“Ma fintanto che non veniamo messi alla prova sappiamo poco dell’incontrollabile in noi che ci spinge attraverso ghiacciai, torrenti e su dirupi pericolosi, malgrado il giudizio ce lo proibisca”
(John Muir: The mountains of California)
Beppe mi ha convinto. Devo riconoscere che non ha faticato molto per farmi decidere a partecipare alla spedizione di salita all’Huascaran, 6768 metri, la più alta vetta del Perù situata nella Cordillera Blanca. Così, il quattro di agosto, ci troviamo all’aeroporto Marco Polo di Venezia in partenza per Lima, via New York ed Atlanta. Qui faccio la conoscenza dei miei nuovi compagni di viaggio, Mario e Gabriele con le loro compagne Roberta ed Anna Maria che, con Beppe ed il sottoscritto, completano il gruppo.
Itinerario
Dopo un lungo volo con una sosta di un giorno ad Atlanta, atterriamo alle 4,15 locali del 6 agosto all’aeroporto di Lima, capitale del Perù. Merita spendere qualche parola su questa città che, nonostante sia stata definita da Herman Melville, scrittore statunitense del 1800, “la città più triste della terra”, è in grado di riservare molte piacevoli sorprese.
Lima possiede sia lo splendore decadente delle città coloniali che la vitalità pullulante delle città orientali; offre inverni rannuvolati e malinconici ed estati calde e ventilate; presenta quartieri disordinati e poveri, ma anche angoli tranquilli ed eleganti. È situata sulle coste dell’Oceano Pacifico, nel mezzo del deserto costiero che caratterizza questa parte della costa del Perù. A causa di un fenomeno meteorologico noto come inversione termica, Lima rimane avvolta da uno strato di nuvole basse per tutto il periodo compreso da maggio ad ottobre e solo durante l’estate il clima diventa più gradevole; le precipitazioni si limitano a qualche pioggerella invernale, insufficiente a spazzare via la polvere del deserto.
Fu fondata il 5 gennaio 1535 dal conquistador spagnolo Francisco Pizarro col nome di Ciudad de los Reyes, sulla pianta di un preesistente insediamento indigeno presso la riva del fiume Rimac, da cui sembra derivare l’attuale nome. All’inizio Lima era popolata solamente da un centinaio di conquistadores, ma già nel XVII secolo la popolazione arrivava a circa 25.000 persone, in maggioranza indios, servi e artigiani, oltre a schiavi africani. Ha avuto negli ultimi anni una forte immigrazione incontrollata passando dai 550.000 abitanti degli anni ’60 ai circa 6.000.000 attuali; questo fenomeno ha provocato grandi problemi sociali ed economici come disoccupazione ed emarginazione, relegando la maggior parte degli immigrati (indios andini di origine Incas) a vivere in enormi quartieri periferici, spesso privi di corrente elettrica, acquedotto e pavimentazione stradale, formati da bidonvilles che qui sono chiamate barriadas, mentre le classi alto-borghesi, di origine spagnola, si sono trasferite nei centrali quartieri di Miraflores e di San Isidro.
La visita di Lima comincia dalla centrale Plaza de Armas, posta nel cuore più antico della città, dove si percepisce ancora lo spirito dell’epoca di Pizarro; la piazza è sede del Palazzo del Governo, della Cattedrale e del Palazzo dell’Arcivescovo e, alle 12.45 dei giorni feriali, si può assistere al cambio della guardia effettuato dalle truppe del reggimento degli Ussari, con uniformi da parata rosse e blu. A pochi passi da qui si incontra un altro aspetto della realtà sociale di Lima, il fiorente mercato di contrabbando di Polvos Azules, dove si possono acquistare a prezzi molto vantaggiosi vini del Cile, whisky scozzese, sigarette ed oggetti artigianali. Oltre ai compratori abbondano purtroppo anche i borsaioli, è necessario quindi prestare molta attenzione ai propri oggetti di valore; stessa situazione anche per tutto il centro della città, dove è sconsigliabile avventurarsi di notte da soli.
Proseguendo la visita della città, a sei isolati da Plaza de Armas, si trova Plaza San Martin, fulcro del moderno centro. Le due piazze sono collegate dal Jiron de la Union, chiuso al traffico automobilistico e sede dei negozi più eleganti di Lima. Sino agli anni quaranta, le signore che percorrevano questa via senza cappello erano guardate con disapprovazione; oggi la strada è gremita di venditori ambulanti e fast-food. Tra le varie attività vi è una versione andina della tombola, dove i premi sono decisi dai movimenti di un porcellino d’India che corre tra archi di cartone numerato.
