Firenze, Signoria o colonia straniera?

Fascino indiscusso ma anche tante perplessità riguardo una delle più belle città d’Italia

 

 

 

Beh, amici, quando ci vuole ci vuole!

Ricordo uno dei primi articoli di Cisonostato in cui Ricky, senza troppi peli sulla lingua, mise il dito nella piaga riguardo a una Venezia sempre più indifesa e indifendibile dalle aggressioni del turismo di massa e dei furbastri del business ad ogni costo. Dopo circa un anno dissi la mia sostenendo la necessità di riconquistare l’essenza della città lagunare, esortando i visitatori più attenti a svincolarsi dalle spire del turismo scriteriato nel tentativo di crearsi una propria Venezia di scoperte e memorie personali: mettersi cioè in caccia dei piccoli spazi appartati, delle osterie di quartiere rimaste intatte, delle bottegucce rionali, dei piccoli musei sconosciuti, dei campielli silenziosi disertati (per fortuna) dai cortei delle comitive: impresa sempre meno facile ma proprio per questo stimolante.
Freschissimo di un breve soggiorno in Toscana, ora tocca, in nome della par condicio, a Firenze: lo ripeto, quando ci vuole ci vuole!
Uscito dalla stazione, raggiungo la Pensione Erina in Via Fiume, non più di tre minuti a piedi: l’ho scelta, via Internet, proprio per questo. Entro nel portone di un monumentale palazzo degli anni venti mentre ne esce un gruppo di ipervitaminiche americane e salgo nello sferragliante ascensore insieme con quattro ragazzi giapponesi. Siamo a New York, Tokio? No, Firenze; del resto tutto lo stabile è occupato da alberghi e pensioni, uno o due differenti per ogni piano.
Nella hall c’è una comitiva di altrettanto ipernutriti americani in attesa della guida che li scarrozzerà per la città, mentre una sorridente famigliola giapponese sta pagando il conto alla reception. Yokohama, Boston? No, sempre Firenze; d’altra parte ben venga tutta la valuta pregiata che ci portano. La camera assegnatami, una matrimoniale a uso singola senza supplemento di prezzo, è grandissima, ordinata e pulita, ben al di sopra delle due stelle dichiarate: ho scelto bene e consiglio questa pensione a tutti.
Ho riservato la visita agli Uffizi per le tredici, tramite l’apposito servizio di prenotazione telefonica al numero 055294883: si paga un supplemento sul biglietto di € 1,55 ma si evita una coda tra i 45 e i 60 minuti. Così ho giusto il tempo per avviarmi, mangiare qualcosa ed essere alle gallerie all’ora prefissata.
Mancavo da Firenze da sei-sette anni e la trovo parecchio cambiata; e quando si trova cambiata una città che si è amata, di solito è in peggio. Percorro Via de’ Panzani, Via de’ Cerretani, Via de’ Tornabuoni e Via dei Calzaiuoli in una sfilata di ogni tipologia di ristorazione, in grande prevalenza quella rapida a vassoio: è normale un’offerta così vasta per una città che vive in prevalenza di turismo, ma il fatto che la maggioranza dei visitatori siano giapponesi e americani (niente di personale, sia chiaro!) ha portato a un’evidente lievitazione dei prezzi (e c’entra anche l’avvento dell’euro, non facciamo finta che non sia vero!).
Ho fame, non ho molto tempo per scegliere e immancabilmente ci casco: mi inserisco in una coda nippo-americana (tranquillo, è sempre Firenze, a pochi metri c’è il Palazzo della Signoria…) davanti a un self-service. Fatalmente mangio male spendendo la sciocchezza di 43.000 (lo dico in vecchie lirette, a rendere meglio l’idea), ma mi sta bene perché i segnali negativi c’erano tutti e non ho voluto coglierli: l’ubicazione ai margini di una piazza storica, l’insegna americaneggiante, lo schieramento di piatti già pronti impazienti di microonde, la replica alla mia richiesta di una birra piccola con “no, solo grande o media” (quotazione di quella media 10.000).
