La Strada degli Alpini

Nel cuore delle Dolomiti di Sesto

Tutto nacque su un treno al ritorno da una trasferta di lavoro. Gino, un collega con il quale avevo frequenti contatti nell’ambito professionale ma poco conosciuto sul piano personale, si rivelò grande appassionato del mondo dolomitico, particolarmente dell’area Val Pusteria - Dolomiti di Sesto.
Carta e penna alla mano, delineò in breve a me e a Enzo lo schizzo di uno dei più significativi itinerari di traversata di quelle montagne, completo di suddivisione in tappe, tempi di percorrenza, dislivelli, grado d’impegno, rifugi in cui pernottare, cose da vedere. Non lasciammo passare molto tempo: fissammo una settimana di ferie, coinvolgemmo anche Marina e Claudia e in un mattino di fine agosto eccoci in partenza da Genova, sull’auto carica di quattro zaini da far paura, con direzione Misurina.
Raggiunti la località e l’omonimo lago a metà pomeriggio, facciamo l’immancabile sosta per contemplare uno dei più celebrati paesaggi dolomitici, quello delle Tre Cime di Lavaredo e del Gruppo del Cristallo che si specchiano nell’acqua; grazie alla seggiovia, bastano pochi minuti per salire ai 2115 metri del Col di Varda, magnifico punto panoramico e per secoli osservatorio di grande importanza strategica (il nome è infatti la deformazione di Colle di Guardia) verso Misurina e il Passo Tre Croci.
La nostra meta è ora il Rifugio Città di Carpi. Il percorso, della durata di circa un’ora e mezza, si svolge senza grossi dislivelli lungo una mulattiera militare, l’ideale per prendere gradualmente confidenza con il peso degli zaini. Apprezziamo sulla nostra destra un panorama apertissimo verso le Marmarole e il Sorapiss finchè, usciti da un tratto boscoso, saliamo ai 2110 metri del Rifugio, una confortevole costruzione in legno annerito immersa in un bellissimo scenario di pascoli e mughi.
Ricorderemo sempre con piacere la cordiale ospitalità, la squisita zuppa di canederli e un tramonto da brividi che sembra tingere di rosso la Croda dei Toni; passeremo alla sua base dopodomani ma con questa luce sembra quasi di poterla toccare già da qui.
Lo spettacolo dell’alba non è da meno e abbiamo modo di farci un’idea di quanto scenografici siano i Cadini di Misurina, che si stagliano alle spalle del rifugio. Questo gruppo, che oggi attraverseremo in senso sud-nord, ha una struttura davvero singolare: ai piedi di un labirinto di cime aguzze, campanili, pinnacoli, torri, guglie, crinali seghettati, si estendono avvallamenti ghiaiosi a forma di catino (dialettalmente appunto “cadini”) collegati da nove forcelle (o “rami”) in quota che consentono il passaggio dall’uno all’altro tramite un continuo saliscendi di sentierini a zigzag. Un tracciato così articolato offre ai percorritori una sequenza di scorci panoramici che fanno di questa traversata una delle più entusiasmanti dell’intero arco dolomitico: dal Rifugio Città di Carpi al Locatelli si tratta di camminare per circa sette ore, ma lo sforzo è molto attenuato dalla possibilità di effettuare in quota il pernottamento precedente e quello successivo. Di tanto in tanto si incontrano brevi tratti attrezzati con cavi d’acciaio, scalette o pioli metallici che non devono però impensierire, anzi ne risulta una maggiore sicurezza nei pochi passaggi appena un po’ più impegnativi di un normale sentiero escursionistico.
Partiti dal rifugio intorno alle otto, guadagniamo costantemente quota lungo una spalla erbosa fino a che, terminata la vegetazione, attraversiamo il Cadin delle Pere (significa “delle pietre”). Ci attendono tre salite e altrettante discese di un centinaio di metri ciascuna scavalcando in successione le Forcelle Cristina, del Deserto, Sabbiosa e della Torre; da quest’ultima, facilitata da un ponticello in legno, si gode un repentino e straordinario mutamento di paesaggio, con la muraglia delle pareti sud delle Tre Cime di Lavaredo. Purtroppo, alla loro base, è anche chiaramente visibile la processione di auto incolonnate lungo la deplorevole strada a pagamento del Rifugio Auronzo: è uno dei più evidenti simboli di cattiva gestione della montagna, che non mi stancherò mai di biasimare ogni volta che tornerò sull’argomento.
Ha qui termine il Sentiero Durissini, finora seguito; un tratto di ghiaie in discesa e una rampetta in salita che si dirama dalla traccia principale portano al Rifugio Fonda Savio, situato al Passo dei Tocci (m.2359) alla base della massiccia Torre Wundt, giusto all’ora e nella posizione migliore per uno spuntino.
Ci attende ora il Sentiero Bonacossa, seconda parte della traversata dei Cadini, più o meno dello stesso impegno e durata della prima. L’ambientazione varia gradualmente, in quanto, dopo una conca detritica che porta a scavalcare la Forcella di Rimbianco, ci si trova in un ambiente più aperto e panoramico. Dopo una cengia un po’ esposta ma larga e munita di corrimano in cavo d’acciaio, si arriva a uno dei passaggi più curiosi dell’itinerario, un pendio roccioso sempre bagnato sovrastato da una parete strapiombante e reso sicuro dalla corda fissa e da una scaletta. Saliamo ancora un po’ fino a sbucare sulla dorsale del Monte Campedelle, in un settore in cui cominciano a essere frequenti i resti di postazioni della Grande Guerra; dopo alcuni passaggi in galleria, in parte evitabili aggirandoli, tagliamo un’ampia estensione di prati per giungere infine al Rifugio Auronzo. Abbiamo camminato cinque ore e mezzo per arrivare qui e mescolarci alla massa dei vacanzieri chiassosi in tenuta più da spiaggia che da montagna. È davvero stonato che questo posto di chiami ancora Rifugio!
Preferiamo tirare diritto e per fortuna la fatica non tarda a fare giustizia: se solo una metà dei turisti si allunga sui trenta minuti di mulattiera militare che porta al Rifugio Lavaredo, non più di uno su cinque copre l’altra ora di sentiero fino al Locatelli, specialmente in questo tardo pomeriggio in cui la folla comincia a riversarsi sulle auto per rientrare in albergo. Così, quando verso le 18 scolliniamo oltre l’insellatura della Forcella Lavaredo, possiamo godere lo scorcio da est delle Tre Cime allineate e del Rifugio Locatelli già visibile ai piedi del Sasso di Sesto nella fantastica luce del tramonto e in un silenzio impensabile un’ora fa nel caos dell’Auronzo.
È la degna conclusione di una giornata magnifica e, dopo una sostanziosa cena, ci ritiriamo nella nostra cameretta ansiosi delle altre meraviglie che ci aspettano nei prossimi due giorni.