Lasciamo Lima con un autobus di linea che ci conduce ad Huaraz, la “Courmayeur delle Ande”. Uscendo dalla città, attraversiamo le enormi bidonvilles che caratterizzano la sua periferia; queste baraccopoli sono formate da case costruite in mattoni od in legno con tetto in canne.
Usciti da Lima costeggiamo per circa due ore il Pacifico; il paesaggio si presenta come un immenso deserto sabbioso, con enormi dune alte anche centinaia di metri, senza nessun segno di vita. Svoltando nell’interno, il deserto, da sabbioso, diventa roccioso e montagnoso con innumerevoli cactus e fichi d’India. Salendo di quota la vegetazione occupa il posto del deserto, agavi e piante di eucalipto ci accompagnano sino ad oltre i 3500 metri, più in alto predominano i pascoli.
Superato un passo a 4100 metri la strada scende dolcemente verso Huaraz dove giungiamo alle 16.30. Huaraz (3190 metri) è la capitale del dipartimento di Ancash e conta una popolazione di oltre 60.000 abitanti; nonostante il suo aspetto da cittadina del Far West, è ben organizzata per affrontare le esigenze del turismo ed offre varie opportunità di soggiorno con alberghi molto convenienti. È una città assai vivace e lungo la sua strada principale i campesinos espongono in vendita grandi quantità di frutta, verdure e capi di lana; le molte agenzie di viaggio presenti mettono in mostra tabelloni multicolori che pubblicizzano le località turistiche della zona e la possibilità di noleggiare ogni tipo di attrezzatura per l’alpinismo ed il trekking. Non mancano neanche i buoni ristoranti, dalle pizzerie ai ristoranti cinesi; è però consigliabile provare quelli dove sono serviti i piatti tipici locali: lomo saltado, pollo a la brasa e il cuy, il porcellino d’India arrosto.
Dedichiamo il giorno seguente del nostro arrivo alla visita di Huaraz ed ai preparativi per l’ascensione. Ingaggiamo una guida e due portatori. Accompagnati da uno di loro, che svolgerà anche il compito di cuoco, ci aggiriamo nei mercatini all’aperto per comprare frutta, verdure per il minestrone, oltre a zucchero, biscotti e quant’altro necessiterà nei giorni seguenti. In nessun altro luogo, a mio parere, è così piacevole passeggiare tra la gran varietà e quantità di merci che vi si trovano, soprattutto per gli intensi colori che caratterizzano queste strade. Le donne locali che espongono in vendita la merce indossano vestiti tipici molto appariscenti, dalle tinte forti e vivaci; il sole dei 3000 metri ravviva maggiormente il colore degli enormi cumuli di frutta esposti. Anche le stoffe e gli indumenti posti sui banchi sono molto sgargianti e attirano l’attenzione di chi, come noi, non è abituato ad ammirarli nel proprio paese. Un’altra merce esposta e molto venduta nei mercatini sono le foglie di coca; si possono vedere sacchi colmi di queste piccole foglie essiccate che sono acquistate per farne infusi simili al tè o per masticarle, come da noi le gomme americane. Le foglie di coca, anche se sono la materia prima per la produzione della cocaina, usate al naturale, senza essere trattate, non costituiscono una droga; hanno un effetto leggermente eccitante, sicuramente minore del caffè, e pare alleggeriscano la fatica alle alte quote. Io di fatica, nei giorni seguenti, ne sentirò parecchia anche provando a bere il tè di coca e a masticarne le foglie; chissà quanta sarebbe stata senza!
Arriva finalmente (o dovrei dire purtroppo?) il giorno della partenza per l’Huascaran. Le ragazze non tenteranno di raggiungere la vetta, ma ci attenderanno al campo base. Sono leggermente preoccupato perché, a differenza dei miei compagni, è la prima volta che partecipo ad una ascensione a quota superiore ai 6000 metri. Alle 8.30 si parte per Musho (3080 metri), porta di ingresso per il parco dell’Huascaran. Sbrigate le formalità della registrazione e del pagamento della tassa di ingresso (10 US$), alle 10.30 si parte a piedi per raggiungere il campo base, posto a 4230 metri, dove giungiamo alle 15.30.
