Genova che cambia

Come è mutata nell’aspetto la città del G8

Circa tre anni fa mi ritrovai, durante una cena tra amici, a parlare di viaggi e mete turistiche. Ero rimaso stupito da una statistica letta pochi giorni prima in una rivista del settore, secondo la quale l’Acquario di Genova risultava, superato solo dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, dagli scavi di Pompei e dai Musei Vaticani di Roma, al quarto posto in Italia per biglietti venduti. Il dato era lusinghiero e poteva essere un passo importante – osservava l’articolista – verso un traguardo decisivo per la città: cioè l’inserimento di Genova e delle Riviere nei circuiti turistici per gli stranieri in visita all’Italia accanto a Roma, Firenze, Venezia e Capri.
“Ci vuole altro! – commentò Mauro, vecchio amico capace di analisi molto puntuali – i nostri amministratori devono ficcarsi nella zucca che bisogna persuadere la gente che Genova è qualcosa di più che un luogo nel quale recarsi per il tempo strettamente necessario a visitare un’unica attrazione; basterebbe convincere a un pernottamento in città almeno due persone ogni dieci che vengono a vedere l’Acquario”.
La teoria di Mauro non faceva una grinza. All’epoca lavoravo presso la stazione di Piazza Principe e potevo vedere dalla finestra del mio ufficio le sfilate di scolaresche e comitive che arrivavano da Milano, Torino e dalla linea tirrenica con i primi treni del mattino, in spalla lo zainetto con i panini e la Cocacola, stessi gruppi che poi tornavano in stazione verso metà pomeriggio per salire sui convogli che li avrebbero riportati a casa. Il classico turismo “mordi e fuggi” alla giapponese.
Eppure, le ristrutturazioni degli ultimi dieci anni, quali la ricostruzione del Teatro Carlo Felice, la valorizzazione dello straordinario Palazzo Ducale, l’ammodernamento di gallerie d’arte quali i Palazzi Reale, Bianco, Rosso e Spinola, la riconversione dell’area del Porto Antico da zona dalla quale scappare a luogo di incontro privilegiato in un contesto di valore storico ineguagliabile, avrebbero dovuto indurre il salto di qualità bel prima di quanto non sia poi avvenuto.
E qui c’è di mezzo l’imperscrutabile natura dei liguri, dei genovesi in particolare, quasi una ritrosia a condividere con i “foresti” le bellezze della propria città. In effetti il ligure, occhi puntati verso l’orizzonte marino e alle spalle una dorsale montuosa che con pendenza talvolta repentina supera in breve i mille metri, si è sempre più permeato in un temperamento schivo, taciturno, riservato. I sacrifici della vita di mare o quelli di una campagna da conquistare con fatica spiegano l’atteggiamento di riserbo, prudenza e oculatezza (a torto confuso con l’avarizia) che storicamente ha sempre etichettato la gente delle nostre terre.
Abbiamo letto mille volte sbrigative caratterizzazioni del tipo: i toscani sono arguti, gli emiliani sono gioviali, i romani sono caciaroni, i napoletani sono ingegnosi, i genovesi sono chiusi. Ma mi pare che così si finisca per fare torto a tutti, quindi lasciamo quella galleria di macchiette agli sketches della televisione nazionalpopolare.
È però vero che a Genova soltanto negli ultimi tempi ci si sta sforzando, in specie da parte di governanti e imprenditori, ad accantonare la cosiddetta “filosofia del manimàn”. “Manimàn” è un sintetico termine genovese assolutamente intraducibile in qualsiasi altra lingua; bisogna usare un giro di parole per spiegare che è la forma mentale del tipo “meglio non fare, se no, altrimenti, chissà…” che ha castrato grande quantità di progetti e iniziative negli ultimi decenni.

In un articolo di circa sette mesi fa, nel quale, su invito degli amici di Ci Sono Stato, descrivevo una Genova minimale in contrapposizione a quella ufficiale, paludata, forzosa e asettica del G8, esprimevo perplessità e timori in vista dell’avvenimento: ricordo ancora con un brivido i giorni immediatamente precedenti, quando, passando nei vicoli della città vecchia, mi imbattevo nelle squadre di operai che muravano pesanti grate d’acciaio all’imbocco dei vicoli, saldavano i tombini o transennavano le strade con migliaia di blocchi di cemento, oppure nelle pattuglie delle forze dell’ordine alle quali dovevo mostrare i documenti per andare a comprare il pane in un forno al limite della famigerata “zona rossa”. Quello che poi è successo lo sappiamo tutti e provo ancora sofferenza nel dire un “io lo sapevo” del quale non ho proprio motivo di vantarmi. Ad ogni effetto, senza mezzi termini, una città violentata prima, durante e dopo l’inutile convegno planetario.
Poi i giorni delle auto in fiamme, dei negozi devastati, delle cariche contro i manifestanti pacifici, dei blitz nelle aule scolastiche e di un ragazzo morto, sono passati, anche se le ferite, rimarginate nella materia, non lo saranno mai nell’anima e nella memoria dei genovesi.
Ma chiudo subito la parentesi dolorosa e cerco di spiegarvi dove voglio andare a parare; oltre all’altare spontaneo sommerso di fiori sempre freschi sorto nel luogo della morte di Carlo, sono per fortuna rimaste anche parecchie cose positive, testimonianze tangibili e durature dei lavori effettuati in preparazione al G8. Parlo ad esempio della ripavimetazione di Via San Lorenzo, che da arteria inquinata è diventata un vero salotto pedonale con le magnifiche quinte degli edifici che la delimitano, con la prospettiva della cattedrale, anch’essa minuziosamente ripulita, per sublimarsi sulla Piazza Matteotti con la scenografica mole di Palazzo Ducale. Di lì, solo pochi passi separano da Piazza De Ferrari, con la sua cerchia di palazzi ottocenteschi, la fontana centrale finalmente funzionante e i nuovi giochi d’acqua che la affiancano. Una successione di spazi urbani veramente meritevole di essere percorsa con calma e con l’occhio pronto a riempirsi di meraviglie.