Ma in montagna, sarà un luogo comune ma è sacrosantamente esatto, non si può essere mai sicuri di niente. Appena la prima luce dell’alba filtra attraverso la finestra, diamo un’occhiata fuori e vediamo il pianoro tutto imbiancato di neve che sta ancora cadendo fitta: un fatto tutt’altro che eccezionale il 1° settembre a quota 2405, ma è evidente che in queste condizioni la traversata delle creste del Paterno diventa problematica.
S’impone quindi una modifica del programma; visto che il Locatelli è strapieno, fissiamo subito un secondo pernottamento e ci accontenteremo di far passare la giornata con brevi passeggiate (senza zaino in spalla, il che non è poco…). Sarà comunque tutt’altro che tempo perso, anche perché a partire dalle dieci si fa largo una schiarita via via più ampia che aumenta ancora la suggestione di un quadro già reso splendido dalla neve fresca.
Dedichiamo un paio d’ore a un’escursione lungo il classico sentiero 105, che ridiscende la Val Campo di Dentro fino a ricongiungersi alla carrozzabile per Sesto e San Candido, storicamente interessantissimo per la presenza di trincee, ricoveri, postazioni e residuati della Grande Guerra. Saliamo poi al Sasso di Sesto per compiere un giro intorno alla Torre di Toblin, importante osservatorio austriaco e zona ancora disseminata di camminamenti e gallerie. Un insieme di testimonianze dell’assurdità della guerra che ogni persona di buon senso (e non…) dovrebbe almeno una volta nella vita visitare.
Per completare il “campionario” mancherebbe solo il Paterno, della cui straziante vicenda bellica ho già parlato nel precedente articolo “Dolomiti in guerra”, al quale rimando. Anche se non ci sarà il tempo di salire e discendere dalla cima, partiamo comunque dal Locatelli intorno alle 16: vorrà dire che ci limiteremo al percorso in galleria, quello più intonato al tema storico sul quale abbiamo improntato la giornata. Raggiunto il curioso pinnacolo noto come Salsiccia di Francoforte, lo superiamo tramite una prima breve galleria, per poi imboccare la seconda, in decisa salita, lunga 400 metri, di cui la seconda metà non più agibili. Anche se di tanto in tanto si aprono delle “finestre” che offrono vedute spettacolari sui Laghi dei Piani, l’oscurità rende indispensabile la pila, mentre la corda metallica è di aiuto per l’irregolarità dei gradini e la scivolosità del terreno sempre bagnato. Sbucati alla luce, inizia un canalino inclinato in salita non difficile ma insidioso per la neve indurita; si aggiunga che il cavo di sicurezza è ormai un candelotto di ghiaccio continuo, che il sole è tramontato da un pezzo, che il freddo comincia a farsi sentire e quindi reputiamo saggio tornare indietro. Anche se dalla cima ci separano non più di tre quarti d’ora, meglio non correre rischi. Torneremo un’altra volta, abbiamo visto che l’ascensione in condizioni normali è alla nostra portata. E poi, le montagne non scappano!