La salita al campo non presenta difficoltà e si snoda su di un comodo sentiero che sino a circa 3500 metri attraversa un bosco di eucalipti; l’unica nota negativa è rappresentata dalle condizioni meteorologiche che lentamente cominciano a peggiorare. Alle 17 inizia a piovere, fortunatamente abbiamo avuto il tempo di piazzare le tende. A queste latitudini (siamo nella zona equatoriale) si hanno tutto l’anno 12 ore di luce ed altrettante di buio; alle 18 il sole tramonta ed alle 18.30 è già completa oscurità. La cena quindi è consumata non soltanto al buio, ma anche sotto una fastidiosa pioggerellina, senza possibilità di alcun riparo. Il cuoco ci ha cucinato un ottimo minestrone di verdura, seguito da pollo con patate e riso; poiché eravamo digiuni dalle 7.30 del mattino, tutte le portate sono state molto apprezzate nonostante i vari disagi. Alle 19.30 tutti in tenda a dormire.
La giornata odierna è dedicata all’acclimatazione, non si sale al campo 1 ma, alle 11, nonostante il tempo incerto, partiamo per un’escursione di allenamento e raggiungiamo il campo avanzato a quota 4800 metri, alle soglie del ghiacciaio dell’Huascaran. Il posto è affascinante: poco sopra l’accampamento le rocce, che sono state una costante fin dal campo base, cedono il posto al ghiacciaio che si innalza sino alla vetta, a 2000 metri sopra di noi. Un pallido sole riesce a tratti a sbucare tra le nubi e, in questi rari momenti, la cima dell’Huascaran mostra tutto il suo fascino. La vista dei crepacci che si trovano alla sua base incute timore e anche preoccupazione al pensiero che dovremmo attraversarli nei prossimi giorni.
Mentre ammiriamo in silenzio questo paesaggio spettacolare, incomincia purtroppo a nevicare, quindi iniziamo rapidamente a scendere verso il campo base. Il primo tratto di discesa è su placche inclinate che, durante la salita, non avevano dato problemi essendo asciutte; ora che si stanno rapidamente coprendo di un leggero strato di neve, siamo obbligati a scendere con molta prudenza per non scivolare. Durante la discesa smette di nevicare ed esce un bel sole. L’Huascaran si presenta di nuovo in tutto il suo terribile splendore; si può ammirare molto bene il colle della Garganta che separa le sue due cime. Raggiungiamo il campo base alle 15.30 e, dopo circa un’ora, ricomincia a piovere; consumata una frugale cena, costituita da due cucchiai di riso mangiato in tenda perché fuori piove, si va a dormire. Domani, se il tempo migliorerà, dovremmo salire al campo 1.
Piove per tutta la notte, ma alle 7 del mattino è sereno. Decidiamo di attendere che le tende si asciughino per smontarle e partire per il campo 1 posto a 5200 metri sul ghiacciaio. Mentre le ragazze fanno ritorno ad Huaraz, noi alle 11 partiamo seguendo lo stesso percorso di ieri sino ai 4800 metri, che segnano l’inizio del ghiacciaio. L’ascensione non è banale. Un passaggio in roccia è attrezzato dalla nostra guida Rafael, ieri lo avevamo superato in libera, ma eravamo senza zaini. Quasi tutto l’itinerario verso il campo avanzato si snoda su placche di granito inclinate, da affrontare con precauzione. Il tratto di ghiacciaio che dai 4800 metri ci porta ai 5200 metri del campo 1 non presenta difficoltà ed è percorso senza ramponi e senza legarci in cordata.
Superati i 5000 metri, comincio a sentire la fatica; un solo giorno d’acclimatazione a quest’altezza non è stato sufficiente, in ogni caso alle 17 siamo tutti al campo dove piazziamo le tende. La giornata, che al mattino era serena, è andata lentamente guastandosi e, mentre montiamo le tende, incomincia a nevicare. Anche oggi siamo digiuni dalle 7.30 di stamani; alle 19 riusciamo a bere un tè ed a mangiare una tazza di minestra. Nonostante la dieta forzata ed il disagio del maltempo, mi sento bene; all’interno della tenda, al caldo nel sacco a pelo, riesco a dormire e solo di tanto in tanto sono svegliato dalle raffiche impetuose del vento che soffia forte. Nevica per tutta la notte.
