Itinerari sul fronte dolomitico

Sentieri di guerra

Tutti avevano la faccia del Cristo nella livida aureola dell'elmetto
Tutti portavano l'insegna del supplizio nella croce della baionetta
E nelle tasche il pane dell'ultima cena
E nella gola il pianto dell'ultimo addio

Così si legge su una targa di autore ignoto posta all'ingresso della galleria del Castelletto della Tofana.
Oggi quei 507 metri di galleria sono percorribili in sicurezza da ogni escursionista che non soffra di claustrofobia: basta una pila, un casco, un cordino e un moschettone per sbucare, con un po' di fiatone, sul versante opposto della Tofana di Rozes, appollaiarsi su un terrazzino roccioso protetto da un cavo d'acciaio e gustarsi da un singolare punto di vista il magnifico panorama sul Lagazuoi, il Castelletto e la Val Travenanzes.
Posso immaginare che le riflessioni di ogni soldato, non conta di quale schieramento, in quell'estate del 1916 per buona parte passata a scavare una galleria di mina da una parte e una di contromina dall'altra, fossero ben lontane dall'ammirazione del paesaggio: il pensiero esclusivo era su una lugubre gara a chi l'avrebbe riempita di esplosivo e fatta saltare per primo, mesi di perforazioni spasmodiche e notti insonni con l'orecchio sempre teso per individuare in quale direzione il nemico stesse scavando. Intanto, sul versante opposto della valle, Sua Maestà e gli alti comandi seguivano le operazioni al sicuro delle linee arretrate presso le Cinque Torri.
Da qualche anno ho cominciato a interessarmi della vicenda umana legata alla Prima Guerra Mondiale, leggendo libri e percorrendo itinerari ancor oggi disseminati di resti, a volte imponenti, di postazioni, casermette, trincee, pezzi di artiglieria, baraccamenti, gallerie. Mi sento di consigliare a tutti di visitare almeno una volta quegli scenari, anche a chi è convinto della necessità della guerra come unica soluzione: non sono io a dover far presente che oggi le guerre, dichiarate o meno, vengono combattute in maniera ben più infame, ma già ottant'anni fa il sacrificio di uomini e risorse per guadagnare in mesi di combattimenti poche decine di metri di terreno avrebbe dovuto impartire una lezione di cui fare tesoro.
Colpisce il fatto, sfogliando libri sul tema, sia scritti da italiani che da austriaci, che di rado il racconto di quel periodo storico sia svolto con tono fazioso, così come le battaglie lungo la linea del fronte tra i componenti dei due eserciti che spesso si fronteggiavano a distanza di sguardo erano, anche se inevitabilmente spietate, improntate a lealtà e reciproco rispetto: nemici sì, ma soprattutto uomini accomunati da un medesimo destino e ben più vicini di quanto le strategie militari imponessero.

PASUBIO
Mi trovai a visitare per la prima volta il teatro della Grande Guerra una decina d'anni fa. Si trattò della zona del Pasubio, un'escursione organizzata da un amico, appassionato conoscitore di quelle vicende belliche. Lassù, dai 2232 metri della Cima Palòn, si domina un paesaggio brullo nel quale, a distanza di oltre ottant'anni, si fa faticosamente largo tra le pietraie una rada vegetazione, nella quale è commovente scorgere qualche stella alpina. Tutt'ora ci si imbatte tra i sassi in bossoli, schegge di granata, spezzoni di filo spinato e resti rugginosi delle scatole di latta delle razioni, testimonianze che i visitatori raccolgono per radunarle ai piedi dei numerosi cippi commemorativi che si incontrano lungo l'itinerario storico.
È un doveroso e sacrosanto omaggio agli uomini senza nome che morirono su questo e su altri terreni di battaglia, ma è altrettanto doveroso sottolineare l'ottusità di chi impose loro di battersi in nome di una guerra scriteriata. È terribile pensare che il 3 novembre 1918, giorno dell'ordine di ritirata da parte del comando austriaco, le posizioni erano sostanzialmente immutate rispetto al 24 maggio 1915, primo giorno di guerra in cui le truppe italiane si installarono sul fronte del Pasubio: decine di tonnellate di esplosivo e migliaia di vite sacrificate senza un tangibile tornaconto strategico.
La voragine prodotta dall'ultima, la più potente, mina austriaca divide il Dente Italiano e il Dente Austriaco, le posizioni più avanzate dei due schieramenti, sì e no duecento metri in linea d'aria. Ebbene, sono convinto che nell'arco di oltre tre anni tregue spontanee abbiano portato più di una volta un Giuseppe e uno Josef a incontrarsi a metà strada per scambiarsi un pacchetto di sigarette, una scatoletta di carne, una pagnotta o una fiaschetta di grappa.

