Parliamo di rifugi

… i più duri da conquistare sono i più amati!

Frequento l’area dolomitica da ormai venticinque anni, anche se sembra ieri il giorno in cui dietro un tornante mi apparve per la prima volta il Lago di Molveno ai piedi di una splendida cerchia di cime: “…mi sembra di avere letto che sia il Gruppo di Brenta”, così accennai a mia madre, accompagnata a trascorrere una vacanza rilassante dopo un periodo di malattia. Era in effetti il Brenta che, come ho accennato in altri articoli di Cisonostato, ebbi modo di girare per tutta la sua estensione, con relativo innamoramento di quelle montagne, nell’arco di una quindicina d’anni.
Ho avuto fin dall’infanzia la passione per le collezioni, dalle figurine ai minerali, dai tappi di bottiglia alle scatole di fiammiferi, per citare solo quelle “normali”. Fu del tutto logico quindi intraprenderne altre due, quelle delle cartoline con il timbro e delle spille ricordo dei rifugi toccati nel corso delle escursioni, riempiendone album e vetrinette: la collezione continua tuttora, con una limitazione rigorosa, cioè comprendere esclusivamente i rifugi visitati di persona.
Qualcuno ha scritto che viviamo in quanto ricordiamo: allora passare di tanto in tanto in rassegna quel materiale è un po’ come rivedere il film di gite brevi o lunghe, di amicizie, fatiche, soddisfazioni, di ogni tipo di condizioni meteorologiche.
Le poche righe che seguono vogliono essere dei sintetici flash di esperienze estrapolate da quel catalogo. Senza la pretesa di fare classifiche o di improvvisarmi guida alpina, siano presi per quello che sono: una serie di suggerimenti per approfondire un importante aspetto del mondo dolomitico.

Con il trascorrere del tempo il termine “rifugio” è rimasto inalterato a classificare in qualche caso edifici che di quella tipologia hanno più ben poco: mi riferisco a quelli raggiungibili in auto o con un impianto di risalita, che sono diventati, oltre che riferimento per i camminatori, una meta facile per godere di un bel panorama, stendersi al sole o gustare i piatti della cucina tipica da parte dei villeggianti meno dinamici. Non c’è niente di male, purché l’educazione e il rispetto per gli altri e per l’ambiente limitino l’impatto in termini accettabili. Certamente la funzione originaria del “rifugio” ne risulta snaturata; si possono citare come esempi significativi l’Auronzo alle Tre Cime di Lavaredo o il Dibona alle Tofane.
Forse è per questo che mi sono particolarmente care, in quanto più sudate, le cartoline e le spille dei rifugi “scomodi”, quelli cioè che possono essere raggiunti a prezzo di lunghe camminate, ripagate però da un insieme di piccoli piaceri quali l’appagamento per una meta raggiunta, un po’ di sana stanchezza, il sollievo di scaricare lo zaino dalle spalle e un bel minestrone caldo che, chissà perché, in quel contesto è sempre squisito.

Il primo che mi viene in mente è, manco a dirlo, il Pedrotti alla Bocca di Brenta, toccato non meno di una decina di volte. Pur con l’ausilio della funivia del Grosté (lato Madonna di Campiglio) o della seggiovia del Pradèl (lato Molveno), per raggiungere i suoi 2491 metri ci vogliono circa quattro ore di marcia, vale a dire dalle sette alle otto tra andata e ritorno. Se invece la provenienza o la direzione sono il Sentiero Orsi o le Bocchette Centrali, c’è anche l’impegno supplementare delle vie attrezzate.
Ogni volta che ritorno al Pedrotti, guardando le facce stanche ma felici della gente, mi compiaccio dell’opposizione popolare che nel 1968 bocciò il progetto della costruzione di una funivia in due tronchi da Molveno alla Bocca di Brenta, salvando il luogo da un’invasione di vacanzieri in bermuda e ciabatte infradito che avrebbe significato la morte di queste montagne.

Sempre nel Gruppo di Brenta, altrettanto defilato è il Dodici Apostoli, a una quota di appena tre metri inferiore al Pedrotti. Non ci sono dubbi, chi siede nella sua sala da pranzo facendo spaziare lo sguardo tra gli spuntoni rocciosi della Bocchetta dei Due Denti, la chiesetta scavata nella roccia e la lingua ghiacciata della Vedretta d’Agola, il minestrone se lo è ampiamente guadagnato: infatti, o è salito da Pinzolo camminando per tre ore (e chi è passato tra le placche rocciose della “Scala Santa” sa che non è uno scherzo), o si trova a metà di una traversata impegnativa che comprende vie ferrate e tratti su neve o ghiacciaio.

La solidarietà che si crea tra gente che va per monti finisce per essere, in quegli edifici distanti dai centri abitati, in ambiente che può sembrare inospitale e talvolta ricavati in spazi ridotti, ancora più forte: se poi si divide il cammino, il tavolo, la camera e le suggestioni di un tramonto e di un’alba da brividi con persone fino a poche ore prima sconosciute, la solidarietà può trasformarsi in amicizia.
È proprio per alcune simpatiche conoscenze che ricordo con piacere un altro rifugio, il Franco Cavazza al Pisciadù, nel cuore del Sella, straordinario gruppo montuoso anch’esso trattato in un articolo di questa sezione. Arrivare su questo pianoro roccioso a quota 2585, significa, in un modo o nell’altro, avere percorso un itinerario comunque impegnativo: pur evitando la prestigiosa Ferrata Tridentina, gli accessi dalle ripidissime Val Setùs e Val Culèa, dalle più moderate Val Lastìes e Val de Mezdì o la traversata al Rifugio Boè non sono in nessun caso gite agevoli, comprendendo tutte qualche tratto esposto, per quanto ben assicurato con cavo d’acciaio.