Alle 7.30 del mattino metto la testa fuori: non nevica più, ma una fitta nebbia avvolge tutto il campo e le tende sono semi-sommerse dalla neve. Non è possibile proseguire. Decidiamo di passare qui la giornata nella speranza che il tempo migliori, non per salire in vetta, perché con tutta la neve fresca sarebbe troppo pericoloso, ma per vedere se si possono scattare alcune foto della montagna. A tratti riprende a nevicare. Anche in questo momento, mentre sto scrivendo questi appunti nella tenda, nevica; sono le 11.30 dell’11 agosto. Anche la discesa dal campo avanzato, che si trova alla base del ghiacciaio, al campo base, potrebbe rivelarsi pericolosa se le placche inclinate fossero molto innevate. Il giorno trascorre lentamente dentro la tenda con qualche uscita all’esterno nei momenti in cui il tempo mostra un po' di clemenza. Al campo non siamo soli: una spedizione cilena ed una peruviana, anch’esse bloccate dal maltempo, ci tengono compagnia; qualcuno ha anche costruito un magnifico pupazzo di neve con tanto di berretto di lana.
Il giorno seguente il tempo è migliorato; i cileni ed i peruviani sono partiti per tentare la salita. Decidiamo di imitarli ed alle 9 partiamo anche noi. La neve fresca è molto alta ed a tratti si affonda sino al ginocchio, la salita risulta subito molto impegnativa. Raggiunta la quota di 5500 metri. sento la fatica e procedo lentamente; per non rallentare troppo i compagni, che sono certamente molto più allenati di me, decido di fermarmi e ritornare al campo 1. I miei compagni e le altre due spedizioni proseguono ma, giunti a quota 5700 metri., decidono di rientrare anche loro. Oltre alla neve fresca molto alta che ostacola il cammino, vi è anche un elevato rischio di valanghe.
Una slavina caduta qualche centinaio di metri davanti a loro, sulla pista che avrebbero dovuto percorrere, li ha convinti a prendere questa decisione che si è rivelata saggia, infatti qualche giorno dopo si è verificato un incidente mortale proprio nel luogo da loro raggiunto. Una spedizione spagnola giunge al campo per tentare la salita il giorno seguente. Passiamo la terza notte sul ghiacciaio a 5200 metri. Domani si torna a Huaraz.
A mezzanotte, per trovare neve ghiacciata e non sprofondare, la spedizione spagnola parte per la vetta, ma è costretta anch’essa al rientro per le pessime condizioni della neve. Alle 10 cominciamo la discesa che ci porta prima al campo base e quindi a Musho da dove, con un pulmino, giungiamo a Huaraz dove ritroviamo Roberta ed Anna Maria. Finalmente, dopo una doccia calda (molto desiderata!), ci aspetta una cena decente a base di lomo fino (filetto) e patatine.
Molto più che la delusione per non aver raggiunto la cima, mi perseguita un interrogativo: sarei riuscito nell’impresa se le condizioni atmosferiche fossero state migliori? L’unica risposta a questa domanda è di riprovarci, magari su di un’altra montagna di pari fascino e bellezza. Per questa volta decidiamo di ripiegare su una vetta più facile e di minore altezza: la scelta cade sul vulcano Misti (5822 metri), al sud del Perù.
Con un autobus arriviamo a Lima e, da qui, con un volo, ci spostiamo ad Arequipa, città situata su di un altopiano desertico a 2300 metri, alla base del vulcano. Il Perù è attraversato dalla Cadena del Fuego (catena di fuoco), un fiume lavico sotterraneo che lo percorre in tutta la sua lunghezza e attraversa il sottosuolo di Arequipa che, nel corso dei secoli, ha subito varie volte l’urto sismico.
Arequipa, con circa 1.000.000 di abitanti, è la seconda area urbana del Perù ed è soprannominata la Ciudad Blanca (città bianca); questo nome deriva dal fatto che è quasi interamente costruita con sillar, una roccia vulcanica di colore bianco proveniente dal vulcano Misti. È caratterizzata da un clima secco e mite tutto l’anno; l’agricoltura e la pastorizia, oltre al turismo, sono le maggiori fonti di ricchezza della regione. La Plaza de Armas di Arequipa è una delle più belle piazze del Perù. Un intero lato è occupato dall’enorme cattedrale con due campanili, ricostruita per due volte nei primi dell’Ottocento dopo essere stata distrutta da un incendio e da un terremoto. Un portico a due piani corre lungo gli altri tre lati della piazza.