Soddisfatto così, anche se ho solo riempito la pancia, il corpo, tocca ora allo spirito e mi dirigo agli Uffizi. Entro dal varco destinato ai visitatori prenotati e salgo le scale che portano al corridoio principale; evidentemente c’è qualcun altro che ha pensato di riservare la visita, così mi trovo davanti a mo’ di tappo una folta comitiva (manco a dirlo) giapponese e tampinato subito dietro da un gruppo (indovinate´) di americani. Los Angeles, Osaka? No, Firenze, ormai ne sono sicuro, ho già riconosciuto nella seconda sala le Madonne di Cimabue, Giotto e Duccio.
Per fortuna la folla si distribuisce nelle varie sale quanto più l’itinerario espositivo va avanti, così posso agevolmente rinnovare il piacere di opere già viste che però non finiscono mai di emozionare. Naturalmente non ho intenzione di farne un elenco che in questa sede non avrebbe senso. Basta una delle centinaia di guide in commercio.
C’è però un aspetto che rende raccomandabile una visita agli Uffizi proprio in questo periodo, la mostra, aperta fino al 4 aprile, su Masaccio e l’invenzione della prospettiva. Ho anche il vantaggio che il settore che la ospita è, a torto, semideserto, anche perché un po’ decentrato e la visita è cumulata nello stesso biglietto d’ingresso per gli Uffizi. Posso così gustarmela con calma.
Masaccio, nonostante una vita durata solo 27 anni, dal 1401 al 1428, fece irruzione nel mondo artistico con la forza di un uragano. Non fu immediata, né da tutti condivisa, la sua maniera innovativa di rappresentare pittoricamente la realtà. Del resto la storia è piena di riconoscimenti tardivi: l’avvento del cinema fu visto dalla maggioranza come un semplice esercizio senza applicazioni pratiche per il futuro, lo stesso Ford stimava in non più di qualche decina di migliaia il numero massimo di automobili che potessero un giorno circolare sulla terra, e passò qualche anno prima che Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles fosse considerato il capolavoro che è.
Scusandomi per l’irriverenza dei paragoni, Masaccio, cogliendo al meglio la lezione dell’Alberti e del Brunelleschi, letteralmente “inventa” la prospettiva nella pittura; per la prima volta nella storia dell’arte è applicata una legge ottica che oggi diamo per scontata. Osservando in una cappella laterale della Chiesa di Santa Maria Novella l’affresco della Trinità (autentico “manifesto” della nuova tecnica, riprodotto in calce all’articolo), vediamo ben dislocati su differenti piani di profondità i due oranti laterali, le figure della Madonna e San Giovanni ai piedi del Cristo in croce, dietro a questo la presenza di Dio Padre, il tutto inquadrato in un’ambientazione architettonica di colonne con soffitto a cassettoni che sembra quasi uno “sfondamento” della parete della chiesa: l’effetto è quell’illusione prospettica che fece dire al Vasari, nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, “che pare che sia bucato quel muro”.
La mostra degli Uffizi si sviluppa in un percorso che approfondisce, attraverso una decina di “tappe”, questa rivoluzionaria novità. Vengono evidenziate le corrispondenze tra architettura e pittura con la ricostruzione degli strumenti delle botteghe artistiche dell’epoca e a mezzo di modelli in legno rappresentanti le forme più svariate. Non mancano istruttivi aspetti di interattività: l’esperienza di una “camera oscura” ad altezza d’uomo, una simulazione a grandezza naturale della Trinità sviluppata su tre dimensioni, un diorama raffigurante, con analoga dislocazione su più piani di profondità delle figure, la “Flagellazione di Cristo”, altrettanto importante dipinto di Piero della Francesca (anch’esso riportato in calce), artista che più d’ogni altro coltivò le intuizioni di Masaccio.
Nel complesso, una mostra che ritengo indicata anche ai bambini, un’occasione piacevole per introdurre i più piccoli al mondo dell’arte in modo divertente e non scolastico.
Il resto del pomeriggio mi vede girare senza fretta e quasi senza meta lungo i percorsi classici, da Ponte Vecchio a Santa Croce, da Piazza della Signoria a Orsanmichele (in restauro, peccato, ma era necessario), dal Battistero al Duomo al Campanile di Giotto.