Ma quello che mi induce a buttare giù in fretta questo articolo (in gergo giornalistico si dice “essere sulla notizia”, anche se Ci Sono Stato non è un quotidiano di cronaca) è quanto è accaduto oggi, 26 febbraio 2002: un avvenimento al quale ho assistito, documentandolo anche con alcune delle foto (se non artistiche, sicuramente irripetibili) che corredano questo articolo.
Mai come in questi ultimi mesi è stata appropriata l’affermazione “Genova che cambia” che ho scelto come titolo. Ai turisti in visita può sfuggire, ma la città, al di là dei lodevoli restauri, delle ricostruzioni, della valorizzazione delle zone pedonali, dell’abbellimento degli arredi e dell’illuminazione urbana, sta davvero cambiando pelle per quanto riguarda la propria vocazione, che da industriale e mercantile potrebbe davvero diventare turistica.
In pochi mesi l’area della Fiumara alla foce del torrente Polcèvera, un tempo sito degli stabilimenti meccanici che hanno visto decenni di fortune legate alla produzione industriale e poi gradualmente abbandonata fino a diventare zona da scansare per evitare brutti incontri, sta diventando, dopo il loro smantellamento, uno spazio vivibile a tutte le ore, con superfici verdi, parcheggi sotterranei, centri commerciali, gallerie di negozi, ristoranti, multisale cinematografiche, ritrovi: strutture magari un po’ “americane” ma, facendo il confronto tra il prima e il dopo, ben vengano!
Oggi, dicevo, è stato compiuto il primo passo di un’altra opera imponente. Da qualunque punto dell’area del Porto Antico, ma anche da quasi tutte le zone elevate della città, è sempre stato visibile, caratterizzando pesantemente la skyline genovese, un colossale parallelepipedo di cemento affacciato su uno dei tanti moli (Ponte Parodi, per la precisione) della darsena. Non tutti lo sanno, si trattava del complesso dei silos granari, una serie di torri affiancate in un unico blocco con una capacità di ben 110.000 tonnellate di cereali. Ormai da anni inutilizzata, l’enorme costruzione era ormai rimasta solo la sproporzionata base di un display luminoso che informava dell’ora e della temperatura!
Era quindi ormai maturo il suo abbattimento: in diverse fasi successive, distanziate di qualche giorno per facilitare lo sgombero dei detriti e limitare i danni a un tratto di fondale particolarmente delicato, ciascuno dei blocchi è destinato a crollare ad opera di microcariche esplosive. Oggi, alle ore 13,25, la caduta come un birillo della prima sezione, osservata, fotografata e filmata da una folla disseminata a distanza di sicurezza sui pontili, ha idealmente simboleggiato la fine di un’era, quella della vocazione mercantile di Genova; anche se quell’edificio era veramente brutto, per noi, che abbiamo qualche annetto sulle spalle, non è mancata una sfumatura di malinconia, al pensiero dei tempi in cui le navi si chiamavano piroscafi, bastimenti o vapori e negli uffici, o meglio negli “scagni”, degli armatori, lavoravano i personaggi mirabilmente caratterizzati dal grande Gilberto Govi.
Ma ci consoleremo al pensiero che in poco tempo quelle banchine, improvvisamente restituite alla luce e all’aria, diventeranno meta di magnifiche passeggiate a mare, un ulteriore ampliamento di quell’area portuale che, con l’Acquario, i tratti dei vecchi moli medioevali, il Bigo panoramico, le antiche gru ormai diventate monumento storico, il ponte della Nave Italia, la Grande Bolla, il galeone del film “Pirates” ormai integrato nel bacino di piazza Caricamento, la sfilata di barche lungo le calate, i negozi e i ristoranti affacciati sull’acqua, costituirà sempre di più un’esperienza di viaggio davvero unica.
Allora, che cosa dite? Quando verrete a visitare l’Acquario di Genova non sarà il caso di fermarsi un giorno in più?

(Le foto 1, 2 e 3 raffigurano il vecchio silos rispettivamente un minuto prima, durante e dopo l’abbattimento del primo settore; nelle foto 4, 5 e 6 altre immagini dell’area del Porto Antico).

4 commenti in “Genova che cambia
  1. Avatar commento
    Leandro
    21/11/2011 08:29

    In futuro cercherò di essere più leggero...

  2. Avatar commento
    MILLY
    20/11/2011 23:42

    e molto pesante pero e interesante

  3. Avatar commento
    w00binda
    01/03/2002 21:08

    Complimenti, bel pezzo, ben scritto e tutto ... mette una gran voglia di fermarsi un paio di gg a Genova. Grazie

  4. Avatar commento
    ricky
    01/03/2002 21:08

    Volevo solo ringraziare l'amico Leandro per la cortesia, la sollecitudine e per la completezza delle informazioni che ci manda, sia quando tratta dei suoi meravigliosi viaggi sia quando parla della sua amata Genova. Ciao, grazie Ricky

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