Prima di iniziare la salita al vulcano, dedichiamo un giorno alla visita della città; uno dei luoghi più interessanti è il convento di Santa Catalina, che nel 1970, dopo quattrocento anni di isolamento, è stato aperto al pubblico. Nonostante sia stato, ed ancora è, un convento di clausura, il voto di povertà e silenzio non era molto rispettato dalle prime monache. Nel periodo di massimo splendore le celle erano in realtà simili a delle lussuose stanze. Nel 1832 la femminista francese Flora Tristan visitò il convento e riferì che le monache (figlie dell’aristocrazia locale) parlavano senza restrizione e spendevano enormi somme di denaro; ognuna aveva la propria servitù. Visitare Santa Catalina, a tre isolati dalla centrale Plaza de Armas, è come calarsi nel mondo del XVI secolo; le stradine, i porticati e i giardini portano ancora i nomi originali. Il convento, dove un tempo vivevano fino a cinquecento monache, oggi ne ospita solo una cinquantina.
Passeggiando per la città, non si può fare a meno di notare l’enorme mole del vulcano che la sovrasta e che è visibile da ogni punto. Domani, mentre le ragazze ci aspetteranno in città, con un trekking che ci impegnerà per due giorni, cercheremo di raggiungerne la cima.
Il vulcano Misti è un enorme cono formato da rocce e sabbia vulcanica che sorge isolato nel mezzo di un vero deserto di altura; sulle sue pendici non si trovano né una goccia d’acqua, né un filo d’ombra, solo rari arbusti sono presenti alle quote più basse. Si raggiunge la sua base, a 3300 metri, mediante una strada sterrata percorribile solamente da veicoli fuoristrada. Da qui si prosegue a piedi e, il primo giorno, si deve salire fino a trovare uno spazio dove sia possibile piazzare il campo. Il luogo è situato a 4600 metri, in un dirupo di notevole pendenza, formato da rocce vulcaniche con rare piazzole adatte a contenere una sola tenda.
La prima metà della tappa è abbastanza agevole e si snoda su di un comodo sentiero con moderate pendenze; poco alla volta però il terreno da solido si trasforma in sabbioso, anche la salita si accentua e la fatica comincia a farsi sentire, inoltre tutto il percorso è accompagnato da un sole caldissimo. Nell’ultimo tratto, prima del campo, il sentiero è totalmente di sabbia vulcanica con notevole pendenza; ad ogni passo il terreno inconsistente frana sotto il nostro peso, accrescendo notevolmente la fatica della salita.
Montate le tende, il sole comincia lentamente a tramontare, il caldo, che ci ha accompagnato per tutto il giorno, lentamente diminuisce ed un vento gelido contribuisce ulteriormente ad abbassare la temperatura che, dopo il tramonto del sole, raggiunge qualche grado sotto lo zero. La leggera foschia che era presente durante le ore calde si dirada; quando sopraggiunge la notte il cielo è perfettamente terso ed uno spettacolo mozzafiato si presenta ai nostri occhi; la città di Arequipa, 2300 metri sotto di noi e unico centro abitato nel raggio di qualche centinaio di chilometri, si illumina e appare come una gigantesca isola emergente da un oceano impassibile ma tetro; questo scenario così unico è già sufficiente a ripagarci dal freddo della sera e dalle fatiche della giornata.
Sveglia alle 3.30, partenza alle 4 senza smontare il campo. Dopo circa un’ora di cammino abbastanza agevole perché il terreno è compatto, costituito da rocce vulcaniche, comincia ad albeggiare. Sotto di noi, in lontananza, si vede l’altopiano desertico nel mezzo del quale si proietta l’ombra del vulcano; è sicuramente uno spettacolo insolito e bellissimo: una pianura desertica, illuminata dai pallidi raggi del sole che sta sorgendo, con un enorme e regolare cono d’ombra nel mezzo. Considerando la quota ed il fatto che il terreno da roccioso si è trasformato in un’immensa pietraia franosa, si capisce perché la fatica comincia di nuovo a farsi sentire.