Purtroppo gli aspetti negativi hanno il sopravvento sulle opere, per quanto meravigliose, che mi sfilano davanti. La statistica dei frequentatori dei vari siti potrebbe essere fatta in proporzione alla quantità di rifiuti sparsi sul selciato, sui gradini di chiese e palazzi, perfino nelle vasche delle fontane; le scolaresche ci mettono del loro, ma non generalizziamo, un contributo lo danno tutti, grandi e piccoli. E devo anche riprendere il doloroso discorso sui prezzi, ad esempio € 0,77 per fare pipì in una toilette discutibile, € 5,16 per salire sul Campanile di Giotto: è proprio impossibile arrotondare e rinunciare a quei sedici centesimi per quella che in fondo non è che la salita e ridiscesa di circa quattrocento scalini, pur con il premio di un panorama ineguagliabile?
Ma forse il problema è solo mio, magari è la mezza età che mi fa diventare intollerante. Intanto gli americani e i giapponesi, dall’alto delle loro valute, continueranno a entrare imperterriti senza neanche leggere la tariffa.
Ormai l’ho capito: Firenze, culla del Rinascimento, un tempo libero Comune e poi Signoria splendida come nessun’altra, si sta avviando da sola a una vocazione di colonia. Continuano ad aumentare le insegne di negozi, bar, locali e ristoranti in inglese, in attesa che nei menù la lista in italiano scivoli al terzo posto dopo appunto l’inglese e il giapponese. Peccato che spesso improvvisati traduttori non vadano tanto per il sottile, ma preferisco cogliere il lato divertente alla vista di choise of dishes anziché choice, boilled per boiled , fisch al posto di fish e di altri simili strafalcioni: anzi, suggerisco a “Striscia la notizia” una spassosa indagine. Per fortuna neanche l’americano medio è in buoni rapporti con l’ortografia e con lo spelling della sua lingua!
E infine un’ultimo rilievo, dopo di che la smetto, rivolto questa volta agli editori di guide: è proprio il caso di tradurre un termine ben definito, storico e tipicamente toscano qual è Uffizi in The Offices, Les Offices, Die Uffizien solo perché quell’edificio nacque come sede degli Uffici di Stato´ Pensate che un editore inglese che stampasse una versione italiana della National Gallery la titolerebbe La Galleria Nazionale´ O che uno francese, visto che la zona del noto Museo parigino era in origine terreno di cacce al lupo, tradurrebbe Le Louvre in Il Luparo?
Ho un po’ esagerato, d’accordo, ma la questione esiste e sarebbe bello trovare un punto di equilibrio: va bene andare incontro alle esigenze del turista che porta ricchezza ed è un ospite che deve essere invogliato a ritornare, ma io credo che le città d’arte italiane si possano vendere (e non svendere) da sole proprio in quanto tali. Ben vengano quindi le indicazioni multilingui nei musei, nei ristoranti, nei locali, sugli automezzi, senza mai perdere di vista, in nome di una male intesa idea di europeismo e di globalizzazione, che siamo comunque in Italia e che Firenze, Venezia, Roma, il nostro mare e le nostre montagne saranno per fortuna sempre qui e sempre qui dovranno venire a vederle!
Ma voglio dare un taglio alle cose criticabili e finire questa giornata fiorentina cenando in un posto che mi faccia dimenticare i fast-foods, i self-services, i tranci di pizza riscaldata, i malinconici panini di serie e i forni a microonde. Così mi metto alla caccia di una di quelle trattorie dove nei piatti ci siano specialità casalinghe toscane, ai tavoli clienti che parlino toscano e in sala servano camerieri toscani: ce ne sono ancora, basta cercare con un po’ di attenzione, ad esempio nel reticolato di vie intorno al mercato di San Lorenzo. Ne ricordo una dove qualche anno fa, in era anti-muccapazza, mangiai un’ottima bistecca alla fiorentina: la mia memoria visiva mi aiuta a rintracciare il posto, ma il locale (era Sergio, se ben ricordo) ospita oggi un centro di telefonia mobile.
