, ma pure per una serie di consensi in occasione di convegni, manifestazioni, banchetti, pranzi di gala anche al di fuori dell’ambito regionale. Un’occasione particolarmente curiosa fu ad esempio il servizio in onore dell’incontro di rugby Italia - Nuova Zelanda del novembre 2000: e chissà, forse fu anche per la scorpacciata di sue prelibatezze con cui si rimpinzarono gli All Blacks che gli azzurri riuscirono a limitare il passivo in termini onorevoli…
Con pieno merito, Poldo (ormai anche Francesco è chiamato così) è stato selezionato dalla Regione Liguria quale ambasciatore della Pasticceria Ligure.
Non vi resta allora, quando uscite dall’Acquario, che seguire le indicazioni per Pontedecimo, percorrere una ventina di chilometri e cercare il n. 260 rosso di Via Paolo Anfossi: anzi, quando il vento di tramontana soffia a favore, può essere che sia il profumo a guidarvi…
In quel vero e proprio tempio della dolcezza non avrete che l’imbarazzo della scelta tra i tradizionali dolci genovesi ed alcune specialità esclusive che non vi voglio anticipare e per le quali vi invito a visitare il sito di Poldo. Una per tutte, cito solo i cioccolatini al pesto: potrà sembrare un abbinamento inconsueto, ma non dimentichiamo che il cacao era considerato dagli antichi Maya il cibo degli dei, tanto prezioso che le sue bacche erano usate come moneta, e che il basilico è l’ingrediente supremo della gastronomia genovese. Gustare il loro connubio è un’esperienza che vale davvero la pena vivere!
E penso proprio che se direte al vostro confessore di non avere saputo resistere alle tentazioni di questo luogo, non avrà difficoltà a perdonarvi e magari sarà propenso a depennare la gola dai sette peccati capitali.

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