Alle 10 raggiungiamo la vetta a 5822 metri; la giornata è serena ed il freddo, al contrario di ieri, ci ha accompagnato per tutto il cammino; nonostante l’altezza e la temperatura piuttosto bassa, poche sono le tracce di neve, solamente qualche chiazza nei luoghi meno esposti al sole. Al raggiungimento della cima, la fatica della salita è ampiamente ricompensata dalla vista dell’enorme cratere, nella cui bocca si scorgono diversi fumaioli ancora attivi; sotto di noi, 3500 metri più in basso, si vede molto bene la pianura desertica e, solo in lontananza, le propaggini della catena andina. Dopo mezz’ora di permanenza in vetta, purtroppo, bisogna ridiscendere per non mancare all’appuntamento col fuoristrada che verrà a prenderci. Con una lunga discesa ed una sola sosta al campo per smontare le tende, verso le 15.30 raggiungiamo il luogo dell’incontro dove è già presente ad attenderci il nostro autista.
È terminata la parte alpinistica (o meglio andina) del nostro viaggio. Domani Mario, Gabriele, Roberta ed Anna Maria rientreranno in Italia, mentre Beppe ed io ci concediamo ancora una settimana di turismo. Con un autobus di linea giungiamo a Puno, sulle rive del lago Titicaca, ai confini con la Bolivia. Il Titicaca è il lago navigabile più alto del mondo, essendo situato a 3856 metri d’altitudine. Gli abitanti della regione vivono, oltre che di turismo, pescando nelle sue gelide acque, coltivando patate ed allevando lama. Questa è l’area del Perù dove le tradizioni sono rimaste più integre, dove né gli invasori spagnoli né l’attuale modernità e turismo, sono riusciti a prevalere sulla cultura incas. Secondo la leggenda è qui, sulle rive del lago, che ebbe origine la civiltà degli Incas: si racconta che il Dio Sole, con i suoi figli, emerse dalle acque del lago per dare origine alla dinastia incas.
Dedichiamo il giorno stesso del nostro arrivo alla visita delle rovine di Sillustani, a circa 35 km da Puno. Le rovine sono costituite da chullpa (torri funebri) dove venivano sepolti i nobili. Queste torri circolari, che raggiungono un’altezza di 12 metri, sono avvolte nel mistero; non si conosce l’epoca della loro costruzione, anche se una cronaca spagnola del 1549 riferisce che erano “costruite di recente”. Sono formate da enormi massi squadrati posti uno sull’altro, con una piccola porticina di ingresso da dove non è possibile fare entrare la salma; per questo motivo si pensa che il corpo del defunto fosse calato dall’alto, prima della costruzione della copertura. Anche la tecnica di sollevamento degli enormi e pesanti blocchi di pietra è un mistero, potrebbe essere la stessa usata dagli egizi nella costruzione delle piramidi: enormi piani inclinati formati da terra rimossa al termine dell’opera.
Dedichiamo ancora un giorno alla navigazione sul lago per visitare alcune delle oltre trenta isole che sorgono dalle sue acque. Le isole più famose del Titicaca sono le Uros, isole di canna galleggianti a circa un’ora di navigazione da Puno, che prendono il nome dagli indios che le abitano. Questo piccolo arcipelago, formato da circa mezza dozzina di isolotti, è la prima tappa della nostra visita al lago. Queste isole, formate da canne che crescono sulle rive del lago, sono artificiali, probabilmente costruite come rifugio per difendersi dai nemici. A causa della povertà della zona, la maggior parte degli Uros si sono trasferiti a Puno. I pochi rimasti vendono i prodotti del loro artigianato ai turisti, si dedicano alla pesca ed alla caccia dei molti uccelli che popolano il lago; la loro sopravvivenza è inoltre basata sulla vegetazione lacustre, soprattutto sulle canne, utilizzate per costruire le abitazioni, le imbarcazioni ed addirittura le stesse isole. Poiché il fondo di queste isole artificiali si deteriora rapidamente nell’acqua, gli abitanti devono continuamente aggiungere strati di canne sulla parte superiore; questo rende spugnosa la consistenza della superficie e provoca una strana sensazione di instabilità nel camminarci sopra.
Seconda ed ultima meta della nostra visita al lago è l’isola di Taquile, patria di abilissimi tessitori, a due ore di navigazione dalle isole Uros. Il paese è situato sulla cima dell’isola, a circa 4000 metri, e per raggiungerlo si deve percorrere una ripida scalinata con oltre 500 gradini che mette a dura prova i molti turisti. Taquile è la patria dei tradizionali tessuti peruviani ed è frequente incontrare, lungo le strade e sulla piazza principale del paese, uomini intenti a confezionare gli splendidi copricapi di lana che sono indossati dagli abitanti dell’isola. I colori e i motivi decorativi degli indumenti forniscono indicazioni su chi li indossa: stato civile, posizione familiare, eccetera. Per esempio, gli scapoli portano un cappello di maglia con un ciuffo bianco, mentre i copricapi degli uomini sposati sono decorati con punti rossi. Si possono acquistare ottimi capi di lana, con coloratissimi disegni, a prezzi convenienti.