Non voglio sbagliare, giro ancora un po’ leggendo menù e spiando attraverso i vetri delle sale da pranzo, finché ho fortuna: vedo entrare in una trattoria un gruppo di clienti che scambiano con il cameriere il saluto confidenziale di chi è frequentatore assiduo, così mi accodo cogliendo l’indizio inequivocabile. Tra l’altro mi rendo conto che, dopo tanto girare, sono a quattro passi dal mio hotel. Non a caso il locale è pieno e mi possono solo aggregare a un tavolo già occupato da una coppia: ma mi sta bene così e sta bene anche a loro. Il fatto che in sala sembrino conoscersi tutti è la miglior referenza: fanno eccezione il sottoscritto, due signore americane e una giovane inglese ospite di un amico fiorentino. Quest’ultima, alla vista della tagliata di manzo del compagno (è servita in grosse fette adagiate su un piatto cosparso di olio bollente, sicché la carne rimane appena scottata su un lato e al sangue sull’altro), ha un cenno di smorfia e chiede al cameriere pomodoro e mozzarella.
Io, che sto avvolgendo la prima forchettata delle pappardelle al ragù di coniglio, mi affretto invece a ordinarne immediatamente una porzione (e non me ne pentirò). Intanto, mentre una delle due americane si è messa al sicuro con una bella insalatona verde scondita, l’altra sta scrutando la ribollita che le è appena arrivata come si guarderebbe una bomba a orologeria: evidentemente non era la cosa che si era immaginata leggendo il menù. E dire che in bella vista troneggiano tre grosse casseruole in terracotta fumanti con una pappa al pomodoro, una pasta e fagioli e una ribollita che sembrano fare a gara nel dire “Mangiami!”.
L’americana assaggia un paio di bocconi in punta di forchetta, ma si arrende ripiegando anch’essa sull’insalata. I pittoreschi commenti in dialetto con un filo di voce (tanto quelle non capiranno mai) che il corpulento cameriere rivolge agli altri clienti mentre ritira la terrina quasi intatta sembrano usciti dalle pagine del Vernacoliere e valgono da soli una parte del conto.
Mi torna in mente una serata altrettanto piacevole trascorsa un paio d’anni fa in una trattoria-enoteca di Arezzo. I due tavoli di fianco al mio erano occupati da inglesi e tedeschi, i quali, menù aperto davanti e nella mano dizionarietto italiano, dopo avere sviscerato ogni parola della lista si erano in prevalenza decisi per insalate, pizze o spaghetti al pomodoro; alla faccia di un enorme bancone che esponeva in bella vista un trionfo di bruschette, salsine, crostoni, affettati, formaggi e insaccati da far resuscitare i morti!
Ricordo che l’oste mi aveva evidentemente preso in simpatia e nell’imminenza della chiusura si era messo a conversare esprimendomi il suo rammarico.
“D’accordo che gli stranieri possono avere qualche difficoltà leggendo di pici all’aglione, grifi con polenta, ribollita, pappardelle sull’anatra – così si era sfogato il brav’uomo dividendo con me la caraffa del vin santo – ma, diobono, la cucina italiana è la migliore del mondo, provate ad assaggiare anche le cose che non sono tradotte sul vocabolario! Tanti stranieri si stanno sistemando in Toscana, e non c’è niente di male, anzi è denaro buono che arriva e si salvano case di campagna, fattorie, cascinali che magari andrebbero in rovina. Il guaio è che pochi imparano a mangiare. Sembra che abbiano paura, ti domandano la pasta al pomodoro, la pizza, la cotoletta impanata con le patatine, e a noi ristoratori tocca adattarci se non vogliamo perdere clientela. Rischiamo di snaturare la cucina, ma dobbiamo batterci per evitare che da locale diventi internazionale, senza fantasia e senza cuore”.
Bravo il sor Ottavio da Arezzo! Tieni duro con la tua crociata in nome del bel mangiare!
E speriamo che tengano duro anche “I due G” (è questo il nome della trattoria di Firenze, Via Cennini, per il fatto che i soci proprietari si chiamano entrambi Luigi), continuando a offrire cucina genuina e atmosfera familiare. E se qualche straniero non apprezza, tanto peggio per lui!