Dopo il secondo pernottamento al Locatelli, non c’è alternativa: bisogna partire, anche se il tempo non promette nulla di buono. Arriveremo comunque al Rifugio Zsigmondy-Comici, che dista da qui un paio d’ore, e là decideremo se intraprendere la Strada degli Alpini, motivazione primaria che ci ha spinto qui, o ripiegare sulla discesa a Sesto lungo la Val Fiscalina.
Partiti intorno alle otto, tagliamo l’agevole ghiaione ai piedi del Paterno tra vento e nevischio, ai quali, durante la salita ai 2522 della Forcella Pian di Cengia, si aggiunge anche la nebbia: della presenza dell’omonimo rifugio ci accorgiamo quando lo abbiamo ormai a pochi metri. Una sosta per qualcosa di caldo è davvero d’obbligo (ho già decantato il Rifugio Pian di Cengia nel precedente articolo “Parliamo di Rifugi”), ma la cosa che più conta è la schiarita che si intuisce proprio verso la Cima Undici, sul cui fianco comincia a essere evidente la lunga cengia alla quale siamo diretti.
L’unica precauzione, come ci consiglia il gestore dello Zsigmondy-Comici, sarà evitare la salita al Passo della Sentinella, sempre un po’ scabroso e oggi certamente ghiacciato, e scendere invece ai Prati di Croda Rossa. Si aggiunga il fatto che, avendo dormito al Locatelli anziché qui (come programmato), la traversata odierna finirà per impegnarci per oltre otto ore invece che le sei previste.
Eccoci allora risalire il lungo ma facile ghiaione alla base dell’imponente Croda dei Toni fino a raggiungere la Strada degli Alpini propriamente detta: si tratta di un lungo camminamento ricavato durante la Grande Guerra sulla parete ovest di Cima Undici dalle nostre truppe ampliando una cengia naturale per potervi transitare con i muli e i materiali. Oggi costituisce uno dei più raccomandabili sentieri dolomitici, percorribile senza difficoltà grazie alla sua larghezza, a qualche ponticello e al cavo di sicurezza nei pochi passaggi esposti. Il tratto più spettacolare è la cosiddetta “cengia della salvezza”, in particolare una rientranza in una gola stretta e buia, nella quale è necessario procedere chinandosi un po’: lo scorcio “a croce” tra le due quinte rocciose è uno dei soggetti più diffusi nelle cartoline.
Tagliamo un terrazzamento alla base di uno scivolo ghiacciato in via di scioglimento sul quale seguiamo un passaggio sempre ben pestato, dopo il quale ha inizio un lungo tratto in lieve e regolare salita: è un traversata in un severo contesto di roccia ma rilassante e molto istruttiva per l’esteso panorama sulla nostra sinistra verso Croda dei Toni, Cima Una, Crode Fiscaline e Cima dei Tre Scarperi e per le frequenti rovine di postazioni che si incontrano, talvolta in posizioni talmente impervie da far venire i brividi al pensiero degli ignoti soldati (in questo caso austriaci) che vi trascorsero giorni, settimane o mesi.
Ai 2600 metri di Forcella Undici ecco il bivio: sulla destra sale la ripida traccia che porta al Passo della Sentinella, mentre a sinistra si perde quota lungo le ghiaie del Vallone della Sentinella. È quella la nostra direzione, anche se le recenti nevicate hanno creato l’imprevisto ostacolo di una lastra ghiacciata di una decina di metri proprio alla sommità della discesa; fatta un po’ di gradinatura con i tacchi degli scarponi e aiutandoci con la corda, superiamo il passaggio, dopodiché è un’ininterrotta scivolata sui detriti friabili fino al fondo del vallone. Ancora un’ora di sentierino a saliscendi tra mughi e macchie di conifere finché d’improvviso il bosco si apre per rivelare una veduta da paradiso terrestre: sono i Prati di Croda Rossa, un alpeggio per il quale l’aggettivo “idilliaco” è davvero ben speso! Dopo tre giorni di rocce, ghiaie, neve e ghiaccio, è un cambio di scenario davvero gradito.
Ci sistemiamo nell’omonimo rifugio (Rotwandwiesen Hütte), dove il gestore, un tedescone scolpito con l’accetta ma simpatico, ci chiede se non abbiamo nulla in contrario, visto che siamo gli unici quattro ospiti, a cenare alle 18,45. Che cosa pensate che gli abbiamo risposto?

La luce dell’alba successiva illumina la Croda Rossa facendole meritare appieno il suo nome. La salita alla cima tramite la spettacolare ferrata è già nel calendario dei progetti, ma quella sarà una prossima storia.
Per questa prima volta nelle Dolomiti di Sesto possiamo ritenerci soddisfatti e scendiamo a Moso con la seggiovia. Il programma, molto più “borghese” e succulento, è ora di soffermarci un paio di giorni lungo la Strada del Vino tra Bolzano e Trento: un’altra storia pure quella, della quale parlerò in un altro articolo.

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