La giornata odierna è dedicata alla visita di Cuzco, l’antica capitale dell’Impero Incas. Cuzco, 225.000 abitanti, è una città dove presente e passato convivono; quasi 500 anni dopo l’ingresso degli spagnoli, la città rimane ancora un incrocio fra la cultura incas e quella europea. Oggi, naturalmente, è molto diversa dalle descrizioni che ne fanno le cronache spagnole, quando da qui partivano i chasqui, i veloci messaggeri dell’Impero Incas, per portare notizie ed ordini in ognuno dei quattro settori di Tahuantinsuyu, come era chiamato l’insieme delle regioni su cui gli Incas avevano esteso il loro dominio.
Secondo la leggenda, Cuzco fu fondata da Manco Capac e dalla sorella Mama Oclla, inviati da Inti, il Dio Sole. Muniti di un’asta d’oro, i due dovevano trovare un luogo dove l’asta affondasse agevolmente nel terreno. Lo trovarono a Cuzco, lì Manco Capac fondò la città ed insegnò agli uomini come coltivare i campi, mentre Mama Oclla istruiva le donne sui segreti della tessitura.
Nel momento del suo massimo splendore, Cuzco disponeva di un sofisticato sistema di acquedotti, le strade erano pavimentate e la povertà non esisteva. Ma il suo ruolo di capitale incas durò solo una settantina d’anni, ossia fino all’arrivo degli spagnoli. Non esistendo testimonianze scritte degli Incas, molti indizi sull’aspetto dell’antica capitale incas ci sono forniti dai diari, spesso inattendibili, dei conquistadores che, nella loro affannosa ricerca di tesori, si gettarono avidamente all’assalto degli antichi templi, sottraendo le opere in oro ed argento che si trovavano al loro interno. Soltanto nel 1535, quando la capitale della nuova colonia spagnola fu trasferita a Lima e la ricchezza di Cuzco era già stata completamente sfruttata, l’argento della Bolivia distolse definitivamente l’attenzione dalla valle. Oggi, dopo secoli di oblio, la scoperta di Machu Picchu, effettuata nel 1911, ha trasformato Cuzco nel punto di partenza per le visite di una delle attrazioni turistiche più famose del Sudamerica.
La visita di Cuzco deve necessariamente iniziare dall’affascinante Plaza de Armas, cuore turistico e commerciale della città. Ai tempi degli Incas questa piazza copriva una superficie corrispondente al doppio di quella attuale e rappresentava il centro esatto dell’impero di Tahuantinsuyu. La Plaza era il luogo dove si svolgevano le cerimonie militari e religiose più importanti e dove si trovava una pietra rivestita di lamine d’oro alla quale si dedicavano delle offerte prima di intraprendere ogni azione militare. Nei giorni della dominazione spagnola la piazza fu teatro di scene sanguinose, come l’esecuzione di Tupac Amaru II, il capo della ribellione degli indios che, catturato mentre cercava di fuggire, fu condannato a essere sventrato e squartato. Oggi la gente si riunisce in Plaza de Armas soprattutto in occasione delle festività. La piazza è particolarmente spettacolare dopo il tramonto, grazie all’illuminazione che ne evidenzia gli aspetti più solenni.
L’ultima tappa del nostro viaggio è dedicata alla visita di Machu Picchu, le più antiche rovine del periodo incas. Machu Picchu è raggiungibile da Cuzco con un viaggio di quattro ore su di un caratteristico e traballante trenino che si addentra nell’alta valle dell’Urubamba.
Nel 1536 gli Incas si ribellarono agli spagnoli e si rifugiarono a Vilcabamba, nella foresta a nordest di Cuzco, dove resistettero per trentacinque anni prima di essere definitivamente sconfitti. La città fu rapidamente inghiottita dalla giungla e cadde nel dimenticatoio. Quando, nel XVIII secolo, si scatenò la corsa alla ricerca della “città perduta”, dove si sarebbe dovuto trovare tutto l’oro sfuggito agli spagnoli, il nome di Vilcabamba le fu associato e tornò alle cronache. Gli indios Muisca, che abitavano l’attuale Colombia, fornirono una traccia a chi era ossessionato da quella ricerca riferendo agli spagnoli di un capotribù che ogni anno, nel corso di un rito, dopo aver cosparso il proprio corpo di polvere d’oro, si immergeva nelle acque di un lago. Questo episodio contribuì ad associare alla cittá perduta anche il nome di “El Dorado”, l’Uomo d’Oro.