5 commenti in “Firenze, Signoria o colonia straniera?
  1. Avatar commento
    Leandro
    20/03/2002 13:52

    ...Oppure, caro Andrea, potresti prepararci in bell'articolo sulla Firenze vista da un fiorentino, svelandone i lati nascosti. Abbiamo già sul sito analoghi articoli su Genova e Siena. Sarebbe in piacere pubblicarlo! Ce lo fai un pensierino?

  2. Avatar commento
    Andrea
    20/03/2002 13:52

    Anche io ti capisco Leandro! Mi sono imbattuto nel tuo articolo per puro caso. Io abito nei dintorni di Firenze, ma ho abitato in centro per venti anni... non sto a dirti come e' cambiata Firenze in questi anni!! Però alcuni posti genuini ci sono rimasti davvero e il bello è che non li conosce nessuno, almeno che uno non sia di Firenze! Se ci ritorni, mandami un email e ti delizierò con posti incantati!

  3. Avatar commento
    Leandro
    20/03/2002 13:52

    Toh, ecco qualcuno che condivide il mio rammarico; temevo di essere rimasto l'ultimo idealista del pianeta... Caro Toscana Jones, decentrarsi dai "turismifici" quando vado a Firenze, così come a Venezia, Roma o altro, è esattamente quello che faccio da anni. Ma il nemico è sempre più agguerrito e l'esercito del Dio Quattrino allarga i suoi possedimenti in maniera inarrestabile e sempre più veloce! Ci ritroveremo nelle riserve come i pellirosse e gli aborigeni...

  4. Avatar commento
    Toscana Jones
    20/03/2002 13:52

    Purtroppo, Leandro, l'anima bottegaia della Firenze turistica si sta "svendendo" alla ricerca spasmodica del Dio Quattrino. Consiglio a quanti vorranno venire a visitare questa città, di abbandonare il centro storico per le loro esigenze alimentari e di rivolgersi al popolare quartiere di San Frediano, (tutta la parte di Firenze a sud dell'Arno) in cui si riesce ancora a coniugare qualità e prezzo ragionevole...!

  5. Avatar commento
    Claudio
    20/03/2002 13:52

    Come ti capisco,Leandro, come ti capisco! E come hai tremendamente ragione! Sono 5 anni che non mi faccio un bel giro per Firenze, ma diciamo, che in passato ho avuto frequentazioni abbastanza assidue, con questa citta'. Già vi erano chiari segnali di cio' che tu hai cosi' ben descritto, con quella punta di indovinata ironia che stempera un po' la tristezza di uno scenario per il quale ci sarebbe ben poco da ridere! ..."furbastri del business ad ogni costo"..., certo! Come si può meglio delineare la fisionomia di questi amministratori e bottegai senza scrupoli? Firenze, Venezia queste città, questi gioielli, così, stanno perdendo l'anima. Consideriamo, cari amici di Cisonostato, questo di Leandro come un invito ad una riflessione, su quello che sta accadendo in alcune (sì, fortunatamente solo alcune) realta' della nostra Italia.

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