CRESTE DI COSTABELLA
Vicende irrisolte quanto quelle che visse il Pasubio si svolsero lungo le cosiddette Creste di Costabella. Con questo nome è definito il crinale lungo circa due chilometri e mezzo che va dal Passo Le Selle (raggiungibile in un paio d'ore dai 1919 metri del Passo San Pellegrino) alla Forcella del Ciadin, una successione di rilievi montuosi su una quota media di 2500 metri, culminante nei 2737 della Cima Campagnaccia. Anche su questa catena, tra il 1915 e il 1917, si susseguirono scontri, con continue perdite e riconquiste di terreno da parte dei due eserciti, senza però scostamenti decisivi della linea del fronte.
Già nei primi mesi di guerra l'importanza del controllo della cresta fu ben intuita da parte austriaca, il che consentì di occupare rapidamente la posizione compensando così l'inferiorità rispetto agli avversari in fatto di uomini e mezzi. Da parte italiana invece si sottovalutò in un primo tempo il ruolo di quei valichi come chiave per l'irruzione in Val di Fassa, il che spiega il prolungato e sterile braccio di ferro tra i due eserciti.
Oggi le Creste di Costabella offrono uno dei più esaurienti itinerari di guerra, il sentiero attrezzato noto come Alta Via Bepi Zac. La traversata, dopo un periodo di parziale trascuratezza, è stata negli ultimi anni messa in sicurezza e può essere percorsa da chiunque con il solo accorgimento di un cordino con moschettone per superare i pochi passaggi impegnativi, agevolati in maniera esemplare con cavi d'acciaio. Con partenza dal Rifugio Passo Le Selle (m. 2520) si supera un tratto ripido che consente di guadagnare circa 200 metri di quota, dopodiché il tracciato si svolge con modesti saliscendi, consentendo di guardarsi intorno e visitare gli innumerevoli resti delle postazioni. Impressiona ad esempio la conca ghiaiosa dove sorgeva quello che gli italiani chiamavano "villaggio austriaco", cosparsa di rovine di baracche in legno; le innumerevoli gallerie, destinate a via di comunicazione, ricovero e posa di mine (peraltro mai messe in atto); il cosiddetto "orecchio", una sporgenza del Sasso di Costabella scavata all'interno per essere impiegata come osservatorio italiano tramite una feritoia, alla quale si può accedere grazie all'installazione di scale in legno conformi a quelle dell'epoca; questo grazie all'opera dei volontari della Società Storica Guerra Bianca e del CAI di Moena, che stanno proseguendo tuttora nel progetto di trasformare questo itinerario in un vero e proprio museo all'aperto. Tornati a valle, ci si può rivolgere alla biglietteria della seggiovia, dove gli addetti mostrano con piacere gli album con le fotografie delle fasi dei lavori di ristrutturazione; come ideale completamento della gita, nell'adiacente chalet si può visitare un'esposizione degli interessantissimi reperti portati a valle.

PATERNO
Quanto a scenario circostante, ben pochi rifugi alpini reggono il confronto con il Locatelli. Il facile sentiero in partenza dal Rifugio Auronzo (che si raggiunge in auto) porta ogni anno in un paio d'ore migliaia di escursionisti al belvedere più celebrato sulle Tre Cime di Lavaredo, bersaglio di milioni di scatti delle macchine fotografiche.
Sulla sinistra di chi punta l'obiettivo sorge, quasi in disparte rispetto a quelle formidabili pareti nord, il gruppo del Paterno e non tutti sanno, anche se sono tuttora evidenti all'intorno numerosi resti di trincee, che quella cima fu di importanza basilare nelle fasi iniziali della Grande Guerra e per i successivi eventi bellici in quel settore del fronte dolomitico.
Ben lo aveva intuito Sepp Innerkofler, la più apprezzata guida alpina dell'epoca, originario di Sesto e conoscitore di ogni metro quadrato di quei monti. Gli alti comandi trascurarono dapprima i suoi avvertimenti, ma dovettero arrendersi all'evidenza il giorno in cui sul Paterno si intravide un piccolo bastione dal quale gli italiani, che avevano appena preso possesso della cima, cominciarono a tempestare di colpi le difese austriache: da una posizione strategica come quella un piccolo gruppo di soldati avrebbe potuto tenere lontano il nemico per mesi dalla linea del fronte.
L'unica possibilità consisteva in un colpo di mano disperato. Nella notte del 4 luglio 1915 una pattuglia al comando dello stesso Innerkofler scalò tra enormi difficoltà la parete ovest della montagna; giunti a ridosso della postazione italiana rimasero in attesa dell'alba per il blitz che avrebbe dovuto riportare il Paterno in mani austriache. Dalla pattuglia iniziarono i lanci delle prime granate, ma la sentinella Remo De Luca, superata in un attimo la sorpresa e sollevato un grosso masso, lo scagliò contro il valoroso avversario facendolo precipitare in un profondo camino; l'attacco fu così respinto e la posizione fu mantenuta.
Il giorno dopo due soldati italiani, nonostante le difficoltà e fatti bersaglio dal fuoco austriaco, si calarono a recuperare la salma del grande Sepp dandole poi sepoltura con i massimi onori tra le rocce della "sua" vetta.
E oggi è significativo che il sentiero attrezzato che percorre quelle creste sia stato denominato De Luca - Innerkofler. Altri tempi, altre guerre, altri uomini.

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