Quando nel 1911 Hiram Bingham scoprì Machu Picchu, stava in realtà cercando le rovine di Vilcabamba. Bingham era convinto di aver trovato l’ultimo rifugio degli incas; Vilcabamba in realtà si trova un centinaio di chilometri ad ovest di Machu Picchu. L’errore di Bingham è comprensibile: non poteva immaginare che nella foresta a nord di Cuzco ci fossero ben due città perdute. Oggi è chiaro che le rovine trovate da Bingham non sono quelle di Vilcabamba, ma la scoperta pone un’enigma: se Machu Picchu non era Vilcabamba, allora cos’era? Le rovine presero il nome dalla montagna che le sovrasta (Machu Picchu significa Cima Vecchia), mentre l’altra cima poco lontana ha il nome di Huayna Picchu (Cima Giovane).
Sicuramente gli spagnoli erano all’oscuro dell’esistenza di Machu Picchu e, siccome avevano molti informatori tra gli stessi Incas, l’unica spiegazione plausibile è che nemmeno gli Incas, nel periodo della conquista spagnola, la conoscessero. La città e la regione furono probabilmente abbandonate prima della conquista spagnola, scomparendo dalla memoria dello stesso Popolo del Sole; questa totale ignoranza circa l’esistenza delle rovine può essere spiegata dal fatto che gli quipucamayocs, gli storici che si tramandavano oralmente le cronache dell’impero, sono oggi noti agli storici moderni per l’abitudine censoria di cancellare dalla memoria fatti o persone il cui ricordo fosse, per diversi motivi, scomodo. Forse questo fu il destino di Machu Picchu: una provincia ribelle punita in maniera così crudele che la sua esistenza non era neppure passata alla storia.
Il viaggio volge al termine, domani si parte per rientrare in Italia. Non essere riusciti a conquistare la vetta dell’Huascaran ha sicuramente lasciato in tutti noi un po’ d’amaro in bocca. Amaro che si è in parte attenuato, con il raggiungimento della cima del vulcano Misti e con la successiva immersione nelle culture Incas e Peruviana.
Scalare montagne, superare passi oltre i 5000 metri, attraversare a piedi valli sconfinate e vivere per settimane immersi nella natura incontaminata, sicuramente fa gustare il sapore dell’ignoto e dell’avventura, regala panorami stupendi, albe e tramonti con sfumature di colore bellissime. Anche conoscere popolazioni con etnie, tradizioni e costumi totalmente diversi dai nostri ha un fascino che difficilmente si può trovare in altre situazioni.
Tutto questo è stato il nostro viaggio nel Perù. Nonostante la delusione per il mancato raggiungimento della vetta, ci rimane nel cuore il ricordo del magnifico e, nello stesso tempo, spaventoso ghiacciaio su cui siamo rimasti tre giorni e tre notti. La salita al vulcano Misti, assieme alla gioia per il raggiungimento della sua vetta, ci ha lasciato il ricordo della splendida ed insieme terrificante visione del suo cratere, il bellissimo panorama della pianura desertica sotto di noi e l’indescrivibile sorgere del sole che ci ha sorpreso sulle sue pendici ad ammirare il cono d’ombra proiettato sulla vallata.
Visitare gli antichi insediamenti Incas e calpestare lo stesso terreno che, centinaia d'anni prima, era abitato da popolazioni di cui, ancora oggi, si ignora quasi tutto, ha il fascino del mistero e stimola il desiderio di approfondirne la conoscenza. Passeggiare nei paesi, al di fuori delle zone totalmente turistiche, tra gli sgargianti colori locali, visitare i molti mercatini all’aperto che espongono le merci più strane e discorrere con gli abitanti del luogo, dà un senso di tranquillità e di pace interiore che è in netta contrapposizione con la frenesia e l’agitazione collettiva che pervade le nostre città. Queste popolazioni, pur nella loro estrema semplicità di vita, sono riuscite a mantenere inalterato nel tempo un invidiabile equilibrio con la natura.