Una magnifica sensazione di essere in un mondo a parte (e la soddisfazione di trovarsi proprio lì) si può provare all’Antermoia (m. 2497), nello splendido contorno del lago omonimo e di un contorno di pareti vertiginose a picco sull’acqua. Punto di appoggio ideale per traversate, vie ferrate e scalate di ogni livello di impegno, il rifugio può comunque essere meta finale di escursioni tutt’altro che banali: tutti i sentieri in partenza dalle frazioni della Val di Fassa, cioè Mazzin, Fontanazzo e Campitello, comportano infatti un dislivello superiore ai mille metri che richiede una salita tra le tre ore e mezzo e le quattro. Tempi e impegno analoghi sono richiesti anche a chi provenga da Gardeccia via Passo d’Antermoia, per non parlare della salita in ambiente appartato e selvaggio dalla Val di Ciamin tramite la conca di Grasleiten e il Passo Principe. Insomma, anche qui la cartolina e la spilla ricordo sono ben meritate.

“Piccolo è bello”: sotto questa definizione mi piace annoverare quei rifugi di dimensioni contenute, spesso in posizione strategica per spezzare lunghe traversate, che ancora più degli altri sembrano immergere l’escursionista nella grandiosità dell’ambiente montano.
Non dimenticherò mai, ad esempio, il mio arrivo al Pian di Cengia durante un trekking itinerante di cinque giorni nelle Dolomiti di Sesto di qualche anno fa. Subito dopo la partenza dal Locatelli, dove avevamo pernottato, si scatenò una bufera di neve fuori stagione, tanto che ci accorgemmo di essere giunti al piccolo edificio solo a pochi metri dalla sua facciata in legno. Il piacere dello strudel e della cioccolata bollente che consumammo è tuttora ben vivo nella nostra memoria; il rifugio, che sorge a 2522 metri e dispone di soli dieci posti letto ubicati nel soppalco al quale si accede tramite una scala a pioli, è tra i più suggestivi e un pernottamento è vivamente raccomandabile, magari nell’ambito di un istruttivo itinerario lungo i residui di postazioni, trincee e fortificazioni della Grande Guerra di cui la zona è disseminata. Altro aspetto memorabile della giornata fu il repentino cambiamento del tempo non appena tornati all’aperto, il che ci consentì di percorrere la Strada degli Alpini in condizioni ideali.

Mi sposto di nuovo in Val di Fassa. Quando nel 1996 vi soggiornai per la prima volta, ricordo una piacevole conoscenza fatta la prima sera nel mio hotel di Pozza; facilitato dal comune accento genovese, attaccai discorso con un altro ospite che mi disse con orgoglio: “Ho appena compiuto 82 anni ma anche quest’anno ce l’ho fatta ad arrivare al Rifugio Passo Santner”.
È in effetti una delle gite “classiche” della Valle, una camminata di circa due ore e mezzo dai 1949 metri di Gardeccia, passando per i Rif. Vaiolet e Re Alberto, ai 2741 del passo: l’indomani stesso mi recai anch’io su quello splendido nido d’aquila per centellinare il magnifico panorama delle Torri del Vaiolet a nord, la Croda di Laurino a nord-ovest, il Catinaccio a est, il fondo valle verso Passo Nigra al di là di uno strapiombo verticale a sud-ovest e il tratto finale della semplice ferrata di Passo Santner a sud-est. Manco a dirlo, dopo due giorni, munito di opportuna attrezzatura, eccomi salire dall’opposto versante lungo quel labirinto di guglie, pinnacoli e canalini completando la divertente arrampicata con il rinnovato piacere di ritrovarmi nel confortevolissimo rifugio, gestito in maniera esemplare. Sono solo otto i posti letto a disposizione in due camerette, eccellente ragione per fermarsi qui una notte a gustare un tramonto da pelle d’oca circondati da impensabili silenzi.

Assolutamente particolare è infine un altro piccolo rifugio poco distante dal precedente, anch’esso in posizione strategica all’incrocio di diversi sentieri del Gruppo del Catinaccio. Il Passo Principe, che prende il nome dal valico sul quale è situato a quota 2601, può ospitare per la notte una dozzina di persone e colpisce soprattutto per la posizione veramente originale: la costruzione è infatti letteralmente incastrata sotto un roccione spiovente della Cima di Valbona e offre un colpo d’occhio unico per la struttura in legno annerito sulla quale spiccano le macchie bianco-rosse delle finestre. Oltre che punto d’arrivo di una gita di circa due ore da Gardeccia, è anche la base per la salita alla vetta del Catinaccio d’Antermoia, massima cima del Gruppo con i suoi 3004 metri, lungo una delle ferrate più facili e panoramiche delle Dolomiti. Ideale completamento dell’esperienza è la discesa dal versante opposto fino al già citato Rifugio Antermoia: unendo il tutto, si può vivere un’indimenticabile giornata di montagna colma di un bel concentrato di meraviglie.

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